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Ricordo di Romeo


Romeo Paglione (1922-1973).

Riemergono da questa breve evocazione alcuni momenti di vita passati in comune con l'indimenticabile amico Romeo. Essa vuol essere un affettuoso atto di omaggio, reso con sentimento di profonda, fraterna devozione, alla sua memoria.

Quante volte la tua immagine, Romeo, ora che non ci sei più, viene da me, sempre così composta e serena, come tu eri realmente!

È un pomeriggio invernale, nel nostro paese. Siamo seduti accanto al camino di casa tua, tutto nero di fuliggine, ma pure così acconcio all'intimità e al raccoglimento. Vi arde un bel fuoco di legna di faggio. Tu cominci a strimpellare qualche nota di accordo sulla tua amata fisarmonica e, prova e riprova, alla fine ne vien fuori l'allegro motivetto, ormai noto a tutto il rione.

Vai avanti per un pò, poi riponi la fisarmonica e ci mettiamo a discorrere. Come fila bene la conversazione con te! Tu non la fai mai da protagonista, non sei mai invadente e ne avresti, forse, qualche ragione, così sostanziato di cultura come sei; tu sai parlare e sai ascoltare: pregio che si va facendo sempre più raro.

Zio Pasquale, il tuo buon padre, s'intromette nella conversazione, amabile, gioviale, e, parlando parlando, se ne va, con la sua parola calda, pregna di buon senso e di onestà, verso le lontane plaghe della Puglia, della sua Capitanata (par di riudire i versi struggenti di malinconia della canzone di re Enzo: «Va', canzonetta mia, vanne in Puglia piana, la magna capitana, là dov'è il mio core notte e dìa»), dove lui ha vissuto tanta parte della sua vita.

Ed ecco sfilare davanti, come nelle sequenze di un film, storie di pastori, di massari, di butteri, e greggi pascolanti nella monotona e pure così amata piana del Tavoliere. Eccoci alla storia che più di tutte suscita cordiali risate da parte del piccolo uditorio, a cominciare da te; alla storia del buon Pasquale Angelone: «Ah bercone (briccone), voi siete il figlio di Pasquale Angelone!».

Che simpatico conversatore, che uomo, zio Pasquale! Che volto! Pareva, il suo volto, nella tranquilla compostezza dei suoi lineamenti, così bene ritratti da tuo fratello Leo in quel bellissimo quadro, un compendio magnifico di quanto di buono e di semplice ci possa essere nell'archetipo umano. E la stessa serena compostezza rifletteva la tua fronte.

Com'era diverso il nostro mondo, dicevi in una lettera del marzo del 1971. Sì, com'era diverso! Era quello umile e semplice di zio Pasquale, di comare Serafina, di Lucietta, la tua mite coinquilina dal volto esile e dolce, pieno di efelidi, che condivideva con voi le povere cose di quella vecchia casetta con l'andito buio e tetro e pur tuttavia penetrato da un senso di pace intima e di quiete.

Era il mondo di mastro Enrico calzolaio e di compare Marino, inguaribile burlone. Era anche quello di fra Malizia e del nostro "Campionissimo", che in fatto di volponeria, in quegli anni, stavano superando se stessi: il Campionissimo, che certi giorni spariva, "insalutato ospite", lasciando baracca e burattini; che in quelle tiepide sere di primavera correva per i vicoli della Terra Vecchia, ingombri ancora di macerie, a pedinare... donzelle.

Lieto eri tu di quel mondo che solo apparentemente offriva così poco. Ne eri pago; non ambivi a grandi cose. Ti contentavi di niente: due patate calde a colazione, il vestito di lana tessuto a mano, nel telaio, e il lieto motivetto strimpellato sull'amata fisarmonica.

