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Il territorio di Capracotta: periodo romano



Il territorio di Capracotta nella circoscrizione di Boviano Vetus

È noto che col nome di Sannio, nelle antiche circoscrizioni regionali italiche, si intendeva quella plaga romboidale stendentesi dalle alture sulla sinistra del Sangro a nord-ovest a quelle sulla destra del Fortore a sud-est; dal netto limite dell'Adriatico tra le foci dei due fiumi a nord-est, alla frastagliata linea tracciata dalle sommità dell'Appennino a sud-ovest. Che gli antichi abitatori delle diverse parti ne eran designati con le denominazioni di Caudini, di Irpini, di Pentri, di Frentani, di Caraceni; corrispondenti alle odierne circoscrizioni del Beneventano, dell'Avellinese, del Molise basso con un lembo dell'Abruzzo Chietino, del Molise alto con un lembo dell'Abruzzo Aquilano. Il territorio di Capracotta trovasi perciò incluso nella parte settentrionale dei Caraceni. Non è ben chiara l'etimologia e il significato di quelle diverse denominazioni. Si è affermato che i conterranei della nostra regione fossero appellati Caraceni dalla maniera di coprirsi, cioè con pelli di ovini, maniera non ancora disusata dai pastori, come la più adatta alla diuturna permanenza nelle intemperie e all'umidità. Però a questo proposito mi sia consentita un'altra congettura, senza atteggiarmi a filologo, e cioè tale denominazione possa avere avuto origine da vocabolo antico affine al Greco "palizzata" ed al verbo "recingere", dalle consuetudini pastorali di formare le mandre con paletti e reti, e trasferirle spesso. Ed è ovvio supporre che, soltanto il bisogno di condursi col bestiame in pascoli più freschi e verdeggianti nella buona stagione, avesse sospinta la primitiva gente ad inoltrarsi sulle nostre solitudini montane da regioni più basse e temperate. In breve il nostro territorio, fin dall'epoca preromana, probabilmente non fu che la meta di migrazione temporanea di pastori (come osservava il Benedettino Liborio de Padova nelle Memorie della sua Pescocostanzo, tanto simili alle nostre), «che niuno allettamento potevano avervi per una stabile dimora».

Donde e da quali genti provenivano costoro che si stanziarono man mano nelle parti meno inclementi per clima di questo Sannio settentrionale? A queste domande soccorre il concorde parere di insigni cultori delle memorie del mondo antico. Ecco ad esempio le parole di una delle maggiori autorità, Teodoro Mommsen, nella Storia di Roma antica: «Il ramo principale della stirpe Umbrica si condusse dalla Sabina più verso oriente nel nudo degli Appennini Abruzzesi e nelle colline che al mezzodì si incatenano a quell'aspro labirinto alpestre dando origine ai Sanniti che primi presero stanza sui monti lungo il fiume Sangro, e di seguito occuparono il bel piano a levante del Matese alle sorgenti del Tiferno. E nell'antico e nel nuovo territorio chiamarono Boviano i luoghi delle loro adunanze e dei loro magistrati, posti nel territorio antico presso Agnone, nel nuovo preso Boiano».

Il nostro illustre filologo Prof. Francesco D'Ovidio, nell'ammirevole sintesi storica del Sannio, pronunziata nella commemorazione del centenario della Provincia nel 1911, scrisse: «Il nome di Samnites, che in origine sarà stato Sabinites, evidentemente ha comune la radicale col nome dei Sabini e dei Sabelli, ed è già un indizio che quella gente aveva strettissima parentela con i popoli che diconsi propriamente Italici. Ma di ciò si ha più chiara prova e nella storia civile, e nella contiguità geografica, e nelle lingue di quei popoli che parlavano due idiomi fratelli, e nelle qualità dei dialetti italiani che ora si parlano in tutta la zona che essi occuparono ed anche in certe persistenti analogie di costumi e di temperamenti».

Il chiaro archeologo Carmelo Mancini, nelle sue dotte interpretazioni dell'epigrafe sul frontone dell'anfiteatro di Pietrabbondante, che egli chiama Regina delle epigrafi Osche, aggiunge: «Non potrebbe quindi dubitarsi che i giovani Sabelli provenienti dal nord-ovest, dopo che ebbero oltrepassato i monti e le elevate pianure fredde di Pescasseroli, di Alfedena, e di Castel di Sangro, si fossero prima di tutto impadroniti di quella località, dov'è Pietrabbondante per fondare la loro metropoli, Bovaianum». Ecco dunque indicato in questo cenno che l'itenerario si offriva a quegli immigratori, i quali, movendo dalla Sabina e dal Lazio rasentando il Fucino a settentrione, raggiungevano l'alta valle del Sangro; e, seguendo il corso di questo fiume che prima appellarono Sagrus, si spandevano poi pei monti e le valli nostre.

