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La Terra Vecchia di Capracotta


Il piano di sistemazione della Terra Vecchia, 24 gennaio 1953.

Terra Vecchia è il nome col quale spesso, nel Meridione d'Italia, a partire dal Medioevo, si indica l'insediamento umano più antico d'un dato centro abitato, interno o esterno ad esso, il che significa che può trattarsi tanto di un quartiere quanto di un'area archeologica periferica.

A Capracotta non vi è dubbio che la Terra Vecchia sia il luogo del primitivo insediamento stabile di quei pastori - sanniti o romanizzati - che la fondarono. Il toponimo della Terra Vecchia si diffonde in questa fetta d'Italia a seguito della discesa dei Longobardi e dei Normanni, il che non significa che questi abbiano fondato le "terre vecchie" dei nostri paesi, ma dimostra piuttosto l'esatto contrario, cioè che essi trovarono quei centri già abitati (o già disabitati) e decisero di dar loro un nome comune. Nei casi di Fara S. Martino o Sepino, ad esempio, la Terra Vecchia rappresenta l'insediamento italico; nei casi più lontani di Cerignola o di Vibo Valentia quel toponimo definisce invece l'abitato romano, nato per la caccia o l'agricoltura.

Si pensi che a Capracotta esistono due terræ veteræ: una è il borgo fortificato, l'altra si trova sul Colle della Parchesana, l'antica sella per la guardia tratturale tra il Verrino ed il Trigno, di cui restano pochissime vestigia.

Evitando di addentrarci nelle diverse teorie sulla fondazione di Capracotta ed evitando pure qualsiasi disputa tra Sanniti e Romani, faccio un salto nel tempo e mi catapulto nel XV secolo, quando compaiono le prime cronache cittadine. La Terra Vecchia, che allora è Capracotta tutta, è uno dei quattro feudi presenti sul nostro territorio, assieme a quelli di Maccla Strinata, Mons Fortis e Vallisurda: tra l'altro non è nemmeno il più abitato, visto che su Monte S. Nicola vivono mediamente 40 persone in più. Nel 1507 appare il quinto feudo di Ospedaletto e nel 1568 il sesto, la Cannavina.

Nel 1656 l'epidemia di peste spariglia le carte. La popolazione di ogni feudo viene decimata ma Capracotta sopravvive al flagello diventando il centro che attrae i pochi superstiti delle contrade vicine e da lì comincia il suo definitivo sviluppo demografico.

Chi ha modo di vedere e conoscere Capracotta nel XVII secolo - ad esempio i teologi slovacchi Giovanni Simonide e Tobia Masnizio, arrestati dalle guardie capracottesi il 4 maggio 1675 - afferma che:

Delle alte mura circondano il suo nucleo interno per difenderlo dagli attacchi dei briganti. Gli abitanti trascorrono l'inverno nelle Puglie col bestiame. Tornano a giugno e rimangono nella loro terra quasi quattro mesi. Niente giova loro quanto il formaggio, che da queste parti ha un sapore, un profumo e una consistenza molto buoni. Non è affatto simile al nostro. Non producono burro e, al suo posto, utilizzano l'olio d'oliva. Gli abitanti del posto hanno costumi rozzi. Ritengono che la devozione e la rispettabilità risiedano unicamente nel portamento e nei gesti. Per tutta l'estate vanno in giro armati per proteggersi dall'esercito, ma anche perché vivono nella paura costante delle scorrerie dei banditi. Del resto, se ne radunano duecento, cinquecento e a volte anche più: provengono dallo Stato della Chiesa e tornano indietro con un ricco bottino. [...] Questa città conta a malapena duecento case, un arciprete, dieci sacerdoti e dodici chierici. [...] La nostra prigione si trovava in questa città e, quel che è peggio, si trattava di una prigione per malfattori. Senza dubbio, era già da un po' di anni che non la mettevano a posto: lo si poteva dedurre dalla grande sporcizia. Sopra la prigione c'era la cappella o - come la chiamavano - l'officium della Beata Vergine Assunta. C'eran tante pulci quanta sporcizia, ricoprivano l'impiantito come formiche.

Da questa descrizione si possono desumere alcuni dati importanti: innanzitutto è scritto che la Terra Vecchia era cinta da alte mura difensive (non è un caso la presenza di contrafforti sia a sud-ovest, in via S. Sebastiano, che a nord-est, sui Ritagli); in secondo luogo Simonide afferma che l'abitato di Capracotta consisteva in circa duecento case; infine che le prigioni, come oggi, erano poste al di sotto della chiesa, ed erano luride.

