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Incontri con il bosco (II)


Il sentiero di Portella Cieca (foto: S. Conti).

Sorpassiamo il sentiero che porta a Portella Cieca e subito dopo lasciamo anche la pista di fondo, per seguire quello che ci porterà alla Fonte dei Castrati. A mano a mano che si scende e dopo il primo tratto della Cannavinella, il bosco ceduo sembra allargarsi, perché è aumentata la luminosità; il suolo è più profondo e fertile, la provvigione (la massa legnosa formata dal volume totale degli alberi in piedi di un popolamento) è aumentata, maggior presenza di novellame (giovani piantine nate da seme), presenza di matricine (piante che devono provvedere alla produzione di seme per sostituire, con nuove piantine, le vecchie ceppaie a mano a mano che muoiono). Si nota qualche abete bianco insieme all'olmo montano. Sul lato destro del percorso rocce e massi affioranti non mancano mai, concorrenti con gli alberi per l'occupazione del suolo. Siamo sempre in presenza del bosco ceduo che fra poco lascerà il posto al bosco ad alto fusto.

«Ma perché spesso si parla male del ceduo?» irrompe Michele. Cerco di rispondere alla curiosità di Michele.

Ci sono sicuramente delle posizioni sbagliate e esagerate contro il ceduo. Dato per certo che il bosco ad alto fusto è la forma di governo più naturale per tutte le piante sia aghifoglie che latifoglie, mentre il bosco ceduo rappresenta un particolare adattamento di un certo numero di piante latifoglie che hanno una più o meno spiccata capacità di riprodursi per polloni su ceppaie tagliate. Va tuttavia riconosciuto che questo governo di bosco ha consentito, nel passato, con tagli più frequenti, di avere prodotti legnosi (legna da ardere, carbone vegetale, materiale legnoso per le attività agricole ed artigianali soprattutto per le popolazioni di montagna) a turni più brevi (20-30 anni durata variabile in relazione alla fertilità della stazione), che non con l'alto fusto, dove la maturità della pianta avviene anche oltre 120 anni. Il ceduo tuttavia "sfrutta" a ritmi più intensi il bosco, con cambi repentini e violenti delle condizioni di luce, temperatura, umidità interne al bosco. Infatti in 120 anni - periodo del turno di una fustaia di faggio - il ceduo viene tagliato quasi cinque volte, stravolgendo l'ecosistema bosco. Anche per questi motivi i nostri nonni inventarono per il faggio il "ceduo a sterzo" che operativamente è una sorta di frazionamento del taglio ceduo in tre volte, assicurando in questo modo condizioni migliori di copertura - meno erosione del suolo - e continuità ecologica, con la rinuncia di una piccola parte del profitto. Per concludere, i montanari capirono da soli che il ceduo a taglio raso aveva dei limiti e trovarono il giusto rimedio.

«Però a me piacciono i cedui quando assumono la chioma a forma piramidale e rotondeggiante» esclama Michele.

Voglio ricordare che la forma di governo a ceduo con taglio raso non è la più indicata per la produzione dei tartufi. Le tartufaie, infatti, smettono temporaneamente di produrre dopo il taglio e riprendono tale attività quando i polloni si sono di nuovo accresciuti. La tartufaia però non muore, perché le piante simbionti continuano a vivere allo stato di ceppaia priva di fusto. Queste piante, dopo 4-5 anni che avranno ricostruito parte della loro chioma, potranno dare nuovamente i tartufi.

Il trattamento del ceduo a sterzo (presenza di polloni di età diversa su ogni ceppaia), invece, risulta più favorevole alla crescita dei tartufi, perché le ceppaie non vengono mai private completamente dei fusti. Inoltre lo sviluppo dei tartufi viene favorito dalla graduale conversione del ceduo in fustaia. Questa infine, nella giusta densità, è la forma di governo più favorevole per la crescita e lo sviluppo dei tartufi.

Comunque, la collettività di Capracotta deve molto al bosco ceduo.

Ricordo quando, finito il taglio delle sezioni individuate dai guardaboschi comunali con l'alta sorveglianza del Corpo Forestale dello Stato, si assegnava ad ogni famiglia, per quel diritto di godimento sancito dagli usi civici, la legna per il riscaldamento domestico.

Poi, l'Amministrazione Comunale, con il sindaco Carmine Di Ianni, della quale anche tu, Michele, facevi parte, fece redigere il Piano di Assestamento dall'Università Forestale di Firenze, per una migliore gestione del bosco; alla stessa Amministrazione va riconosciuto anche il merito di aver avuto l'idea di realizzare il Giardino della Flora appenninica.

Al mattino, al sorgere del sole e qualche volta anche prima, Capracotta sembrava un fiume carsico sotterraneo che usciva in superficie e si riversava per le strade in direzione del bosco per prendere possesso della legna assegnata e della porzione di ceppe che apparteneva alla catasta, come dote. Chi a piedi, chi con la vettura per effettuare già il ricaccio. Le ombre dell'alba si davano voce, ma la solidarietà non andava oltre, perché ognuno pensava essenzialmente per sé. Nel bosco poi si sentivano piccole schermaglie verbali per la sottrazione di qualche ceppa, dall’ambito del virtuale confine della catasta vicina. Anche mamma, ormai catalogata come vedova di guerra, andava. E io la seguivo.

