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Battute e motti spiritosi dei capracottesi (V)


Capracotta battute
L'aneddoto di Pasqualino che non voleva alzarsi dal letto.

S'éma fa' nu becchiére senza làbbese.

Ci dobbiamo fare un bicchiere di vino senza matita, cioè non segnando un quarto e mezzo litro: così diceva Francesco D'Alessio re Cuallaràre.

 

Chéŝta è zappa! Aldre che chéla de Merieànne!

Questa è zappa, altro che quella di Miranda, dove si usavano zappe grosse e pesanti: così diceva mastr'Orazio Stabile alludendo a qualche bella fregatura.

 

E ti par poco la pancia tua?

Così disse la madre dell'avv. Adelchi Falconi a Vincenzone, quando questi, uomo grosso e grasso, le disse che per fare il lavoro voleva solo quello che metteva in pancia.

 

Chi appènne e chi spènne.

Chi mette e chi toglie. Così disse il fratello di Ercolino di Mercallò quando di notte gli amici gli rubarono le scamorze e poi gli fecero credere che l'avevano rubate a mio padre, tanto che lo stesso Ercolino, nel tagliarle, diceva: «Come sono buone le scamorze di z'Eugenio!».

 

Averlo dodici mesi dell'anno!

Così disse Ciccio di Mariano Sammarone quando zi' Michele Trotta gli domandò se era buono il vino che, involontariamente, aveva scambiato con l'aceto, per offrirglielo.

 

Une e dù sò tre.

Così diceva Carmine Frezza, cuoco di don Gregorio Conti, nel consegnare i capponi all'avv. De Amicis di Alfedena, inviati dallo stesso don Gregorio. In effetti Frezza ne consegnò solo due, ma faceva intendere che erano tre con solo due gesti in questo modo. L'avv. De Amicis, che capì l'imbroglietto, volle fare l'atto pratico, dicendo a Carmine: «Uno me lo prendo io, uno lo diamo alla mia signora e sono due, e l'altro?». «Me lo mangiai io a Castel del Giudice con mia moglie» (chiedo scusa se non rendo bene il significato).

 

Ne tè chiù 'n gùre na allìna.

Ne tiene più sotto una gallina per fare l'uovo. Così raccontava Fafitto, quando, a pensione a Roma, per non poter compare altri materassi, la padrona, per ogni nuovo arrivato ne toglieva un poco da quelli già esistenti. E dire che gli alloggianti erano parecchi e i materassi pochi.

 

Le undici compar Michele un quarto.

Così rispose D. Di Tella all'avv. M. Falconi che gli aveva chiesto l'ora esatta.

 

Se n'è de quìre cuàne, è de quìre péle.

Se non di quel cane, è dello stesso pelo. Così diceva Petracchiéglie alludendo a persona un poco rognosa.


È mèglie na feŝta grossa che tanda feŝticciòle.

Così dissero i quattro garzoni della ditta Ianiro a San Nicandro Garganico, quando uno degli amministratori tornò il 26 dicembre e chiese loro se tenevano ancora le anguille (pare 20 chili, che avrebbero dovuto bastare fino a Capodanno), che essi mangiarono il 24 a sera, il 25 e a mezzogiorno del 26 dicembre!

 

Alzati, Pasqualino, ca tu sié ru mèglie fìglie de mamma.

Raccontava Donato la Penta che così diceva la mamma al figlio, e questi rispose: «I vuóglie èsse ru chiù brutte e vuóglie durmì» (Io voglio essere il più brutto e voglio dormire).

 

Battute fatte nei locali delle Società fra Luiggiotto (che parlava soltanto quando era brillo), Tatuccio e Nocente. Era nei locali di queste società che, durante il periodo invernale, si forgiavano intorno al braciere:

L. – Io so fa' tanti mestieri: il pittore, il falegname, l'ebanista ecc.

T. – Niénd'altro?

N. – Ha ragione z' Luiggiotto.

T. – Ŝchiàffamete 'n gùre a te e zi Luìgge tié.

 

Tace il merlo? Ma se r'acchiàppe, che le udèlla c'éna fa la paratura!

Sempre alla Società, sbraitando, Bettóne, un poco brillo, aveva saputo che il Consiglio Sociale lo stava proponendo per una punizione per una banale scorrettezza e, agli amici intorno al braciere, diceva quanto sopra, pur diretto al consigliere Ciccariéglie, il quale leggeva educatamente il giornale. «Tace il merlo?». Gli amici, fra i quali qualcuno non sapeva nulla della punizione che si profilava: «Con chi l'hai, Bettóne?». «Se lo acchiappo, con le budella devono farci l'involtino (chiamato marro)».

 

Tande che Pasqualìne ména da sótte, mitte a còce n'aldra patàna.

Metti a cuocere un'altra patata. Così diceva don Sebastiano Conti quando seppe che il nipote si era dato un poco alla pazza gioia (e vi era tanta possibilità di farla) ma don Sebastiano era un pochino avaro.

 

Sò sciùte troppe guaŝtameŝtiére.

Così rispondeva Frangìsche, mendicante di Civitanova del Sannio, quando gli chiesero se arrangiava con le elemosine.


Gregorio Giuliano



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