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Il territorio di Capracotta: periodo dei primi Borboni (II)



Erano quetati appena i litigi ducali e vescovili quando un altro ne sopraggiunse nel 1751 con gli Abati di Monetecassino, sostenendo l'Università di competere ai suoi cittadini i pieni usi civici sul feudo di Vallesorda, e quindi non averne il Monastero la libera disponibilità, di che il monastero si schermiva trincerandosi nell'eccezione d'averne fino allora liberamente contrattato le locazioni con gli stessi cittadini, e doverne restare quindi nell'illimitato possesso. Il Sacro Regio Consiglio nel 1755 gli dette ragione. Ma, a complicare il giudizio di merito, nel 1773, sorse altra questione sul confine, che il Monastero sosteneva stendersi assai più presso all'abitato entro un'ampia striscia di territorio che l'Università a sua volta considerava quale pubblico Demanio (Contrada Pietralearda, Fossate piccole, e tutto dalla Fonte dei Cimenti al disotto delle Sorgenti del Verrino) e quindi perizie, rilievi e discussioni innanzi al S. R. Consiglio il quale, come di consueto, menava i giudizii per le lunghe, specialmente poi se si trattava di urtare suscettibilità di Baroni e d'Ecclesiastici. Il lembo di territorio in contestazione fu rilevato in pianta topografica per l'Università del perito Agrimensore, Michele Della Croce da Agnone e da essa emerge che l'estensione di quel lembo era di 758 tomoli locali, e il resto del Monastero di 1.058 tomoli. In complesso 1.816 tomoli (446 ettari circa).

Della lungaggine della lite dovettero rimanere infastiditi gli stessi Abati, perché in conclusione risolsero di concordarsi coi capracottesi mettendo al sicuro un reddito all'Abbazia, ed infatti con istrumento rogato dal Not. Fortunato di Napoli del 20 Giugno 1781 intervenne pel Monastero il R. Padre Giustino Lamberti e per l'Università il Sig. Francesco Falconi, all'uopo delegati, col quale la vertenza si chiuse con l'obbligo assunto dalla Università di pagare al Monastero un annuo canone di ducati 80 (£. 340), lasciandosi libera l'Università nel possesso e godimento del feudo e lasciando impregiudicate le questioni sulla natura della proprietà e sui diritti di ciascuna delle parti su di essa.

Noto come io trovi alquanto incomprensibile che nell'Onciario ossia Catasto compilato nel 1743, la estensione del territorio del Monastero sia riportata per tomoli 484. Forse questa era la sola parte coltivata.

Ho accennato a molestie inflitte all'Università in quei tempi pel contributo di soldati alle milizie. In verità per antica avversione a qualsiasi forma di coscrizione obbligatoria sono stato alieno da indagini di tal genere. Posso quindi riferire soltanto che il governo della Vice-reggenza spagnola aveva istituito i Battaglioni in numero di dodici; ossia che ogni Provincia doveva darne uno.

Nell'insieme formavano un contingente di 21.200 uomini. Carlo III ne cangiò la denominazione in Reggimenti provinciali; e, con Decreto 17 Gennaio 1743, ordinò che a comporli, ciascuna Provincia dovesse provvedervi con un numero prestabilito di soldati, ed ogni Provincia dovesse prescrivere il numero dei militi che ciascuna Università doveva eleggere.

Capracotta fu chiamata a trovarne quattordici, dovendo escluderne ogni specie d'ecclesiastici, di nobili, di locati, di addetti alla pastorizia, di professionisti, di studenti e di non so quale altra classe privilegiata. Or figuriamoci in quale imbarazzo si trovasse l'Università in questa ricerca qualificata elezione, e quale malcontento si ingenerasse nei militi designati e nelle loro famiglie specialmente allora che il servizio militare durava dai 5 agli 8 anni.

Peraltro quei tali vantaggi economici ricavati dai nostri antichi dalla cura delle greggi, come mi lusingo d'aver messo in chiara luce, nell'antecedente periodo, si protrassero ancora nel restante corso del 1700. Ne attesta la fermezza degli amministratori dell'Università nel sostenere le molteplici contese innanzi riferite, e lo confermano i fatti ch'essi, dopo aver liberata la Università nel 1716 da un debito di 500 ducati contratto nel 1660 con Tommaso Marchesano Barone di Casteldelgiudice, non soltanto non ebbero più debito alcuno, ma non gravarono d'imposizioni di sorta il popolo concittadino. Nel Luglio del 1739 riscattarono presso il Monte di Pietà di Napoli il debito che il Duca vi aveva contratto, vincolando il reddito di annui ducati 287,50 di fiscali ch'egli doveva esigere dall'Università stessa, e che capitalizzato al 100% importava almeno il pagamento di 7.187,50 ducati (£. 30.546,85).