Quando poi riprendesti gli studi e spiccasti il gran volo, che doveva portarti in breve tempo ai vertici della carriera scolastica, rimanesti quello di sempre, modesto e buono, l'amico di tutti, alieno da ogni sorta di presunzione. La tua cultura non la facevi mai pesare sugli altri. Essa era una cosa tua tutta personale, un fatto di civiltà che tanto ti elevava spiritualmente, ma senza che tu lo dessi a vedere.

I tuoi amici più cari, oltre a noi, colleghi e vecchi compagni d'infanzia, erano Gustavo e Carlo Monaco, era mastro Nicola, porta a porta con te: gente dal cuore semplice. Come ti trovavi bene con mastro Nicola nelle passeggiate alla Villa comunale, memore forse di quando lui veniva a riprenderti, ragazzo filone, nei giorni che marinavi la scuola, sotto alla Piazzetta dei Ritagli. Che vi dicevate in quelle tranquille passeggiate, avanti e indietro dalla Villa al Corso, dal Corso alla Villa? Ben poco, spesso proprio niente. «Non esiste prova più sicura di profondo affetto che quella di non temere di stare insieme in silenzio. Canzoni senza parole», ho trovato scritto in qualche parte. Si attaglia alla perfezione ai tuoi rapporti con quei vecchi amici.

Eri così anche a scuola, quando insegnavi: semplice, mai invadente, costruttivo sempre. Avevi messo veramente in atto il vecchio adagio, così pieno di saggezza pedagogica: Per insegnare bene uno, devi sapere cento. Avevi studiato sodo per porgere ai ragazzi non multa sed multum, quel tanto che bastasse per aiutarli a farsi da sé. Ma quel poco valeva bene il molto delle scorpacciate verbose che non dicono niente e lasciano il vuoto dentro. Ebbi l'occasione di rendermene ben conto quell'anno che presi la classe che tu avevi lasciato, una quarta, per andare a studiare al Magistero di Salerno. Quel tanto che sapevano, i ragazzi lo avevano veramente interiorizzato. Eri uscito, come tu stesso mi confidavi, dalle mani di un uomo di scuola colto e pragmatico, l'ispettore Balzano di Campobasso, che poi divenne tuo grande amico.

Balzano e Campobasso mi riportano con la mente al lontano concorso magistrale del 1942, nel quale tu risultasti primo assoluto. Risultato meritatissimo con quella corposa preparazione che t'eri fatta, che aveva radici nei sudatissimi studi delle magistrali, da te conchiusi, un portento per quei tempi, quasi con la media del dieci.

Veniamo anche noi a Campobasso per partecipare al concorso. Avevamo proprio la testa al concorso, noi! Ti portavamo un pacchetto con il pan di Spagna e i soppressati paesani che ti mandava mamma Serafina. Alla stazione di Carpinone, durante la lunga sosta in attesa della coincidenza, a qualcuno venne in mente di mettere mano al tuo pacchetto. Detto fatto, in quattro e quattr'otto spicciamo tutto. Di mamma Serafina tu avesti solo i saluti. Perché ricordo questa "bricconata"? Si, anche per il gusto di rievocare, ma più e più per il modo in cui ti comportasti in seguito. Prendesti la cosa come va presa da chi la sa prendere: per una ragazzata e nulla più. Avrei proprio voluto vedere come si sarebbe comportato un altro al posto tuo! Mai che abbia sentito da te una parola di recriminazione sull'accaduto.

Andiamo, rientriamo a casa. Che allegria questa sera in casa tua! Ma perché ci riunivamo sempre da te? Perché nella tua casupola, col camino nero e la finestrella col buccitto, con zio Pasquale e zia Serafina, con la Lucietta dal volto pieno di efelidi, tutto candore, la tua coinquilina, si sta meglio che in una reggia. Ci si scalda al calore del tuo caminetto e al calore umano, ben più caldo e gradito, che emana da te e dalle persone semplici che sono con te.

