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L'America dei capracottesi


Monumento Emigrante Capracotta
Il "Monumento all'Emigrante" di Capracotta (foto: A. Mendozzi).

Gli abitanti dei paesi del Molise Altissimo l'America la scoprirono presto, ma non era l'America dove più tardi la maggioranza dei partenti sarebbe andata per cercare lavoro e fortuna. Era l'America portegna e pampeana dell'Argentina, per pochi era quella platense dell'Uruguay, per qualcuno quella fazendera del Brasile. Di quell'America, lontana un mese di nave, si era incominciato a parlare quando, poco dopo la metà dell'Ottocento, diventava ogni anno più chiaro che il mondo della pastorizia e della transumanza si contraeva e la sua crisi avrebbe coinvolto anche i piccoli artigiani. D'altro canto, proprio la transumanza aveva abituato tanta gente ad allontanarsi da casa anche per molti mesi e a lasciare alle donne la coltivazione del fazzoletto di terra e la cura dei figli e degli anziani.

Dei primi capracottesi che scelsero quell'America che parlava una lingua non difficile da capire e che pregava in latino, come nelle chiese del paese, non sappiamo molto. Peccato, bisognerebbe colmare questa lacuna. Abbiamo solo qualche testimonianza indiretta, per altro preziosa. Come quella, ormai mitica, di Edmondo de Amicis, che nella descrizione del suo viaggio verso l'Argentina, compiuto nel 1884, parla della bellissima giovane capracottese - «un vero fiore in mezzo a un letamaio» - protetta da un vigile e austero genitore o come quella di Torcuato S. Di Tella, fino a qualche anno fa ministro della cultura del governo Kirchner, che ricorda un primo viaggio del nonno e dei due fratelli di lui nel 1894.

Fu negli ultimi decenni dell'Ottocento che un'altra America si rivelò agli abitanti del Molise Altissimo, come a quelli di altre aree molisane: la Mèreca 'bbòna, come sarebbe stata chiamata dai primi anni del nuovo secolo in poi. Questa Mereca non era 'bbòna perché aveva il cuore più tenero con i suoi immigrati, che ormai s'affollavano a centinaia di migliaia ogni anno davanti alla porta stretta di Ellis Island. Anzi. Gli italiani erano i più numerosi tra i nuovi arrivati, ma anche quelli meno graditi.

Furono i primi bersagli di campagne xenofobe e, in alcuni drammatici casi, di attacchi razzisti. Nessuno poi regalava niente ai nuovi venuti; le difficoltà della lingua erano temperate solo dal fatto che l'avviamento al lavoro avveniva tramite la bossatura, che si traduceva in un ulteriore fattore di sfruttamento; le condizioni di vita nei grandi tenements delle little Italies ammorbanti e appesantite dalla promiscuità. La maggior parte di coloro che si erano trasferiti soli e per un tempo determinato, per mettere da parte i risparmi da reinvestire in paese, vivevano da bordanti, vale a dire a pensione presso una famiglia di immigrati, dove trovavano il sostegno essenziale per andare avanti, anche in questo caso con rinunce e in pesanti condizioni di promiscuità. Gli incidenti sul lavoro erano in agguato e, quando arrivavano, l'unico soccorso per le famiglie colpite veniva dalla solidarietà delle società di mutuo soccorso, quando c'erano e funzionavano. Non a caso, furono proprio gli italiani ad animare le lotte sociali del primo ventennio del Novecento negli U.S.A. e tra di loro non mancavano i molisani, qualcuno addirittura in posizione di guida, come Arturo Giovannitti, che con i suoi poemi dette voce alle sofferenze e alle speranze di milioni di immigrati.

Eppure quella Mèreca, nell'immaginario di milioni di emigrati meridionali, era ben presto diventata 'bbòna perché, nonostante le sue durezze, offriva possibilità di lavoro e di promozione sociale sconosciute nei paesi di partenza. Anzi, prima ancora, dava la possibilità di un salario fisso e regolare, che per gente di campagna, abituata spesso a lavorare in cambio di generi di prima necessità, rappresentava una liberazione e una condizione di autonomia. La paga settimanale, insomma, era la chiave per entrare in un altro mondo, nella civiltà industriale.