Se però il nostro territorio non fu in principio che una meta temporanea di pastori Sabini o Latini, pare indubitato altresì che due nuclei di essi avessero preso stanza nelle due contrade meno fredde del territorio: le contrade che hanno il nome di Guastra (Olivastri?) e di Macchia (Maccla Strinata fu detta ancora nel medio evo). Queste due località meno battute dai venti e specie dalla tramontana, con terreni alquanto atti alla coltivazione ed a trarne materiale da costruzione, non molto lungi dal torrente Verrino dal quale potevano trarre la forza per la sfarinatura del frudmento e per le piccole industrie, degli utensili, né troppo discoste dalla regione dove alligna l'olivo e la vite, e l'altra ove prospera l'abete, offrivano la possibilità di permanente dimora.

Certo in queste località si son rinvenute vestigia di quei lavori che rivelano la presenza di antica gente unita in consorzio, ruderi, per quanto informi, di abitazioni, tombe, oggetti in terracotta ed in metallo, monete ecc.

Nella prima il posto di rinvenimento di tali vestigia trovasi presso la sorgente detta della Lama che dà origine ad un torrentello che si riunisce al Verrino. Nella seconda è presso alla sorgente detta Fonte del Romito accosto al fabbricato o masseria Falconi, oggi Conti.

Di alcuni oggetti trovati da contadini zappanti nella prima presso la masseria Di Tella scrisse il Prof. Antonio De Nino nelle Notizie degli scavi del 1904 inserendovene anche le figure. Il chiaro Prof. De Nino si recò di persona sul luogo e vi trovò alcune tombe scoperchiate ed inconsideratamente manomesse. Non gli furono consentiti nuovi saggi di scavo, cosicché dovette soffermarsi a riferire come: «Le tombe che vi si rinvengono sono della prima età del ferro; hanno la forma rettangolare con muretti laterali di pietre a secco chiuse con lastroni di pietra grezza. Poco o nulla si tenne conto dei vasi di creta che vi erano. Di una tomba di bambino si conservano tre braccialetti di lastrina enea senza saldatura nel ricongiungimento longitudinale e con quattro sottili scanalature trasversali in ogni estremità; di più anche in bronzo due anellini di filo cilindrico a sei giri l'uno, a cinque giri l'altro. Appartengono alla collezione dei bronzi due grosse armille anche di lastra senza saldatura, ma ciascuna con 14 sbozzature trasversali e con taglio netto, ed altresì trasversali nelle due estremità, taglio che per effetto della elasticità del metallo permetteva l'adesione dopo che l'oggetto era passato sul braccio. Essi appartengono ad una terza tomba secondo riferiscono gli scavatori. Di una quarta tomba, certamente di guerriero, gli oggetti hanno maggiore importanza, e meritano particolare descrizione: sono di ferro e di bronzo. In ferro è una cuspide di lancia a foglia larga e senza costate, lunga 0,51; più una fibula frammentata con ghiande laterali nell'arco; inoltre un gladio o pugnale lungo 0,32 compresa l'elsa, simile a quelli rinvenuti nella necropoli di Alfedena; ed una breve catenina che faceva parte del pugnale medesimo. In bronzo poi si hanno alcuni frammenti di cinturone, ed una armilla anche di lastra ripiegata e senza saldatura a tre giri e più; in una estremità sporge una specie di mezza ghianda liscia; più notevoli sono due dischi o scudini disegnati a traforo e a graffito. Il più grande ha il diametro di 0,22. Dalle due estremità andando verso il centro, vi è una serie di stellette a sei foglie, chiuse da parecchi graffiti circolari concentrici e alternate da fori triangolari; ancora in dentro vengono due altri circoli di forellini; e in ultimo, intorno al foro centrale, vi sono prima sei giri di fori rettangolari, e per chiusura un circolo di triangoli. Per sostegno del disco si osservano sei grossi fori in linea curva da una estremità e due dall'estremità opposta. Simile lavorazione si riscontra nel disco minore che ha il diametro di 0,13».

