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Il frac del principe


Claudio Del Castello
Il principe Abdul Reza Pahlavi (1924-2004) col diplomatico americano William A. Harriman.

Il racconto è come un abito di alta sartoria, pregiato lavoro nelle mani di un esperto tagliatore, forgiato e interamente cucito a mano: le misure proporzionate, la giacca ben accostata al collo, il pantalone maschile diritto a lasciare intravedere la gamba secondo le regole del buon vestire.

Ed ecco che prende corpo e vita il modello, la prima prova, la seconda prova sartoriale e poi... punto dopo punto, perfezionismo dopo perfezionismo, tra punti lenti e punti ripassati, si intravede la figura del protagonista, il quale comincia a muoversi seguendo la trama della propria esistenza.

Il tagliatore crea il prodotto e gli rende vita propria: così accade nello scritto, le emozioni passano dal cuore di chi racconta al cuore di chi scrive; dal cuore di chi scrive alla penna; dalla penna allo scritto e dallo scritto - per un inverso gioco di pensieri e per la magia delle parole - prendono corpo e scivolano silenziosamente nel cuore di chi legge, sol che il lettore sia ben disposto ad emozionarsi ed a rivivere quanto dal racconto prende vita.

Claudio Del Castello mi racconta la sua storia densa di emozioni ed io, incantata, mi permetto di usare la mia penna con la speranza di riprodurre, in un sol tratto, una sua creazione di alta sartoria.

Claudio, tagliatore e sarto, partì adolescente da Capracotta quando, dopo due anni di apprendistato, già sapeva mettere qualche punto.

L'arte non era perfezionata perché l'età era ancora acerba e vi era molto da apprendere. Negli anni Quaranta, il piccolo paese di Capracotta era un laboratorio di sartoria.

Si narra - di voce in voce - che in quegli anni talvolta capitasse di vedere Ciro Giuliano in giro per il paese con il somaro: colui che insegnò come vestirsi a Gary Cooper, il re dei sarti europei, colui che aveva, con talento e con gusto, interpretato criteri e tecniche inglesi, liberando la giacca dalle spalle finte, fatte di bambagia, sostegni e telette.

A Capracotta era facile imbattersi nei sartori; ivi lavoravano dieci sarti o più e ogni sarto tramandava la propria arte a dieci, o al massimo, dodici apprendisti. Ai piccoli apprendisti veniva legato il dito nel quale doveva essere infilato il ditale; non certo per imporre loro odiose torture, ma per favorirne l'abilità nell'utilizzo del prezioso strumento di lavoro, destinato da sempre ad accomodare l'ago sul tessuto con velocità, ritmo e compostezza quasi ad inseguire senza sosta la linea della cucitura, già tracciata ed imbastita con maestria dalle mani perite dell'artigiano.

L'apprendistato era molto faticoso; si partiva dal pantalone, poi si passava al gilet ed infine alla giacca. Quanta fatica e quanta determinazione per confezionare una giacca: per trapuntare un petto, occorrono circa ottocento punti e la ribattitura a puntino evidenzia il tratto pregiato e regale dell'artigiano.

Una cucitura storta è sufficiente per rovinare la creazione e per imporre un lento ma inesorabile disfacimento del lavoro già avviato... e così si ricomincia!

Quanta analogia con la vita, dove qualche punto mal messo o di traverso impone un nuovo inizio ed un diverso cammino.

Claudio avrebbe voluto studiare e mi racconta della sua famiglia, del papà Pasqualino, profugo della Cirenaica, e della necessità di apprendere un mestiere.

Nel marzo del 1951: partenza da Capracotta con direzione Roma. L'unico piccolo bagaglio era l'esperienza di apprendista nel paese natio, che aveva consentito a Claudio di approntare la seconda prova ovverosia la prova della mezza giacca con i tre pezzi sciolti: i due pezzi del davanti ed il dietro; mancavano ancora le maniche (e quanta strada) per poter confezionare una giacca.

Del mestiere restava molto da imparare e soprattutto - come ricorda Claudio - «a quel tempo restava da imparare a vivere». Si impara a vivere in molti modi ma dai sacrifici, per quanto nessun uomo possa desiderarli, spesso si trae la forza e la convinzione di camminare lungo il giusto tracciato.

A ventiquattro anni la scuola di taglio in via del Tritone 102, dove si imponeva studio e dedizione.

Non era sufficiente saper cucire ma occorreva studiare; Claudio cominciò ad affinare le proprie cognizioni geometriche e ad imparare a memoria le frazioni: un quinto di quarantotto, di cinquantadue, di sessanta. L'arte del taglio era così avviata.

