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Capracotta, 25 aprile 2025: le storie di Emilio, Fiore, Gaspare e Rodolfo


Il gruppo davanti alla croce di Fiore De Renzis (foto: T. Colacillo).
Il gruppo davanti alla croce di Fiore De Renzis (foto: T. Colacillo).

Venerdì 25 aprile 2025 la nostra Associazione ha organizzato con successo una lunga passeggiata escursionistica tra la Difesa e il Vallone delle Incotte per raccontare ed omaggiare quattro capracottesi che, con storie diverse, hanno perso la vita per cause direttamente connesse alla Seconda guerra mondiale e al nazifascismo.

Innanzitutto ci siamo recati sulla vecchia croce in ferro che ricorda il luogo in cui morì Adamo Fiore De Renzis (classe 1899), la cui vita, sulla base delle ricerche condotte da Vincenzino Di Nardo e Antonio D'Andrea, fu tragica. Nel 1910, il padre Emilio, da cui proviene il soprannome di famiglia Meglióne, morì a 45 anni di peritonite, dopo che egli stesso si eviscerò con un coltello per non sentire i dolori lancinanti all'addome. Una sorella, Antonietta, morì a 17 anni, nel 1920, a seguito dello sparo partito per «pura e vera disgrazia» - a detta dei cronitsi dell'epoca - dalla pistola di un carabiniere in casa loro. La sorella minore Maria Loreta morì invece nel '22, ad appena 16 anni, probabilmente di malattia.

Fiore era sposato con Giovannina Serlenga, che gli diede quattro figli. La maggiore, Antonietta - che portava il nome di sua zia morta adolescente - è l'unica della famiglia a sopravvivergli. Si sposò nel 1950 ma di lei non abbiamo notizie, per cui quasi sicuramente lasciò molto presto il paese. Gli altri figli di Fiore completano il rosario tragico della sua esistenza. Maria Rosa - che portava il nome di sua nonna - morì nel 1940 a 10 anni; l’ultimogenito Lucio, invece, era morto infante nel 1934; sei mesi dopo era morta anche la moglie Giovannina, a soli 43 anni.

Al momento dei fatti, dunque, Fiore viveva con la figlia sedicenne Antonietta e col figlio undicenne Emilio - che portava il nome del nonno -, al quale stava insegnando il mestiere del capraio, ossia radunare al mattino le circa duecento capre che vivevano nelle case dei capracottesi e guidarle al pascolo, dunque riportarle al tramonto in paese.

È il 20 novembre 1943 quando Fiore ed Emilio perdono la vita. La maggior parte delle testimonianze parlò di una mina, altri parlarono di una granata inesplosa, altri ancora di un colpo di artiglieria partito dall'Oltresangro. A quel tempo, infatti, i Tedeschi avevano ormai lasciato Capracotta da diversi giorni e si erano attestati sulle montagne di fronte, lasciando che la valle del Sangro diventasse la "terra di nessuno" della linea Gustav.

Fiore ed Emilio De Renzis, però, vanno considerate vittime dirette della Seconda guerra mondiale e forse proprio dei nazifascisti, in quanto questa strada era stata minata da un gruppo di fascisti appartenenti alla neonata Repubblica Sociale Italiana. Il cosiddetto Gruppo Ceccacci fu un manipolo di nuotatori paracadutisti, avanguradia della Decima Flottiglia Mas, che, di notte, si paracadutava in territorio nemico per effettuare operazioni di sabotaggio che rallentassero l'avanzata degli Alleati.

A Capracotta operò la squadriglia formata da Remo Tonin, Benito Buratti e Tiberio Zanardo, i quali confermarono nel 1995 di essere entrati di notte in territorio capracottese e di aver piazzato delle mine sulla strada per Castel di Sangro. Essi parlarono di azioni compiute nel gennaio 1944 ma dai loro racconti, stranamente, non emerge un dato importante, quello delle strade bloccate dalla neve, che tra dicembre e gennaio cadde copiosissima, per cui è possibile che abbiano confuso la data. Ad ogni modo, le strade erano allora sterrate, e il modus operandi di questi camerati era quello di scavare grosse buche al centro della carreggiata, piazzarvi l'ordigno esplosivo e quindi ricoprirlo di terra. Per nascondere la terra smossa, erano solerti nel ricreare a mano la continuità dei solchi dei mezzi che vi erano transitati sopra.

Il 20 novembre 1943 Fiore ed Emilio De Renzis saltarono in aria probabilmente su una di queste mine, tanto che la croce posta a ricordo dell'evento sta a due passi dalla strada provinciale. I capracottesi seppero dello loro morte perché quella sera le capre tornarono da sole in paese.

La loro storia, a mio avviso, vista da Capracotta, merita la stessa attenzione di quella che aveva colpito due settimane prima la famiglia Fiadino e che siamo andati a raccontare presso il cosiddetto casotto di Nunna Rosa.


Il gruppo presso il casotto di Nunna Rosa (foto: T. Colacillo).
Il gruppo presso il casotto di Nunna Rosa (foto: T. Colacillo).

Infatti, dopo un lungo sentiero che, dalla croce di Fiore De Renzis, tocca la Fonte Sambuco, la Fonte Nascosta, il Vallone delle Incotte ed il casotto di Magnapatane, eretto nel 1940, siamo giunti a quello di Nunna Rosa, dove ho tentato di riscostruire una breve cronistoria dei fatti che portarono, il 4 novembre 1943, all'uccisione di Rodolfo e Gasperino Fiadino, aiutandomi col memoriale di William Parker, col libro di Eleonora Di Nucci e col romanzo di Eugenio Corti "I poveri cristi" del 1951.

Presso quel tugurio ormai abbandonato - e che meriterebbe una doverosa valorizzazione -, abbiamo rivissuto la fuga rocambolesca da Sulmona degli 8 evasi neozelandesi, l'incontro con la famiglia Fiadino, l'accoglienza presso la famiglia Falconi-Jaselli, il primo rifugio presso l'eremo di San Luca, la delazione del cittadino santangiolese, il secondo lungo nascondiglio presso il casotto di Nunna Rosa e, infine, la deleteria fiducia accordata ad un «siciliano zoppo» che si rivelerà fatale per tutti. I neozelandesi torneranno ad essere prigionieri di guerra dei Tedeschi mentre i fratelli Fiadino subiranno un processo farsa che costerà la vita a due di essi.

La festa della Liberazione, dunque, ha per Capracotta un sapore dolceamaro. Da un lato è la festa della ritrovata libertà, della fine delle atrocità che costarono al paese la morte, la distruzione, lo sfollamento; dall'altro è la triste presa di coscienza di un popolo di aver perso figli, case e dignità. Ad ottant'anni da quegli eventi, con la nostra passeggiata escursionistica abbiamo tentato di rendere più consapevoli le persone circa la storia collettiva che le riguarda, in quanto «la storia non si fa signorile a tavolino», giacché «la libertà [è] un doveroso pericolo».


Francesco Mendozzi

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