Ma la prima località cennata innanzi, la contrada Macchia, detta nel medio evo Maccla Strinata, poi Maccla Spinetarum, nitidamente segnata nella carta geografica degli Abruzzi nel Vaticano col nome di Lomacchio, ha una ben maggiore importanza archeologica per antiche vestigia ivi rinvenute, e specialmente per la targa di bronzo con epigrafe Osca, divenuta famosa in archeologia col titolo di tavola Osca di Agnone o bronzo di Agnone, vestigia che pel lunghissimo tempo dovettero essere in ogni maniera manomesse, cosicché oggidì nulla ne rimane visibile.

Antichi scrittori di memorie del Napoletano fanno menzione di quegli avanzi. Il Del Re ad esempio, in Descrizione dei domini di quà dal Faro (1830) parla di ruderi ivi ancora esistenti. Il Romanelli nella Topografia storica del Regno di Napoli (1815) desume e sostiene l'esistenza di Aquilonia antica dov'è Agnone «dai ruderi di antica città che si vedono tuttora poco distante dal lato di Capracotta dove sono stati rinvenuti non pochi monumenti».

Nel museo di Napoli si conserva una colonnina in pietra trovata nella Macchia nel 1845 e nella quale si legge una parte di iscrizione Osca, come dirò in seguito. Monete diverse devono ivi far parte delle collezioni numismatiche. Nel museo Kirckeriano di Roma (sala XXV) è visibile qualche freccia in pietra focaia offerta dal Signor Gamberale di Agnone, proveniente, oso credere, da quei dintorni. Contadini intenti a coltivare terre vi hanno trovato oggetti e monete; posso nominare fra gli ultimi Pietro Tisone, Filippo Paglione, Gaetano Fiadino. Io stesso, giovanetto, assistetti ad un piccolo scavo eseguito da Errico Rosa per nostra curiosità; fu rinvenuto un anello di argento, conservato poi dal pianista Luigi Gullì da Scilla, il quale era a diporto con noi (morto poveretto ancor giovine) ed una fibuletta di bronzo che conservai.

Ricordo pure monete di bronzo e di argento conservate da mio zio materno Giangregorio Falconi, a cui furono sottratte e disperse, dolente ora che io inconsideratamente non le andai esaminando con attenzione, né presi nota. Il detto zio, uomo di sconfinata bontà, possedeva le terre nelle quali si rinvennero più spesso ed in maggiore quantità quelle reliquie: Fonte del Romito. Vi aveva un fabbricato colonico e fu appunto il suo bovaro Pietro Tisone a tirar fuori ivi col vomero nel 1848 la famosa lamina di bronzo Osca ed a dargli ogni tanto di quelle monete di cui ho fatto cenno.

Costui ed altri contadini recarono più di una volta anticaglie ad Agnone, specialmente al signor Saverio Cremonese, il quale, non so se per naturale inclinazione o per commercio ne faceva raccolta; e costui ottenne dalla condiscenza di mio zio Falconi il prezioso bronzo Osco, dinanzi al quale, raccontasi che il Mommsen s'inginocchiasse, tanta luce se ne riprometteva per le sue ricerche sull'antico linguaggio delle nostre contrade.

I ruderi oramai informi che non di rado si incontrano nei campi scendendo dalla sunnominata contrada Macchia verso Agnone lasciano supporre che sobborghi di antica città vi fossero state.

Per sapere qualche cosa della tavola Osca io mi rivolsi al detto archeologo Camillo Mancini presso la Società Regale di Napoli, il quale cortesemente così mi rispose il 7 Ottobre 1899: «Omettendo ogni preambolo vi dico che l'insigne lamina Osca in bronzo che va sotto il nome di Agnone, a detta di Francesco Saverio Cremonesi fu scavata nel luogo detto Fonte del Romito presso quel paese. So che fu offerta in vendita al Governo Italiano per mille lire; ma quel Direttore delle antichità antecessore a Bernabei, e che mi vergogno di nominare, non volle comprarla affatto, e quindi sopraggiunsero stranieri più accorti, ed, a scorno dell'Italia nuova, l'acquistarono non si sa bene a qual mite prezzo, ma probabilmente per circa duemila lire che il Cremonese fu lieto d'intascare. Ora il bronzo preziosissimo conservasi nel museo Brittannico di Londra. Esso é stato da molti stranieri descritto ed interpretato in varie forme: quella che più corre consiste in un elenco di Divinità locali onorate nel tempio di Cerere. Quindi nel primo e in parte del secondo rigo, si legge: STATOS. POS SET. HORTIM. KERRIN. e si interpreta: Statuæ quæ sunt in templo cereali. Queste statue erano di Vetusco, di Inclito, di Cerere genitrice, d'Interstite, delle Madri cereali, delle Linfe cereali, dei Legislatori, delle Anfore cereali, delle Matute cereali, del Giove gioventù, del Giove rettore, dell'Ercole cereale, della Patana fedele; della diva Geneta. Non è esatto che essa lamina abbia completato l'alfabeto Osco, anzi la lettera 𐌚 vi è mancante. La paleografia non è arcaica, cioè antichissima e per congettura può attribuirsi al sesto secolo di Roma incirca. L'Osco del Sannio non aveva dialetti, e fu sempre uno. Solo i popoli di Osca origine che adoperarono l'alfabeto greco contenevano qualche divergenza».

