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Il voto di castità


Lo scrittore Andrea Barzini.

Il nonno sapeva fare malissimo i suoi affari. Il "Corriere d'America" non lo riuscì a vendere e lo dovette chiudere, accollandosi i debiti. Nel frattempo, siamo nel 1932, aveva trattato con Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, il rientro in Italia: gli avrebbero dato la direzione de "Il Mattino" di Napoli.

Ci arrivò l'anno dopo e ci rimase poco. Mussolini, a cui qualcuno aveva detto che il vecchio Barzini parlava male di lui, lo fece cacciare. Quando poi scoprì che era una calunnia, per rimediare, il dittatore lo avrebbe fatto assumere (un anno dopo) da "Il Popolo d'Italia", il giornale del partito, ma la paga era bassa, il giornale non molto stimato, e il nonno, dopo il licenziamento di Napoli in cui da un giorno all'altro la gente si girava per non salutarlo, era umiliato.

Si era rintanato a Milano con Mantica e Ugo in un appartamento ammobiliato e non bastò il nuovo lavoro a farlo uscire da una pervasiva malinconia.

Anche la nonna era intristita, non dormiva, si preoccupava dei soldi e del freddo da cui non riuscivano a liberarsi perché risparmiavano sul carbone. Il cruccio vero era la mancanza degli altri figli, Ettore in Giamaica, Emma a Madrid e Gibò sempre in giro per il "Corriere". A Ettore scrisse che ora suo fratello guadagnava molto più del padre e la gente discuteva su chi fosse più bravo. Una discussione che sarebbe rimasta aperta per molto tempo.

Junior dava dei soldi a Mantica di nascosto da Senior e si faceva fare dei vestiti su misura. Con l'eleganza scacciava le incertezze sociali.

Nella mia infanzia l'eleganza di papà era un faro. Lo vedevamo salire, nel piazzale della villa, sulla 1750 Alfa Romeo per andare alla Camera dei deputati (fu deputato liberale per tre legislature) irradiando gloria con certi vestiti confezionati dal sarto napoletano Ciro Giuliano. I "solara", fatti di una stoffa cangiante color rame, gli sfioravano i fianchi e dietro si allargavano a coda di piccione, e le cravatte di seta comprate a Hong Kong o a Londra prima della guerra, buttavano macchie di colore sulle camicie immacolate di cotoni pregiati fatte fare da Corbella a Milano. Immancabile, il fazzoletto nel taschino. Negli armadi i vestiti erano ordinati in file militari e in quanto alle scarpe, rigorosamente inglesi e fatte a mano, facevano bella mostra come libri rari. Quando Gregor von Rezzori, "Grisha", veniva sulla Cassia, i due dandy salivano ad ammirarle e di ogni paio papà ricordava il giorno in cui l'aveva ordinato. Al contrario di mia madre, che disapprovava lo sfarzo e la quantità («Ma a cosa gli serviranno venti paia di scarpe tutte identiche!»), Grisha era simpatetico. Grazie a un paio di scarpe fatte fare da Lobbs a Londra ed esposte fuori dalla camera del suo albergo a Monte Carlo, lo scrittore aveva fatto amicizia con un principe austriaco che gli aveva dato lavoro salvandolo da una delle sue frequenti crisi finanziarie. Soldi di rappresentanza ben spesi.

Era una bella immagine, l'eleganza paterna, e me la porto dietro. La vanità ha molti vantaggi, preserva la salute e regala a chi sta intorno qualcosa da ammirare. Con la maturità questa eleganza era diventata meno assertiva, ma da giovane, dalle foto che ho trovato, era un damerino azzimato. Qui torna in campo il fratello cadetto, Ettore, che aveva vestiti ciancicati, giacche spaiate dai pantaloni, calzini bucati e scarpe da risuolare a cui però era così affezionato che il fratello maggiore, nelle vacanze estive di Ettore in Italia, quando cercava di fargliele buttare, si ritrovava davanti un muro. Accarezzo le due sole foto che ho dello zio e intravedo una camicia dal colletto con le punte ribelli, un bavero di giacca liso, i capelli in disordine e lo immagino, l'agronomo distratto (papà lo definiva sognatore), nel momento in cui Gibò gli calava addosso uno sguardo severo.

«Ti porto dal sarto» gli disse un'estate a Milano, e l'aneddoto è raccontato in una lettera alla sorella Emma, «a condizione che butti gli stracci che hai addosso».

«Cos'hanno che non va?»

Gibò gli regalò un paio di vestiti nuovi, ma Ettore si tenne anche quelli vecchi.

Se li tenne non perché fosse sciatto, ma perché nutrivano un suo senso d'eleganza fatta di libertà, tocchi contrastanti e divertiti, grazia di una cosa vecchiotta, ma amata.


Andrea Barzini

 

Fonte: A. Barzini, Il fratello minore, Solferino, Milano 2021.

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