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Bilancia ascendente gemelli


Rosa Di Tella
Mia nonna Rosa Anna Di Tella (1911-1996) davanti alla sua casa.

Mi ero alzato prestissimo quella mattina, ansioso di partire. Partire significava avvicinarsi a casa, seppur di poco, ma quest'idea così dolce era guastata dalla mole di ostacoli che mi dividevano dalla sua realizzazione. Una volta sciacquata la faccia pensai che finché l'uomo resta un animale, vive per il combattimento, a spese degli altri, teme e odia il prossimo: la vita, dunque, è guerra. Una guerra inutile, forse.

Quella maledetta notte di settembre aveva cambiato per sempre gli esiti della storia, tanto che da un paio di giorni i nemici del popolo italiano indossavano una casacca uguale alla mia. A denti stretti, cercando di non farmi udire dai miei compagni di camerata, bofonchiai:

– La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.

Nessuno diede seguito alla mia satira, segno evidente che nessuno aveva udito. E nessuno aveva udito perché tutti erano troppo indaffarati a prepararsi per il viaggio.

La partenza era fissata a metà mattinata. Quando l'autocolonna finalmente si mise in marcia, l'operosa città d'Isernia non sapeva ancora che di lì a poco sarebbero arrivati gli aerei anglo-americani che l'avrebbero bombardata, lasciando senza vita migliaia di persone. Non capivo dunque cosa avessero da esultare gli italiani alla nostra partenza.

La nuova destinazione dell'unità cui appartenevo era un piccolo villaggio sui monti abruzzesi. L'obiettivo era quello di cercare un luogo dove pianificare una fuga, una resistenza, una vittoria, un avamposto, qualcosa insomma. Il viaggio durò poco più di un'ora.

Il paesaggio non sempre rigoglioso che affiancava gli automezzi ricordava la mia Kürten, sia nelle spigolose valli che nei verdeggianti campi destinati al pascolo. Kürten non distava molto da Colonia, ma a differenza di quest'ultima non ospitava le grigie fabbriche della Deutz. Era un paesino tranquillo, abitato da contadini e pastori, anche se durante gli anni d'oro del Reich si era popolato di operai.

Quando fummo per entrare in paese si fece evidente un certo progresso di anime chiassose di fronte a quella che sembrava una normale chiesetta di montagna.

– Il paese è in festa, gli italiani fanno sempre festa! – disse Heineke, senza che nessuno ricambiasse la sua battuta, se non un capitano con un'occhiata raggelante.

Poche ore prima di noi erano infatti partite da Isernia due vetture in avanscoperta e ci avevano comunicato che da quelle parti gli italiani avevano appena finito di festeggiare un'importante ricorrenza religiosa con decine e decine di cavalli bardati. E al nostro arrivo i cittadini presenti scapparono in ogni dove gridando e spingendo.

L'ordine era perentorio e prevedeva di requisire tutte le abitazioni, ricercare popolazione maschile non arruolata e soprattutto incutere timore nella cittadinanza, per evitare che gli italiani, suscettibili per genìa, accogliessero qualche nemico nelle loro case. Assieme all'ordine era infatti arrivata la notizia di un pernicioso avvicinamento degli inglesi e di altre truppe miste.

Ma io non volevo pensare alla guerra, volevo solo tornare a casa il più presto possibile.

 

I primi giorni in Capracotta mi diedero modo di riflettere su alcune questioni che in Germania tenevano banco da diversi mesi. Dov'erano gli auriga di Mussolini? Dov'era la gloriosa Italia fascista che Churchill temeva? Dov'erano i littori che inneggiavano al nome di Roma? Era forse questo l'unico villaggio italiano a non subire il fascino del sogno fascista?

Non era possibile: o la realtà delle cose era diversa dalla propaganda dei cinegiornali tedeschi o erano tutti matti.

In effetti di matti ce n'erano pochi in paese e la realtà mi costringeva a capire che la rivoluzione italiana s’era arrestata troppo presto, forse per sfiancamento, alle medie e grandi città senza mai radicarsi negli arcaici ritmi contadini della campagna. Quest'idea mi venne naturale perché anche in Germania era successa una cosa simile: a Kürten non si respirava la stessa aria di esaltazione gioiosa che a Berlino aveva trasfigurato il volto della città. I contadini erano ancora contadini. Gli operai, operai. E l'apposizione di uno swastika sulle insegne delle aziende agricole non rendeva di certo nazionalsocialisti tutti coloro che l'abitavano.

Mi rendevo conto, con animo sincero, che queste elucubrazioni non sarebbero mai dovute arrivare alle orecchie dei miei superiori e, visto il carattere infermo di Heineke, nemmeno alle sue. Era un bravo ragazzo ma non avrebbe mai capito la differenza tra una rivoluzione e un'occupazione, tra la libertà e il giogo, tra un mito di carta e l'ineludibile declino che avevamo tutti di fronte.

