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La villeggiatura di Nina



Nessuna, nessuna creatura umana era più disgraziata di lei! Passava in rivista tutte le sue amiche, le più ricche e le più modeste: ognuna di esse aveva il suo sogno, ognuna, come per godere ferocemente della sua inferiorità, le raccontava le delizie che l'aspettavano laggiù fra le onde azzurre del mare o negli ombrosi viali delle campagne. Ed ella vedeva con la fantasia le amiche a Sorrento, a Capri, ad Amalfi, o lassù nel silenzio verde di Agerola o di Sant'Agata. Le più fortunate andavano sulla Riviera ligure, a Vallombrosa, in Isvizzera. Villette bianche, bagnate dalle onde, o nascoste fra gli alberi, con piccole verande incorniciate di fiori sorridevano occhieggiando di lontano. Come sarebbe stata felice anche lei di poter avere la sua villetta, farne un nido delizioso pieno di fiori e di uccelli, di libri e di quadri, di tanti graziosi ninnoli, con una terrazza sulla quale passare lunghe ore in una sedia a dondolo, contemplando il mare o le montagne. Niente di tutto questo. Suo padre non comprendeva l'acuto intenso desiderio della sua povera anima. Quello che le concedeva era di lasciarla andare ai bagni con la cameriera laggiù a Posillipo, dove incontrava le ultime amiche rimaste, ma poi, quando anche queste scappavano via per andarsi a godere i mesi di settembre e ottobre in mezzo al verde ed ella restava sola, nella casa silenziosa, una profonda tristezza le stringeva il cuore. Nessuna, nessuna creatura umana era più disgraziata di lei!

Così che, quella mattina, quando l'avvocato Negri, entrando nella camera di sua figlia, con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni, le disse a bruciapelo:

– Nina, quest'anno andremo in campagna – ella gettò un grido di gioia.

– Dove andiamo, babbo?

– Ah non credere che io ti conduca in uno dei soliti luoghi di villeggiatura, frequentati dalle tue amiche. Probabilmente il nome ti riuscirà nuovo.

– Cioè?

– Castel di Sangro.

Nina guardò suo padre con aria interrogativa. Non era molto forte in geografia.

– In Abruzzo, Nina mia, nell'Abruzzo forte e gentile. Ti troverai piombata nella vergine natura. Né hôtels, né restaurants, né clubs, né teatri, né concerti, né automobili...

– Benissimo.

– La semplice vita pastorale arcadica...

– Benissimo.

– La montagna brulla, la folta foresta, le gole selvatiche...

– Benissimo.

– E non ti annoierai dopo otto giorni?

– No, babbo, sarà per me una residenza deliziosa. Porterò le mie tele, i miei pennelli, il mio apparecchio fotografico e quando torneremo a Napoli mostrerò alle amiche i miei prodigi artistici. E dimmi un po' babbo, come hai scelto per villeggiatura Castel di Sangro?

– Ecco, veramente, non sono io che l'ho scelto. È la zia Tersilla, una vecchia zia che tu non hai conosciuta, ma che, morendo, ha avuto la bontà infinita di lasciarci in eredità una casetta laggiù a Castel di Sangro, con dieci moggia di terra, della quale dobbiamo andare a prendere possesso.

– Oh che buona idea ha avuto zia Tersilla – esclamò Nina, battendo le mani come una bimba – quando partiremo?

– Appena sarai pronta. Io sono libero e per due o tre mesi non voglio occuparmi né di cause, né di clienti. Laggiù, in mezzo alla pace dei campi, scriverò la mia monografia sull'Enfiteusi, che dev'essere l'ultima parola sull'argomento.

