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La prudenza (II)


La prudenza come virtù naturale

Padre Mario Di Ianni (1939-2023).

Per virtù della prudenza intendiamo la capacità dell'uomo, alla luce della semplice ragione, di escogitare, scegliere ed attuare i mezzi adatti per raggiungere il fine virtuoso. Su questo piano l'uomo può abituarsi ad una sorta di discernimento pratico con una visuale che non esce dal ristretto orizzonte delle cose di questa terra; così va intesa l'abile conduzione degli affari e delle mansioni che uno deve svolgere in un determinato contesto storico: non si tratta di capacità posta al servizio del Bene nel senso assoluto, ma al servizio di un bene particolare. Se poi si tratta di risorse messe al servizio del male e del peccato, ci troviamo davanti alla prudenza della carne che si oppone alla prudenza virtuosa, cioè dello spirito (Rom 8,5). La prudenza soltanto naturale suppone nell'uomo la capacità di percepire il valore dei princìpi, morali della legge naturale, mentre la prudenza della carne è il rifiuto di ogni norma etica.

 

La prudenza come virtù soprannaturale

La prudenza soprannaturale riguarda solo, quelli che sono in grazia di Dio e posseggono la carità. Il prudente non agisce solo alla

luce della ragione, ma sotto l'influsso della grazia divina e alla luce della legge di Cristo; i suoi atti acquistano valore per la vita eterna.

La prudenza dirige le altre virtù, ma presuppone nel cristiano la fede, la speranza e la carità con le quali egli prende coscienza delle cose, cioè diventa partecipe della vita di Dio. In questa partecipazione inadeguata, attraverso la concretizzazione pratica della prudenza si attua il fine dell'esistenza del cristiano. «È il vivere la carità nella situazione, è la capacità e la sensibilità interiore a cogliere l'appello del momento di grazia».

La prudenza, come tutte le altre virtù, ci è stata data nel battesimo; cresce in noi attraverso la ripetizione di atti buoni e con la vita della grazia. Essa ci aiuta a emettere giudizi pratici nella vita di tutti i giorni.

La prudenza naturale e quella soprannaturale sono uguali per quanto riguarda il loro oggetto materiale e nel fatto che ambedue risiedono nell'intelletto pratico. Sono però diverse per la loro origine in quanto una nasce dalla ripetizione di atti buoni sul piano naturale, mentre l'altra nasce dall'infusione da parte di Dio. Differiscono per l'oggetto formale: in una ci sono motivazioni del tutto umane, mentre per l'altra sono presenti scopi che si riallacciano alla fede e sono sostenuti dalla carità. È motivo di differenziazione anche l'estensione, perché per una l'ambito è d'ordine naturale, per l'altra invece è soprannaturale.

 

Il contesto della prudenza

Ogni virtù cardinale è un centro intorno al quale ruotano altre virtù che, a seconda del ruolo che svolgono, sono chiamate parti integranti, soggettive o potenziali della virtù-cardine. Le parti integranti sono quegli elementi che costituiscono, integrano la virtù o l'aiutano nel suo esercizio. Parti soggettive sono le diverse specie nelle quali si suddivide una virtù cardinale. Parti potenziali sono le virtù annesse o derivate che stanno in relazione con la loro virtù-cardine, ma non ne hanno tutta la forza, o sono ordinate ad atti secondari.

Le parti integranti della prudenza che stiamo per descrivere in maniera successiva, nella realtà non sono altro che un unico movimento di coscienza in cui noi immaginiamo i differenti aspetti al fine di studiarli, ma non dobbiamo dimenticare la loro unicità fonda- mentale e vivente.

Gli atti della prudenza hanno un doppio momento di realizzazione: momento conoscitivo dei mezzi da adoperare e momento esecutivo.

Il momento conoscitivo è costituito prima di tutto dalla conoscenza della realtà. Da un esame della situazione concreta e delle circostanze si passa ad un giudizio obiettivo sulla validità dei mezzi che si vogliono adoperare per raggiungere lo scopo. La conoscenza esatta della realtà è un requisito fondamentale per evitare un agire basato soltanto sulle "buone intenzioni". Per conoscere la realtà l'uomo prudente fa uso prima di tutto della memoria, cioè non tanto della capacità mnemonica del ricordo, ma della perfetta concordanza tra la nostra capacità conoscitiva e la realtà qual è in sé. Infatti questa possibilità di obiettivare la realtà può subire facili deformazioni, omissioni e coloriture diverse.

Alla memoria bisogna unire la capacità di distinguere con perspicacia le condizioni reali dell'agire in un determinato momento. La capacità di imparare dall'esperienza della vita e dalla realtà molteplice delle cose quale sia la scelta da fare, è un elemento che va tenuto nel debito conto. Si tratta di spogliarsi di una certa forma di autosufficiente saccenteria per rivestirsi di una serena disponibilità di apprendere sia dal mondo in cui operiamo che dalle persone che ci circondano, prescindendo dai ruoli e dalle capacità di ciascuno, poiché l'insegnamento a volte ci può venire donde meno ce lo aspettiamo; d'altra parte, essendo infinito il numero dei casi che si possono presentare nella pratica, nessuno deve presumere di essere in grado di risolverli tutti e da solo.

Infine il nostro esame della realtà deve avere la disponibilità ad affrontare con chiaroveggenza ed oggettività le situazioni-limite nelle quali per operare ci si deve rifare ai princìpi primi ed universali.

«La duttilità a sempre nuove risposte a situazioni sempre nuove non ha nulla a che vedere con la mancanza di carattere; salvo che Si consideri come carattere l'ostinazione e la resistenza contro la verità delle cose reali, vale a dire mutabili».

