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Tabula Anglonensis: la storia del mito


Ersilia D'Onofrio ed Erasmo Amicarelli.

1. Il ritrovamento

Non sarei qui a raccontare, se non fosse per quell'originale di mio genero. Quando insiste, quel ragazzo, non so mai metterlo a tacere.

E forse non ha mica tutti i torti, dal momento che, senza colpa, nato innocente come tutti i bebè del mondo, mi trovai a vivere una vicenda la quale, a pensarci ora, alla mia età, non posso che credere imprevedibile e rara.

Il fatto cominciò dalle mani grosse di un contadino di duecento anni fa, il quale, per onestà o ignoranza, riferì al suo padrone di aver trovato, nelle terre in cui gli aveva dato il compito di lavorare, uno strano oggetto che il destino volle fosse poi conosciuto da storici, archeologi e periti museali, ma il quale, vi meraviglierà, posso ancora sfiorare con le mie mani, duecento anni dopo, seduto comodamente a casa mia.

Il nome del bovaro o contadino o bifolco, come direbbero alcuni storici, pare fosse Pietro e dico pare perché in questa vicenda si è messo in dubbio ogni evento e ogni persona che ne prese parte. L'immaginazione ha teso trappole a studiosi e curiosi - me compreso - tanto che, ad oggi, pare non vi sia certezza di nulla, nemmeno del nome di un bovaro o contadino o bifolco.

Ma io ho maturato la certezza che Pietro sia esistito, che il suo cognome fosse Tisone e che, senza di lui, anni e anni di studi, errori ed equivoci non si sarebbero mai compiuti.

Povero Pietro, probabilmente, se avesse avuto idea di quanto sarebbe seguito dalla propria scoperta, si sarebbe sbarazzato subito di quanto aveva trovato.

Era il marzo del 1848, anno bisestile, per questa ragione forse già guardato con sospetto dalla popolazione più scaramantica, anno di rivolte e insurrezioni, quelle che portarono alla concessione delle prime carte costituzionali nei Regni allora presenti in Italia e nello Stato Pontificio; l'anno delle cinque giornate di Milano, delle dichiarazioni di guerra all'Austria da parte del Regno di Sardegna, delle rivolte del popolo che a Roma assediò il Quirinale chiedendo a gran voce uno stato laico, della fuga del Papa sotto mentite spoglie con l'aiuto degli austriaci; l'anno dell'insediamento al trono d'Austria di Cecco Beppe, il quale è certamente più noto oggi come Franz e per essere stato lo sposo della tanto compianta Principessa Sissi.

Del fragore di questo anno, a Pietro Tisone probabilmente arrivò molto poco. Viveva a Capracotta, nello Stato Pontificio, villaggio di montagna a 200 km ad Est di Roma, distante almeno 70 km dall'Adriatico e a 1.421 metri sul mare. Piccolo agglomerato dell'Appenino, freddo d'inverno e fresco e piovoso d'estate, era sorto in epoche storiche remote, dopo le fughe di popolazioni italiche che avevano cercato scampo dalle persecuzioni romane e dalle guerre tanto vicine ai grandi centri abitati. Luogo prezioso perché difficile da raggiungere, nascosto e privilegiato, complicato da vivere in certi periodi, ma rifugio sicuro, riparato dai nemici e probabilmente anche dalle stesse notizie dei nemici.

Sto divagando, ma spero possiate comprendermi e perdonarmi.

Io, durante tutta la mia vita, non avendo notizie storiche certe di alcuni fatti, ho potuto solo perdermi nella fantasia, cercando di puntellarla con le verità storiche scolpite nei libri che conoscevo. Ma i fatti storici, benché necessari per la coscienza di un Paese, sono fatti, liste di eventi, date, sotto la cui mole l'uomo comune spesso scompare, nonostante ne sia stato artefice, vittima e protagonista. E l'uomo lo ritrovavo, io, nei racconti della mia famiglia, nell'immaginazione di bambino e di adulto. Poi, alla mia età, devo riconoscere che il passato di tutti, anche quello personale, privato, si rivesta di un mantello di fantasia che ce lo fa apparire certamente più accattivante, non sempre bello, ma più intenso nelle cifre dell'amore e della sofferenza. Tutti noi abbiamo provato l'esperienza del fratello o dell'amico che smentisce i nostri vivissimi ricordi di sensazioni esageratamente positive o negative di un qualche fatto del passato. Di fronte al medesimo evento, l'immaginazione di ciascuno di noi orchestra una quantità di sensazioni tali da rendercelo più prezioso, privato, menzognero, ma nostro.