Nina mise la casa sossopra. Diede subito l'annunzio alla cameriera e si accinse con lei a preparare i bauli, a ficcarvi dentro abiti, libri, riviste, tavolozza, tele da dipingere, lastre fotografiche, nastri, guanti, sciarpe, tutto il grazioso bagaglio di una ragazza ventenne. Perché, se non l'ho detto ancora, Nina era una leggiadra creatura che aveva appena compiuto i ventitré anni, con grandi occhi neri che si piantavano in faccia alla gente e l'abbagliavano come un riflesso di sole, con una bocca espressiva che, in certi momenti, si piegava in un atteggiamento di Madonna addolorata o dalla quale, nei momenti lieti, sgorgavano come trilli di uccello delle risate argentine. Un carattere franco e ardito, una testolina bizzarra, ma un cuore d'oro, che era l'orgoglio e l'adorazione di suo padre.

– Siamo pronte?

– Pronte.

– E allora partenza.

Il viaggio fu delizioso e la signorina non si saziava di contemplare il panorama vario e verdeggiante che le si svolgeva dinanzi, quando il treno, risalendo il Volturno, toccò Venafro, Isernia, Pescolanciano, Capracotta, a millequattrocento metri di altezza, fra le cime dell'Appennino, che mandavano a traverso il finestrino aperto l'odore selvatico della foresta.

Alla stazione di Castel di Sangro li aspettava una carrozza impolverata e sgangherata, con un vecchio cocchiere magro e asciutto, che pareva fatto dell'istesso legno della carrozza.

– Buongiorno padrone, bene arrivata, signorina.

Per una via aperta tra i campi il cavallo trotterellava facendo tintinnare allegramente i suoi sonagli.

– Che bellezza! – esclamava la signorina volgendo intorno lo sguardo, aspirando con le piccole nari l'aria pura.

– Non siete mai venuta dalle nostre parti? – chiese il cocchiere.

– No. Si deve stare bene qui.

– Si vive da povera gente. Certo per signori di città come voi sarebbe un supplizio. Voi avete tante meraviglie. Napoli è il paradiso.

– Non sei stato mai a Napoli?

– E come volete che ci sia stato? È così lontano! ci vogliono tanti denari! Il mio viaggio più lungo è stato sino a Chieti, una città grande, con una bella piazza, e una villa e dei palazzi come a Napoli.

La signorina sorrise, poi la sua attenzione fu attratta da una palazzina rossa, a due piani nascosta fra gli alberi allo svoltare della via.

– Che graziosa casetta. Di chi è?

– È la nostra, signorina. Siamo arrivati.

Smontarono. Una contadina venne loro incontro, seguita da due monellucci a piedi nudi, che guardavano i forestieri con gli occhioni spalancati, aggrappandosi alle gonne materne.

Nina e suo padre salirono, girarono tutte le stanze. Era una graziosa casa, tranquilla e pulita, in piena campagna. Il terrazzo tante volte sognato, dove Nina avrebbe potuto deliziarsi nella contemplazione della natura verdeggiante, era là che l'aspettava. Le stanze linde, luminose, pochi mobili di forma antica, ma solidi e puliti. C'era una cameretta con le pareti a fiorellini azzurri, della quale Nina prese subito possesso, c'era lo studio per il babbo, c'era un giardino un po' trascurato, nel quale erano cresciute molte erbacce, ma la padroncina avrebbe saputo trasformarlo col suo buon gusto e rendere grazioso.

E, per otto giorni, ella non pensò ad altro che alla sua nuova dimora.

Poi fu presa dal desiderio di vedere il paese, di fare delle gite nei dintorni. Usciva sola. La campagna era tranquilla, i contadini la salutavano rispettosamente ogni volta che passava, i ragazzi posavano dinanzi alla sua macchinetta fotografica.

