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Il tormentoso idillio di Elisa e Salvatore


Elisa Avigliano (1879-1962).

Senza poggiare troppo sul pedale dell'elegia, dei giorni perduti, degli incanti sospesi, vorrei dare un addio a donna Elisa Avigliano. Sino a pochi anni fa non andavo a Napoli senza mandarle a casa, alla Riviera di Chiaia, un mazzo di garofani rossi. M'aveva detto di preferirli, forse perché lui, don Salvatore, li preferiva ad ogni altro fiore. Donna Elisa, diciamolo subito, fu la vedova di Salvatore Di Giacomo ed anche la superstite rappresentante del mondo digiacomiano e di ciò che esso, nella penultima Napoli significò.

Le mandavo, dunque, un fascio di garofani e le telefonavo, prima di andare a vederla. «Venite, vi aspetto», mi rispondeva. «I vostri garofani sono lì, al loro posto». Il «loro» posto era la scrivania del Poeta, un piccolo mobile di mogano intarsiato, con applicazioni in ottone, nello stile del "secondo Impero", mi pare; forse autentico. La camera conteneva un gran ritratto del Poeta, di mano di Vincenzo Irolli e altri quadri: tra questi un ritrattino strano e delicato, dipinto a Villa Majo da Luca Postiglione, in quella sua maniera letteraria e smaltata. Donna Elisa era già in là con gli anni. Era nata a Nocera Inferiore il 13 di ottobre del 1879, dal magistrato Antonio Avigliano, consigliere di Corte di Appello e dalla baronessa Silvia Falcone, di Capracotta, morta a Napoli nel '98, tredici anni prima del marito, ucciso da un attacco cardiaco sulla soglia di casa, nella via dell'Incoronata numero 34. Era la prima di sei figli: i cinque fratelli furono o ufficiali effettivi del Regio Esercito o professionisti: un medico, Raffaele; un ufficiale di cavalleria, Alfonso, vivente; un ufficiale di artiglieria, Roberto; un funzionario delle poste, Carlo; un avvocato, Mario, vivente. Si vede da qual ceppo borghese venisse la futura moglie del Poeta: borghesia provinciale del Mezzogiorno che, al tempo dei Borboni, veniva chiamata con una certa diffidenza, dei "galantuomini" e durante la lotta risorgimentale aiutò con gli scritti e con l'azione la Rivoluzione liberale.

Ma scrivendo di donna Elisa si è indotti a ritenere inutile cercare di situarla nelle sue coordinate storiche. Nel caso presente, poi, si deve rilevare come nessuna biografia di donna fu più "poetica", cioè influenzata e quasi assorbita nella poesia da lei stessa ispirata. Pure quasi mai, e nemmeno in occasione della morte, donna Elisa, posta di fronte alla poetica digiacomiana, viene identificata per le sue relazioni con questa. È vero: la lirica di don Salvatore giace fuori del tempo e, perciò, della biografia. E talune poesie strettamente legate alla persona di Elisa Avigliano e alla lunga traversia dei suoi rapporti e del suo amore col Di Giacomo, servono anche a scoprire, criticamente, una svolta, un mutamento, una crisi, starei per dire, nell'artista. Esse riscattano nel complesso dell'intera opera poetica digiacomiana quel vago e un po' frigido alito di "non partecipazione" che ne può costituire un carattere rilevante. In più di due terzi delle poesie di don Salvatore, insieme col sempre rinnovato incantamento della melodia e dell'emozione, si scopre un distacco invisibile, una separazione cristallina tra l'animo del poeta e la cosa creata. L'epoca digiacomiana fu anche quella della tranche de vie e del verismo obiettivo. Di Giacomo, è ben noto, s'era fatto un abito mentale di attento trascrittore della vita dolorosa e minuta della strada napoletana. Tra l'altro, sino a quando il Croce non lo rivelò a lui stesso, ignorò le sue magiche facoltà di trasfigurare, come diceva Matilde Serao, in oro di poesia le vili e, sovente, piatte realtà di cui si faceva, con l'appunto e la fotografia, collezionista. Nei confronti dell'amore umano, della passione sofferta, Di Giacomo capì tutto e soffrì tutto: da poeta ma anche da estraneo. Nei suoi drammi teatrali, che sono drammi di desiderio, di violenza, di sangue, di vendetta, era, prima di tutto, lo spettatore. Il contrario, insomma, del suo contemporaneo Gabriele d'Annunzio al quale riusciva impossibile di non travolgere la biografia nella poesia, lasciando emergere dal sinfoniale dei versi e delle immagini, quasi sempre voci note e volti identificabili. L'amore del Di Giacomo per Elisa Avigliano modificò, spesso, la natura e il modo del suo canto. Stavolta è lui stesso a soffrire: si vede che il suo spirito non genera più ariette miracolose di raggelata purità o, anche, quadri di rembrantesca violenza espressiva, visto, però, traverso la trasparenza di un cristallo. Stavolta il verso s'allunga, diventa ansioso; s'appoggia a cesure e si dilunga in echeggiamenti, reticenze, ritorni. Il Poeta soffre le sue proprie pene d'amore perduto. Ne vedremo più avanti alcuni esempi.


Giovanni Artieri

 

Fonte: G. Artieri, Penultima Napoli, Longanesi, Milano 1963.

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