Le condizioni igieniche della Terra Vecchia han lasciato a desiderare almeno fino al primo dopoguerra. Si pensi che l'ufficiale sanitario Luciano Conti, nelle sue relazioni del 1891 e del 1900, affermava che:

Le case hanno un pian terreno e un piano sovrapposto, e spesso dalla parte di occidente, il cui livello è più alto, restano interrati ambidue i piani con conseguente mancanza di luce e infiltrazione di umidità. La densità della popolazione è pareggiabile a quella delle grandi città, dove l'agglomerazione spesso è eccessiva. In una sola stanza alle volte non dorme una sola coppia di sposi, ma anche tutta la famiglia, e qualche volta, divisi con leggeri tramezzi di legno, abitano altri individui estranei a quella famiglia. Oltre poi alla popolazione umana, vi è nelle case un'altra popolazione più numerosa: vi è l'arca di Noè delle bestie domestiche: maiali, cavalli, pecore, capre, vacche, galline ecc. La stalla sul pian terreno non sempre è un vano isolato, ma serve pure per l'entrata e per il passaggio degli inquilini. Qualche rara volta serve pure da dormitorio e da cucina. Tra la stalla e le camere [...] vi è sempre diretta e libera comunicazione [...] e perciò le esalazioni delle stalle si diffondono pienamente e profumatamente per tutta la casa. [...] Le camere sono piccole, basse, con finestre meschine, ingombre di mobili e di viveri. Le pareti e il cielo delle stanzette erano prima lodevolmente imbiancate a calce; ora con mal vezzo si tappezzano di carte colorate. I camini mal costruiti danno fumo in quasi tutte le case del paese [ma] per i soli abitanti ai Ritagli vi è il vantaggio che i rifiuti domestici possono essere sbalzati direttamente nei campi giù in fondo al precipizio, dove dall'aria e dalla luce sono rapidamente ossigenati, assorbiti dalle piante in crescenza, e resi così innocui alla popolazione.
Muro interno della mia casa incendiata nel '43.

Se nella prima metà del Novecento la Terra Vecchia era ancora un formicaio umano, con la Seconda guerra mondiale la devastazione fu quasi totale. I nazisti minarono buona parte degli edifici e incendiarono i rimanenti, dei quali si riuscì a salvare qualcosa grazie alla solerzia dei pochi capracottesi rimasti in paese che tentarono di spegnere alla bell'e meglio quei criminali incendi. Le case saltate in aria, invece, vennero dapprima utilizzate dagli Alleati per farne postazioni da cannone verso l'Oltresangro, dunque abbandonate al loro destino di macerie. La conta dei danni bellici calcolò la perdita di ben 44 unità immobiliari alla Terra Vecchia, a cui si aggiunga una torre angioina che gli amministratori del 1952 inserirono tra gli edifici da abbattere.

Oggi la Terra Vecchia è tornata a splendere ed è diventata il centro degli eventi culturali di Capracotta ma nessuno potrà conferirle di nuovo l'aura di borgo medievale, la natura urbanistica complessa ed organica, il sentimento di sorpresa nel veder apparire la bianca facciata della Chiesa Madre una volta usciti da vico San Sebastiano...


Francesco Mendozzi

 

Bibliografia di riferimento:

  • A. Baroncioni, F. Boschi e E. Ravaioli, La Rocca di Acquaviva Picena (AP). Approccio multidisciplinare per lo studio di un impianto fortificato delle Marche meridionali, in «Archeologia Medievale», XXXII, Firenze, dicembre 2005;

  • L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931;

  • L. Conti, Le condizioni igieniche e sanitarie di Capracotta, Del Monaco, Isernia 1900;

  • F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016;

  • F. Mendozzi, L'inaudito e crudelissimo racconto della prigionia capracottese e della miracolosa liberazione, Youcanprint, Tricase 2018;

  • E. Schubert, L'arte siculo-normanna. La cultura islamica nella Sicilia medievale, Museo Senza Frontiere, Palermo 2003;

  • A. R. Staffa, Ortona fra tarda antichità ed altomedioevo. Un contributo alla ricostruzione della frontiera bizantina in Abruzzo, in «Archeologia Medievale», XXXI, Firenze, dicembre 2004.

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