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Leo Paglione: la realizzazione di un sogno (III)


G. L. Paglione, "Autoritratto con berretto a quadri", 1988, olio su tela.

Lo studio era situato al primo piano di una casa di via Marconi, sopra un forno per la panificazione. Uno stanzone illuminato da una finestra - di cui una pesante tenda regolava l'intensità della luce - e da un lucernario. Al centro della stanza torreggiava un mastodontico cavalletto con a fianco un tavolo pieno di tubi di colori, pennelli, spatole, righelli e tante piccole ciotole di porcellana bianca sul fondo delle quali sedimenti colorati donavano all'insieme una nota piacevole. Un tavolo più grande, accostato ad una parete e pieno di grossi fogli di carta, forse disegni, faceva anche da sostegno ad un busto di gesso di Bruto. Su una delle sedie impagliate, un manichino, quasi a grandezza d'uomo, giaceva a pancia in giù con braccia e gambe penzoloni. Pochi dipinti appesi alle pareti, moltissimi invece quelli poggiati a terra a più file ed accostati al muro. A tutto questo si aggiungeva il penetrante odore di acquaragia, colle e vernici esalante da ogni oggetto di quell'ambiente.

Un giovane, pressappoco della sua età, rimasto educatamente a distanza, su invito di Trivisonno si avvicinò e, con una cordiale stretta di mano si presentò. Si chiamava Domenico Petrone, appassionato di disegno come disse e, come aggiunse poi il Maestro, molto bravo nell'intaglio del legno. Con lui Leo avrebbe stabilito una duratura amicizia.

Si trattenne a lungo nello studio. Andò via solo dopo essersi assicurato di poter tornare il mattino successivo. Se ne andò via correndo, ansioso di raccontare al fratello le emozioni provate. Era contento: ora avrebbe potuto guardare al futuro con fiducia, uno spiraglio si era aperto, i suoi sogni si sarebbero potuti realizzare.

Con questo animo nuovo, cominciò a frequentare lo studio di Trivisonno. Poteva entrare quando voleva, lo studio era sempre aperto. Avido di osservare, seguiva incantato il lavoro del Maestro e quando questi usciva, lui restava, a disegnare, per esercitare la mano e fermare sulla carta tutto ciò che trovava interessante e di suo gusto. Suo modello preferito era il manichino che disegnò in varie pose e da diverse angolazioni.

Ma dopo un paio di mesi circa dal suo arrivo nello studio, Leo avvertì la sensazione che il Maestro volesse dirgli qualcosa e che non osava farlo.

Non si era sbagliato: un pomeriggio, mentre passeggiavano in piazza Pepe, dinanzi al caffè Lupacchioli, ad un certo punto della conversazione, senza un motivo, Trivisonno si interruppe, si fermò e, assumendo un atteggiamento grave, guardandolo negli occhi, senza mezzi termini, come - lo avrebbe scoperto dopo - era nella sua natura, gli esternò la sua inquietudine ed il suo cruccio: non poteva tenerlo ancora con sé senza remunerazione se prima non si fosse reso conto delle sue attitudini alla pittura, perché, se non ne avesse trovate, suo algrado si sarebbe visto costretto ad allontanarlo. E questo per non doversi in seguito rimproverare di avergli fatto perdere tempo inutilmente.

Lo avrebbe perciò sottoposto ad una prova.

Al termine di questo discorso, fatto tutto d'un fiato, mentre Trivisonno si doleva di aver dovuto parlare con durezza al giovane, quello invece gliene era grato. Durante quei mesi, sempre per la sua invincibile timidezza, anche quando se ne era presentata l'occasione, non era riuscito a comunicare al Maestro la sua passione per il disegno e la pittura né gli aveva mai mostrato qualcuno dei tanti schizzi e disegni fatti e conservati, alcuni dei quali proprio nel suo studio durante le sue frequenti assenze. Ora però, con sicurezza, rispose che era pronto

per la prova, anche subito.

Senza indugiare, invitando il giovane a seguirlo, il pittore si incamminò con passo deciso verso lo studio e, una volta giuntovi, afferrato il busto di Bruto, lo porse a Leo dicendogli di disegnarlo a matita sul foglio di carta che gli andava porgendo. Gli dava mezz'ora di tempo.

Detto questo se ne andò.

Leo era tranquillo: quel busto lo aveva già disegnato più volte. C'era solo un problema, il tempo: mezz'ora era davvero poco per eseguire un lavoro impegnativo. E tuttavia, conferendo maggiore sveltezza alla già agile mano, dopo aver delimitato i contorni, con varia intensità del segno, che da sottilisimo, appena percettibile in alcuni punti, diventava intenso e profondo, infittendolo con allineamenti paralleli e con incroci, ottenne risultati così ricchi di chiaroscuro da conferire al disegno una terza dimensione. Senza avvedersene, Leo stava trasferendo a carta ogni sua pur sottile intenzione, ogni impeto, ogni trasalimento: da quella prova dipendeva il suo destino.

Quei segni che stava tracciando con forza quasi rabbiosa, esprimevano le sue gioie, le sue ambizioni, i suoi passati dolori e le speranze, tutto il suo entusiasmo per la vita che gli era stata concessa.

Aveva terminato quando, dal rumore dei passi, capì che il Maestro stava rientrando. Rimase seduto aspettando che si avvicinasse, e quando se lo sentì accanto si girò verso di lui per cogliere, dalle espressioni del volto, l'esito della prova.

Trivisonno, solitamente pallido, era diventato rosso e con gli occhi spalancati, immobile, dopo aver guardato a lungo il disegno rimasto sul tavolo, schiarendosi la voce, disse:

– Su, continua!

E Leo ebbe la certezza che la sua ostinatezza e la sua fede avevano vinto: sarebbe diventato pittore.


Michele Praitano


 

Fonte: M. Venturoli e M. Praitano, G. Leo Paglione, Palladino, Campobasso 1999.

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