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L'insurrezione borbonica nell'Alto Molise



Oreste Conti nasce a Capracotta il 25 marzo del 1877 da Giulio Conti e da Giovannina d'Alena, figlia del Barone Pietro d'Alena. Ebbe, come fratelli, Olindo, Nestore ed Ottorino, personaggi di rilievo, assai noti nel mondo capracottese del Novecento.

Il padre Giulio, insieme ad altri consanguinei, fu uno dei protagonisti della rivolta avvenuta a Capracotta nell'ottobre del 1860, periodo in cui militava, come capoplotone nella Guardia Nazionale, di cui era vicecomandante il proprio genitore Berardino Conti, cugino diretto di Gaetano Conti che era il comandante in capo. Poco tempo prima era stato designato sindaco Amatonicola Conti, fratello maggiore di Berardino, entrambi attivi protagonisti del movimento liberale di cui era leader il giovane e dotto sacerdote Filippo Falconi. Dunque, nell'autunno del 1860, erano i componenti di un unico casato a gestire le leve istituzionali più vitali ed a reggere le sorti del nostro piccolo borgo montano. Oreste fu, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, un valente letterato nel campo del canto e delle tradizioni popolari, assai apprezzato dalla comunità accademica dell'epoca.

Mosso anche da amore per gli avvenimenti storici del proprio paese e da spinte affettive verso i propri consanguinei e diretti familiari, Oreste seppe dedicare al patriottismo murattiano e risorgimentale alcune pubblicazioni, tra le quali il saggio "I moti del 1860 a Capracotta" stampato a Napoli nel 1911. Confessa candidamente l'autore, nella prefazione che esso è stato scritto sulla scorta del «racconto orale che mi è restato fisso in mente con precisione matematica» ma, aggiunge, che tale narrazione non è rimasta avvalorata da documenti «che speravo di trovare come che sia negli archivi della Provincia» di Campobasso.

L'Autore non indica le fonti della propria narrazione, ma la circostanza che i fatti da lui narrati si fossero fissati nella sua mente con «precisione matematica», lascia supporre che essi siano stati, in occasioni e tempi diversi, riferiti più volte dai propri congiunti. Il nonno Berardino ed il cugino Gaetano, protagonisti principali e testimoni diretti di quelle drammatiche e torbide vicende, erano già deceduti al momento della nascita di Oreste. D'altra parte i tentativi compiuti dal giovane studioso per reperire le fonti autentiche negli archivi della Provincia di Campobasso, non ebbero esito positivo perché i documenti - che come lo stesso autore riconosce, «potevano dare un utile contributo alla storia civile del Paese» - erano conservati, in quel tempo, nell'Archivio di Stato di Campobasso.

I documenti ricercati da Oreste Conti per suffragare il proprio lavoro sono stati rinvenuti successivamente e pubblicati, sia pure parzialmente, da Renata De Benedictis e da altri studiosi molisani in occasione delle recenti celebrazioni del bicenterario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Essi confermano che la trama della narrazione fatta dal nostro compaesano nell'anno 1911 corrisponde, nelle linee essenziali, allo svolgimento dei fatti realmente accaduti tra la data del 3 ottobre, inizio della sommossa capracottese, e quella del 16 ottobre in cui essa si concluse. Nello spazio di solo dodici giorni furono commessi, da una facinorosa e retriva minoranza della popolazione, sobillata da borbonici forestieri e capeggiata dal famoso Calzettone, autoproclamatosi "Governatore della Terra", uccisioni, incendi, ferimenti, soprusi, violenze, incarcerazioni. Pacifici ed inermi compaesani si tramutarono in violenti e furibondi saccheggiatori che aggredirono, incendiarono, devastarono abitazioni, procurarono non lievi menomazioni a compaesani di fede liberale.

Giulio Conti, capoplotone della Guardia nazionale e padre dell'autore dell'opuscolo, riportò una vistosa ferita per un colpo di stile al fianco destro; e suo zio, il farmacista Ettore Conti fu colpito da una terribile roncata al collo. Inoltre gli insorti reazionari fecero minacce, costrizioni ed umiliazioni ai liberali del Paese. Il gentiluomo Don Antonino Conti fu costretto, dietro minacce, a cedere ai rivoltosi le armi di casa; Don Francesco Falconi, padre del leader liberale Don Filippo Falconi, futuro Arciprete del Paese, venne costretto a far preparare nella propria casa un lauto pranzo ai rivoltosi; Don Policarpo Conti, canonico della Chiesa Madre, umiliato e schernito, venne costretto ad indossare una fruscella al posto della berretta canonica.

I rivoltosi procedettero ad arrestare e rinchiudere nelle carceri locali, sottostanti la Chiesa Madre, un nutrito gruppo di liberali tra cui il sacerdote Filippo Falconi ed altri galantuomini.

La rivolta dell'autunno del 1860 fece subito sentire i suoi effetti all'inizio dell'entrante anno 1861. Diverse furono le ripercussioni che direttamente scaturirono dai moti reazionari. Venne rinnovato il decurionato che reggeva le sorti della locale comunità con l'inserimento di amministratori di comprovata fede liberale; poi si procedette ad allontanare i dipendenti comunali implicati nei moti reazionari ed al rinnovamento delle principali cariche. Altre conseguenze derivarono dagli indirizzi di politica ecclesiastica del nuovo Governo italiano: la soppressione delle Chiese collegiate; l'incameramento dei patrimoni e delle proprietà religiose e la stretta sorveglianza dei Vescovi ostili al nuovo Governo Italiano.

Nella prima metà del Novecento alcuni illustri nostri conterranei espressero giudizi e valutazioni sulla rivolta capracottese dell'autunno del 1860.