Stavo dicendo che c'è allegria in casa tua, stasera. C'è Marino, il "compare" Marino, sempre traboccante di buon umore, che trasfonda a piene mani su tutti; sempre sul punto di pensarne una più del diavolo per "incastrare qualcuno" e renderlo oggetto di scherzose manipolazioni.

Che risate piene, felici, ti facevi alle sue uscite! Ecco: Marino rievoca per l'ennesima volta il racconto dei verbi transitivi e intransitivi e cioè della pratica antitetica alla grammatica. Lui impersonava la pratica; noi altri, tu più perspicuamente, la grammatica, quella buona, vale a dire la cultura. Mai le due cose, la teoria e la pratica, il pensiero e l'azione, hanno filato con più amore e concordia che fra voi due: la pratica a braccetto della grammatica. C'è anche mastro Enrico calzolaio questa sera! Come si sta bene con te e con loro! Un bicchiere tira l'altro: Marino mesce a mastro Enrico (ha il suo disegno, lui) e mastro Enrico s'imbrilla e canta appassionatamente canzoni d'amore paesane e, nell'euforia del momento, si rivolta il berretto e la giacca e si mette a ballare con Lucietta dalle efelidi.

Me lo ricordasti tu stesso in quella lettera datata marzo 1971.

Oggi è venuto in visita alle scuole il direttore Cardarelli. S'è fatto portare dal cugino col side-car. Stamattina ha visitato le scolaresche ed ha avuto per tutti parole di lode e di incoraggiamento.

È una gran brava persona Cardarelli. Ha una buona formazione intellettuale e morale. Questa sera c'è il pranzo in suo onore all'albergo di Antonino.

Andiamo: è ora. Antonino ha fatto le cose a modo. Ha unito i tavolini del salone da pranzo e ne ha ricavato un bel tavolo lungo, a ferro di cavallo. Al centro è seduto Cardarelli; di fronte, sul tavolo, c'è un bel vaso con i fiori dentro; accanto a lui ci sei tu, maestro fiduciario. C'è anche la collega della scuola di Guastra, Cesira Caroselli di Agnone, una smilza e bruna signorinella con gli occhi intelligenti ed espressivi.

All'inizio il discorrere procede fiacco, quasi a spintoni, ma poi, come succede sempre, si vivacizza, diciamo, a misura di bicchiere: vino molisano, di Monteroduni. Ma guarda guarda...! Tu, senza darlo a vedere, getti di tanto in tanto occhiate furtive, discrete, verso il gruppetto ove è la giovane collega di Guastra. Che niente niente... ci abbia fatto il tuo bel pensierino? La tavolata è sempre più allegra e coinvolgente anche il compassatissimo Cardarelli.

Al levar delle mense, tu ti alzi e, vincendo la naturale ritrosia, ti appoggi con le mani al tavolo, e, per far questo, così alto come sei, ti devi flettere sul busto e anche un po' sulle ginocchia, e pronunci, a braccio, un bel fervorino in onore del festeggiato. Una bella concione, semplice, sincera: non c'è ombra di affettazione, niente enfasi: sei sempre tu. Cardarelli, che di te ha grande stima, si commuove e, alla fine, si alza e ti stringe in un abbraccio fraterno. Noi in fondo al tavolo, plaudiamo, divertiti, commossi anche.

Tempo di elezioni amministrative. Il paese è pervaso da un grande fervore. Si formano due liste antagoniste: una è la nostra e tu ne sei il capolista.

Ci diamo da fare, tanto. Abbiamo l'appoggio di don Nicola, l'arciprete, convinto assertore delle buone ragioni che ci hanno spinto a dare la nostra incondizionata adesione alla campagna elettorale.