In quel periodo, ricorda Claudio, chiedevano un tagliatore da Teheran.

Chiunque avrebbe esitato ma Claudio, sostenuto dalla complicità e dall'affetto della moglie, decise di partire, questa volta con destinazione Teheran. Non restava che affidarsi a sant'Omobono, il primo sarto martire, e dare inizio a questa avventura. Un breve viaggio di nozze a Frascati ed il 9 settembre 1961 la partenza per la Persia, così ancora la chiama Claudio.

La città di Teheran, ai piedi dei monti Elburz, appariva diversa dalle nostre città; la luce con i pali di legno; l'acqua trasportata con le botti ed i venditori di sale blu (namach), che appoggiavano le bisacce sul dorso dei somari e strillavano a gran voce: «namaché namaché» ("sale sale").

Il primo contratto fu di tre mesi quasi a voler tenere ben custodita l'intenzione di fare presto ritorno in Italia, ma così non fu.

Sullo sfondo... oltre ai monti ed al tramonto di mille colori sulla città di Teheran, la storia di un paese che, di lì a poco, avrebbe vissuto gli anni della Rivoluzione Bianca avviata da Mohammad Reza Pahlavi.

I latifondi sottratti alle classi privilegiate ed al clero (mullah) furono ben presto distribuiti anche ai contadini. Una riforma giusta e sensata, allora lo pensarono in molti e lo pensò anche Claudio. La storia però offre percorsi che, inesplorati, si rivelano impervi ed accidentati solo dopo averli calpestati: fu quella l'origine storica di molti eventi successivi, che ebbero una profonda eco anche nella vita di Claudio e della sua famiglia.

La sartoria, presso la quale Claudio aveva trovato il suo primo impiego, era una sorta di società di persone costituita da un socio persiano - senatore e direttore di banca - e da un immancabile socio italiano. Allo scadere del primo contratto, dopo molte esitazioni, la decisione di mettersi in proprio prese concretezza grazie anche ai preziosi suggerimenti di uno dei fratelli dello Scià, che Claudio aveva già conosciuto, ben servito e ben vestito presso la vecchia sartoria.

Così, superate le incertezze ed i comprensibili timori, il sarto italiano Claudio del Castello iniziò la sua lunga e pregiata attività di tagliatore e sarto alla corte dello Scià.

Gli inizi furono difficili tanto che il giornale più importante di Teheran, per bloccare la sua ascesa, dedicò al sarto italiano un articolo, dal contenuto vagamente denigratorio, nel quale si denunciava che un sarto persiano guadagnava solo 350 tomani ed un sarto italiano ben 24.000 tomani.

Il giorno successivo la smentita grazie ai buoni uffici del principe. Per ottenere il permesso di soggiorno i problemi non furono pochi; Claudio fu sottoposto al controllo serrato della temibile Savak (la Sicurezza Nazionale), che allora svolgeva le funzioni di polizia politica.

In un primo momento, il Ministro non acconsentì al rilascio del permesso di lavoro ma l'arte e la bravura di Claudio, ben presto, finirono per convincere anche le inflessibili autorità persiane che sarebbe stato un grave errore non accogliere nel paese l'abilità e la maestria del sarto italiano.

E così, taglio dopo taglio, punto dopo punto, abito dopo abito, la sartoria Del Castello era divenuta celebre, meritando persino la categoria di eccellenza (montaz), che solo Claudio possedeva in tutto il territorio nazionale. Ivi erano addetti quaranta dipendenti che gestivano ventidue separati tavoli da lavoro e tremilaseicento cartelle di clienti davvero eccellenti: ministri dell'epoca, capi del petrolio, deputati, senatori e governatori regionali. Tra i nomi eccellenti Amir Abbas Hoveida, Ministro del Petrolio, poi divenuto primo ministro e severamente giustiziato con la Rivoluzione assieme ad altri venti ministri.

Claudio - senza saperlo - aveva impostato il suo laboratorio sartoriale su una celebre frase, pronunciata più di un secolo fa, da uno degli uomini che hanno reso celebre la moda maschile nel mondo, tale Henry Sand Brook, che era solito dire: «Commerciare solo merce della migliore qualità, venderla con un profitto equo e fare affari solo con gente che cerchi questa merce e che la sappia apprezzare».

In sartoria si riproduceva tale perfezionismo: ogni tavolo da lavoro aveva un responsabile con addetti a lui sottoposti, si trattava stoffa della migliore qualità e l'abito fatto a mano aiutava il portamento e lo stile!