Corsero alla interpretazione di quelle epigrafi incise sulle due faccie della lamina illustri cultori delle antichità. Il primo forse fu il tedesco Henzen il quale ne scrisse in "Monumenta inedita", presso Institutum Archeologicum 1848: poi il Mommsen in "Antichi dialetti" indi Robasté "De la langue Osque d'après les inscripions": poi il Fabretti, l'Husque.

Lo studio più maturo peraltro (quello che più corre scriveva il Mancini) è ritenuto quello del russo Giovanni Zwetajeff, stampato a Petropoli (ossia Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado) nel 1878, appassionato amico della nostra bassa Italia e dei suoi dotti in materia, specialmente il De Petra.

Ed ecco quanto egli ne scrive, dandone lettura (la lettura Osca va da destra a sinistra) e la interpretazione latina.

«Tabula aerea utrimque inscripta, in oppido Agnone anno 1848 inventa, nunc in museo Britannico: alta 0,28 - lata 0,165 Juxsta, A. S. Murray»:



L'altro tratto di iscrizione osca impressa nella colonna rinvenuta nella Macchia nel 1845, come ho accennato, trovasi cosi trascritta dallo stesso autore: «Z. hurtùs, km, her, dùnùmna, ed interpretata: Z. Hortius Cominii fecit [Veneri] donum». Questa colonna, scrive lo Zwetajeff, fu rinvenuta fra ruderi di fabbrica antica.

Certo il linguaggio rivelato dalle riportate iscrizioni ed in altre di Agnone, Pietrabbondante, Alfedena, Castel di Sangro, attestano concordi la identità dell'idioma in tutta questa nostra parte settentrionale del Sannio Caraceno. E non par dubbio che in essa la gerarchia sociale e militare dalle borgate mettesse capo ai due suoi centri maggiori, cioè Bovianum e Aufidena. Il citato archeologo Prof. Mariani nota con acume, come «Aufidena era necessaria signora del paese circostante fino al cerchio formato da Bovianum vetus, da Aesernia, da Sulmo». Ugualmente dunque doveva esser necessaria la signoria di queste altre sui territorii delle borgate viciniori.

Come dunque, sorge spontanea la domanda, e quando caddero e sparirono le traccie di questi primieri civili e militari ordinamenti? Non ci resta da indagarne l'avvenimento e la spiegazione fuorché nelle ultime fasi della lotta romano-sannitica svoltesi in queste contrade che menò alle celebrate espugnazioni ed alla distruzione, tra l'altre, delle cospicue città di Corfinio e di Aquilonia, e quindi al soggiogamento a Roma di questo estremo lembo indomato del Sannio, secondo ce ne resta la tradizione dagli storici, precipuamente da Livio.

Mi giovo della scorta dell'anzidetto topo-storiografo Dom. Romanelli per determinare in qual modo i Romani pervennero alla conquista delle nostre regioni montuose.

L'autore, intento a dimostrare con logici argomenti quale fosse l'Aquilonia, alla cui conquista e sterminio quelli miravano, segue commentando passo passo lo storiografo di Roma, così da mettere in chiara luce il piano strategico escogitato e seguito dall'esercito quirito, diviso in due, affinché le parti prendessero o meglio proseguissero, con movimento convergente contro l'odierna regione molisana-abbruzzese-aquilana.