Concorsero nel 1725 alla fondazione o rinnovazione del Seminario di Trivento con 700 ducati per avere la possibilità di farvi istruire giovanetti da avviare al ministero ecclesiastico. È rimarchevole poi anche qualche circostanza di ordine morale. Valga ad esempio che, percorrendo pagina per pagina i Registri parrocchiali dal 1644 a tutto il 1700, non è segnata che una sola morte per delitto - in quei tempi che il farsi giustizia con le proprie mani era assai frequente -, scarsissimi i nati, illegittimi.

La più rilevante manifestazione delle disponibilità accumulate in quei tempi si riscontra nel concorso degli Enti costituiti e della popolazione alla restaurazione della Chiesa. Non ci restano documenti da cui desumere la spesa che essa assorbì, ma che nessuno può dubitare di essere stata ingente per la gran mole dell'edificio e l'accuratezza con la quale fu ricostruita. Non si sa altro se non che l'altare maggiore, con la balaustra del presbitero e gli stipiti con gli archetti di ingresso al coro retrostante, costò 540 ducati senza quanto occorse a trasportarne i pezzi da Napoli, allora che non c'erano rotabili, e per metterli a posto nel 1754. L'artefice che lo fornì fu Biagio Salvati. Si sa pure che la campana maggiore fu rifusa nel Giugno 1726 da tal Domenico De Francesco di Guardiaregia con la spesa di 65 ducati, più vitto, alloggio e donativi di metalli preziosi, come è uso in simili circostanze nei nostri luoghi.

Ho già detto che il popolo non era gravato d'alcuna imposizione oltre quella governativa del focatico. La finanza dell'Università si reggeva principalmente sui provventi del pascolo degli animali sul territorio, piu precisamente sulla parte costituente il demanio comunale. Un tratto di questo, tutto saldo e boscoso, cioè Difesa, Guardata e Stocco a nord dell'abitato era riservato al bestiame grosso.

Tutto il restante al libero spandersi del bestiame minuto. Questo a sua volta era ripartito in sette corpi demaniali, ciscuno suddiviso in parti capaci di nutrire una morra di 300 pecore, denominate àniti. Se ne lasciava qualcuno alternativamente ogni anno per difesa dei bovi aratori, e c'erano spazi destinati alle pecore di piccoli possidenti, di quelle che servivano per l'alimentazione quotidiana e ve n'era anche per una mandra di porci. Perché non v'era famigliola che nella buona stagione non avesse un maiale da ingrassare e v'era un apposito guardiano che al mattino li accoglieva tutti in un recinto, quindi li menava al largo a pascere o a diguazzare nella mota fino a qualche ora innanzi al tramonto, che li riconduceva alle porte del paese e quindi li lasciava liberi, ed era curioso vederli correre difilato alle case ove li attendeva il pastone preparato dalle povere donne reduci anch'esse dalla campagna. Ora il porcaio pubblico non c'è più e credo sia un male.

Non sarà fuor di luogo pertanto di trascrivere il Bilancio della Università del 10 Ottobre 1741 quale trovasi inserito nella Pandetta nuova n. 9158 presso il Grande Archivio di Stato a Napoli, cioè lo Stato discusso presuntivo, compilato dagli amministratori il 12 Settembre 1741, come fu modificato dalla Ruota presso la Camera della Sommaria.

Di questo magro bilancio dunque ben 960 ducati erano assorbiti dal Duca e 510 andavano al fisco. Ma altre passività erano state messe in previsione, che la Ruota della Sommaria volle sopprimere. Principalmente 35 ducati dovuti, per un biennio per l'ultimo Donativo a Sua Maestà, che la Sommaria prescrisse dovessero tassarsi ai ricchi: altri 72 ducati pel Tabacco fornito dalla R. Corte che ordinò mettersi a carico degli usufruenti: altri 24 ducati pel Corriero o Procaccio; 5 ducati per l'Ospedaliero; 4 ducati pei numeratori dei fuochi e del bestiame; altre piccole somme che la Sommaria credette conglobare tutte nei 110 ducati di spese straordinarie, tra cui anche i sei ducati che si pagavano alla Cappella del Crocefisso e Carmine in Canosa di Puglia pel riservato diritto di seppellirvi i morti. La Sommaria inoltre riservò l'approvazione definitiva alle entrate dai Corpi demaniali, prescrivendo che si aprisse prima la gara per trovare il migliore offerente.