Ma i protagonisti delle giornate successive erano i proprietari degli animali da soma e soprattutto i mulattieri. Su e giù per i tortuosi percorsi nel bosco e poi al paese per portare la legna a destinazione. Senza sosta. L'abbeverata degli animali era anche l'occasione per prendere un boccone e qualche bicchiere di vino, perché il pranzo completo si consumava la sera a casa.

Il quartiere di S. Giovanni era pieno di animali da soma che venivano utilizzati per tutti i lavori agricoli e poi anche per il ricaccio della legna.

Tra i mulattieri c'erano Pasquale Dolce, noto per i suoi muli "viziosi" (recalcitranti), poi Ubaldo Precuórie, Raffaele (Paièle) Muscone, quelli della numerosa famiglia di Totta, Nestorino, il mio vicino di casa, l'umile e silenzioso Nicola di Virgilia con la sua mula. È difficile dire chi di loro due fosse più magro, per carenza di cibo o per l'eccessiva fatica. Forse per tutte e due le cose. Ma insieme - Nicola e la sua mula - sapevano esprimere tanta abilità e resistenza da non essere sicuramente gli ultimi della categoria dei mulattieri. E poi tanti altri dei quali si è persa la memoria.

«Posso dire una cosa?» e senza aspettare risposta, Giovanni, il più giovane della comitiva, continua: «È una vita che sento parlare di usi civici ma mai nessuno mi ha detto che cosa sono».

Mario: «La domanda è per te, Michele. Tu hai avuto modo, sia come amministratore che come notaio, di conoscere gli usi civici».

Michele: «Ammetto che è un compito alquanto difficile, ma cercherò di rispondere. Non è cosa semplice» esordisce, «dare una definizione compiuta e giuridicamente corretta di uso civico, perché la costruzione del concetto di uso civico è opera essenzialmente della dottrina e della giurisprudenza. Riferendomi quindi a questa, possiamo dire che per usi civici si intendono quelle facoltà che gli abitanti di un Comune hanno di godere in vario modo di fondi comuni e gli stessi trovano il loro fondamento nel diritto alla vita delle popolazioni che se ne servono».

«L'uomo per vivere ebbe il bisogno, insieme agli animali, di alimentarsi e lo fece con i prodotti spontanei e naturali che la terra offriva. Quando poi i primi popoli si vennero costituendo, con l'abbandono del nomadismo, si stabilizzarono, su una porzione di territorio per l'uso della terra e dei frutti che la stessa poteva offrire».

«L'origine storica degli usi civici si può fare coincidere con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (476 d.C.), a seguito delle invasioni barbariche».

«I popoli "barbari" sconvolsero il territorio conquistato e i relativi diritti di proprietà e di possesso. Tutti i godimenti, compresi gli abitanti vinti, diventarono preda dei vincitori».

«In breve, spogliarono in tutto o in parte i privati e i Comuni lasciando ai cittadini l'uso dei pochi prodotti che la terra poteva offrire affinché potessero vivere (ecco ricomparire gli usi civici). Il sovrano però tenne per sé le terre migliori, i suoi condottieri le altre e - secondo l'ordinamento delle tribù di provenienza - ne divisero parte con loro compagni di ventura, con l'obbligo della fedeltà e di portare le armi in guerra, in sostegno dello stesso Sovrano».

«Ma come già ho cercato di dire,» riprende Michele, «il fondamento del diritto agli usi civici, a favore delle popolazioni locali, era anche sorretto dalla proprietà della terra preesistente all'infeudazione, per effetto del diritto naturale di ogni cittadino ad occupare le terre; delle quali poi furono spogliate dai barbari. Ne discende che anche quando la terra, sulla quale già si esercitavano gli usi civici, subì della modificazioni, col passare della stessa nel regime del demanio regio o in quello feudale, gli usi civici restarono integri e invulnerati».

«In tempi relativamente più vicino a noi, la legge 2 agosto 1806, emanata da Giuseppe Napoleone, abolì la feudalità ma conservò gli usi civici a favore delle popolazioni».

Michele si ferma per qualche istante, come a riflettere su quanto aveva appena detto. Poi riprende a parlare: «Si può, quindi, affermare che l'origine degli usi civici in Italia ed in particolare nel Mezzogiorno è strettamente collegata all'istituzione della feudalità da parte soprattutto dei Normanni (uomini del nord Europa, originari della Norvegia)».


Il bosco a fustaia (foto: S. Conti).