L'orario di lavoro era serrato; dalle ore 8 alle 13 taglio; il pomeriggio a disposizione del cliente con almeno trenta prove. La mattina successiva le correzioni; era importante annotare e ricordare, correggere e modificare, per giungere al prodotto finito costruito su pregiate stoffe inglesi e su tessuti di Zegna.

Claudio poi non smetteva mai di studiare, senza sosta e non curante della stanchezza, si dedicava allo studio anche nei giorni di festa, era questa l'unica irrinunciabile risorsa per migliorare il lavoro e per passare dalla misura geometrica regolare, così ben descritta nei manuali di taglio, alla vera taglia del cliente per mitigare, e persino rendere invisibili, le inevitabili imperfezioni dei corpi di re e ambasciatori.

Per nostra fortuna, anche tra i re e gli ambasciatori vi era chi aveva la gobba, chi aveva un fianco cadente, chi aveva una spalla sbilenca, chi era panciuto, chi aveva la gamba corta e storta ed è proprio questo il vero miracolo di un sarto: carpire i difetti fisici del proprio cliente senza lasciarglielo troppo intendere ed abilmente camuffare, dietro un abito di mirabile fattura, le inevitabili imperfezioni che da sempre connotano l'uomo e che lo rendono, povero o re che sia, unico e prezioso nel suo genere!

Sono davvero tanti i personaggi in cui Claudio si è imbattuto nel corso degli anni, ne cita alcuni ed io annoto incuriosita: Pompidou, Breznev, l'attuale Re di Svezia, Hussein di Giordania e molti molti altri.

Da un paese così piccolo ed esposto ai venti, la Capracotta degli anni Cinquanta, inorgoglisce pensare che tanti suoi figli siano ancora in giro per il mondo a seminar talenti!

Un abito non è solo un abito... racchiude e rivela storie di vita, le anima e... una tra tutte spicca e ha il sapore di una favola alla corte di un Re, morale e senso di una storia che passa ma che insegna a vivere: «A quel tempo non restava che imparare a vivere», ricorda Claudio!

Il frac del principe Abdul, realizzato punto dopo punto, per il fratello dello Scià inorgoglisce Claudio che, nel descrivere il prezioso capolavoro, fatica a celare l'emozione e la sana fatica di quegli anni.

La marsina principesca fu indossata da Abdul per lo storico giorno dell'incoronazione dello Scià di Persia Reza Pahlavi e meritò persino i complimenti della Regina Madre che, rivolgendosi al figliolo, con voce imperiosa e flebile al tempo stesso, come solo le madri sanno intonare (poco importa se regine o popolane), lodò quel pregevole abito così «ben accostato al collo».

Il Principe Abdul, rivoltosi alla madre, esclamò con fierezza che il sarto italiano Monsieur Del Castello, aveva realizzato e cucito per lui l'abito principesco.

La marsina del principe incarna storie private e drammi della storia: il tragitto da Capracotta a Roma, da Roma a Teheran, per quanto difficile fosse, guardato con gli occhi nostalgici e periti di un domani già vissuto, ha avuto un senso.

Le gioie ed i dolori privati si sono legati a doppio nodo con la storia di un popolo, caldo e generoso; l'inizio della Rivoluzione, l'abbuiamento dei pensieri, l'uccisione di tutti gli uomini che Claudio aveva così ben vestito, la difficoltà di continuare a lavorare in un paese che improvvisamente diventa inospitale e... ancora oggi, così difficile e tormentato da raccontare.

Quel frac, simbolo di regalità e di vita, diviene all'improvviso il simbolo di un tempo che passa e che travolge il tempo stesso e la storia di un popolo.

La sartoria di Claudio è rimasta in attività dagli anni della rivoluzione sino al 1993 quando, a malincuore, Monsieur Del Castello liquida tutti i suoi collaboratori e riprende il cammino, non senza perigli, per l'Italia ove il suo talento è ancora oggi ricercato ed apprezzato da molti uomini.

L'ascolto di preziose esperienze di vita cela in sé una ricchezza ed un sapore unici: dagli altri si impara a vivere e si comprende che nessuna vetta può essere scalata senza fatica. Dopo il racconto di Claudio, lo ammiro passeggiare per le strade di Capracotta; il caldo sole estivo della montagna fa luce sull'eleganza che nasce e che si nutre nelle profondità dell’anima; uno stile di vita che insegna e che tramanda l'arte della vera nobiltà che Monsieur Del Castello aveva appreso, non alla corte di principi e regine, ma dal papà Pasqualino profugo della Cirenaica.


Luisa De Renzis

 

Fonte: L. De Renzis, Il frac del principe, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. III, Proforma, Isernia 2013.

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