I miei giorni abruzzesi trascorsero dunque nella più inutile preparazione al peggio, che sarebbe arrivato comunque. La guerra non è una questione di preparazione, figuriamoci se può esserlo una fuga. La guerra è una questione di fortuna.

Eppure, alla vista di queste montagne, stringevo gli occhi per guardare più definitamente, cercando, più con l'immaginazione che con gli occhi, la grotta di Pietro Angelerio, il santo del candido eremitaggio, anacoreta per vocazione, papa per obbligo, la cui leggenda m'era stata inculcata dai miei genitori come monito. Attraverso l'umiltà di Celestino V, dicevano, potrai sempre separare ciò che c'è di buono da ciò che è andato a male.

Mentre riflettevo sulla santità che aveva regnato tra queste montagne oltre sei secoli fa, mi venne alla mente, come un lampo improvviso, l'espressione da mentecatto che si formava sul viso di Heineke ogniqualvolta gli parlavo di cose difficili. E me ne rallegrai.

 

La sera bevevamo alcuni intrugli portati dall'Austria ma il clima era sempre teso e la voglia di ridere e scherzare, che l'anno prima aveva reso indimenticabile la mia giovinezza a Kürten, era pressoché relegata in un anfratto minuscolo del mio spirito.

Quella sera, dopo aver requisito un maiale, si parlò a pancia piena di una fuga di pecore che c'era stata in paese, e che aveva seminato un vero e proprio finimondo, con pecore che rincorrevano ansiose i propri agnelli, pastori imprecanti che rincorrevano le proprie pecore e ragazzini festanti che rincorrevano tutto e tutti. Sembrava quasi che l'intero villaggio fosse diventato un presepe mal composto.

In tanto chiacchiericcio provai a colloquiare con Heineke.

– Se la guerra fosse una persona, di che segno zodiacale sarebbe? – chiesi.

– Ti prego, non cominciare con le tue ossessioni. Per me la guerra è una cosa buona. E poi lo sai che questi discorsi, prima o poi, ci metteranno nei guai – rispose seccato.

Fingendo di non aver ascoltato una sola parola di quello che aveva detto, aggiunsi:

– Secondo me è bilancia. È bella e brutta. È vincere o perdere. Rincorrere e fuggire. Uccidere o morire. Sai che ti dico? La guerra è bilancia, bilancia ascendente gemelli. Essa è il regno dell'ambiguità.

– Come le donne – prolungò Heineke con indolenza.

– Bravo Heineke, proprio come le donne, quelle di Berlino però! – e la nostra risata fu contenuta ma saporita. Questo bastò per rasserenarci gli animi in vista dei prossimi gravosi impegni di cui si cominciava a parlare sempre meno sottovoce.

Sottovoce non si parlò più quando ci furono confermati i sospetti di un'infiltrazione inglese. Era ormai certo che almeno un paio di soldati di Sua Maestà Giorgio VI, o canadesi o mori o americani, erano rifugiati presso alcuni contadini del luogo, tre fratelli dai nomi buffi.

In un villaggio dove il fascismo era arrivato a malapena, doveva essere arrivata a malapena anche la voglia di rovesciarlo ed eravamo dunque certi che i traditori stavano prestando asilo ai nemici più per una possibile ricompensa futura che non per un'ideologia cui aderire. Per quanto mi riguardava, credevo invece che la carità cristiana non conoscesse ricompense materiali.

Ma quando i fratelli furono stanati e fucilati, senza che il povero parroco di paese fosse riuscito in alcun modo ad ammorbidire la decisione del capitano, sentii una fitta lancinante al petto e, per non mostrare un sintomo così evidente di debolezza umana, abbassai il capo e pregai che il terzo traditore (che era riuscito ad evitare la sua sorte scappando come una lepre di campagna) potesse in futuro godere una vita piena e felice.

Il ricordo di quei corpi a terra rovinò molte nottate ma molte altre nottate mi aspettavano su strade insanguinate e popolazioni in rivolta.

 

Nevicava.

Lì a Capracotta abitavo assieme ad altri cinque soldati, tra cui il fido Heineke, presso una famiglia di commercianti. Quando bussammo la prima volta, senza troppa delicatezza, si sentì una rapida corsa per le scale interne e, non appena cominciammo a picconare il portone, una signora ben piantata a terra e per niente impaurita, con un nugolo di ragazzini e altre donne a farle da ventaglio, ci fece entrare.