Tra i meridionali, i molisani furono tra i primi e tra i più numerosi a partire per gli Stati Uniti, relativamente alla consistenza della popolazione. Nel quarto di secolo tra il 1880 e il 1905 furono circa 127.000 quelli che vi si recarono, il 60% del totale degli emigrati della provincia. La tendenza si era ormai decisamente invertita: per ogni molisano che metteva piede a Buenos Aires, cinque sbarcavano a Ellis Island. Uno studio della Fondazione Agnelli sui viaggiatori delle navi dirette a New York tra il 1880 e il 1891, attesta che oltre l'11% fossero molisani, una percentuale enorme se si considera il rapporto tra la popolazione della provincia e quella italiana. Tra quelli di cui fu annotata la provenienza, compaiono anche 11 capracottesi, lo 0,28% dei suoi 3.900 abitanti, rilevati al censimento del 1981. Molti di meno, naturalmente, dei partenti effettivi, che per varie ragioni sfuggivano ad un controllo sistematico. La pista, insomma, era aperta, anche se è lecito pensare che il Molise Altissimo si sia decisamente distaccato dalla sua preferenza argentina solo nel decennio precedente alla Prima guerra mondiale.

Fino a quella data, i molisani, dopo lo sbarco, si spargevano nello stato di New York e in quelli più vicini alla costa atlantica (Rhode Island, New Jersey, Connecticut, Massachusetts, Pennsylvania, Ohio, West Virginia), con la tendenza a ricomporre in piccoli nuclei le comunità paesane, cogliendo l'offerta di lavoro nei settori dei lavori pubblici (picche e pala), dell'edilizia, dell'agricoltura e della lavorazione dei prodotti agricoli, delle manifatture tessili e, più tardi di quelle meccaniche. Le occasioni più dirette per gente uscita dalle campagne si trovavano sulla tracca (costruzione di strade e ferrovie) e nelle miniere. Fu così che molti molisani, assoldati allo sbarco dagli emissari delle grandi compagnie, si ritrovarono nelle miniere della Pennsylvania e del West Virginia e addirittura in quelle del Colorado e del New Mexico. Ammontano a molte diecine i nomi dei molisani caduti nelle due maggiori disgrazie minerarie degli Stati Uniti: Monongah (West Virginia), di cui ricorre quest'anno il centenario, dove perirono oltre ottanta emigrati provenienti da paesi molisani, e Dawson (Colorado), dove scomparvero anche lavoratori di San Pietro Avellana.

La maggior parte degli emigrati tornava periodicamente a casa per investire i risparmi in casa e terra, concepire qualche figlio e maturare una nuova decisone di partenza. Circa una metà, però, rientrò definitivamente. Negli stessi anni, i molisani avevano posto anche delle consistenti teste di ponte in Canada, che si riveleranno utili a distanza di alcuni decenni. Anzi, dopo che prima nel 1921 e poi nel 1924 le porte degli Stati Uniti si chiusero all'emigrazione di massa dei decenni precedenti, lo sbocco canadese divenne più cercato e considerato.

Dopo quelle date, i trasferimenti negli Stati Uniti dovettero passare attraverso il filtro stretto delle quote d'immigrazione stabilite per ogni singolo Paese, che limitarono a poco più di cinquemila unità il numero di immigrati provenienti dall'Italia. Praticamente, l'anelito verso la Mèreca 'bbòna si ridusse, fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, ai ricongiungimenti familiari e all'arrivo di coloro che, nati per precedenti vicende migratorie negli Stati Uniti, erano cittadini americani a tutti gli effetti.

Nel secondo dopoguerra il sistema conservò la stessa rigidità, aggravato semmai dalla preoccupazione di impedire l'ingresso a chi poteva professare ideologie e posizioni politiche non gradite. Come sempre accade, le maglie si allargarono a seguito di interventi legislativi integrativi, come il Refugee Relief Act del 1953, che consentì l'ingresso di 60mila italiani da individuare nella categoria dei congiunti di cittadini americani, dei profughi, dei rifugiati e degli orfani. L'Alto Molise ne ebbe benefici, sia per le possibilità che si aprirono ai profughi di alcuni paesi collocati lungo la "linea Gustav", gravemente colpiti dalla guerra, sia per l'opportunità offerta a parenti di vecchi emigrati o a figli di emigrati ritornati nei paesi d'origine, che avevano conservato la cittadinanza americana. È il caso, ad esempio, dei fratelli Sozio, nati negli U.S.A. da quell'Antonio che era emigrato nel primo decennio del Novecento e che, dopo la morte della moglie Angelina, era tornato in paese con i suoi sei figli. Uno di loro, Amerigo, nel viaggio di trasferimento negli U.S.A. nel 1956, scampò fortunosamente al naufragio dell'Andrea Doria.

