Sulla montagna di Capracotta ricoperta d'un interminabile bosco d'abeti, c'imbattemmo in un gruppo di ex prigionieri inglesi. Sentendoci nel bosco fuggirono con tintinnio di gavette. Noi dapprima incerti, per il colore intravisto delle divise e quel suono. Poi a ricercarli con pungente curiosità.
Apparve tra gli alberi una bassa costruzione simile a una cappella: dal tetto s'alzava un tenue pennacchio di fumo. Era, come apprendemmo poi, la cella abbandonata d'un romito, e in quella abitavano gli ex prigionieri. Li rassicurammo entrando; mostrammo loro, sulla cartina, il punto più vicino cui secondo la radio erano arrivate le loro truppe. Ma non comprendevano una parola d'italiano e non conoscevano l'uso della cartina. Avevano un aspetto dignitoso e mediocre, e noi ci meravigliammo quando uno, pesante di corpo, ringraziandoci nella sua incomprensibile lingua delle notizie, usò un'aria che indubbiamente era di degnazione.
– Che tono! – dissi.
– Sarà per scherzare – disse Antonio, ben lontano dal reale, come compresi tempo dopo – chissà... forse a causa della loro fuga di poco fa. È evidente, del resto, che qui li ha accompagnati l'umanità dei nostri civili, e ve li mantiene indifesi come bambini.
Ci fecero pena: uno specialmente, un rosso malcresciuto dal volto lentigginoso, che ci guardava con gli occhi spalancati e le labbra aperte, e quando chiedeva qualche spiegazione agli altri otteneva solo brevi risposte.
– Deve essere venuto su stentando, nella miseria di qualche sobborgo industriale – pensai – con quella carnagione scialba; poi l'hanno buttato ad agitarsi anche lui nella macina della guerra, di cui nulla capisce.
Simile a una foglia smorta che il tempo invernale abbia strappata al ramo su cui stentamente crebbe, il vento la rimescola alle innumerevoli altre, così egli si agitava in mezzo agli altri con inconsapevolezza.
– Se lo pigliano i tedeschi, quello sono capaci d'impiccarlo – disse Antonio – povero Cristo!
A Pretoro ci era stato detto che, essendo l'alto paese di Capracotta luogo di villeggiatura, v'avremmo trovato alberghi per riposarci.
Dei luoghi di villeggiatura aveva infatti la riduzione di tutto a superficie e la sgargiante monotonia. Per non molti giorni ancora, perché i tedeschi lo compresero nella fascia di terra bruciata antistante le loro linee invernali, e dentro pochi mesi del paese non sarebbe rimasta pietra su pietra. Ma gli albergatori, che in quei giorni ospitavano molti sfollati dalle città, si rifiutarono di riceverci. L'unico che ci ricevette, ben pasciuto, cercò sgridarci; gliene togliemmo subito la voglia, ma:
– È meglio la povera gente – dicemmo. – Dovevamo pensarlo che non ha niente a che fare con noi questo ambiente dalla stupida faccia compiaciuta, la quale si ripete in ogni parte del mondo.
Era come un viso grasso dipinto su un cartellone, che continua ad essere ottimista anche quando le crepe lo spaccano e va a pezzi, né può fare diversamente: derisore stupido e tragico di se stesso. Molti luoghi e classi di persone, nel mondo, sono oggi in una tale condizione.
Ce ne andammo nella parte più bassa del paese, dove le massicce casette molisane erano come dovunque.
Dormimmo per terra, in una cucina. Vi regnava un'incredibile sporcizia: grappoli di mosche erano appese al soffitto e ai muri. Ce ne caddero in faccia a manate mentre cercavamo d'addormentarci, e ci assalirono le pulci, e le ripugnanti cimici con le loro dolorose punture. Nella stanza vicina un maiale ogni tanto grugniva:
– Forse gli insetti danno fastidio anche a lui, povera bestia.
Il Molise, se per molti aspetti somiglia al generoso Abruzzo, per questo della sporcizia anticipa già le regioni con cui confina a mezzogiorno. Non scherzosamente prendemmo la cosa quella notte: ci irritammo e giungemmo a bisticciare per gli strappi che uno dava alla sordida coperta allorché gl'insetti più lo tormentavano. All'alba c'immergemmo nell'aria fredda, come in lavacro, lasciando indietro il paese con sdegno.
Eugenio Corti
Fonte: E. Corti, I poveri Cristi, Garzanti, Milano 1951.