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Pezzata di Capracotta, il primo street-food d'Italia



Prima di essere una festa, la pezzata è un piatto e, prima di essere un piatto, la pezzata è un'usanza. Per comprendere la specificità della pezzata bisogna dunque partire ab ovo, cioè da quando questa preparazione culinaria diventò la specialità dei pastori transumanti.

La pezzata nasce infatti presso la comunità tratturale capracottese, generalmente costituita dalle persone più misere, quindi da coloro che meno di tutti avevano accesso alimentare alla carne. D'inverno il pastore guidava il gregge verso la Puglia, d'estate lo portava a monticare, ma in nessuna stagione dell'anno egli poteva acquistare la carne se non le parti poco nobili in minuscole dosi. Il viaggio sul tratturo era l'unica occasione, per lui, di poter mangiare la carne a 360 gradi. Quando una pecora era a fine vita oppure si azzoppava al punto da non poter proseguire il viaggio, il pastore era autorizzato a sopprimere l'animale e a cucinarlo per il proprio fabbisogno.

Agli occhi del pastore la pecora era una pietanza prelibata, tanto che persino il suo odore forte e robusto - che gli appassionati di cucina oggi snobbano - era un pregio. L'ovino, d'altronde, si azzoppava perlopiù durante il lungo viaggio, non sulle pianure sconfinate della Puglia, il che fa pensare che la carne dovesse essere cucinata e consumata in itinere.

Non può esistere una ricetta definitiva della pezzata se non quella basata sui suoi ingredienti fondamentali: la pecora, l'acqua e il fuoco. Di certo il pastore bolliva la carne aggiungendo gli odori che aveva a disposizione (cipolla, patata, sedano), solo se li aveva a disposizione. Ci tengo poi a precisare che la pezzata si distingue dalla cosiddetta "pecora alla callara" (o "al cotturo") della tradizione abruzzese per almeno un elemento: la pezza.

Esistono infatti due interpretazioni circa il nome della pezzata. La prima e più diffusa vuole che essa provenga da "depezzare", la pratica di tagliare in pezzi grossolani la carne prima di cuocerla. La seconda teoria pretende invece che il nome derivi da un'imprecisata pezza di stoffa utilizzata dai pastori per asciugare il grasso. A ben vedere, in Italia, da sempre, la carne ovina e bovina viene depezzata prima di venir cotta, il che renderebbe troppo semplicistica, per non dire banale, la teoria della "depezzata". Del pari il grasso era in passato considerato un elemento nutriente, rinforzante, il che fa cadere anche l'idea della pezza utilizzata a mo' di schiumarola.

La peculiarità della nostra pezzata, invece, sta nella sua consistenza, oltremodo morbida e burrosa, che si può ottenere solo dopo una lunghissima cottura, evitando che la carne si disidrati. Il pastore, infatti, a volte non aveva accesso a una quantità d'acqua tale da riempire il caldaio (chettùre) e si vedeva costretto a bollire la carne in poche dita d'acqua, motivo per cui poggiava in superficie una grossa pezza di lana che, galleggiando, non permetteva all'acqua di evaporare, mantenendo costante l'umidità della carne. A mio avviso è questa la corretta origine della pezzata: carne di pecora bollita sotto una pezza di lana. Questo tipo di cottura faceva sì che la carne restasse tenerissima a lungo, tanto che il pastore la mangiava anche durante il tragitto transumante.

La festa della Pezzata, istituita nel 1962 dalla giunta Di Ianni e pensata come una giornata dell'ospitalità capracottese, è oggi una delle maggiori sagre gastronomiche del Centritalia, motivo per cui meriterebbe una profonda rivisitazione per sfruttare al meglio le sue capacità di attrattiva turistica.

Il vetusto pastore della pezzata, invece, non tornerà più. Noi possiamo solo onorare il suo lavoro, la sua pecora e la sua pezza.


Francesco Mendozzi

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