Frattanto l'accrescimento della popolazione, le difficoltà del commercio e degli scambi avevan portato di conseguenza nel 1600 e 1700 il moltiplicarsi della coltivazione dei terreni, in crescente contrasto con la grande pastorizia. Però la cultura si restringeva a pochi cereali ed alcune leguminose più adatte al clima. Provvidenzialmente invalse l'usanza di seminare alternativamente le terre di un intiero quartiere che dicevasi pieno, lasciando incolti per un anno gli altri che dicevansi vacanti, come tuttora benché tanto differentemente. Ma anche i quartieri pieni dopo la messe erano lasciati liberi alla pastura. I coltivatori dunque non avevano che l'uso della semina biennale del terreno impreso a coltivare, ma il diritto di pascolo restava alla comunità non appena avvenuta la raccolta del prodotto (sectis segetibus, come si disse in linguaggio forense). La facoltà dell'uso ritornava dopo l'anno al coltivatore stesso. Avvenne col tempo che, sia perché le terre di fresco dissodate davano miglior prodotto, sia perché le bocche crescevano, incominciarono nel 1700 a sollevarsi questioni pel soverchio dilatarsi delle dissodazioni, tanto che il Duca e l'Università stessa impresero ad opporvisi emanando ordini in proposito, impedendo principalmente lo stendersi della zappa e dell'aratro in prossimità dei jacci, ossia larghe giacende fisse del bestiame.

Coloro inoltre che avevano intrapreso a coltivare terre più lontane dall'abitato cominciarono a fabbricarsi ricoveri, trulli e case coloniche, per la necessaria ed immediata assistenza. Il Duca stesso, la Cappella di S. Maria di Loreto avevan consentito questi fabbricati in fondi loro, essi con altri pochi privati pagarono perciò la Bonatenenza.

Avveniva però, e non di rado, che, quando il quartiere pieno era devastato dalla grandine o da contrarietà per intemperie, siccità ecc. i coltivatori restasssero senza grano, e il paese risentisse della carestia. Sorse così in un nostro concittadino il proposito di rimediarvi col disporre di tutti i suoi averi per fondare un Montefrumentario, ed a questa fondazione provvide con testamento rogato dal Notar Persico in Napoli del 7 Dicembre 1791. Di essa ricorderò le vicende nel periodo successivo.

E non sarà superfluo annotare ancora come lo spirito che tenne vivi i contrasti avverso ai feudatari, Duca, Abate di Montecassino, Vescovo, in tutto il secolo XVIII, rivela come anche nei nostri piccoli e remoti paesi covasse quel fermento contro la tirannia feudale e clericale, non che contro lo stesso potere regio impotente a frenarla, fermento che, come è noto, portò alla Rivoluzione francese.

Le conseguenze di questo, peraltro, non giunsero immediate a noi: gli stessi avvenimenti caotici della Repubblica Partenopea, la quale frammezzò per poco il regno di Ferdinando IV, non arrecò nella nostra regione altro mutamento fuorché la riannessione dei nostri territori all'Abruzzo. Infatti, con legge del 9 Febbraio 1799 l'antica circoscrizione di Bovianum vetus fu ricostituita e ribattezzata col nome di Cantone, capitale Agnone; e questo Cantone fra i diversi che componevano il Dipartimento (ossia Provincia), fu compreso nel Dipartimento di Lanciano che ne fu creato capoluogo.

Non mancarono peraltro episodi memorabili, perché le voci di libertà e d'eguaglianza, sparsesi specialmente con l'avvento della Repubblica Partenopea, furono accolte non senza entusiasmo in parecchi comuni della nostra Provincia: in quasi tutti esso assunse una certa forma concreta in un promettente simbolo, cioè nel piantamento di un albero sulla maggiore piazza o sull'ingresso dell'abitato, che fu detto albero della Libertà. Sugli eventi di questa manifestazione, sugli episodi di quanto d'eroico e d'inique persecuzioni, di nobile e d'infame, di comico e di orrendo avvenne nel corso del 1799 in Provincia raccolse gran numero di vive memorie il compianto amico, paziente raccoglitore di frammenti e di cronaca e di minuti ricordi, Alfonso Perrella in un volume stampato a Caserta nel 1900 (Tip. Majone) al titolo "L'anno 1799 nella Provincia di Campobasso".

