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Zia Elvira Janiro e Giuseppina Santilli (II)


B. Santilli, "Tramonto", 2008, olio su tela.

Le "attese"

Hanno scritto che la santità di una persona si misura dallo spessore delle sue "attese".

Ebbene, se la perfezione cristiana si valuta anche in questi termini, cioè, se la santità significa "attesa" di qualcuno, di un evento, di una sorpresa, allora zia Elvira e Giuseppina vissero realmente la veglia mattutina di chi non deve perdere il tempo destinato a pensare agli altri.

Se il paragone può dire qualcosa, zia Elvira e Giuseppina erano come quelle finestre che vedi illuminarsi prima che spunti l'alba, e non sai se aspettarti che dietro i vetri debba apparire il profilo di un volto.

Ci sono "attese" proprie delle "mamme" e altre legate alla vocazione nello "stato religioso", squisitamente umane le une e altamente spirituali le altre. Vocatività alla "maternità" e alla "consacrazione" che, nel loro genere, per le "attese" che le coinvolgono rispettivamente, sono proposte alla perfezione.

Zia Elvira e Giuseppina non erano né "madri", né "suore". Ebbene, tutte e due, sul percorso dell'amore, impersonarono le due vocazioni, esprimendo nella loro vita le caratteristiche alterne della donazione materna e dello stile di vita consacrata. Una sorta di sacramento umano di trasparenza, che te le faceva indovinare come creature fatte per donarsi e fino al sacrificio di sé, a servizio di chiunque fosse in "attesa" del loro passaggio.

 

"Attese" come servizi

Tuttavia era l'età ad evidenziare meglio le loro "attese" come riserve del servizio da prestare. Quella della "maternità", in vero, si accreditava in maniera più evidente a zia Elvira. Era, infatti, la voce del popolo che la identificava con l'appellativo di "mamma santa", forse in risposta alla sua maniera di chiamare figlie mije e figlia meija chiunque l'accostava in particolari circostanze, specie se di bisogno o di dolore.

L'altro servizio, quello relativo ad una forma di virtuale "consacrazione" religiosa, si confaceva meglio a Giuseppina, con un significato più credibile. Si trattava, infatti, di un servizio che nella chiesa, anche nella semplice donazione laicale, riveste un particolare significato, anche se senza investitura monacale e senza partire dalle soglie di un monastero. Servizio al quale Giuseppina si donò come risposta alle "attese" di una vocazione che la nostra comunità distinse come donna chiamata ad una missione di frontiera.

Tutte e due, però, accomunate in un gratuito servizio, quasi antecipazione del moderno "volontariato", per il gusto di sapersi utili e disponibili.

 

L'ambiente di famiglia

Sarebbe un vuoto imperdonabile se, per Giuseppina in particolare, non accennassi alle radici familiari dalle quali trasse la linfa per la sua formazione umana.

Le immagini che animarono quell'ambiente di famiglia che ebbe il suo percorso da S. Pietro Avellana a Capracotta, da focolare a focolare, amo incentrarle in colei che era il cuore naturale della casa: mamma Antonietta, zia Letta, nella traduzione e tradizione familiare e popolare.

Zia Letta, una di quelle regine di focolare che, in altri tempi, si facevano oggetto di onore e di amore; simili a quelle icone di Madonne, che nelle chiese attirano lo sguardo, prima dell'altare maggiore - come a dire la presenza di un padre -, e prima che gli occhi si perdano tra volte e colonne del tempio - come a dire il resto dei componenti la famiglia.

Io l'ho conosciuta a Capracotta, nella casa in via Pescara. Dove l'accoglienza si traduceva "a porte sempre aperte", prodigata nel segno dell'ospitalità conviviale che Giuseppina gestiva a nome suo e secondo i suoi gusti.

Zia Letta, una norma di vita dettata in silenzio, delegata alla figlia prediletta sempre al suo fianco. Un esemplare di virtù umane e cristiane, delle quali Giuseppina, senza retorica, in scala ridotta, per non dire altro, illustrava l'annosa e sacrificata esperienza. Chi ne volesse sapere la storia, vada a quelle pagine nelle quali la figlia scrittrice, nell'opera "Oltre la valle", traccia con disinvoltura soddisfatta, i cambi alterni che mutano il cammino di una vicenda di famiglia.

Una vicenda non facile a narrarsi, dalla quale zia Letta riemerge come una forza aggregante, un simbolo di coraggio non rassegnato, un'esperienza insieme, amabile e dura, popolata di figli e di batticuori, e di speranze esaudite.