«È un luogo delizioso – scriveva alla sua amica Clara a Sorrento – dove si sta ad immediato contatto con la madre Terra, dove uno spirito come il mio, amante delle bellezze naturali, trova infiniti motivi di godimento. Tu lo troveresti un po' monotono e certamente non può paragonarsi a codesti tumultuosi centri mondani, dove si suona, si balla, si flirta, dove si fa sfoggio di toelette eleganti e di spirito, quando se ne ha tanto come la mia terribile Clara. Qui non si può conversare che con gli alberi, i quali stanno ad ascoltare pazientemente tutti i segreti che si crede di confidar loro. E c'è un bel tipo, che va qualche volta al tramonto a confidare agli alberi i propri pensieri. L'ho visto già un paio di volte ed ha richiamato la mia curiosità per la sua aria distratta e preoccupata. Egli non si è punto accorto di me, e questo mi ha stizzita un poco perché io sento di non essere una figura trascurabile. Dev'essere un poeta, o un pittore. Ieri si è fermato per mezza giornata a guardare il vecchio castello dei principi di Sangro, una ruina assai pittoresca, che si vede dal mio balcone, che ho ammirato anch'io con molto interesse, ma non sino al punto da dimenticare l'ora del pranzo. Ho domandato di lui a persone del luogo, ma non hanno saputo dirmi altro che è un forestiero, il quale sta qui da un mese e non fa che aggirarsi come un pazzo intorno a quel vecchio rudere. Lo ha girato di dentro e di fuori, lo chiamano l'innamorato del castello. A trent'anni, quanti ne dimostra, potrebbe veramente innamorarsi di qualche cosa di meglio! Dev'essere uno sciocco».

Dopo quest'affermazione un po' ardita con la quale Nina chiudeva la lettera, non parlò più del forestiero all'amica, che pel suo incorreggibile difetto di fare dello spirito, aveva osato scrivere alla Nina che lei doveva essere diventata gelosa del vecchio castello.

Certo è che l'immagine di quello straniero, il quale non si curava punto di lei la turbava e la indispettiva. Abituata all'ammirazione dei giovanotti di Napoli, dove pure erano tante graziose ragazze, non sapeva rassegnarsi ad essere trascurata in quel paesello di provincia. Tutti si fermavano a guardarla passare, tutti... meno lui solo. Era forse un vanitoso, un egoista, il quale non pensava che a sé e alle proprie fantasie.

Pure, in un caldo pomeriggio di Agosto, mentre ella passeggiava sul suo giardino, che aveva già preso un aspetto assai leggiadro, scorse di là dal muricciuolo, l'innamorato del castello fermato con le mani in tasca, a guardare dalla parte sua. Certamente l'aveva veduta questa volta. Ella finse di non essersene accorta, e, dopo qualche altro giro, rientrò in casa. Un'ora dopo ridiscese. Egli era ancora là immobile al suo posto.

La cosa era un po' strana, ma ancor più strana dovette sembrare a Nina quando, alcuni giorni dopo, vide lo straniero picchiare alla porta di casa e chiedere alla cameriera di parlare con l'avv. Negri.

Si struggeva dalla curiosità di sapere chi era e che cosa voleva questo signore. Ella era una brava ragazza e non aveva il difetto di origliare alle porte. E perciò si dovette accontentare che suo padre le riferisse lo scopo di quella visita. Le era passato per un momento pel capo che egli fosse un eccentrico, il quale, innamorato subitamente di lei, fosse venuto a chiedere la sua mano, ma scacciò quest'idea sembrandole alquanto ardita. Più probabilmente era venuto da suo padre a parlar d'affari. Non doveva essere né un poeta, né un pittore, niente di quanto lei s'immaginava.

– Ci sono al mondo dei grandi originali! – cominciò l'avv. Negri, quando ebbe accompagnato il visitatore sino alla soglia. – Hai veduto, Nina, quel signore che è andato via or ora?

– Ebbene? – chiese lei senza osar di dire che era tutt'altro che la prima volta che lo aveva veduto.

– Ebbene, quello lì è venuto semplicemente per dirti che tu ed io possiamo uscircene di qui perché questa è casa sua.

– Davvero? – esclamò Nina e fece una di quelle sue risatine che parevano trilli di uccello.