Così, di Pietro, per restituirgli l'umanità che i fatti storici gli avevano espropriato, immaginavo si alzasse ogni mattina allo spuntare del sole per controllare il tempo e capire se fosse giornata buona o giornata storta, giornata di lavoro o giornata di attesa senza compenso; immaginavo avesse una moglie e uno stuolo di figli, immaginavo che ispirasse buona fede, che fosse un trentanovenne solido e ben piantato, come si richiedeva a un contadino della sua età, che conoscesse come ripararsi dal freddo gelido di quelle montagne d'inverno e come far fruttare quelle terre d'estate; immaginavo fosse severo con i figli e timorato di Dio lo stretto necessario a non farselo nemico, purché li salvasse sempre tutti dalle malattie; immaginavo che i suoi figli lo guardassero con occhi sgranati ogni qualvolta riuscisse a portare a casa qualcosa di diverso dal solito, che fosse una lepre, una volpe o una tavola di bronzo del 200 a. C.

Ancora oggi, io vedo Pietro entrare in casa con questo fagotto, poggiarlo sul tavolaccio della cucina, quella con il focolare e una pentola in cui bolliva la solita minestra di ceci dei tempi magri.

«E che hai portato?» gli aveva chiesto sua moglie.

«Ma sai che non lo so?» aveva risposto lui.

«Come, non lo sai?» gli aveva risposto lei a sua volta, facendo la solita faccia sospettosa di chi si attenda una battuta delle sue, una sciocchezza da uomo di buon umore, grazie a Dio.

Nel frattempo il resto della famiglia aveva fatto presto a radunarsi al tavolaccio dalle due stanzette contigue alla cucina. La figlia maggiore era tornata a rimestare la minestra, unica della famiglia autorizzata a quel compito dopo sua madre, benché il privilegio non le riconoscesse mai il diritto a chiederne una porzione più abbondante degli altri.

«Ma cos'è?» riprendeva sua moglie.

«Ma se ti ho detto che non lo so! L'ho trovata stamattina mentre scavavo vicino alla maceria per buttarci le pietre vecchie. È curiosa, vero?»

Tutti equamente analfabeti nella casa di Pietro, di fronte a una lastra di bronzo incisa con strani caratteri, non ne avrebbero inteso il senso nemmeno se i caratteri fossero stati quelli insegnati sui banchi di scuola.

«E il padrone?» aveva ripreso la moglie, adombrandosi alla notizia che la lastra provenisse dalle sue terre.

«E il padrone non lo sa.»

«Come, non lo sa?»

«Glielo dirò domani, ora sono stanco.»

«Che testa che hai! Dovevi dirglielo subito, dargliela subito! E se ora cade e si rompe?»

Pietro rise:

«E se si rompe non l'avrà. Nemmeno sa di averla mai avuta!»

«Tu ci manderai tutti all'elemosina! Vedi di andare a portargliela domani, appena sveglio. Che poi, vai a sapere, magari è di qualche morto e ci porterà sciagura.»

«Ma quale morto…»

«E che ne sai, tu? Forse dove hai scavato tu c'è un cimitero antico. Per quanto è brutta non è una cosa che una donna avrebbe voluto tenere in casa» e così via...

La mia fantasia di bambino prima e di adulto poi proseguiva di volta in volta complicando a piacimento la conversazione e i suoi possibili partecipanti.

Di fatto, sappiamo con certezza che Pietro rese la tavola al suo padrone, tale Giangregorio Falconi.


Paolo Amicarelli


 

Fonte: P. Amicarelli, Tabula Anglonensis. Una ossessione di famiglia, Vimercate 2023.

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