Avevo subito intuito che quello scalpitio per le scale altro non era che la fuga di un uomo adulto, maschio, e ne ebbi la certezza quando di notte, tra veglia e sonno, captai un uomo camminare in punta di piedi ed uscire dalla porta sul retro.

Se avessi detto a tutti che il padrone di casa era scappato nella notte per rifugiarsi chissà dove, è probabile che avremmo dovuto trattarlo come i fratelli traditori e il pensiero mi disturbò a tal punto che, pure sotto tortura, avrei detto che quella notte dormivo della grossa.

Solo qualche giorno dopo che ci eravamo insediati in casa della signora le chiesi il nome e per farmi capire utilizzai il linguaggio dei gesti. Mi colpii leggermente il petto e pronunciai il mio nome, dopodiché, col palmo rivolto verso l'alto, diressi la mano verso la donna che, senza turbarsi minimamente, pronunciò:

– Rosa.

Modificai presto il suo nome in Frau Rosa, alzando la voce quel poco che bastava per farle intendere che in futuro l'avremmo chiamata in quel modo.

Anche se la Frau Rosa era molto gentile e ci preparava il caffè, ci guardava spesso con sospetto ed ormai, senza più bisogno di ricordarglielo, assaggiava sempre il tè, la minestra o il caffè prima di noi, a sigillo di fiducia, anche se non ho mai creduto all'eventualità che la Frau Rosa volesse avvelenarci tutti.

I miei giorni abruzzesi volgevano al termine ed ormai la soluzione era una, definitiva. Con gli inglesi alle calcagna il paese doveva sprofondare nella distruzione. Solo così saremmo riusciti a prender tempo per organizzare una solida linea di difesa in Italia. A fare il lavoro sporco sarebbero arrivati i corpi speciali delle Schutzstaffel.

Quando ci preparammo in fretta e furia per ripartire, con la foga che hanno le bestie quando sono impaurite, trovai il tempo di congedarmi dalla Frau Rosa e in un italiano stentato provai a dirle:

– Germania kaputt, mia famiglia niente kaputt, ma Germania kaputt. Non avere paura, noi stasera partire.

Lasciammo quelle genti in balia di un destino crudele, a pagare una colpa che non avevano, a versare sangue lacrime sudore invano, a piangere morti sbagliati, a rinnegare amicizie e parentele, a diventare ladri sciacalli faine. Lasciammo quel mucchietto di case innevate col vuoto negli occhi e il terrore nel cuore.

Arrivare per distruggere.

Com'è infame la vita: non si fa in tempo a rappacificarsi col mondo che subito bisogna raderlo al suolo per crearne uno nuovo, senza la garanzia che sia migliore di quello precedente. Fu così che mi convinsi che la guerra non mi piaceva affatto.

 

Mi chiamo Wilhelm Oberndorfer, soldato semplice dell'esercito del Reich. Il 22 marzo 1945, a vent'anni, mi hanno ucciso a Cravasco con un colpo alla nuca. Non ho più rivisto mia madre né la mia Kürten. E le mie ultime parole non le ho mai pronunciate.

 

Il soldato Wilhelm Oberndorfer è realmente esistito ma non ha operato a Capracotta, il che lascia intuire come il racconto debba considerarsi di fantasia, seppur ispirato ai terribili fatti capracottesi dell'autunno-inverno '43. Al contrario, la Frau Rosa è realmente vissuta; se così non fosse, io non sarei mai nato, visto che Rosa Anna Di Tella era mia nonna. Il presente racconto fu presentato nel 2012 alla terza edizione del concorso letterario "Capracotta si racconta", vincendo il primo premio con la seguente motivazione: «Il racconto, giocando su un finale spiazzante, rievoca una delle pagine più dolorose della storia di Capracotta e declina con lucida vivacità un giudizio perentorio sull'orrore della guerra, tra umanità, memoria e ricostruzione delle vicende. "Bilancia ascendente gemelli" incornicia sullo sfondo di un paesaggio innevato l'estraneità di una comunità coesa al dramma del fascismo, vissuto come eco lontana e dramma presente».


Francesco Mendozzi

 

Bibliografia di riferimento:

  • G. Artese, La guerra in Abruzzo e Molise 1943-1944, vol. I, Carabba, Lanciano 1993;

  • M. Di Ianni, 1943-1993: per non dimenticare, voll. I e II, Studio Artemide, Isernia 1993;

  • R. Guénon, Il Re del Mondo, Adelphi, Milano 1977;

  • F. Mendozzi, Bilancia ascendente gemelli, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. III, Proforma, Isernia 2013;

  • F. Romagnuolo, La Resistenza del Molise, EIL, Milano 1979;

  • I. Silone, L'avventura d'un povero cristiano, Mondadori, Milano 1968.

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