– Mi ha lasciato la sua carta da visita. Ing. Raimondo di Sangro. Afferma che egli è discendente di quel Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, che morì a Napoli nel 1771, che fu un insigne meccanico e inventò la lampada perpetua. Dice di avere documenti inoppugnabili, coi quali può dimostrare che a lui spetta in eredità l'ala sinistra del castello e il territorio vicino e che, in questo territorio è compresa la proprietà che ci ha lasciato zia Tersilla, la quale non sarebbe che una usurpatrice.

– Ma tuttociò, babbo, è una cosa seria. Vuol dire che saremo espropriati e dovremo tornarcene a Napoli. E il nostro bel giardino? e questa graziosa casetta?

– Piano, piano, mia cara, non lasciarti trasportare dalla fantasia. Tutto questo è un'affermazione, la quale ha bisogno di prove e, se occorre, di un giudizio. Capirai, che ad un avvocato come tuo padre, un giudizio non fa paura. Ma il più grazioso non te l'ho detto ancora. Quell'ingegnere ha una parlantina facile, un'amabilità di modi non comune e si fa ascoltare con piacere. Mi ha dichiarato che egli è alieno dal fare liti e che, in ultimo caso, se proprio non volessi arrendermi alla eloquenza dei documenti, egli sarebbe disposto a ricomprare la nostra proprietà per quel prezzo che io chiederò di stabilire.

– Davvero? ci tiene dunque molto al possesso della nostra casetta?

– No, egli della casetta ne farebbe a meno: il podere ed il giardino sono quelli che gli fanno gola.

– E a questa proposta che cosa hai risposto?

– Ho risposto che non avevo alcuna intenzione di vendere e che deponesse ogni idea in proposito. In quanto al mio dritto di proprietario, non avevo nulla a temere perché le mie carte erano in regola.

– E lui?

– E lui se n'è andato, dicendo che vi ripensassi e che sarebbe ritornato.

– È un bell'originale.

Quell’avvenimento singolare tenne per parecchio tempo occupato il cervello della signorina, la quale non sapeva che cosa pensarne. Intanto l’avvocato Negri aveva chiesto informazioni al Sindaco, ma questi gliene aveva date ben poche. L'ing. di Sangro era arrivato da Napoli un mese prima – era forse un parente dei principi di Sangro – si era innamorato del vecchio castello – un giovane che sfuggiva la compagnia della gente e non dava fastidio a nessuno. Si diceva che guadagnasse bene con la professione, aveva preso alloggio all’Albergo di Roma, l'unico del paese, e dava spesso l’elemosina ai pezzenti che incontrava per via.

 

L'innamorato del castello ritornò otto giorni dopo, mentre l'avvocato e sua figlia stavano sorbendo il caffè in giardino. Si fermò sulla soglia facendo un grazioso inchino. L'avv. Negri si affrettò a fare la presentazione.

– Lei viene, senza dubbio, per quel suo affare. Passeremo dunque nel mio studio.

– Non vorrei disturbarla – rispose l'altro. – Del resto non è cosa che la signorina non possa sentire. Forse ella è già informata dello scopo della mia visita.

– Sì signore – confermò Nina arrossendo lievemente – il babbo mi ha detto che lei ha intenzione di mandarci via da questa casa.

– La prego di non volermi giudicare un essere così spregevole e venale. Ella, signorina, saprà anche che io avrei intenzione di acquistare questa proprietà a quel prezzo che suo padre si compiacerà di stabilire.

– E la mia risoluzione – rispose l'avvocato Negri – non è mutata in questi otto giorni. Né io, né mia figlia intendiamo rinunziare a questa proprietà, dove ci troviamo così bene e dove siamo lieti di venire a passare ogni anno tre o quattro mesi di villeggiatura.

L'ingegnere parve riflettere per qualche istante.

