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Lucio e la tormenta


Il Corso di Capracotta sommerso dalla neve (foto: P. Dell'Armi).

Come ogni giorno Lucio, dopo essersi preparato adeguatamente per andare a scuola, uscì da casa con libri e panino sotto l'ascella (legati con un unico elastico) e si recò al forno di zio Pasqualino, luogo di raccolta degli studenti del quartiere di San Giovanni diretti a scuola ad Agnone. Appena giunto al forno, zio Pasqualino gli fece notare che quella mattina lui era l'unico studente presente e gli consigliò subito di tornarsene a casa, perché non aveva visto transitare nemmeno lo spazzaneve e, a suo dire, la corriera non sarebbe partita. Lucio, ascoltato il consiglio di zio Pasqualino, uscì dal forno convinto di tornarsene a casa. Appena fu sulla strada, vide la sagoma di un uomo arrivare dalla direzione del cimitero, di gran corsa, interamente ricoperto di neve. Avvicinatosi, riconobbe subito il suo giovane professore che stava tornando da una ricognizione a quel breve tratto di strada, appena fuori il paese fino al Casino, che lo invitò ad andare con lui, in macchina, ad Agnone.

Il professore, ricorda Lucio, quel giorno aveva lezione alla prima ora. Quel mattino, considerando la situazione climatica, si era alzato più presto del solito perché prevedeva che su quella strada, non sgombera dalla neve, avrebbe dovuto darsi da fare per giungere in orario a scuola. La notte aveva nevicato, ma non con abbondanza. Il tempo era alquanto grigio e variabile. Si alternavano brevi e veloci schiarite ad annuvolamenti con raffiche di vento che rendevano difficile la visibilità. Ma nel complesso il tutto non era poi così proibitivo. Si poteva tentare di andare.

Aveva montato in garage le catene alla sua Fiat 500, portava la pala nell'abitacolo, come sempre, pronta all'impiego in caso di necessità, abbigliamento da sciatore, si sentiva sicuro di affrontare un viaggio nella neve. Prima di avventurarsi con la sua piccola macchina, però, aveva ritenuto opportuno fare una veloce ricognizione sulla situazione neve. Lui conosceva bene quel luogo appena fuori il paese. Era insidioso poiché di solito presentava un accumulo di neve maggiore rispetto al resto della strada. Se la neve superava un certo limite con una piccola utilitaria non sarebbe stato facile "sfondare". Lui, per partire, doveva essere certo di farcela "con le sue forze", anche perché lo spazzaneve non era passato. Non poteva correre il rischio di rimanere "piantato" nella neve già dalla partenza. Sarebbe stato un comportamento da sprovveduti. Era andato, quindi, velocemente, aveva verificato, si era convinto che era possibile passare, ma con decisione, senza indugio. Il coraggio non gli mancava. E poi con la 500 si sentiva sicuro, era un mezzo eccezionale per viaggiare sulla neve. Era il suo cavallo di battaglia. Piccola, maneggevole, motore e trazione posteriore, era formidabile. Era leggera tanto che, se "s'imbarcava" sul gelo, non c'era pericolo che finisse fuori strada. Bastava un grumo di neve per arrestarla. Se si "piantava" adoperava questa tecnica. Ingranava la marcia (in avanti o retromarcia, secondo il caso), tirava l'acceleratore a mano, si metteva in piedi accanto alla macchina, con la portiera aperta, una mano sul volante e aiutava la piccola vettura spingendola con la spalla, appena ripartiva in un attimo vi saltava dentro, era un gioco, e tornava alla guida.

Lucio, 16-17enne, all'invito del professore ebbe un attimo di titubanza perché si rendeva conto che quel viaggio non sarebbe stato poi una passeggiata. Ma la proposta, anziché preoccuparlo, lo stimolava, rassicurato dall'abilità dell'autista, accettò anche perché pensava che, in alternativa al viaggio, quella giornata appena iniziata lui l'avrebbe trascorsa interamente in casa annoiandosi. Per giunta il professore l'aveva rinfrancato spiegandogli la consuetudine di Agnone dove, con la neve a terra, altri insegnanti e studenti non sarebbero arrivati a scuola, ne era certo, per cui, una volta posta la firma di presenza, sarebbero tornati a Capracotta.

