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Un trust di reduci unisce Londra al Molise



«Nei luoghi colpiti dal terremoto di agosto e ottobre molti prigionieri di guerra britannici hanno vissuto l'epilogo della seconda guerra mondiale. Nelle regioni del centro Italia, in campi di prigionia appoggiati sulle pendici degli Appennini, in zone di passaggio tra diverse regioni: Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise. Vedere oggi da Londra quei nomi, seguire le mappe delle onde sismiche che toccano piccoli paesi mi fa pensare a quelle comunità e al territorio che le ospita. Un pezzo della mia storia passa da quei borghi, da un tessuto di amicizie e solidarietà che affonda le radici nell'autunno del 1943. Dal varo della campagna d'Italia con lo sbarco in Sicilia erano trascorse poche settimane: con l'armistizio dell'8 settembre migliaia di prigionieri di guerra (circa 4 mila i prisoners of war) erano reclusi nei campi controllati dagli italiani, molti di loro riuscirono a cavarsela grazie alla generosità e all’intraprendenza delle famiglie di contadini».

Lo racconta con partecipazione Vanni Treves, tra i protagonisti del Monte San Martino Trust, una fondazione a sfondo benefico di volontari che dal 1989 riunisce combattenti britannici (con figli o nipoti) impegnati nel teatro di guerra della penisola italiana durante il conflitto mondiale.

Storie lontane spesso dimenticate mentre la distanza tra il vecchio continente e le terre oltre Manica appare più ampia delle miglia che separano culture, lingue e tradizioni. Ogni ponte di dialogo appare prezioso e fragile, insidiato dal corso imprevisto degli eventi e dal responso della Brexit che ha scosso le fondamenta dell'architettura europea. E se il ponte appoggia sulle ragioni di un passato comune, sulle radici di memorie intrecciate e ricercate nella cesura della seconda guerra mondiale, allora quella trama che attraversa mari e montagne può trovare nuovi stimoli.

«Siamo andati a cercare i discendenti di quei contadini, di chi allora ci aveva soccorso, nascosto, aiutato ripercorrendo luoghi segnati dal peso della guerra e dalle sue ripercussioni». Occorre guardare indietro per costruire qualcosa, dare un segno e una possibilità a chi non c'era. «Abbiamo iniziato più di 25 anni fa pensando di proporre un percorso utile e concreto. Abbiamo affisso nei comuni italiani o nelle scuole i nostri avvisi chiedendo ai ragazzi dei luoghi della guerra, alle generazioni di italiani più giovani di partecipare. A tutti veniva offerto un soggiorno in Inghilterra, tra Londra e Oxford per studiare la lingua e conoscere le nostre abitudini». Uno scambio che viaggia sul filo della storia, riavvolge il nastro di vicende lontane e soprattutto cerca interlocutori tra i cittadini dell'Europa di domani. «Non è stato semplice iniziare il progetto. Molti soldati di allora non ci sono più. Mio padre fu ucciso dopo la liberazione di Firenze mentre io e mia madre cercavamo la via della fuga braccati dai tedeschi. Ci hanno salvato in tanti, senza lasciare tracce e spesso senza neppure un segno che potesse rimettere in comunicazione le vite del dopo».

Da allora ogni estate 20 studenti italiani passano almeno un mese in Inghilterra grazie a quelle lontane forme di ospitalità: piccoli e grandi gesti di resistenza diffusa e sconosciuta ai più. Per le leggi di guerra del terzo Reich se una famiglia avesse offerto assistenza a un prigioniero di guerra non avrebbe avuto scampo: fucilato il marito, bruciata la casa, deportati moglie e figli. Era quindi una scelta, un modo per schierarsi nella sfida tra democrazia e terrore. Sono queste le ragioni più forti di un dialogo che prosegue nel passaggio di testimone tra le generazioni.

Irene ha 21 anni, studia ingegneria alla Sapienza di Roma. Un suo zio oltre 20 anni fa aveva partecipato al programma, riscoprendo avvenimenti del suo paese di origine, Capracotta in Molise. E da una generazione all'altra la consapevolezza si trasmette, Irene ne parla con fierezza: «Lo consiglierei a tutti, un'esperienza importante e formativa. Frequentavo ogni giorno i corsi dalle 9 alle 16 e ho avuto la possibilità di conoscere diversi protagonisti diretti o indiretti di una storia lontana». O Debora che con nostalgia ricorda un'estate di 20 anni fa: «Era la mia prima volta a Londra, un'esperienza sconvolgente per chi veniva da una piccola realtà di campagna in mezzo al nulla. Ero fiera di essere in quella città. La mia famiglia aveva nascosto i soldati inglesi, mio padre voleva che imparassi la lingua per conoscere il mondo».

Il fondatore del trust, Keith Killby, ha compiuto cento anni nel giugno scorso, salutato dai messaggi di auguri della regina Elisabetta e del Presidente Mattarella che in una lettera affettuosa non si è lasciato scappare l'occasione per guardare alle sfide del presente: «In un momento in cui l'Europa attraversa una congiuntura delicata e complessa, il mio pensiero va a Lei e a tutte le persone che, memori delle devastazioni provocate dai conflitti del secolo scorso, si adoperano per rafforzare l'amicizia tra i cittadini europei e lo speciale legame che unisce i nostri due Paesi e i nostri popoli». Questo è il lascito più profondo dell'impegno di una generazione di soldati.

Killby fu catturato nel deserto libico e spedito in Italia nel campo di Sevigliano nelle Marche. Dopo l'armistizio riuscì a fuggire da un varco nel muro di cinta trovando da subito braccia pronte ad accoglierlo: i primi furono proprio gli abitanti di Monte San Martino, un piccolo paese nelle vicinanze di Macerata. «A guerra conclusa non ho dimenticato quella solidarietà così spontanea. Pensavo ai contadini, ai loro volti alle tante forme di aiuto che ho ricevuto solo per averli incontrati sulla mia strada». Da quel tornante della sua vita ha mantenuto legami con l'Italia, non ha perso le tracce di quella generosità con l'obiettivo di fare qualcosa per ripagare almeno in parte quel debito: «Give something back» con gratitudine verso le nuove generazioni di italiani che hanno percorso il lungo dopoguerra.


Umberto Gentiloni

 

Fonte: U. Gentiloni, Un trust di reduci unisce Londra al Molise, in «La Repubblica», Roma, 28 novembre 2016.

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