– Ebbene – riprese – vedo che è ormai necessario di parlarci chiaro. Le ho detto già, egregio avvocato, che io posseggo documenti importanti sulla famiglia di Sangro, che abitò il vecchio castello e che estendeva i suoi domini anche su questo podere e su questa palazzina, la quale, un secolo fa, era l'abitazione del vecchio fattore di casa di Sangro. Nel 1798 l'esercito francese che si avanzava vittoriosamente in Italia, spargendo ovunque la distruzione e lo spavento, devastando i poderi dei contadini, saccheggiando le case dei ricchi, prese naturalmente di mira il castello. Il principe Oderisio di Sangro volle che sua moglie la principessa Matilde ed i suoi due figli riparassero a Chieti, dove avevano altri parenti e dove egli li avrebbe raggiunti dopo aver provveduto alla difesa del castello. La principessa Matilde era una delle prime dame dell'Abruzzo e la fama della sua beltà e della sua munificenza era nota per molte miglia dintorno. Aveva preso con sé la cassetta dei suoi gioielli, che erano di grande valore, con l'intenzione di portarseli seco a Chieti. Ma il vecchio fattore, servo fedele di stampo antico, con quell'autorità che gli davano gli anni e la devozione verso la bella padrona ch'egli aveva visto nascere, la sconsigliò vivamente di portar seco quei gioielli. Le strade erano malsicure, il viaggio nelle carrozze di posta era lungo e, quantunque i padroni fossero accompagnati da quattro servi, non era prudente viaggiare con quelle ricchezze. La principessa era però convinta che anche nel castello i gioielli fossero malsicuri, né voleva lasciare al principe l'incarico di portarglieli più tardi, né alla servitù l'incarico di custodirli. Fu allora che pensò di affidarsi alla onestà del vecchio fattore. Egli li avrebbe nascosti in qualche luogo e gli invasori non avrebbero certo pensato che nella casa o nel giardino del vecchio contadino potesse trovarsi conservato un tesoro. E si trattava di un vero tesoro, una collana di perle di rara grandezza, un diadema di brillanti, e orecchini, e fermagli, e anelli con rubini e smeraldi, e un migliaio di doppie d'oro, un complessivo valore di duecentomila ducati.

L'ingegnere si fermò volgendo uno sguardo alla signorina Nina, che ascoltava con viva attenzione il racconto, sgranando gli occhi per la meraviglia.

– Credo che ora – riprese il narratore – avrete compreso il mio interesse per questa proprietà. Non discuto, egregio avvocato, la legalità del suo possesso. Ma crede lei che, ove sua zia avesse ignorato l'esistenza di questo tesoro nel suo podere, avrebbe potuto legalmente disporre anche del tesoro stesso?

– Ella sa bene, ingegnere – osservò l'avv. Negri – che il proprietario di un suolo è proprietario dal centro della terra sino alle stelle.

– È giusto, ma...

– Non creda però di aver da fare con un affarista che intenda profittare della confidenza del suo segreto.

– Anche di questo non ho mai dubitato.

– Lei si ritiene discendente di quella nobile famiglia e quindi legittimo erede di quel tesoro. Potremmo venire ad una transazione.

– È quello che io pure desidero vivamente.

Nina non prendeva parte al dialogo, ma si limitava ad osservare il giovane ingegnere e lo giudicava nel proprio intimo. Certamente suo padre era una persona franca e leale, ella avrebbe desiderato anche nello straniero una eguale franchezza e lealtà. Non osava dire a sé stessa che avrebbe provato un vivo rincrescimento se si fossero rivelati, sotto quella sua simpatica apparenza, dei sentimenti volgari e il freddo calcolo di uno speculatore.

– Metta dunque lei stesso le basi di un possibile accordo.

