Il santuario pagano di Capracotta sorgeva alle falde del Monte S. Nicola della Macchia, di 1.514 metri, a nord-est dell'abitato, terzo in ordine altimetrico dopo Monte Capraro di 1.741 a sud-ovest e Monte Campo di 1.745 a settentrione.
Il monte è costituito da strati sovrapposti di conglomerati di grossi elementi calcarei che, fratturandosi in un punto, hanno dato luogo a un lungo crepaccio ricoperto in parte da macigni provenienti dalla stessa frattura, tale da formare una specie di antro, la grotta di S. Nicola.
Scorre alle sue falde un torrentello chiamato Vallone del Cerro, alimentato dalle diverse sorgenti che affiorano qua e là per la costa, disseminata a sua volta da roccia e pietre di varia natura e da scaglie scabre nei terreni coltivati a grano e nei pascoli.
Lungo la costa che scende giù verso la valle del Verrino si notano gruppi di masserie abitate da pastori che allevano pecore, capre, mucche e da contadini che coltivano grano, granturco e legumi.
Fino alla Seconda guerra mondiale non vi erano vie di comunicazione, solo viottoli e strade di campagna; negli anni '50 è stata costruita una rotabile che, snodandosi lungo la costa, attraversa la contrada La Macchia, ricongiungendosi al bivio per Agnone, chiamato Guado Liscia.
Lungo questa rotabile, dopo aver superato una minuscola scuola tra le masserie e una casa diroccata, si apre a destra una strada di campagna, ora asfaltata, che scende giù per due o trecento metri fino al luogo del ritrovamento della Tavola di bronzo, luogo chiamato Fonte del Romito.
Sarebbe opportuno segnalarlo con qualche cartello stradale a chi avesse voglia di soddisfare la propria curiosità archeologica, ma sarebbe cosa lodevole se fosse intrapreso in questa località un piano di scavi come è stato già fatto nella vicina Pietrabbondante.
Il sottoscritto vi si è recato due volte, ma la sua curiosità non è stata soddisfatta a causa dell'indifferenza e dell'evidente fastidio manifestato da quei contadini. Ha potuto soltanto dare uno sguardo al luogo e ricostruire il santuario pagano delle divinità italiche che ivi sorgeva, aiutandosi con la fantasia.
Eccolo! In mezzo a un "recinto sacro" che ne delimitava l'area, sopra un podio abbastanza elevato s'innalzava un edificio quasi quadrato, dall'aspetto piuttosto tozzo e pesante con un pronao molto profondo, con due file di quattro colonne terminanti in tre intercolumni. Quello centrale era più largo, in corrispondenza delle tre celle destinate ciascuna a una triade di divinità.
Il tetto a due spioventi sporgeva assai sui quattro lati; elementi ornamentali si sovrapponevano al colmo dei frontoni e lungo le estremità superiori dei cornicioni.
Le tre celle principali erano occupate dalle divinità della triade osca, mentre i simulacri delle altre dodici erano ben disposti all'intorno. Il rito culturale era comune e si svolgeva ogni due anni.
Fuori del recinto altri altari portatili, utilizzati per sacrifici singoli e non periodici a tutte le divinità collocate nel tempio e alle divinità "floralie" che non avevano dimora all'interno del santuario.
Pendeva ben visibile da un arco una targa di bronzo, opistografa, incisa cioè su tutte e due le facce, che attestava nella faccia A l'atto costitutivo del culto alle 15 divinità e nella faccia B la regolamentazione dello stesso culto, stabilendone i riti, i sacrifici, le offerte.
La Tavola di bronzo era quindi il documento che sanciva la sacralità del luogo, la legittimazione e la modalità del culto.
All'interno del tempio le nicchie centrali, riservate alla triade osca, erano occupate da Kerry, Euklo, suo sposo, e da Futra, sua figlia.
La triade osca corrispondeva alla triade romana Cerere, Liber e Libera, e alla triade ellenica Demetra, Ade e Core (il riferimento a divinità greche e romane ci aiuta a capire il sentimento religioso delle società primitive, le cui divinità presentano forti analogie).
Kerry era la divinità principale, patrona della fecondità dei campi e, a Roma, protettrice dei morti. Come tale, aveva strettissimi rapporti di analogia con Tellus (la madre terra) e rappresentava con lei due aspetti della medesima divinità: la vita e la morte, come la terra da cui nasce la vegetazione e in cui giacciono i morti. Essa infatti apriva e chiudeva il ciclo vitale, consentiva l'uscita dal proprio seno di tutto ciò che vive e vi raccoglieva le spoglie di ogni essere dopo la morte. A Roma le venivano sacrificate sia la porca praecidanea, scrofa uccisa prima della mietitura a scopo propiziatorio ed espiatorio per eventuali trasgressioni alle pratiche dovute ai defunti, sia la porca praesentanea, uccisa in presenza del cadavere come offerta funeraria.
Euklo (da Eulos, il Dioniso italico o Bacco) è il dio padre, il seme, l'elemento maschile nella fecondazione, che compendia sia la realtà della vegetazione nei suoi momenti di vita, morte e rinascita, sia le componenti drammatiche dell'esistenza umana che possono riflettersi in quel ciclo.
Futra, la figlia, la fanciulla divina, è la dea suscitatrice dell'amore, stimolatrice dei desideri erotici, delle voluttà e dei piaceri dei sensi.
