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Boîtes à surprise



In un teatro periferico dei Prati - il Principe, ripulito rinfrescato ammodernato - abbiamo assistito a "Cantachiaro 3". Una rivista desertica, monotonamente orientata alla satira politica: e la politica v'è scarnita, la satira v'è banale. Cesare Maria de Vecchi (torinesissimo: e non è la sola disgrazia di Torino) vi si esprime in pretto napoletano: «c'aggio a fa'?»; e Luigi Federzoni gli risponde con austerità ed eleganza di cui certificano i versi del ritornello:

 

...ho paura ho paura ho paura

e le mie mutande ben lo san...

 

A che continuare? Non è posto qui per il museo degli orrori.

La rivista indigentissima arriva tuttavia al traguardo: merito degli attori, che vi si prodigano con duttile lena: la Renzi, Besozzi, Calindri, Enzo Turco (repertorio del vecchio Scarpetta: "'Nu turco napulitano"), la Mari, Ortensi, Thea Prandi (una parentela mancata: e gelosamente ci duole)m Paola Orlova, Licia Barbara, Marica Spada...

Federico Collino è tra gli ultimi fedeli a un ruolo che va scomparendo, se non dalla logica dei testi, dalla consuetudine dei palcoscenici. Non v'è più posto, alla ribalta, per i caratteristi: ché le parti di carattere tentano ormai i primi attori, quasi tutti inclini ai promiscui. Metton parrucca e Ruggeri e Stival, e Benassi e Ninchi, e Cervi e Giorda, e Tòfano e Randone; e attori della specializzazione di Collino e di Barnabò diventano pleonastici alle esigenze della distribuzione. Ma poi che anche Collino e Barnabò hanno necessità alimentari, insidiosamente proposte dallo zucchero a mille e dal burro a novecento, e un sarto del prezzo di Gaetano Terreri, e una manicure del rango di Maria Luisa de Filippis, eccoli accoratamente ma legittimamente decisi: guglielmo andrà con la Osiris, Federico è andato con "Cantachiaro". Senonché, scrollate loro di dosso l'amore, se vi riesce. Anche a "Cantachiaro" Collino ha portato quella disperata passionaccia del suo "porco mestiere". Cambia d'abito, di parrucca, di trucco, di modello e di tipo: quasi recitasse otto dieci atti unici di Wilder o di O'Neill - in un rispetto alla battuta così convinto e fervoroso, da farci a tratti dimenticare ch'è religione ad un totem anzi che a un demiurgo. Mette l'impegno di Edmond Castel e di Orbal: con, in più, la colorita precisione di Collino.

Gianni Agus, sbalestrato alla rivista da una vendita in blocco bandita dall'Impresa del Nuovo (lui, Besozzi, Calindi, Collino, la Mari), s'è trovato a dover, non che modulare il couplet, flautare la romanza. Ah non per questo, non per questo il fermento sardagnolo di Agus era gorgogliato dal lontano nuraghe come è fama facessero un tempo i rauchi richiami dei corni! Ma tant'è, Agus ha flautato la romanza: con ritmata dolcezza, all'unisono con quel dolce ritmo che è Maria Marchi: nel sobrio commento di gesti e di espressioni che, se trasmigrassero a Giacomo Rondinella, resusciterebbero la spenta nostra fede nella canzone.

E Tina Perna? Il teatro di prosa allinea in campo qualche bellezza aggressiva. Lia Zoppelli, Mirella Pardi, dilicatissima l'una, procacissima l'altra, con differenti schidioni egualmente inchiodano la nostra ammirazione al loro immediato apparire. Tina Perna... Tina Perna la arrostisce a fuoco lento. Graziosa, al primo incontro. Al secondo ci si accorge che la sua nuca è vagamente arcuata; la sua fronte, pensosa; i suoi occhi, mobili e profondi. Sono evidenti, al tezo, la armonia snella della persona, la malizia discreta del seno, il rilievo garbato del fianco, la inquietudine nervosa della caviglia... Sconsigliamo, ai giovani troppo prudenti, l'incontro numero quattro; e il "Cantachiaro" numero tre. Attenta e permeata era, con Ruggeri: non rilevante piccola attrice di prosa. Nella rivista, lascia stupiti. Covava, sotto quella sua avvenenza un poco ritrosa e quella sua acerbità ghiotta, il brio la diavoleria il senso di capriccio di una soubrette.

Affrettiamoci. Affrettiamoci a dire che gli attori italiani sono sorprendenti. Eredi diretti delle maschere, sono ancora quelli che, nell'arlecchino Bertinazzi, sommuovevano Parigi assai più di quando non l'abbiano commossa più tardi le Cécile le Miss i Maurice, tutti "national". Oggi re domani servi; lunedì sgualdrine martedì màrtiri: capaci d'ogni metamorfosi e d'ogni improvvisazione, d'ogni atteggiamento e d'ogni accento: clowns maravigliosi della recitazione, miracolati trasformisti delle battute, aedi estemporanei di tutti i festini. Insorgenti di dovunque e d'improvviso: crisalidi che diventano farfalle nello spazio di un'ora, e librano inconcepite ali d'oro; girini che nel volger di una sera divengono prepotenti ranocchi, e invece di gracidare dal pantano conclamano dal prato.

La fama lo splendore la gloria del Teatro nostro sono, dai secoli, non nei commediografi ma nei commedianti. Il divino Goldoni, d'Annunzio, Pirandello solcani i “cieletti” come luminose eccezioni: la norma è dettata dai Viola dai Cantini dai Gherardi dai Berrini dai Tieri: buona gente e molto rispettabile, ma più diligenti scrivani e che non imbizzarriti poeti del dramma. La tradizione degli attori, no: non è affidata solo ai Rossi agli Emanuel ai Modena ai Salvini ai Novelli agli Zacconi ai Ruggeri, alle Ristori alle Duse alle Pezzana alle Gramatica; è custodita anche - e forse soprattutto - dagli oscuri o dai non rutilanti: da questi, che alla rivista concedono la dignità della prosa e alla prosa la imprevisione della rivista, che simulano Rabagas o il signor Capanna, Amleto o Patapon, Lucinda o il mostro, con eguale scrupolo eguale impegno eguale estro: in queste attrici minori, che una sera emergono inattese dalla opacità dell'ombra per stagliarsi nella luminescenza di una leggiadria che non s'era notata e di un garbo che non s'era avvertito e di una vivacità che non s'era indovinata.


Francesco Prandi

 

Fonte: F. Prandi, Boîtes à surprise, in «Le Scimmie e lo Specchio», 9, Milano, novembre-dicembre 1946.

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