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Che fa jennàre jennaróne? Sfàscia o scópa re ferlóne?


Casa capracottese d'inizio secolo.

Il "Calendario della Letteratura Capracottese", che realizzo e diffondo con successo dall'anno scorso e che l'anno prossimo verrà distribuito anche in versione cartacea (sul modello dell'intramontabile format di Frate Indovino), dà spesso vita a discussioni circa la correttezza di alcuni modi di dire e proverbi del nostro dialetto.

È bello che ciò accada perché significa che il dialetto capracottese non è morto, tutt'altro. Soprattutto significa che di ogni proverbio esistono più e più varianti, in base alla tradizione orale tramandata in ogni famiglia.

Nel mese di gennaio, ad esempio, alla data del 31 avevo scelto un detto celeberrimo a Capracotta, che ho proposto nella versione riportata dal folclorista Oreste Conti nella sua "Letteratura popolare capracottese" del 1911, la cui traduzione è piuttosto facile per chi è di Capracotta. «Vattene gennaio gennaione, distrugge soffitta e cassapanca» diventa così:


Vattìnne jennàre jennaróne,

sfàscia cuoatenàre e cuoascióne.


La tradizione capracottese voleva infatti che i ragazzini, incuranti della neve, girassero per il paese facendo baccano con campane e campanacci, gridando quel detto in tono propiziatorio e sperando che qualcuno desse loro un po' di salsiccia. Quello di "jennàre jennaróne" era infatti un motto che, proseguendo le matenieàte del "bòn ìnne e bòn ànne" di Capodanno, portava allo "'ngìcce 'ngìcce" di Carnevale.

Ma se per i bambini lo "jennàre jennaróne" era soltanto un gioco, per gli adulti era un improperio bello e buono, perché un gennaio particolarmente rigido metteva a dura prova le provviste di casa.

Tanti capracottesi nati nel secondo dopoguerra hanno sentito l'urgenza di correggere il proverbio che avevo proposto io: la maggior parte di loro, infatti, sostiene che gennaio non debba andar via e che non sfasci, bensì spazzi la soffitta e la cassapanca, per cui il detto diventerebbe:


Jennàre jennaróne,

scópa cuoatenàre e cuoascióne.


Qualcun altro, provenendo da una tradizione più ancorata al passato tipica della Terra Vecchia, mi ha invece corretto con un'ulteriore variante, che prevede il plurale e l'aggiunta del ferlòne, ovvero il mobile in legno usato per impastare, far lievitare il pane e per conservare le farine:


Jennàre jennaróne,

scópa casciùne, catenieàre e ferlùne.


In qualsiasi variante preferiate questo proverbio, il senso è sempre lo stesso: le rigidezze del mese di gennaio mettono in crisi la famiglia che vive di ristrettezze. Il tipico gennaio di Capracotta, insomma, consumava la legna riposta in soffitta, prosciugava il grano del contadino e azzerava la farina conservata nella madia.

Voi quale versione siete soliti ripetere?


Francesco Mendozzi

 

Bibliografia di riferimento:

  • O. Conti, Locuzioni e modi di dire del popolo capracottese, Frattarolo, Lucera 1909;

  • O. Conti, Letteratura popolare capracottese, Pierro, Napoli 1911;

  • F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016.

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