Nel suo saggio sui Moti capracottesi del 1911, Oreste Conti riteneva che la rivolta fosse essenzialmente un risvolto della grave lotta di classe tra il ceto dei galantuomini e la retriva plebe «impantanata – a suo dire – nei vecchi pregiudizi, inconscia dei tempi nuovi» e dimentica che «i popolani ebbero sempre favori e protezioni dai Signori».

Sullo scontro sociale insiste anche il giurista e deputato crispiano Tommaso Mosca, nostro conterraneo, il quale nel suo intervento alla Camera dei Deputati, nella tornata del 10 maggio 1912, durante la discussione del disegno di legge sulla riforma elettorale politica, poneva l'accento sul «peccato (del ceto dominante) di aver mantenuto in una condizione quasi servile il proletariato agricolo e d'averlo escluso completamente da ogni forma della vita pubblica». Aggiungeva il nostro parlamentare che «all'epoca del Risorgimento le masse agricole si sono mostrate ostili al movimento liberale ed unitario» e si sono ribellate in forma brutale e selvaggia non per la «influenza del clero sulle classi rurali» giacché, come egli ricordava: «Nel mio paese nativo (Capracotta) i preti erano quasi tutti liberali, e furono perciò senz'alcun riguardo imprigionati dai contadini, e sarebbero stati da essi forse massacrati, se non fosse provvidenzialmente sopravvenuta la battaglia del Volturno». Alla quale presero parte anche molti giovani capracottesi, figli della gente del popolo, i quali, come volontari della Legione Sannitica o al seguito dei garibaldini combatterono valorosamente e meritarono decorazioni militari che ancora oggi fanno bella mostra nella sede comunale. Ricorderò alcuni nomi come Vincenzo Di Rienzo, non ancora ventenne, che partecipò anche alle successive guerre per l'Unità d'Italia; come Pasquale D'Andrea il quale, secondo Campanelli, si allontanò dal Convento e «si unì ai garibaldini diventando un secondo Fra Pantaleo».

E qui cade a punto una fondamentale considerazione e riflessione. È certamente indubbio che gli strati più umili della popolazione - prevalentemente formata da pastori, braccianti, boscaioli - pensavano unicamente a recarsi nei campi e nei boschi per zappare, arare, fare legna e badare alle bestie - e rimasero, così, in disparte ed indifferenti rispetto alla causa dell'Unità d'Italia. Ma altra buona parte di nostri compaesani o per ardore giovanile (come i volontari della Legione Sannitica e quelli garibaldini) o per consapevole fervore ideale (come le persone più acculturate appartenenti alla borghesia delle professioni: medici, farmacisti, avvocati, notai) o per spirito di cristiana solidarietà verso gli strati più poveri e deboli della gente del popolo (come numerosi canonici e sacerdoti del clero capracottese inclini a migliorare le condizioni socio-economiche dell'intera comunità) fu in grado di concepire e condividere il significato dei valori ideali di Patria, libertà ed eguaglianza e prese attivamente parte al movimento risorgimentale.

Ritornando alle valutazioni della rivolta, una diversa lettura offre di quegli avvenimenti l'Avv. Luigi Campanelli, legato da vincoli di stretta parentela con l'illustre magistrato Stanislao Falconi e con il fratello Vescovo Giandomenico Falconi, personalità di spicco e devoti alla Monarchia del Regno di Napoli. L'Avvocato e storiografo capracottese, nella sua opera "Il territorio di Capracotta" pubblicata nel 1931, minimizza e ridicolizza la portata e la gravità della rivolta capracottese che, a suo dire, fu dovuta all'insensatezza di pochi esaltati e «che finì qui dopo tre o quattro giorni in maniera alquanto burlesca». Lo storiografo capracottese, inoltre, attribuisce la responsabilità di quei drammatici eventi essenzialmente «alla velleità settaria o rivoluzionaria» di alcuni preti liberali e sostiene che non l'intera comunità ma solamente «la folle dei cafoni» si sollevò contro i galantuomini, da cui credevansi oppressi.

A mio avviso la sommossa autunnale del 1860 può avere una precisa e puntuale chiave di lettura: le ribellioni dei contadini delle comunità di montagna avvennero non per difendere la bandiera del lealismo borbonico ed attestare la fedeltà e l'attaccamento al sovrano regnante, Ferdinando II, inviso a gran parte della popolazione; né per contrastare ed avversare i sostenitori del movimento liberale che anelavano ad una Patria unita. Nessuna di queste due spiegazioni, fondate su ragioni di antagonismo politico ed astio ideologico, appare plausibile e convincente. La causa essenziale della ribellione, a mio avviso, va ricercata nel fatto che una sparuta ed esigua minoranza della povera gente del popolo [...]

La mia impressione è che se, immediatamente dopo la raggiunta unificazione d'Italia, le ricadute furono modeste e di segno non sempre positivo, nell'arco temporale di quaranta anni (1860-1900) si percepirono concretamente effetti positivi dell'azione politica del nuovo governo italiano che mutarono il corso della storia anche della nostra piccola comunità di montagna, la quale venne dotata di strutture - camposanto, strade, fontane, scuole, asilo infantile - indispensabili alle esigenze fondamentali del vivere civile. Si avviava così, con questi primi fiochi barlumi di civiltà, il lento e lungo cammino della modernizzazione del tessuto sociale ed economico della nostra piccola comunità di montagna che solo in tempi assai recenti, è riuscita a venire fuori dallo stato di gravissima arretratezza e dalle pregresse condizioni di vita fortemente insoddisfacenti, per raggiungere un buon tenore ed una apprezzata qualità di benessere sociale.


Alfonso Battista

 

Fonte: A. Battista, L'insurrezione borbonica nell'Alto Molise, in «Voria», V:1, Capracotta, dicembre 2011.

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