Caro Manduccio, sono passati quasi sessant'anni da quel lontano 27 dicembre del 1940, che ci vide insieme per l'ultima volta lungo il percorso dal nostro paese a Castel di Sangro.
Quel giorno splendeva un bel sole. La neve fresca, caduta abbondantemente in quei giorni, brillava di un biancore abbagliante. La strada era chiusa fino alla cantoniera della Montagna ed era lì che stazionava l'autocorriera (il postale) che faceva servizio dal paese allo scalo ferroviario di San Pietro.
Per raggiungerla partimmo tutti e due di buon'ora, a piedi, unendoci ad un gruppo di compaesani, in gran parte militari, che rientravano ai loro reparti dopo un breve periodo di licenza. Tu dovevi rientrare a Ciampino; io dovevo raggiungere la sede scolastica di Montalto di Rionero Sannitico, cui ero stato destinato. Le vacanze natalizie quell'anno, primo anno di guerra, erano state ridotte a pochissimi giorni e questo spiega l'insolita anticipazione della ripresa del servizio.
Eri pieno di entusiasmo per il tuo lavoro di fotooperatore a bordo degli aerei.
Giunti sotto il Monte, ci fermammo un momento sotto i faggi incappucciati di neve, che, alla luce del sole che filtrava fra i rami smerlettati di bianco, davano un aspetto fiabesco al paesaggio. Tu scattasti una foto che poi mi spedisti a Montalto.
Alla Montagna prendemmo il postale che ci portò alla stazione. Poi prendemmo il treno e facemmo insieme, scambiandoci le ultime confidenze, l'ultimo tratto del percorso fino a Castel di Sangro. A quella stazione, l'ultimo saluto e il commiato. Per me il viaggio in treno era finito. Ricordo che sostai un momento sulla banchina per vederti partire. Tu dal finestrino, sorridente come sempre, mi salutasti con la mano. Fu l'ultima volta che ci vedemmo.
Alla fine di gennaio mi giunse a Montalto l'ultima tua lettera. C'era, acclusa, la fotografia scattata sotto il Monte. Conservo ancora la foto e solo un pezzo della lettera, cari segni della memoria di quella indimenticabile giornata. Mi dicevi che avevi scelto di far parte delle formazioni combattenti, in allestimento anche a Ciampino, destinate ad essere impiegate operativamente in Africa settentrionale: «questa grande pacchia finirà e, detto fra noi, quasi ne sono contento. Voglio vedere se realmente è vero ciò che si prova in guerra».
Partisti per l'Africa col Conte Rosso. Io lo seppi in paese, appena rientrato dopo la chiusura delle scuole.
Una sera del mese di giugno di quello stesso anno 1941 il comunicato radio annunciò l'affondamento, ad opera di aerosiluranti nemici, del Conte Rosso. La nave aveva da poco lasciato il porto di Siracusa. Noi tutti trepidammo perché su quella nave c'eri tu.
Pochi giorni dopo il Ministero della Guerra ti dava per disperso. Il sottile filo che ancora manteneva accesa la nostra speranza, si spezzò e noi rimanemmo col nostro dolore. Qualche tempo dopo, nel mese di luglio, pervennero al Muncipio, dal Ministero, alcuni tuoi effetti personali: un'agendina, con la tua scrittura, che io riconobbi, gli occhiali da sole e altri oggetti, che non ricordo.
I più lontani ricordi di te risalgono all'infanzia. Tu avevi cinque o sei anni più di me. Ti rivedo quando, nelle sere estive, giocavi con i tuoi compagni di scuola e di giochi, sulla via Nuova. Movimentavate coi vostri chiassosi giochi tutto San Rocco. Ti rivedo allo Sci Club, d'inverno, col maestro Ottorino che vi faceva divertire, in attesa delle gare. Ti rivedo vicino al banco, nella bottega di zio Colitto, intento ad imparare l’arte o a mastreggiare con la macchina fotografica, ritenuta da lui, come mezzo di integrazione del magro guadagno della bottega.
Il lavoro scarseggiava. E allora tu e i tuoi coetanei, Pasqualino, Aurelio, Nicola, Giappone, vi arruolaste nell'Aeronautica per sbarcare il lunario e magari costruirvi un avvenire. Eravate appena usciti dall'adolescenza. Facesti il tuo apprendistato nell'aeroporto di Ciampino. Quel po' di arte fotografica appresa da zio Colitto ti giovò e ti indusse a scegliere il ruolo di fotooperatore a bordo degli aerei.
Quando tornavi in licenza mi mostravi le foto scattate in volo, alcune delle quali, ricordo, di una grande drammaticità. Il tuo ritorno a casa, in licenza, era atteso con impazienza e salutato con gioia da noi tutti, parenti e amici. La tua espansività, il sorriso che irraggiava il tuo volto, la signorilità del tuo portamento, conquistavano la simpatia di tutti.
Ce ne andavamo in campagna con l'immancabile Kodak, la tua macchina fotografica. Mi parlavi della tua nuova vita, del tuo nuovo lavoro, per il quale sentivi molta attrazione, delle tue speranze. Mi aprivi al mondo della città, così diverso dalle nostre piccole esperienze.
Conservo alcune delle fotografie fatte durante le nostre escursioni. Particolarmente cara me ne è una scattata sulle pendici di Monte Capraro, sopra alle Fonticelle. Venne con noi quel giorno Giulio, un tuo caro compagno, di cui non ricordo il cognome. Fu lui a scattare la foto sul Monte.
Vi si vede la strada che serpeggia bianca sotto di noi e, lontano, sullo sfondo, il panorama del paese, adagiato ai piedi della Guardata. La campagna è brulla. Doveva essere primavera perché sembra di scorgere i bocci sui rami delle piante: l'ultima tua primavera capracottese.
Domenico D'Andrea
Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.