Un anno fa sono stato invitato nel Molise, a Isernia per aprire il primo festival di letteratura di quella città. Ci sono arrivato in treno da Roma e nel tragitto ho notato che l'ultima ventina di chilometri la linea ferroviaria saliva. La città occupa la dorsale di un'altura definita dalle valli scavate dai fiumi Carpino e Sordo, quindi è alta rispetto al territorio che la circonda. Il paesaggio che si può osservare tutto intorno è poco abitato, coltivato e molto verde perché coperto da boschi e segnato da un sistema di tratturi che, con la transumanza, hanno fatto da sfondo al transito di uomini e greggi e hanno caratterizzato la vicenda economica e culturale molisana. Le zone di collina e di montagna che circondano Isernia sono coperte da fitti boschi di cerro e faggio e caratterizzate geologicamente da formazioni calcaree. Dalla piazza della città un forestale mi ha indicato all'orizzonte i confini del Parco Regionale del Matese; il versante molisano è coperto da faggete in alto e alle quote inferiori da castagneti, leccete e da formazioni miste di roverella, cerro e carpino nero fino agli uliveti.
Da quelle parti c'è anche uno dei due boschi puri di cipresso presenti in Italia, chiamato Bosco degli Zappini, l'altro è in Toscana. Si tratta di una formazione costituita da cipressi che hanno i rami inseriti orizzontalmente nel fusto; il loro nome scientifico è Cupressus horizontalis, una forma a cui non sono abituato e che avevo visto solo nell'isola di Creta.
Durante la mia visita sono riuscito a fare una camminata: a quote un po' più alte, fino ai 1.746 del Monte Campo, ho attraversato con un comodo sentiero una foresta di abeti bianchi considerati relitti dell'ultima era glaciale.
Le loro dimensioni sono davvero notevoli tanto che la zona è chiamata Bosco degli abeti soprani.
La seconda volta che sono tornato nel Molise era per conoscerne la parte compresa nel Parco nazionale e ho incontrato un monumento vegetale di grande fascino.
Nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, il Monte Tranquillo forma con la Chiatra del Re e il Marsicano uno splendido panorama di vette e valli. Una di queste, la Valle Ura, è coperta di boschi di faggio maestosi per imponenza e affascinanti per vecchiaia.
Ma la presenza arborea più importante è data da un'altra specie o, meglio, da un unico individuo di un'altra specie: l'acero montano (Acer pseudoplatanus). È uno degli aceri più grandi d'Italia: quasi 7 metri di circonferenza, 30 di altezza e 450 anni di età ed è come se fosse nascosto tra i faggi, quasi a non farsi notare. Noi lo chiamiamo "acero", quindi il genere maschile che in lingua italiana si usa per la maggior parte delle specie arboree: pino, abete, larice, rovere, leccio, melo, castagno ecc. Ci sono poche eccezioni, per esempio la betulla, chissà perché.
Ma gli abitanti di Pescasseroli, considerata la capitale storica del Parco, quello che per gli altri è "lacerane", lo chiamano "l'Acera d'Trnghill". Dunque è femmina, una grande madre solitaria di fronte alla quale nel 1960 alcuni boscaioli incaricati di abbatterla deposero le accette e si rifiutarono di eseguire l'ordine.
A pochi passi da lei si può visitare la Grotta dei briganti, dove per un decennio, tra il 1861 e il 1870, si nascondeva la Banda Cedrone in aperta ribellione contro l'esercito piemontese.
L'Acera era già là da molto tempo e sicuramente i briganti si sentivano rassicurati dalla sua presenza. Anzi l'avrebbero usata come nascondiglio per la refurtiva. A Pizzone, un paese ai piedi della montagna, si narra che sull'Acera veglia un sortilegio. Tutte le valanghe che da secoli scendono giù per il canalone di Valle Ura, schiantando tutti i faggi che incontrano sul loro cammino, si limitano a sfiorare il suo piede senza mai travolgerla.
Pare che i briganti avessero fatto un patto con il diavolo: avrebbero nascosto un tesoro frutto delle loro rapine sotto il terreno nella cavità dell'acero e Satana lo avrebbe custodito, accettando un cambio terribile: loro gli avrebbero sacrificato un neonato, sgozzandolo sopra il terreno che copriva il tesoro. Da allora si dice che il diavolo abbia sempre mantenuto il patto di sangue stipulato, tanto che, ogni volta che qualcuno si azzarda a tentare di trafugare il tesoro, all'improvviso attorno all'Acera si scatena una tempesta di vento, pioggia e fulmini che mette in fuga gli incauti.
Il tronco alla base è cavo e può ospitare fino a tre persone non troppo voluminose e poi si biforca a un paio di metri di altezza. Chiunque vada a visitarla prova ad abbracciarla, è un gesto istintivo, ma per circondarla del tutto bisogna essere almeno in tre.
Non ci sono cartelli che ne segnalino la presenza, una sorta di segreto riservato all'Acera, che insieme al fatto che vive a una quota piuttosto alta, 1.660 metri sul mare, ha contribuito alla sua difesa e ad aumentarne il fascino.
L'escursionista nel cercarla potrebbe trovare sul suo cammino i segni del passaggio dell'orso marsicano o del lupo oppure scorgere nel cielo il volo maestoso dell'aquila reale.
Daniele Zovi
Fonte: D. Zovi, Voci dal bosco, in «La Rivista del Club Alpino Italiano», 5, Milano, novembre 2023.
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