«Tra le varie specie di usi civici» continua Michele, «si possono distinguere:

  1. Uso civico di pascolo. L'uso civico di pascolo che è tra i più antichi, non si esaurisce soltanto nella utilizzazione delle colture erbacee del terreno per l’alimentazione del bestiame (jus pascendi), ma anche nella utilizzazione delle altre risorse naturali del terreno: abbeveraggio degli animali e l’uso di fontane d’acqua potabile (jus aquandi), sistemazione in loco dei pastori durante il periodo di pascolo (jus pernoctandi), utilizzazione dei frascami e legna morta per la cottura degli alimenti e la caseificazione.

  2. Jus lignandi. È il diritto di fare legna per i bisogni domestici o per i lavori rurali. Esso comprende anche la possibilità di usare non soltanto la legna utile abbandonata dal proprietario, ma anche la legna secca di qualunque natura e dimensione.

  3. Altri usi civici minori: raccogliere spighe, ghiande, castagne, cavare le pietre, cuocere calce e mattoni, fare il carbone.

La legge n. 1766 del 1927, poi, sul riordino degli usi civici, ha distinto i diritti di uso civico in due classi. Nella prima classe sono compresi gli usi essenziali per la mera sopravvivenza; nella seconda classe gli usi utili: i diritti - congiunti con i precedenti o da soli - di raccogliere o trarre dal fondo altri prodotti da poter fare commercio e che comunque eccedono quelli che sono necessari al sostentamento familiare.

Nel linguaggio comune i beni di uso civico vengono definiti come demanio civico universale e sono sottoposti al più rigoroso regime della indisponibilità proprio dei beni demaniali (mare, spiaggia, fiumi), imprescrittibili, inusucapibili e inalienabili. Per questi motivi il demanio civico non va ascritto tra i beni patrimoniali del Comune, perché la proprietà del demanio civico appartiene alla sua collettività. Mentre al Comune sono attribuite le funzioni amministrative in materia di vigilanza e gestione dei beni che restano indistinti ed indivisi fra i cittadini della collettività.

A voler essere ancora più precisi, l'amministrazione vera e propria dei beni civici spetta alle Amministrazioni Separate dei Beni di Uso civico, enti autonomi aventi personalità giuridica propria, costituiti da un Comitato di Amministrazione e da un Presidente».

Questa volta è Mario: «Ma chi è il cittadino avente diritto di uso civico?».

Di nuovo Michele: «Cittadino è colui che ha il domicilio d'origine o acquisito nel territorio di un Comune. Per questo, non vi è dubbio che, con riferimento ad un dato territorio, il diritto di uso civico e la conseguente qualificazione di naturale o utilitarista attiene non solo a chi vanta il diritto di nascita in quel determinato territorio, ma anche a colui che non avendo tale requisito, ha, successivamente alla nascita, stabilito le propria abituale dimora in quel territorio».

Giovanni, preso dalle parole di Michele: «Ma quale utilità ne deriva per il bosco e per i pascoli?».

«Di tutela soprattutto» risponde Michele. «Il principio che le terre civiche, comprese nella categoria dei boschi e dei pascoli, sono inalienabili, cioè che non possono essere venduti - la vendita costituisce un'eccezione e può avvenire soltanto in determinate condizioni e nei modi stabiliti dalla legge -, ha consentito di conservare il patrimonio dei boschi e dei pascoli integro e disponibile anche per soddisfare le esigenze delle generazioni future. Inoltre c’è ancora un altro aspetto da considerare, quello che favorisce la buona e sostenibile gestione dei boschi. La già ricordata legge 1776/1927 stabilisce che i terreni utilizzati come boschi e pascoli permanenti siano sottoposti al regime delle leggi forestali e alla ingerenza diretta dell’Autorità Forestale».

«E la cosiddetta fida pascolo che cos'è?» ancora Giovanni.

«La fida pascolo è il pagamento al Comune di un compenso per l'uso a scopo di pascolo di beni demaniali. È lo stesso compenso che i cosiddetti locati proprietari di armenti transumanti, superiori a venti pecore, dovevano pagare alla Regia Dogana per la Mena delle pecore in Puglia - istituita da Alfonso I d'Aragona il 1 agosto 1447 - per il pascolo invernale».

Voglio riportare alla vostra memoria, continuando il discorso di Michele, come, con il ritorno della primavera, il bosco esce dal periodo di riposo e si riveste di verde per riprendere l'attività di fotosintesi. Nel paese riprendevano, dopo il lungo inverno, le attività sociali ed economiche. Una di queste era di dover assicurare gli alimenti al bestiame con il pascolo estivo e l'uso civico concorreva a questa finalità a tutela di tutti.

Per noi meno giovani, non è difficile ricordare la piazza principale del paese piena di allevatori e proprietari di bestiame. Eleganti, con il vestito della festa, di velluto rigato o di panno grigio, che andavano alla riunione, presso la sede comunale, per l'assegnazione del pascolo secondo gli animali dichiarati da ognuno di essi. Tale operazione continua tuttora con scadenza triennale, ma la presenza degli allevatori è molto diminuita.

Di nuovo Mario: «Proseguiamo, ci aspetta la fustaia».


Lorenzo Potena




 

Fonte: https://www.altosannio.it/, 1 settembre 2018.

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