Nella prima fila delle quattro colonne a destra troviamo sei divinità minori, collegate alla triade per il loro rapporto con la fecondità, la maternità e la crescita:
Anterstata, la dea con funzione di levatrice, assisteva nel momento del parto sia gli uomini che gli animali;
Amma, che proteggeva l'atto della fecondazione, quindi la maternità, il cui culto molto antico nell'area italica (Falisci, Etruschi, Osci) fu introdotto anche a Roma prima della cosiddetta riforma etrusca che istituì la triade capitolina Giove, Giunone, Minerva. Amma presiedeva alla regolarità del ciclo mestruale che quasi ovunque fu collegato col ciclo lunare. A lei si sacrificava la capra;
Diumfais, le ninfe delle sorgenti in particolare, ma anche delle montagne, degli alberi, dei campi, immaginate come fanciulle di particolare bellezza, che facevano innamorare i sileni, gruppo di itifallici danzatori, legati al mito di Euklo, il Bacco italico;
Liganak, la dea che rende sicuro il possesso dei campi;
Anafriss, i geni del mattino o, secondo altri, gli astri celesti (sole e luna) che determinano le variazioni meteorologiche che sono alla base della vita vegetale;
Maatua, gli dèi che i Romani chiamavano Mani, gli spiriti degli antenati, che solevano vagare sulla terra per proteggere la loro discendenza;
Dall'altro lato, a sinistra, apriva la seconda fila Vezke (da vescor), una divinità italica che simboleggiava l'atto e l'effetto della nutrizione (è la prima divinità riportata nella Tavola, ma io l'ho immaginata al posto d'onore accanto alla triade).
Seguivano due simulacri dedicati a Giove, la divinità del cielo e della luce, come dice il suo nome, derivato dalla radice indoeuropea djeu (risplendere, folgorare). Faceva parte del comune patrimonio mitico delle stirpi indoeuropee, prima che esse si dividessero e procedessero, in più progrediti stadi di cultura, all'elaborazione di distinte mitologie nazionali:
Diuve Verehasio, dio cielo irrigatore, signore dei fenomeni atmosferici, da lui si implorava la pioggia; al principio della seminagione si offriva un banchetto (daps);
Diuve Regatureo, dio-cielo promotore della forza vegetativa ed elargitore dei beni della terra.
La tredicesima divinità è Herekle (Ercole), l'eroe divino la cui immagine rispecchiava quella del greco Eracle, collegata però nel nostro tempio alla figura di Cerere, in quanto rappresentava la fatica nel lavoro dei campi e la forza con la quale difendeva gli uomini da tutti i malefici e le ruberie. Infine:
Patana (significa "apertura"), la dea preposta a far germogliare le spighe e aprire i baccelli;
Deivai Genetai (Mana Genita dei Latini), i geni della virilità, che rappresentavano la divinità del sesso, solo fisicamente inteso presso le società primitive, in quelle più evolute come il nume del pater familias che dà origine alla tribù. Il culto del sesso era diffuso ovunque anche in Italia. S. Agostino, riprendendo una notizia di Varrone, racconta che nell'antichissima città di Lanuvio al tempo delle feste dedicate al dio Libero si portava in giro il simulacro di un fallo che poi veniva coronato da una matrona.
Presso il recinto sacro si svolgeva un ciclo rituale, su altari portati lì, riservato alle divinità sopra elencate e a Flora, dea della vegetazione primaverile, in particolare del grano nascente. Il rito consisteva in giochi e spettacoli osceni, destinati a favorire la fertilità della terra, accompagnati da lanci di fave, vecce e lupini. Collegate a Flora:
Perna, l'antica Pale dei Romani, la divinità dell'allevamento degli animali, nella cui festa i pastori e il bestiame si purificavano saltando tre volte attraverso fiamme di paglia ardente;
Amma, la dea della maternità;
Euklo, dio padre, il seme, l'elemento maschile nella fecondazione, il Bacco italico.
Questa è la mia ricostruzione immaginaria del santuario pagano di Capracotta: nel raffigurarlo ho tenuto conto sia delle linee strutturali architettoniche del tempio etrusco e italico codificate da Vitruvio, sia delle notizie ricavate dalle ricerche degli studiosi sulla Tavola di bronzo, di cui diremo nel capitolo seguente.
Evidentemente la descrizione del tempio italico è immaginaria, data la scarsa disponibilità di reperti architettonici, ma se ulteriori ricerche e scavi faranno parlare quel territorio, riportando alla luce qualche brandello di muro o pezzo di fondamento o qualcosa d'altro, allora sì che potrà essere ricostruito il tempio delle 15 divinità. Per ora dobbiamo accontentarci di qualche notizia ricavata dalla stessa Tavola Osca, la quale ci parla di un orto che, secondo il Mommsen, doveva essere non un semplice giardino ma una "villa divinizzata". Potrebbe trattarsi quindi di un boschetto sacro, ben delimitato, entro il quale vi erano gli altari (stazioni = statif in osco) alle 15 divinità.
Vittor Pisani ha pensato alle stazioni della via crucis del culto cattolico, il che potrebbe essere verosimile.
Anche noi quindi, con ragioni ben più fondate, possiamo immaginare questo luogo sacro come un hortus, ovverosia un boschetto con un recinto che delimita la sacralità dell'area, entro cui una sorgente zampillante tra le rocce (la Fonte del Romito), irrora le diverse antiche piante, anch'esse sacre, sotto la cui ombra gli altari delle divinità agresti e pastorali troneggiavano per ricevere le vittime e le offerte dei sacrifici.
Per meglio definire questo luogo sacro mi viene in mente, senza voler essere irriverente, l'espressione biblica dei Cantici: «hortus conclusus, fons signatus»; orto chiuso, giardino consacrato alle divinità, il cui recinto segnava il confine tra il sacro e il profano; fonte sigillata, le cui acque erano riservate a ristorare i fedeli delle 15 divinità.
Antonio De Simone
Fonte: A. De Simone, Il Sannita: il coraggio di un popolo, L'Autore Libri, Scandicci 2009.
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