Il giovane, alla luce di queste considerazioni, si convinse definitivamente e salì in macchina. Partirono "sparati" e la 500 con le catene sembrava uno spazzaneve. Con decisione, a strattoni e singhiozzi, superarono il tratto difficile appena fuori le case. Oltre la curva del mattatoio, le cose apparvero più semplici. Lì il manto nevoso non era omogeneo, ma sulla strada c'era tutta una serie di cumuli di neve, più o meno grandi, alcuni alti fino a un metro, intervallati spesso da tratti di strada completamente libera. Tante dune di neve, per lo più trasversali alla strada, che con un po' di velocità la macchina sfondava. Era proprio uno "sballo" passarci dentro, sollevare degli abbondanti sbruffi di neve che finivano sul parabrezza e che momentaneamente offuscavano la vista. Non si preoccupavano per nulla di quei blackout poiché sulla strada verso Capracotta non saliva nessuno. E chi altri poteva osare? La strada era tutta loro. La visibilità era alterna, a momenti appariva il sole, schiarendo, ma altrettanto in fretta si oscurava ed era veramente difficile scorgere la carreggiata. Ogniqualvolta, nei momenti di relativa calma in cui s'intravedeva un ostacolo, il professore, con una forte accelerata, costringeva la piccola autovettura a dei salti in mezzo ad una nuvola di neve. Mentre sui tratti di asfalto pulito si avvertivano le vibrazioni prodotte dalle catene montate sulle ruote. Circostanze che si ripetevano con frequenza e tutto ciò procurava ai due una sorta di euforia. Così, baldanzosamente, con continue accelerate e rincorse, sobbalzi e divertimento, avanzarono senza arresti. Pensavano che ce l'avrebbero fatta fino in fondo, ma il difficile sarebbe arrivato a metà strada.

Oltrepassate le masserie dei Di Menna avrebbero raggiunto la località detta Sbracia, dove l'accumulo di neve era sempre sovrabbondante. Era risaputo che quello era un punto difficile da superare, lo conoscevano bene. Il caso volle che proprio poco prima di giungervi vi fu un oscuramento totale. Una nuvola improvvisa, vento forte e un gran turbine di neve azzerarono completamente la visibilità. Erano come entrati "in un tunnel buio". Buon senso avrebbe voluto che si fermassero in attesa di una schiarita. Il conducente sentì la macchina un po' affaticata, era in sostanza già nella zona critica, troppo tardi per arrestarsi. Sapeva che proprio lì avrebbe dovuto dare la massima accelerazione alla macchina per sfondare. Pensò: «Se mi fermo da qui non riparto, o la va o la spacca» e andò deciso. Un po' come il saltatore in lungo che sta per staccare dalla

pedana e sente di non fare una buona prova, vorrebbe interrompere l'azione, ma è troppo tardi, vada come va.

Comunque Lucio osservò che il professore era in preda ad una sorta di eccitazione, lo intuì perché gli aveva suggerito scherzosamente di tenersi forte in previsione dell'ennesimo sfondamento. L'acceleratore schiacciato al massimo, un salto nel buio, e subito dopo... vuufff! Un tuffo nella neve soffice. La macchina sobbalzò, sollevò una grande nuvola di neve, poi si arrestò. Fermi. Divertito il professore, rise. Tutto era avvenuto secondo copione, tranne il risultato finale completamente diverso dal solito. La macchina si era impennata e al momento dell'atterraggio, si spensero motore, luci e tergicristallo rimanendo completamente immersa nella neve. Per Lucio seguirono attimi, se non proprio di sgomento, di qualcosa che sicuramente gli somigliava.

I due giovani, per quanto la macchina fosse infossata nella neve, ebbero difficoltà ad aprire le portiere, comunque uscirono e all'aperto si resero conto che la tormenta era aumentata. Il professore si allontanò di qualche metro in avanti per vedere qual era la situazione. Constatò che era impossibile proseguire. Un alto e lungo cumulo di neve sbarrava la strada. Allora, nel tentativo di riportare indietro la macchina, provarono ad aprire un varco verso il retro spalando la neve. Lucio con i piedi, il professore con la pala. Il loro lavoro era inutile perché il vento riempiva immediatamente il buco scavato. Vista la difficile situazione, in fretta e furia chiusero la macchina e ripresero la strada del ritorno verso il paese, ovviamente a piedi. Nella concitazione di quei momenti, Lucio lasciò dentro la macchina i libri, i quaderni e, con sommo dispiacere, anche il suo prezioso panino.