La Mèreca dei vecchi emigranti era diventata ormai per tutti l'America, vale a dire il Paese guida del mondo occidentale, che aveva partecipato in modo determinante alla sconfitta del nazi-fascismo, anche se durante la "guerra fredda" il maccartismo aveva introdotto pesanti limitazioni ai diritti di cittadinanza. Era diventata, soprattutto, la società affluente che non negava un lavoro a chi ne aveva bisogno e metteva a portata di mano i beni di consumo, che permettevano di assaporare gli agi dell'esistenza. Era anche il Paese che per quasi tutto il ventesimo secolo ha chiesto ai suoi immigrati assimilazione in cambio di lavoro e benessere, cioè l'accettazione non solo delle regole di convivenza, ma anche di nuovi modelli culturali ed etici. Sicché il senso delle radici e il ricordo degli ambienti di origine sono restati confinati nella sfera della nostalgia e dei racconti familiari. Solo ora che le tendenze mondiali all'omologazione hanno risvegliato, per reazione, la curiosità per le origini e lo spirito di confronto tra diverse culture, si sta comprendendo che il vecchio e povero paese, da dove si sono mossi i nonni e i genitori o dal quale si è partiti da giovani, rappresenta qualcosa di più di un punto di fuga, può aiutare a soddisfare quel bisogno di identità al quale non si può sfuggire per lungo tempo nella vita. È quello che sta accadendo, ad esempio, a Burlington (New Jersey), dove la comunità dei capracottesi, sotto la spinta di un instancabile animatore come Giuseppe Paglione, sta tessendo la tela di rinnovati rapporti con il paese d'origine.

Quello che per i molisani era stata la Mereca nei primi decenni del Novecento, è diventato il Canada nel venticinquennio successivo al secondo conflitto mondiale. Con i vecchi e i primi emigrati del dopoguerra si è prontamente attivato un ramificato sistema di richiami (sponsorizzazioni) che dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi ha portato in Canada circa 35mila molisani, concentratisi nell'Ontario, a Montreal e nell'area di Vancouver. Essi, per l'iniziale presenza nei lavori pubblici e nell'edilizia, hanno partecipato allo sviluppo e alla modernizzazione delle maggiori città canadesi, diventandone parte integrante non solo sul piano sociale, ma anche sotto il profilo culturale e politico. In molti centri, infatti, il tasso di italianità è molto significativo e, per così dire, quello di molisanità non è meno interessante. Alcuni studiosi canadesi hanno scritto che l'incidenza degli immigrati provenienti dal Molise sull'intero flusso d'arrivo nel dopoguerra ammonterebbe al 10% circa, la percentuale più alta tra tutte le province italiane. Per il succedersi delle generazioni e per le progressive integrazioni familiari, oggi si può realisticamente affermare che in Canada vi siano non meno di 150mila persone d'origine molisana. In questa costellazione di molisani, è inserita la comunità capracottese di Leamington, che oggi si riaffaccia ad un rapporto rinnovato con il paese d'origine.

A differenza dell'emigrazione molisana negli U.S.A., che per la sua lontananza nel tempo e per le politiche assimilazionistiche praticate in quel paese si è largamente dispersa, quella in Canada è più viva e più organizzata. L'ancora alta incidenza di coloro che sono nati in Molise e le più accentuate dinamiche culturali di un Paese bilingue e multiculturale hanno creato spazi più ampi per la coltivazione dello spirito delle origini e per l'aggregazione associativa a base comunale e regionale. Vi sono già oltre ottanta associazioni comunali e due federazioni molisane, in Ontario e nel Quebec, che le organizzano. L'augurio più vivo che ad esse possa aggiungersi - e distinguersi - quella dei capracottesi del Canada, e diventare così il ponte per rinnovate relazioni con il comune d'origine, che fa bene a non dimenticarsi di loro, anzi a cercare di raccogliere tutti i suoi figli sparsi nel mondo intorno alle comuni radici.


Norberto Lombardi

 

Fonte: N. Lombardi, L'America dei capracottesi, in «Voria», I:0, Capracotta, aprile 2007.

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