– Ebbene – riprese il giovane e guardò ancora una volta quella graziosa fanciulla che, dal momento che gli aveva rivolto il discorso, lo aveva evidentemente disorientato – poiché lei e la signorina ci tengono tanto al possesso di questa villetta, io non insisterò sulla mia domanda di acquisto. Nel vecchio documento di famiglia, da cui ho appresa la storia che ho avuto l'onore di narrare, è indicato il luogo dove la cassetta dovrebbe essere nascosta. Dovrò sconvolgere un po' il giardino, e mi dispiace molto di sacrificare i leggiadri fiori della signorina, ma prometto di rimettere le cose a posto nel miglior modo possibile. Naturalmente queste ricerche saranno fatte insieme e di accordo, e, ritrovato il tesoro, esso sarà diviso fra noi in parti uguali. Voglio sperare, egregio avvocato, che ella non trovi irragionevole questa mia proposta.

– La trovo anzi generosa da parte sua – rispose l'avvocato – ma temo che la cosa non sia così facile come lei pensa. Ella dimentica i diritti dello Stato.

– Lo Stato? ma nel nostro caso non trattasi di oggetti d'arte antica. Siamo in una proprietà privata e si tratta di oggetti di proprietà privata. Le ripeto, i documenti che io posseggo sono inoppugnabili.

– Ma è poi sicuro che la cassetta non sia stata in seguito tolta dal suo nascondiglio? L'imprudenza di un confidente, il caso, un fatto qualunque può aver aperto gli occhi ad altri più fortunati. Potrebbe ben succedere che le nostre ricerche non approdino a nulla.

– Questa sua storia – aggiunse la signorina Nina – ha un po' troppo del fantastico e nelle storie delle antiche famiglie s'infiltra molte volte la leggenda.

Il giovane ingegnere rimase in silenzio, alquanto sconcertato dall'accento scherzoso della signorina.

– Se non troveremo nulla – riprese l'avv. Negri – lei naturalmente, in mancanza di gioielli, rimetterà fuori la sua pretesa sulla villetta.

– No, no, le assicuro di no. Rinunzierò a quello che la signorina chiama una fantastica leggenda e ci separeremo da buoni amici. Forse per appagare il mio sogno, penserò a restaurare un'ala del vecchio castello, se a loro non dispiace avermi come vicino di villeggiatura.

Decisamente l'ingegnere era diventato di un'amabilità e di una remissività straordinaria. L'avvocato non sapeva darsene ragione, ma la signorina Nina, che non era capace di leggere nel codice civile, ma sapeva leggere un pochino in quell'altro libro astruso che è il cuore umano, trovava naturali le intenzioni del giovane e lo giudicava un'anima nobile e generosa. Scrisse un'altra lettera all'amica Clara, cui narrò della visita senza però confidar nulla del segreto della cassetta.

Ah quella cassetta misteriosa perseguitò tutta la notte la cara figliuola! Le pareva di vederla, dinanzi ai suoi occhi abbagliati. Quelle perle, quei brillanti, quei rubini, quegli smeraldi gettavano raggi fulgidi, verdi, purpurei che l'accecavano. Era la ricchezza, una ricchezza inaspettata, un sogno di felicità! E le pareva che quel giovane, dallo sguardo vivo e intelligente, dall'anima vibrante di amorosa commozione, mettesse quel tesoro ai piedi di lei, rinunziando a tutto, pur di ottnere un suo sorriso e una sua dolce promessa.

Alla mattina ripensò al sogno e gettò all'aria una di quelle sue risatine che parevano trilli di uccello. Ma alla mattina, assai presto, si presentò il giovane ingegnere e le ricerche cominciarono.

Erano tutti e tre ansiosi di trovare il tesoro. L'ingegnere consultò una carta ingiallita dal tempo che aveva portato seco, tracciò due o tre misteriose linee nel giardino, sradicò delle povere pianticelle, strappò l'erba, si fermò ai piedi di un vecchio melo.

Il vecchio giardiniere era stato messo ai suoi ordini e cominciò a zappare. Dopo quattro ore il lavoro fu interrotto. Si fece colezione insieme e l'avv. Negri e sua figlia ebbero modo di apprezzare la coltura e lo spirito del giovane, che parlò dei suoi studi, dei suoi viaggi, dei suoi disegni futuri. Era di una compagnia piacevolissima.