Secondo elemento della fase conoscitiva è la ponderazione della validità dei mezzi; si tratta qui di emettere un giudizio e di fare una scelta. Il giudizio deve essere la conclusione di un ragionamento logico che si presenti a noi come decisivo e non in fase di dubbio. La scelta suppone la possibilità di fare una selezione in cui, dopo aver esaminato i mezzi, si rifiutano quelli meno adatti per fissare la nostra attenzione su quelli che rispondono meglio allo scopo prefisso.

Nel terzo atto della prudenza abbiamo la fase imperativa. Fino a questo momento, dopo l'esame valutativo dei mezzi e la scelta di essi, noi stiamo ancora fermi al livello delle intenzioni; bisogna quindi scendere alla fase operativa. Qui si entra in pieno nella virtù della prudenza che, dopo aver esaminato, valutato e scelto, comanda l'azione in base a quanto è stato a suo tempo ponderato e scelto. Si tratta qui di compiere un'azione della ragione che ordina con cognizione di causa la traduzione pratica di quanto è stato idealmente concepito in linea teorica. Nella fase imperativa le difficoltà aumentano, ma la virtù dà i suoi frutti proprio in questa realizzazione.

Come nella fase conoscitiva ci sono degli elementi che rendono più sicuro l'esame dei mezzi, così a livello precettivo ci possono essere degli elementi che sicuramente perfezionano la prudenza nel momento di realizzare quanto è stato conosciuto e valutato. Questi elementi sono:

  1. la previdenza, cioè la capacità di vedere prima le conseguenze, i vantaggi, gli svantaggi e i molteplici risvolti del nostro agire. La memoria, l'esperienza della vita, la capacità di discernere, l'essere aperti al contributo che ci può venire dagli uomini e dalle cose sono tutti elementi che ci fanno essere previdenti e quindi prudenti;

  2. la circospezione, cioè la preoccupazione di situare nel suo giusto posto un'azione che necessariamente dovrà fare i conti con il mutare continuo delle circostanze della vita;

  3. la cautela, cioè quell'insieme di accorte considerazioni che permettono di agire nella contingente mutabilità dei fatti in cui si mischiano il bene e il male. Il prudente deve munirsi di cautela per superare in parte e possibilmente del tutto gli ostacoli che impediscono di raggiungere il bene. Pertanto cautela deve intendersi quel tipo di vigilanza che ci consente di stare in guardia contro le insidie che possono intralciare il cammino verso il bene.

 

I vizi che si oppongono alla prudenza

La prudenza è stata descritta come una virtù che riceve la misura, la dimensione, la possibilità di attuarsi dalla realtà, ma al tempo stesso essa dà la misura alla volontà e all'azione; traduce cioè la verità delle cose reali nel campo del bene per la persona umana. In questa opera di trasformazione la prudenza è la virtù del giusto mezzo nella concretezza delle cose. L'eccedere, l'uscire dal giusto mezzo provoca il vizio.

Contro la virtù della prudenza si può quindi mancare per eccesso o per difetto. Per difetto si manca contro la prudenza in relazione alle diverse fasi che costituiscono gli atti integranti della prudenza stessa.

A livello del momento conoscitivo possiamo avere:

  • la dissennatezza, cioè il disprezzo e la trascuratezza nel valutare quegli elementi che ci offrono la possibilità di rettamente giudicare;

  • la precipitazione, che è un modo irriflessivo e precipitoso di agire, per lo più sotto lo stimolo della passione e del capriccio.

A livello valutativo possiamo avere la superficialità, che è il giudizio non ponderato sulla validità dei mezzi. È una mancanza di quella vigilanza che ci viene raccomandata dal Vangelo.

A livello esecutivo possiamo avere l'inconcludenza, cioè la mancanza di decisione, una volta che l'esame e la valutazione dei mezzi sia stata fatta; l'incostanza, invece, è il cambiare parere e mutare propositi per futili motivi o almeno senza una causa proporzionata.

Per eccesso si manca contro la prudenza non con un rifiuto totale di essa, ma con una sua accettazione distorta. Infatti si tratta di valutazioni sbagliate che agiscono non per il fine ultimo, ma per scopi peccaminosi e almeno sbagliati in quanto i mezzi possono essere anche buoni, ma i fini sono errati. È la prudenza della carne la quale, invece di essere al servizio del retto agire umano, è al servizio di valori terreni e caduchi. Tale è il comportamento dell'astuto il quale fa uso della memoria, della intelligenza e della circospezione per temporeggiare e per studiare la tattica del suo agire.

Altro tipo di prudenza della carne è l'inganno e la frode, cose queste del tutto lontane dalla prudenza vera perché in opposizione a quanto Cristo ci ha insegnato in fatto di semplicità e di lealtà nei rapporti col prossimo.

Il denominatore comune in tutti questi atteggiamenti è, secondo san Tommaso, l'avarizia, cioè lo smisurato desiderio di possedere ogni cosa al fine di garantirsi la grandezza del proprio valore. La prudenza invece, oltre ad essere oggettiva e realistica, è sapiente valutazione delle cose di questo mondo.

«Essa racchiude in sé l'umiltà di colui che tace, cioè che conosce senza pregiudizi; la fedeltà della memoria; l'arte del sapersi lasciar dire qualche cosa; la vigile capacità di dominare l'imprevisto. Prudenza significa la cauta serietà e per così dire il filtro della riflessione e nello stesso tempo l'audace coraggio per la definitività della decisione».


Mario Di Ianni


 

Fonte: M. Di Ianni, La prudenza, in «La Rivista del Clero Italiano», LXI:5, Vita & Pensiero, Milano, maggio 1980.

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