Ma quel nascente entusiasmo fu presto ammorzato presso il popolo, già di per sé scettico per l'antico e perseverato servaggio, dalla mvadenza francese venuta quasi ad imporre con la forza le parole di eguaglianza, libertà, fraternità; e dalla eterna prepotenza militare. Non era ancora proclamata la republica (proclamazione avvenuta il 22 Gennaio) che già si sparpagliavano ordini minacciosi alle popolazioni per rifornire di tutto le rapinatrici soldatesche francesi, le quali, dopo aver bene smunto lo Stato Pontificio, venivano a depredare il Napoletano.

Il Perrella riporta molti degli ordini perentori emanati, specialmente da Isernia dall'incaricato delle forniture, tal Vischi, alle amministrazioni del Circondario. Capracotta, come si è detto, chiuso nel dipartimento abruzzese, ne ricevette dall'Uffiziale fornitore De Luca da Casteldisangro; ed il 3 ed il 12 Gennaio dovette spedire ivi, per le truppe francesi accasermatevi, 27 tomoli di grano (ettolitri 16) prosciutti e salumi cantaia 2.112 (quintali 2,30); 26 rotoli e mezzo di formaggio, ed un quintale circa di sale, danaro ducati 97.

Pochi giorni appresso, il 18 Gennaio nuovo ordine di spedire statim et illico altri 100 tomoli di grano (50 ettolitri ); 12 cantaia di cacio (quintali 11); 15 cantaia di prosciutti e salami (quintali 13 1/2); 100 tomoli di orzo (60 ettolitri con la misura a mezzetto colmo); 100 quintali di fieno, 10 porci vivi e grassi, 2 vacche o buoi e persino un altro cantaio di sale come se Capracotta fosse stato Castrovillari! E bisognò striderci (come dice il Giusti)! Fu proprio il caso della canzonatoria canzone napoletana: "Egalité, fraternité, spogliate tu e viéstem'a mme".

Non è tutto. Come sempre avviene nelle turbolenze, presto vennero fuori quelli che ne profittavano. E gli amministratori del Comune il 24 febbraio eran costretti a deliberare «che atteso i cattivi esempi di saccheggi avvenuti a queste vicine popolazioni da persone che sotto pretesto di Leva in massa vanno saccheggiando le famiglie» si rendesse necessario formare una Ronda armata con un salario di carlini 3 (£. 1,27 1/2 argento) a persona ripartita in due Corpi di Guardia. La scelta dei componenti farsi dai Sig. Gerardo Conti, Diego Di Ciò, Giuseppe Mosca, Vincenzo Santilli, Delegati a comandarli.

Contemporaneamente avvenne che, sia pel disgusto dell'intervento francese, sia per coloro che avevano interesse di restare con l'antico regime, sia per arginare il malandrinaggio, molti si sollevarono contro il nuovo ordine di cose: e costoro furono detti Insurgenti. Queste altre compagnie armate furono dette di Leva a massa. A capo di queste fra gli altri nell'Abruzzo stette il generate Giuseppe Pronio. E fu un nuovo guaio. Perché anche queste milizie composte dì gente d'ogni risma e d'ogni conio, comparvero il 14 giugno fra noi, guidate da tal Francesco Fantini da Villa Santamaria, ed il 6 Luglio, chiedendo esse cavalli e vettovaglie, furono invece accontentate con danaro. Fu deliberato di mandare messi al Ministro Plenipotenziario, residente in Lucera, Antonio Micheroux, per esporgli questi inconvenienti; e, messi, furono inviati Nicola e Felice Di Rienzo; Sindaco era Savino Venditti. Il Presidente della milizia in Lucera provvide nominando a colonnello il Dott. Diego Di Ciò, a comandante maggiore il Sig. Gerardo Conti, il Dott. Giuseppe Campanelli a Capitano, i Sig. Giuseppe Mosca e Carlo Conti a Tenente, Il Sig. Felice Comegna ad Alfiere, il Sig. Salvatore Bonanotte Sergente, Leonardo di Luozzo Caporale. Nessuna indicazione dei militi, presi forse fra i contadini ed operai meglio atti alle armi. Il compito di tutti cessò con la restaurazione del Borbone.