Finché, come chi non ha più nulla da dire e da fare, esaurita, come quelle cisterne che, dall'alto, ti accorgi non hanno più acqua da donare, zia Letta si ricompose visibilmente in quell'abbandono quasi mistico che se può preludere la fine dei giorni, confina con l'attesa di una vita che va oltre la valle... oltre la morte.

 

L'eredità

Toccava a Giuseppina, ora, gestire quella eredità spirituale; una eredltà senza cose che arricchiscono, tanto la povertà solenne come una virtù evangelica luminosa di provata dignità, aveva dato spazio più al culto delle virtù che alla pena di apparire agiati senza essere ricchi.

In una casa dove la fede si era respirata a pieni polmoni, dove la preghiera era stata una specie di anima della conversazione, dove l'animazione della carità era stato il filo conduttore della convivenza, se un giorno mi avessero detto che in vita, zia Letta era stata mediatrice di un miracolo, non solo ci avrei creduto, ma lo avrei ritenuto un fatto normale.

 

Messaggio

Se la santità non si eredita si eredita certamente il suo messaggio che, come oggi, si fa voce, richiamo e umile riferimento di stima e venerazione. In quel messaggio di zia Letta, convissero zia Elvira e Giuseppina, continuando le tradizioni del vissuto umano e cristiano della sorella e della madre.

Mi piace ora rivederle insieme, in uno di quegli appuntamenti - come a Lourdes - dove lo spirito di fede trova stimoli per alimentare le scelte personali, alla luce della comune devozione mariana. L'episodio che ricordo e che ha sapore di "fioretto", riguarda il racconto che ne faceva Giuseppina per zia Elvira che, dopo l'ascolto di una predica in lingua straniera, commentò, alla fine: «Come ha parlato bene!».

In confidenza, chiesi a Giuseppina se aveva chiesto... qualche miracolo a Lourdes. Con la franchezza spassosa che le era propria mi rispose con una frase che voleva dire che «Dio non è tale da fare regali gratuiti!».

Sulla linea del messaggio lasciato da zia Letta, in casa di via Pescara, continuava a regnare il senso partecipato dell'accoglienza, della convivialità, della letizia partecipata, della festosità. Specie quando tutta la famiglia Santilli, patriarcale nel senso più originario delle tradizioni di un tempo, si raccoglieva a riannodare i vincoli della familiarità, di cui Giuseppina, artefice della convivialità, era come l'anello di congiunzione tra tutti i membri e, tra essi, simbolo dell'intimità del focolare domestico e quasi oracolo di un "messaggio" materno udito e vissuto, e ora da raccontare.

Era allora che, anche se di vecchia data, storie e fatti di famiglia avevano la loro ricapitolazione ufficiale. E se il soggetto immancabile era zia Elvira, o Ida, famosa per le sue "distrazioni", allora l'ilarità, lungi da sembrare canzonatura, si risolveva in commenti che giustificavano, più che la logica della risata, il gusto di un ascolto tutto di famiglia.

 

Conclusione

E per finire, mi piace riprendere l'immagine dalla quale sono partito: zia Elvira e Giuseppina in cammino "mano nella mano". Come quei due viandanti di Emmaus a colloquio con lo sconosciuto che era il Risorto. E che, ignorando il suo nascondimento, aspettavano la fine del viaggio per trovarselo di fronte per dirgli: «Resta con noi, ormai si fa sera!».

«Ormai si fa sera». Il sipario che scende su quello scenario di vita evangelica, per zia Elvira, il 3 agosto 1983, per Giuseppina, 1'8 novembre 1983.

Nelle due chiese, c'era quell'atmosfera di partecipata tenerezza simile ad una corrente melodica che valica il pensiero della morte. Un raccoglimento affollato da quelle immagini carissime che il rimpianto mutava in lodi di glorificazione, dopo un viaggio così stancante, così sofferto, così santificato.

Le mani benefiche stringevano la corona del rosario come era sempre stato fino «all'ora della nostra morte», per cinquanta e cinquanta "ave Maria" e fino a quella temuta frazione di tempo in cui ognuno di noi si gioca il suo destino eterno.

Il destino così profetizzato da Giuseppina e valido per zia Elvira che «chi non ha sofferto sulla terra non potrà gustare le gioie del Paradiso».


Geremia Carugno


 

Fonte: G. Carugno, Zia Elvira Janiro e Giuseppina Santilli, Capracotta 1993.

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