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La trebbiatura con i cavalli


A. Mancuso Fuoco, "La trebbiatura con i cavalli", 1983, olio su tela.

In campagna si trebbiava sull'aia, con i cavalli.

Lo si faceva ancora, fino a qualche anno fa, nelle vecchie masserie del mio paese, a Macchia e a Guastra. Chi abbia assistito, almeno una volta, alla trebbiatura con i cavalli può considerarsi fortunato. Si è goduto uno spettacolo straordinario degno dei mitici tempi georgici, di sapore quasi omerico.

L'aia davanti alla masseria è cosparsa di un folto tappeto di spighe, sul quale i cavalli, appaiati in più ordini, girano al trotto pestando con gli zoccoli.

Lo strato di spighe viene continuamente rimosso e rivoltato dai trebbiatori, che usano lunghe forcelle, in modo che la pestatura avvenga il più uniformemente possibile.

Dirige la "danza" ruotante degli agili quadrupedi un contadino, uno dei più validi, piantato al centro dell'aia, che stringe in una mano le estremità delle lunghe corregge a cui sono legati, a raggiera, i cavalli, e nell'altra una lunga frusta che fa schioccare ritmicamente. È come una giostra vivente.

Deve essere abile e forte il trebbiatore che dirige. Ruotando su se stesso, in sintonia con i cavalli, molla e tira le corregge, secondo come la situazione richiede; e sprona. È una gran fatica e quindi gli viene dato presto il cambio.

Via via che la trebbia procede, i contadini rastrellano con lunghi rastrelli i mucchi di chicchi sprizzati dalle spighe pestate; altri trebbiatori spandono sull'aia nuovi mannelli da trebbiare.

Le donne attendono che soffi la tramontana per "conciare" il grano nuovo, per separare cioè, sollevandolo con la pala e qualche volta con le mani, il grano dalla cama e dalle rische (la pula e le reste).

La trebbiatura con i cavalli si concludeva con una festa, la sagra del grano trebbiato.

Ce la racconta, nel suo bel libro "Letteratura popolare capracottese", il nostro compaesano Oreste Conti, al cui ricordo, in queste note, si intende rendere un devoto ed affettuoso omaggio.

Quando la trebbia volgeva al termine, uno dei trebbiatori, il più giovane, si faceva avanti sull'aia, con una bella manciata di spighe in una mano e una fiasca di vino nell'altra: vino, s'intende, della cantina padronale. Dava da mangiare le spighe ai cavalli e porgeva poi la fiasca al "padrone" perché iniziasse, con una lunga sorsata, la grande bevuta augurale, cui partecipavano tutti i trebbiatori.

Si era agli ultimi giri. Per ogni giro dei cavalli, un giro di spighe e di fiasca: tanti, quanti erano i componenti della famiglia padronale. Il primo giro, in segno di rispetto, era dedicato alla moglie del capofamiglia, l'ultimo, all'ultimo rampollo.

C'è da pensare, ma questo il narratore non lo dice espressamente, che la suggestiva cerimonia, che sicuramente evocava, come accennato, antichissime costumanze, terminasse, al cader delle ombre, fra danze, suoni e canti d'allegria.

Alla fine, veniva elargito, da parte del padrone, un dono, consistente in beni di natura, a tutti i trebbiatori. Viene spontaneo pensare che ogni singolo dono venisse accompagnato da una breve cantata estemporanea, in onore del donatore e del beneficiario. Termina così il racconto della sagra della trebbia sull'aia nelle vecchie masserie del mio paese.

Termina anche questa storia, che ha preso impulso dal ricordo di vecchie costumanze paesane, ora non più in uso.

Storia di cose e fatti che hanno vivificato, appena ieri, la vicenda umana quotidiana di tanta gente, contadini e operai, che in questa terra ha vissuto e generosamente operato.


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

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