Chiudo i ricordi del socolo XVIII con l'annotare che la famiglia ducale, alla morte del secondo Giuseppe Capece-Piscicelli, si protrasse col figlio di lui, Giacomo, il quale nel 1756 sposò Marianna Capece Zurlo. Il palazzo baronale a Capracotta, stendentesi dall'antica porta del paese, fino all'altro dei Pizzella ora Borrelli, Conti, affiancato da due torrette cilindriche di cui una sussiste tuttora, fu restaurato l'anno innanzi 1755, probabilmente in vista del matrimonio suddetto. Sulla chiave di volta del portone leggesi quella data, ed il portone stesso, formato di grossi pezzi di pietra bianca, a bugni ottagonali finemente scalpellati, e con vago disegno, è l'unico vestigio della nobile signoria ducale.


Diploma ducale.

Al secondo Giacomo Piscicelli seguì il figlio Carlo nel 1758 e questi nel 1775 sposò Mariangela Rosa De Riso, baronessa di Carpinone da cui vennero Beatrice, Luisa.

Carlo morì intorno al '95-'97, ma con lui poté dirsi estinta la discendenza maschile dei duchi Capece-Piscicelli.

La sua vedova si rimaritò poco appresso sposando un borghese napoletano, Antonio Curcio, che mi fu detto essere stato un medico militare. Su di lei pesava tra i nostri vecchi qualche tradizionale diceria che mi fece dare della Duchessa un giudizio spropositato.

La verità storica è che essa fu una gran dama quantunque un po' mondana, e fu una perseguitata politica dei Borboni, per aver preso le parti dei repubblicani. Nel Diario napoletano di Carlo De Nicola dal 1793 al 1825 lo scrittore, alludendo ai patrioti, venuti su nel 1798-1799 annota che «la primaria nobiltà s'era trovata infetta di tal peste (patriottismo)» citando ad esempio nomi di persone nobili eminenti, quali i Principi di Torella, di Sansevero, di Moliterno, il Duca di Maddaloni, il Conte di Ruvo, non che delle dame celebri Duchessa di Cassano, Principessa di Piedimonte. Con queste ultime, «la Duchessa di Capracotta, egli narra, non so quale altro matrimonio fece, e fuggì coi Francesi». A Parigi essa restò legata d'amicizia con gli altri esuli napoletani specie i più rappresentativi della Repubblica Partenopea, Francescantonio Ciaia, Cesare Paribelli, il Moliterno.

La De Riso, sotto i Bonapartisti, tornata a Napoli, si recò più volte a villeggiare in Capracotta; fu la sola feudataria che ci onorò della sua presenza. Non so indicarne gli anni. Arredò di mobiti dorati il suo appartamento, convertì in teatrino l'antico fondaco facendo venire dei comici, anche per sollazzo della cittadinanza, e lasciò un duraturo attestato della sua aristocratica generosità donando alla Chiesa sacri paramenti intessuti di seta e d'oro, fregiati per giunta del suo stemma ricamato riccamente, paramenti ancora nuovi può dirsi, che riappaiono nelle maggiori solennità del culto religioso.

Per la tutela dei suoi interessi patrimoniali qui scelse il dottor Diego Di Ciò, il quale in verità la lasciò soddisfatta sì che in ultimo essa gli donò parte del palazzo ed una casa di campagna nella Macchia con alcuni terreni intorno, restati col nome di Masseria del Duca. Si suppone che il Di Ciò si fosse assai cooperato presso la Commissione feudale per la dichiarazione di Macchia qual feudo separato.

Sopravvenuta la restaurazione dei Borboni nel 1815 la Duchessa fu costretta a rifugiarsi di nuovo a Parigi, dove morì nel corso del successivo decennio. Alla successione dei beni oberati di ipoteche, concorsero le figlie, il marito, le legatarie, i cui vincoli con lei restano sconosciuti, tanto più che portano nomi francesi: Felicia Hinard - Louise Barilot. Tra i postumi eredi trovasi un Antonio Curcio juniore. Era questi un figlio del suo secondo matrimonio; o un figlio d'altra donna del secondo marito?00000


Luigi Campanelli




 

Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.

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