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Armenti e latticini



Sulla lunga via erbosa passano da alcuni giorni gli armenti.

Sono mandre di pecore che procedono verso la montagna, guidate da pastori a piedi e a cavallo, fiancheggiate e difese da grossi cani, dal lungo pelo bianco, dalla testa enorme, dall'occhio vigile e mansueto, protetti da un largo e massiccio collare di cuoio o di lamiera irto di chiodi acuminati.

Su quella via (chiamata comunemente tratturo e che, come tutte le altre del genere, parte da Foggia) a primavera inoltrata transitano le greggi che dal Tavoliere di Puglia salgono ai verdi pascoli del Matese e di Capracotta a passarvi la stagione estiva.

Una volta il transito durava intere settimane, perché la vasta pianura pugliese ospitava durante l'inverno oltre un milione di pecore, circa 24 mila vacche, 18 mila bovi e 17 mila cavalli. Ma dopo le così dette leggi di affrancamento, il Tavoliere fu dissodato e coltivato a cereali, i suoi pascoli invernali scomparvero, e l'industria armentizia è venuta a deperire. Anzi queste ultime mandre si vanno ancora assottigliando; perché, oltre al dissodamento dei pascoli e dei boschi montani, cominciano a mancare i buoni pastori e massari d'un tempo, esperti fra tutti nel mestiere quelli di Capracotta e di Vastogirardi.

Essi sono robusti montanari, dalle abitudini estremamente semplici, dall'ingegno pronto e acuto, buona parte analfabeti, che si alimentano poveramente di solo pane condito con olio e sale e d'un po' di ricotta. Eppure sono essi che un tempo assicuravano la ricca produzione della carne, della lana e dei latticini; essi lavoravano il latte, e lo trasformavano nei saporiti formaggi, nelle tenere ricotte, nel burro squisito, nei fragranti cacio-cavalli, nelle delicate scamozze.

 

Ecco che l'armento si ferma nella località del tratturo detta riposo o iaccio. I pastori lo raggruppano e lo serrano d'intorno con una rete di corda, assicurata a pali di legno. I cani vi girano intorno, instancabili sentinelle contro gli assalti di qualche ingordo lupo che, a debita distanza, segue gli animali.

Le gonfie poppe si mungono, è improvvisato un focolare con pietre e tre parli a cui si sospende la caldaia, e le fiscelle di giunchi man mano si riempiono di pecorino e di ricotta.

Ora però il caseificio nomade si è trasformato in stabile; ma la lavorazione del formaggio vi si continua con gli stessi metodi.

Il latte, filtrato a traverso tela o erbe, è riscaldato a 35 gradi. In esso si versa il caglio o presame naturale di capretto, stemperato nel siero; e dopo circa mezz'ora se ne ottiene la coagulazione. La massa coagulata si agita e si frange con un bastone, detto menaturo, fino ad avere dei granelli poco più grossi di un cece. Questi si depositano in fondo alla caldaia; poi, travasato il siero (destinato alla lavorazione della ricotta), vengono impastati con le mani, e la massa che se ne ottiene è compressa e rivoltata nelle fiscelle, dove prende la caratteristica forma cilindrica. L'indomani viene abbondantemente salata sopra una faccia e rivoltata di nuovo, il giorno seguente si sparge il sale sull'altra faccia, e così si continua per dieci o dodici giorni, a seconda il peso della forma.

 

Su per giù identica è la lavorazione del cacio-cavallo, composto solo di latte di vacca; però la pasta ottenuta non si comprime nelle fiscelle, ma si taglia in fette lunghe e sottili, che si fanno cadere in un tino, ove si versa acqua calda a 65 gradi. In esso si riunisce di nuovo la massa caseosa, comprimendola e stirandola alternativamente col menaturo e con le mani, in modo da ottenere la caratteristica struttura fibrosa e lucente.

Il filone, da prima piatto e largo, si restringe poco a poco, fino a poterlo prendere con una delle mani, e aiutandosi con l'altra ad avvolgerlo a gomitolo in modo speciale, secondo il tipo che si vuol fabbricare, se cacio-cavallo o provolone, e secondo la forma strozzata e allungata dell'uno o sferica dell'altro.

I gomitoli si lasciano un po' nell'acqua calda, poi si modellano, stringendoli con forza, lisciandoli alla superficie, e formando nel cacio-cavallo la così detta testa, che si salda, tuffandola un istante nell'acqua bollente.

Le forme di provolone o di cacio-cavallo, appena confezionate, vengono immerse in acqua fredda, dentro un tino che si dondola, imprimendo al liquido un lieve movimento. Dopo tre o quattro ore si passano in salamoia, restandovi da tre a sei giorni, secondo il peso; poi si accoppiano con legamenti di giunco, e si apprendono in cucina, dove, sotto l'azione del fumo, acquistano il bel colore giallastro.

Le scamozze sono piccoli formaggi a pasta filata da consumare freschi; e nel Molise se ne producono delle squisite, un po' da per tutto, da Capracotta a Baranello, da Vastogirardi a Campobasso, da Carovilli a Riccia.

Importante è in quest'ultimo comune la fattoria Sedati. Sorge in contrada Sfonderata, ricca di pascoli e d'acqua, e vi si producono cacio-cavalli e scamozze, assai ricercati dai consumatori locali e forestieri.


Berengario Amorosa

 

Fonte: B. Amorosa, Il Molise: libro sussidiario per la cultura regionale, Mondadori, Milano 1924.

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