Pronunci il discorso di chiusura in piazza. Un discorso lucido, magnifico, vibrante di entusiasmo. Vi si sente la sincerità del tuo animo, l'onestà dei tuoi propositi, l'impegno di partecipazione alla gestione della cosa pubblica; si sente nell'eloquio, profonda, la tua cultura. Chi è abituato al tuo discorso semplice, pacato, dismesso, sgrana gli occhi. Per noi che ti conosciamo è diverso. Sappiamo che quando è il momento di mettercela tutta, tu mobiliti tutte le tue facoltà logiche e ne ottieni risultati eccellenti.

Passano gli anni, tanti. Ci sparpagliamo: chi di qua, chi di là. Solo brevi incontri, d'estate, in paese. Ti ritrovo a Campobasso per una luttuosa circostanza, la scomparsa della povera Consiglia.

Ti apri al tuo vecchio amico. Quante cose sono successe dagli anni beati, quelli dei berretti rivoltati e del Campionissimo! Mi parli della tua nuova casa di Teramo e della casetta al mare, a Giulianova, dove tu vai a prendere bagni di sole. E mi parli del male che t'affligge da tanto tempo, che pare si giovi del sole marino. È un male serio, mi dici tranquillamente, quasi con distacco, come è nel tuo stile. Ci salutiamo con affetto fraterno, augurandoci di rivederci presto.

Ci rivedemmo in una cameretta d'ospedale, ai Monti di Creta, a Roma.

Giaci in un bianco lettino. Ti s'illumina il pallido volto, appena mi scorgi alla porta. Mi curvo a baciarti. T'ho portato una bottiglia di vino di Frascati. Tu, gioendo come un bambino, chiami Cesira per mostrarle il piccolo dono.

Com'è sereno il tuo volto!

Cesira si allontana. Tu mi parli di te, della tua malattia grave; mi dici come se raccontassi una tua scappatella infantile sotto alla Piazzetta, che prima di Natale eri stato sul punto di andartene, che ti avevano amministrato il Sacramento degli infermi; mi dici che avevi scritto una lettera all'ispettrice scolastica, che ti sostituisce a Livorno, comunicandole nientemeno... la tua ormai prossima dipartita. Mi dici tutto questo con la stessa serenità, la stessa franchezza che usavi per discorrere di questo e di quello con gli amici.

Io stento a trattenere fremiti di commozione. Da dove ti viene tanta serenità, tanta forza d'animo? Vuoi sapere notizie dei vecchi amici. Ricordi, ridendo di gusto, le marachelle del Campionissimo e le interminabili focose partite a carte di fra' Malizia. Dici che adesso stai meglio, che c'è un professore polacco, specialista di fama, che ha iniziato una cura radicale, modernissima, forse risolutiva.

Viene un assistente, un frate dell'ospedale e dal modo come vi comportate, tu e lui, mi accorgo che si è instaurato fra voi un fraterno rapporto di amicizia. Mi dici che è impagabile. È lui che ti porta in macchina a Teramo per i periodi di cura a casa. Ti metti a celiare con lui. Prometto di tornare presto. Mi curvo a baciarti.

Me ne vado commosso, stonato.

Non sono più tornato perché tu, dopo due giorni, sei partito per l'ultima volta per Teramo. Ti ha accompagnato il buon frate assistente.

Trascorre l'estate.

È tornato l'autunno. Io non so se tu sei ancora a Teramo o sei tornato a Roma per i controlli. Una sera mi telefona il compare Policella e mi comunica la triste notizia: te ne sei andato per sempre.

Vengo la mattina dopo, con mio fratello Mario, ai Monti di Creta, dove è già il compare. I tuoi sono già partiti per Teramo.

Siamo soli noi tre davanti alla cappelletta col tuo feretro. Poi viene tuo nipote, il figlio di compare Antonino, e ha luogo il mestissimo rito della benedizione funebre.

Assistiamo alla partenza del carro e riprendiamo la via del ritorno, muti, attoniti, senza pensare. No, proprio non ricordo che pensieri mi passassero per la mente durante quel triste ritorno.


(1983)


Domenico D'Andrea

 

Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

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