Il lavoro fu ripreso nel pomeriggio, ma non diede alcun risultato.

L'ingegnere riconsultò la sua carta e confessò di avere sbagliato nelle indagini.

Il dì seguente si ricominciò da capo presso un altro albero.

Ormai il giovane era diventato di casa. Rimaneva abitualmente a colazione ed a pranzo, faceva insieme ad essi deliziose passeggiate e quasi quasi i due giovani non pensavano più alla cassetta preziosa. Ma c'era però l'avvocato, che vi pensava e cominciava a credere che l'ingegnere avesse un po' perduta la testa con la Nina e non si occupasse abbastanza della cosa. Erano trascorse ormai quattro settimane in inutili ricerche e si era dissodato tutto il giardino.

– Io penso, caro ingegnere – disse infine – che abbiate preso un bel granchio a secco (erano passati al voi ora) e che si tratti proprio, come dice la mia figliuola, di una fantastica leggenda.

– No, credetemi, io ho ancora la speranza che troveremo.

Gli scavi si ripresero con maggior ardore ai piedi di un vecchio pino. Il giardiniere non ci capiva nulla e cominciava a sospettare che i cervelli dei suoi signori non fossero più a posto.

– Se non è qui – affermò l'ingegnere – dovremo purtroppo rassegnarci.

Il risultato non fu migliore dei precedenti, ma negli occhi del giovine brillava una luce insolita, come se avesse proprio trovato il famoso tesoro.

Così che, quando alcuni giorni dopo, pregò l'avv. Negri di passare nello studio perché aveva bisogno di dirgli una cosa a quattro occhi, l'altro ne fu sorpreso e stette ad ascoltarlo con molta diffidenza, come in attesa di scoprire nel suo ospite un grande impostore che avesse abusato della sua confidenza.

L'altro trasse fuori la famosa carta ingiallita e la mostrò al padre della Nina, il quale la scorse con molta attenzione. Realmente vi si parlava di una cassetta di gioielli nascosta in un punto del podere, di cui si indicava la direzione.

– E intanto il tesoro non si è trovato! – brontolò.

– Purtroppo, e credo che ormai dobbiamo rinunziarvi. Ma io, consentitemi di dirvelo, amabile avvocato, ho trovato qui un altro tesoro, ben più prezioso dei gioielli della principessa di Sangro. Questo tesoro potrebbe fare la felicità di tutta la mia vita. Mi consentite di proporvi la stessa transazione che avevate già accettata per la introvabile cassetta?

L'avv. Negri aggrottò le sopracciglia, si fece scuro in viso ed attese senza dir parola che l’altro si spiegasse meglio.

– Vi chiedo di dividere con voi il possesso di questo inestimabile tesoro. Perdonate... l'amo e spero di renderla felice.

– Sta bene. Comprenderete che non potrò darvi così sui due piedi una risposta, senza prima interrogare un'altra persona.

– È giusto. Aspetterò quanto vorrete – e se ne andò col passo di chi ha vinto una battaglia.

Il mese scorso Nina, raggiante di felicità, ha dato alla sua amica Clara la notizia del suo prossimo matrimonio, dichiarando che Castel di Sangro è la migliore villeggiatura del mondo e che la sua villetta è diventata un nido delizioso.

L'innamorato del castello è più raggiante di lei per aver trovato il suo tesoro. Quando Nina sarà sua moglie, forse egli finirà per confidarle che lei aveva indovinato e che la fantastica storia della cassetta di gioielli non era stato che un mezzo ingegnoso per prendere possesso della villetta e della sua abitatrice.


Onorato Fava

 

Fonte: O. Fava, La villeggiatura di Nina, in «Natura ed Arte», XVII:17, Vallardi, Milano, 1 agosto 1907.

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