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Per fortuna siamo tutti nomadi


Il crollo del Rana Plaza di Savar.

Il nonno di mio padre, insieme a diversi suoi paesani, è emigrato agli inizi del Novecento negli Stati uniti. Quando tornò nel suo paese d'origine, Capracotta, nelle montagne della provincia di Isernia (il paese dei "sartori"), lo chiamavano «il milionario». I dollari che aveva guadagnato con molti lavori furono sufficienti per aprire un bar con tanto di piccola torrefazione artigianale nella piazza del paese. Fino a qualche anno fa, in quello che una volta era il bar e ora è la casa di una sorella di mio padre, era possibile sentire ancora l'aroma del caffè.

Anche mio padre e mia madre sono nati a Capracotta e sono emigrati. Con mia sorella siamo cresciuti ascoltando il mitico racconto del lungo viaggio in treno di mio padre, all'epoca (1950) quindicenne, da Capracotta a Roma. Ha trascorso i primi mesi con i desideri e le difficoltà di tutti i migranti, a cominciare dalla casa e dalla lingua... Come molti capracottesi trovò lavoro nelle sartorie: molti parlamentari sono stati vestiti da lui ma sull'etichetta degli abiti non compariva mai il suo cognome. Anche a Dacca, in Bangladesh, dove a fine aprile il crollo di cinque fabbriche ha ucciso oltre mille tra donne e uomini che lavoravano come sarti e sarte, le etichette non portavano i loro nomi, ma quelli di marchi come Benetton. A proposito di Bangladesh: pure Farisha, la compagna preferita dell'asilo (periferia romana) di Fabrizio, mio figlio, è nata in Bangladesh.

Di certo, le grandi capacità di artigiano di mio padre (che aveva perso il papà, muratore anche lui emigrato in Albania e nelle Alpi a costruire gallerie) non gli hanno permesso una vita tranquilla: ha dovuto attendere il "boom economico" della fine degli anni Sessanta per trovare uno stipendio dignitoso in una compagnia di assicurazioni.

La famiglia di mia madre invece è cresciuta con lo spirito nomade dei gruppi che hanno utilizzato per secoli i tratturi, i sentieri erbosi e pietrosi con i quali i pastori vivevano la transumanza, cioè trasferivano con cadenza stagionale le greggi dai pascoli di montagna (nei mesi caldi) a quelli di pianura (in autunno e inverno). Dall'Alto Molise al Gargano. A differenze delle altre famiglie loro non erano pastori ma venditori di carbone. Molisana d'origine, pugliese d'adozione (San Severo, Foggia), mia madre è poi emigrata con mio padre a Roma per aspirare ad una vita migliore e si è sempre divertita, nonostante gli studi interrotti alla quinta elementare, a parlare piuttosto bene il dialetto molisano, quello pugliese e perfino quello romano.

La migrazione ricomincia, non si ferma mai. La migrazione non è solo un viaggio legato a motivazioni economiche (per questo ha molto senso sostenere la decrescita dei trasporti delle merci... e la crescita dei viaggi delle persone). Siamo quello dove siamo stati e dove saremo. Siamo le lingue, i dialetti (a loro volta sempre nomadi...), ma siamo soprattutto i saperi che impariamo, i mondi che incontriamo, le relazioni sociali (non capitaliste) che costruiamo e le persone che amiamo.

Capracotta, Stati Uniti, Albania, Puglia, trasumanza, Roma... Bangladesh: sono tutto questo, nient'altro che questo.


Gianluca Carmosino

 

Fonte: https://comune-info.net/, 15 giugno 2013.

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