Giacché è da ricordare che poco innanzi era stata soggiogata (come riassume il Mommsen nella Storia di Roma) tutta la regione Lucana e Beneventana dalle schiere del Console Publio Decio Mure, trionfante a Maleventum nel 457 di Roma (297 a. C.); e contemporaneamente tutta la Regione Umbro-Marsicana dalla quale le schiere Sannite, guidate da Ignazio erano state scacciate ed obbligate a rifugiarsi su questi altipiani (458-460 di Roma). Sicché a completamento di tali conquiste le Legioni procedenti da Sud a Nord, sotto il comando di Lucio Papirio Cursore, nel 461 occupò Duronia, accampandovisi: le altre, al comando del Console Spurio Carvilio procedendo in modo inverso da Nord a Sud, espugnarono Amiterno e Corfinio. Poscia le Legioni insieme, attenagliando le Soldatesche Sannite asserragliate in Aquilonia, le disfecero, tutto devastando nel vittorioso incedere, distruggendo questa cospicua città e le Borgate circonvicine.

Quì, giustamente sostiene il Romanelli, essere inconcepibile come le Legioni romane, in quel modo disposte nell'avanzamento fossero andate poi da Duronia e da Corfinio a sopraffare l'esercito Sannita ad Aquilonia nell'Avellinese: essere invece evidentissimo come l'Aquilonia nominata in questa disfatta fosse proprio l'Osca Akudunniad, l'odierna Agnone. Così si può capire che il messo inviato a Cominio prima del definitivo fatto d'arme avesse potuto percorrere il tragitto fra le due Città in due giornate. E così può intendersi come la vittoria Romana fosse dovuta all'incedere di Papirio Cursore, il quale necessariamente aveva dovuto portare le sue schiere da Duronia a Bovianum Vetus conquistandola e venendo così a dominare tutta l'alta valle del Verrino, nel cui centro è Agnone (chiunque viaggia sulla Pescolanciano- Agnone ne ha la panoramica visione poco oltre la Stazione Termica), mentre Carvilio aveva agio di proseguire dall'Abruzzo espugnando Aufidena e Castel di Sangro (il quale secondo il Prof. Mariani era un baluardo defensivo di Aufidena); quindi, percorrendo la sponda destra del Sangro ascendesse probabilmente con le Legioni il valico montano da Sant'Angelo del Pesco inverso Pescopennataro, o da Rosello, arrivasse sul Colle dei Soldati (perché questo nome?) e sulle alture di S. Onofrio, venendo a dominare da quel lato la vallata del Verrino, rendendosi così vana e inefficace ogni resistenza dell'ultimo esercito Sannita: ed inutile il sacrificio della sua Legione linteata votata alla morte.

Non altrimenti ci è dato intendere come Bovianum col suo monumentale edificio; Aufidena con la sua forte acropoli; Aquilonia con la sua opulenza e Duronia con tutte le sue borgate contermini seguissero la sorte di Amiterno e di Corfinio rase al suolo, ponendosi quasi una pietra sepolcrale sulla loro esistenza, sulle loro memorie. La nostra Macchia seguì la stessa sorte.

Né altrimenti può spiegarsi la prevalenza delle scritture in lingua Osca e sulle lapidi e nelle reliquie dei monumenti rinvenuti in queste località.

E così pure s'intende e spiega come da quell'epoca di soggiogamento a Roma «tutto fu silenzio e tenebre la gloria che passò» del Sannio intero, e più non s'incontrano memorie e vestigia di queste nostre contrade montane specialmente, fuorché lamentose testimonianze di deserto e di desolazione in cui esse giacquero. Lucio Anneo Floro con frase compendiosa lasciò scritto che appresso a quegli avvenimenti invano si sarebbe cercato il Sannio nel Sannio stesso.

Non vi è probabilità che nel territorio di Capracotta e dintorni fossero pervenute quelle Colonie di coltivatori mandate a ripopolare le regioni devastate; non resta pertanto che attenersi alla ipotesi offerente maggior credibilità, che cioè sui nostri monti, come nei tempi antichissimi, non sopraggiungesse per lunga era altro di umano, fuorché alternate apparizioni di pastori Sabini o Latini con le loro greggi.

Delle diverse parti del territorio stesso non trovasi nome o menzione in alcun monumento di quella primiera epoca; è dato supporre però che fin dall'epoca Romana esistessero le denominazioni di Mons Caprarius, di Vallis Surda, di Maccla, nomi che non mutarono posteriormente come vedremo nel Capitolo seguente.

Corograficamente, costituito l'Impero di Augusto, e ripartito il Regno Italico in undici Regioni, le nostre contrade del Sannio, come nota il Faraglia, furono incluse nella regione IV e questo è il solo ricordo storico che seguì allo sterminio del Sannio Caraceno.


Luigi Campanelli




 

Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.

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