Con qualche difficoltà giunsero alla masseria del buon Amelio, che si trovava a circa un chilometro dalla macchina, sulla strada del ritorno, pensando che a lui avrebbero potuto chiedere la cortesia di telefonare a casa per riferire l'accaduto alle famiglie. I due furono accolti con immensa cordialità da tutta la famiglia di Amelio. Cortesemente chiesero di telefonare alle mamme che rassicurarono: erano appiedati, stavano bene, sarebbero tornati al più presto a casa. La signora Maria offrì loro di tutto; gli chiese se gradivano salsiccia, prosciutto, soppressata. Li invitò persino a rimanere a pranzo con loro annunciandogli un buon piatto di sàgne. All'offerta di tante genuine squisitezze il professore ringraziò e rispose che non si dovevano incomodare più di tanto, perché era bastata l'accoglienza già ricevuta e per il pranzo contavano di trovarsi alle rispettive case. In definitiva sostarono lì giusto il tempo necessario per telefonare e non consumarono alcun cibo, a causa dell'eccessiva discrezione del professore e dell'adolescenziale timidezza di Lucio. Lucio sospettò che il professore forse non era stato sincero a rinunciare a tante prelibatezze. Per quanto lo riguardava, essendo passata da parecchio l'ora in cui normalmente mangiava il panino e avendo sostenuto un notevole sforzo per raggiungere quel ricovero, gli si era svegliata una tale fame che a distanza di anni ancora ricorda. Comunque la sosta fu breve, salutarono e ripresero il cammino. Lucio, però, appena fuori la masseria non poté non rinfacciare al suo compagno di viaggio l'aver rifiutato tutto quel ben di Dio: lui volentieri avrebbe mangiato un bel piatto di sàgne, ed anche altro.

Quando furono sulla strada, notarono che la neve aveva smesso di scendere, mentre la bora continuava a tormentarli. Lucio ricorda che la parte superiore del suo corpo era sufficientemente protetta dalla giacca a vento, mentre quella inferiore soffriva le raffiche del vento. Forse anche per questo gli venne lo stimolo di urinare, ma temendo l'esposizione al vento e al freddo si guardò bene dal soddisfare il bisogno.

Arrivarono in paese intorno alle ore 12:00. Il professore ebbe appena il tempo di farsi vedere dalla mamma e tornò sulla strada per rendersi conto dov'era Clipper, che proprio in quel momento passò in direzione nord fermandosi alla piazza de re ferrieàre. Si accostò alla portiera dello spazzaneve e si fece notare dagli autisti, ze Cenzitte e ze Peppe. Disse loro che la sua macchina era ferma, nella neve, sulla strada per Agnone, giù verso Macchia. Lì stavano andando, lo fecero salire con loro nella cabina. I due anziani autisti di lungo corso erano a lui affezionati, affidabili, prudenti, ma alquanto timorosi sulla neve.

Da quel momento fino al raggiungimento della Macchia, circa 20 minuti di viaggio, lo sottoposero ad un insistente duetto di rimprovero:

– Tu sei pazzo! Come hai potuto azzardarti e metterti in viaggio con quel tempo!? – E continuando: – Ti rendi conto che tu hai messo in pericolo la tua vita ma anche quella di quel ragazzo?

E così, proseguendo, non ci fu spazio per interloquire o ragionare. Per loro uscire con una 500 in quelle condizioni era stato da pazzi. Il professore stretto nella tenaglia dei due vecchi autisti riuscì a dire:

– Se io con una scatoletta come la 500 sono riuscito ad arrivare laggiù, voi con questo bestione dove sareste arrivati?

Per il professore e Lucio il loro viaggio era risultato un gioco, in fin dei conti poi senza tanto rischio, uno sballo direbbe un giovane d'oggi.

Lucio intanto aveva raggiunto velocemente casa e si era precipitato al bagno per liberarsi finalmente del fardello che si portava dietro da parecchio tempo. Ma con grosso stupore, nonostante l'impellenza, non riusciva ad urinare. In sostanza si era congelato tutto. Quella manciata di minuti che durò il blocco, fu una grossa sofferenza. E benché la temperatura del bagno non andasse oltre lo zero, sudava preso dal panico. All'improvviso il liquido che tanto lo aveva tormentato cominciò a defluire dandogli una sensazione di benessere difficile da descrivere.

Spesso a Lucio è capitato di raccontare questa vicenda (verificatasi nell'inverno 1971-72) ai colleghi di lavoro i quali, non conoscendo a fondo l'elemento "neve", sono rimasti stupiti.

Da parte sua Lucio considera questo, tra gli episodi da lui vissuti durante i cinque anni da studente pendolare da Capracotta ad Agnone, il più avventuroso ed è quello più vivo nella sua mente, consapevole di aver trascorso alcuni momenti ad alto rischio.


Michele Potena

 

Fonte: M. Potena, Lucio e la tormenta, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. II, Proforma, Isernia 2012.

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