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La luce nera



Nel Policlinico dell'Università di Roma.

Siamo alloggiati a Roma, tutta la famiglia, nella pensione Villa alle Terrazze di via Giovan Battista Morgagni. La pensione giornaliera è di seimila lire a testa. Una spesa eccessiva per il nostro portafoglio. Il mio stipendio è di 200.000 mensili. La pensione per tutti e 4 di famiglia ne richiederebbe 800.

Comunque non oso dire nulla a mia moglie. La prenotazione era stata già fatta da mio cognato Rinaldo. Si vedrà poi con l'aiuto di Dio. Intanto è necessario sottoporre a visita sia me che mia figlia Beatrice, la quale per le numerose assenze fatte deve ormai rinunziare all'anno scolastico.

La mattina del 30 mi visita il cardiologo Prof. Angelini, amico di Rinaldo. Non c'è nulla da fare. La pressione sanguigna è crollata dai 140-150 di Orbetello a poco più di 100. Ho uno svenimento. Si impone il ricovero. E vengo infatti ricoverato nella 1a clinica medica Malattie Infettive, letto n. 7. È per me un colpo, perché malgrado l'azotemia elevata (0,70) non avevo avvertito disturbi di sorta e i dolori al torace si erano ormai notevolmente attenuati, tanto da permettermi di muovermi con una certa facilità. A letto dovevo però ancora conservare solo la posizione supina.

Compagni di corsia erano un napoletano Ispettore delle ferrovie in pensione, il Signor Bove Luigi, residente a Roma, il Signor Giambattista Veronese, funzionario dell'Agricoltura della Regione Siciliana residente a Siracusa e 2 ragazzi, Gianfranco e Carlo, convalescenti di epatite virale.

Il vecchio Ispettore chiamava tutti col numero del letto. Io instaurai subito il sistema nominativo e si fraternizzò presto.

Ma cominciò subito la rotazione: al posto di Carlo venne un altro ragazzo, Pietro Capogna di Torre Gaia, al posto di Gianfranco venne un sacerdote di Ascoli Piceno, Gilberto D'Angelo, che passò poi subito alla chirurgia, al posto di Giambattista venne un Signor Lorenzo Renzi impiegato postale, malato anch'egli di epatite, al posto del sacerdote venne un geometra di Campobasso, Di Nucci, la cui famiglia è oriunda di Capracotta.

Oh come è diventato piccolo questo nostro mondo!

Oltre al Di Nucci di Capracotta avevo conosciuto nel reparto il Medico De Simone di Schiavi d'Abruzzo. Sono paesi a me familiari, perché visibili dalla mia natia Pietrabbondante, anche se per raggiungerli, essendo paesi di alta montagna, si debbono fare 22 chilometri per Capracotta e 50 per Schiavi!

Dopo una settimana di osservazione, ebbe inizio, sabato 9 maggio il trattamento della mia azotemia ma, fatto strano, invece di un miglioramento avvertii un peggioramento delle mie condizioni generali con crisi di vomito e perdita totale dell'appetito.

Il 15 maggio si dovette smettere ogni terapia senza per altro che il vomito cessasse.

Ricordo di aver detto a qualche mio parente che la settimana più brutta della mia vita è stata quella dal 10 al 17 maggio.

E il 19 maggio in um momento di crisi psicologica approfittando della venuta di mio figlio Gennarino mi feci dimettere dalla Clinica e rientrai a Porto S. Stefano.

Chiedo scusa anche in questa sede al Direttore Prof. Giunchi, al Prof. Avella, al Prof. Maddaluno, al Dott. De Simone e alla Dott.ssa Ciarla e ad altri di cui mi sfugge il nome per aver abbandonato la loro clinica in un momento di choc psicologico e li ringrazio per le cure che sapientemente mi prodigarono.

Ma occorre a questo punto precisare come arrivai alla fuga dalla Clinica.

Nella notte tra lunedì 17 e martedì 18 maggio avevo sofferto più del solito per il vomito ed avevo dovuto passeggiare a lungo nel corridoio del reparto.

C'era nella sala medica una statua della Madonna.

Tra le due e le tre le mie sofferenze erano divenute pressoché insopportabili.

Mi rivolsi allora alla Madonna chiedendole che se era venuta la mia ora ero preparato a ricercare la morte "corta e netta" come diceva il povero mio padre, se invece la mia ora non era ancora venuta - mi sarebbe piaciuto - che allora mi avesse concesso un po' di respiro e mi avesse alleviato le sofferenze.

Mi parve di udire nel mio inconscio una voce che mi diceva: tu stai bene, tornatene a casa.

E così fu infatti il 19 a mattina quando arrivò mio figlio Gennarino, tra la meraviglia dei compagni di corsia e la costernazione dei miei parenti romani: mio cognato Rinaldo e moglie Irene, mio cognato Franceschino, la moglie Therese e la figlia Maria Pia, mio fratello Gino, moglie e suocera.

Quando arrivai a Porto S. Stefano trovai mia moglie sul pianerottolo che mi ricevette sì a braccia aperte ma aveva il volto della disperazione.

Poco dopo venne il Dott. Birardi e, dopo aver esaminato il foglio di uscita dell'Ospedale, data l'azotemia notevole (più dell'1%) sconsigliò assolutamente la cura domestica.

Sentii letteralmente cadermi le braccia, perché ero convinto di aver ricevuto una grazia della Madonna.

Intanto mia figlia Beatrice era rimasta a Roma a casa di mio cognato Francesco. Le sue condizioni di salute, dopo le visite e l'inizio della cura, sembravano tornate alla normalità, Dio ne sia ringraziato.

 

La permanenza nella clinica universitaria era durata esattamente 20 giorni. Altri fatti degni di menzione, verificatisi in tale periodo, sono la conoscenza di un ebreo canadese ricoverato per epatite virale, la comunione presa a letto Domenica 2 maggio, la partecipazione alla recitazione del SS. Rosario la sera di Martedì, quando rimasi profondamente colpito dalla potenza martellante dell'ora pro nobis della litania in onore della Madonna.


Gennaro Di Jacovo

 

Fonte: http://ksantomo.blog.kataweb.it/, 8 febbraio 2006.

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