Il territorio
La contrada Macchia, con un'altitudine media di 1.150 m s.l.m., occupa la parte alta del territorio che, da Monte San Nicola, degrada fino alla valle del Verrino sotto Agnone.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso, operavano una decina di masserie sparse nel territorio, che era privo di ogni servizio essenziale; in più era raggiungibile solo a piedi in circa un'ora e mezza, sia da Capracotta che da Agnone percorrendo un sassoso "tratturello". L'attuale provinciale fu costruita e resa percorribile solo nei primi anni Sessanta. Qualche anno dopo si ebbe la fornitura di energia ed acqua corrente.
Le masserie avevano un'estensione tra i 10 e 25 ettari ed erano strutturate più o meno allo stesso modo: circa metà fabbricato lato nord era adibito allo stoccaggio di paglia e fieno, il lato sud piano terra come stalla, il primo e il secondo piano ad abitazione. A parte c'era un piccolo "casotto" per i maiali e nei pressi il letamaio sempre di fronte alla stalla. In prossimità c'era l'orto, un'aia vicino il pagliaio e tutt'intorno i terreni.
Le principali attività
La produzione di grano e patate, più un piccolo gregge, costituivano le principali attività per una magra fonte di reddito, integrata da coltivazioni accessorie di sussistenza alla famiglia come legumi, farro, randìgne (mais), oltre all'allevamento di suini e polli. Le mucche da latte erano poco presenti perché ritenute non convenienti.
Date le condizioni ambientali e la mancanza di mezzi meccanici, penso che le tecniche di coltivazione non fossero molto dissimili da quelle praticate dagli antichi Sanniti, che già abitavano il luogo.
In particolare, la trebbiatura era rimasta la stessa per secoli, sia nel caso in cui fosse praticata a mano per battitura, sia con l’ausilio di animali per grandi quantità di cereali.
Negli anni Cinquanta ho avuto modo di partecipare a più stagioni di trebbiatura con l'ausilio di cavalli e buoi nella masseria di mio nonno Carmine Di Rienzo, detto Cennaflòra, ubicata a circa 400 metri a nord della Fonte del Duca.
Al tempo, la masseria era gestita a mezzadria dai giovani fratelli Felice, Nicola, Mario, Angelino di Agnone, e Michelina, moglie del primo; la proprietà, oltre ad un vasto caseggiato, si estendeva per 21 ettari, pari a 67 tomoli, e contava la presenza di 2 cavalli, 2 buoi, un gregge di 50-60 capi, 15-20 galline ed un paio di maiali.
La mietitura
Nel mese di luglio, dopo la fienagione e la raccolta delle lenticchie, si procedeva con la mietitura. Nella suddetta masseria si mietevano circa 2.500-3.000 manuócchie (covoni) corrispondenti a 70-80 quintali di grano.
Prima di iniziare, il mietitore, affilata la falgìglia (falcetto), preparava alcune legature per i covoni. Per questo sceglieva le spighe con gli steli più alti, ne estirpava due mannelli (manciate) e li annodava fra loro per le radici. Poi iniziava il taglio: col falcetto in una mano riuniva un gruppo di spighe che veniva afferrato con l'altra, le cui dita erano protette da pezzi di canna; quindi, le recideva ad un palmo da terra e le lasciava sul posto.
Tutte queste manciate tagliate venivano successivamente raccolte a formare un fascio tenuto insieme da una delle legature già preparate. Il covone così formato era lasciato in piedi sul posto per ulteriore essiccazione, e solo a fine giornata veniva riunito con altri in un'ordinata catasta.
Finita o quasi la mietitura, si era pronti per la trebbiatura; per l'occasione si preparava l'aia, che era di forma circolare con diametro di circa 15 metri e lastricata con grosse pietre piatte ben infisse nel terreno a formare una pavimentazione leggermente sconnessa.
La trebbiatura
Il primo giorno, chiamato capocanale, era considerato di festa per celebrare l'inizio di una nuova fase del lavoro, e la festa consisteva semplicemente in un ricco pasto per il quale venivano sacrificati un paio di galli, e servito un buon vino di Agnone come augurio.
L'ultimo giorno di trebbiatura era della stessa importanza del primo; per tradizione della masseria si cucinava un agnello e si servivano sàgne (maltagliati) al sugo; per terminare c'era anche un semplice dolce, di solito una pizzélla (ferratella) imbrattata di miele accompagnata da una bevuta di vin cotto.
Nei giorni normali, oltre la pasta e le minestre, si mangiava formaggio, frittata o
"pallotte cacio e ova", una fetta di fiadóne (torta salata a base di ricotta) e un'abbondante insalata di pomodoro con cipolla fresca e cetrioli.
Dal campo, i covoni venivano portati sull'aia solo la sera prima della trebbiatura, con l'utilizzo di una grossa tràglia (slitta) trascinata dai due buoi, Belfiore ed Occhiobello, coadiuvati dal piccolo e vivace volpino Zumpitt', compagno inseparabile dei grossi animali.
La mattina, prima delle cinque, con il sole ancora nascosto, iniziava l'attività del giorno durante il quale ognuno aveva il suo preciso compito da svolgere: Mario era addetto ai buoi andava a recuperarli al pascolo; Felice e Nicola si occupavano dei cavalli e prendevano l'acqua alla Fonte del Duca (due viaggi con quattro taniche metalliche - residuati bellici), mentre Angelino si occupava del gregge, provvedendo alla mungitura mattutina delle pecore e al governo degli agnelli e dei montoni tenuti separati.
Le donne, ossia Michelina, sua cognata Santina venuta a dare una mano per l'occasione, e nonna, detta zi 'Ndunìna, erano indaffarate in cucina ad accendere il fuoco, accudire i bambini, preparare la colazione e rassettare.
Terminate le quotidiane attività del mattino, verso le sette, con i cavalli e i buoi già pronti, ci si ritrovava sull'aia per disporre sapientemente i covoni sciolti a formare una sorta di ciambella.
Se ne contavano circa 400 se erano impegnati anche i buoi, 300 con due cavalli. In altre realtà si usavano anche tre o quattro cavalli; l'uso abbinato di buoi e cavalli era più impegnativo e non sempre praticato, perché occorreva una persona che "menasse" i cavalli ed una dedicata solo ai buoi.
Disposti i covoni, si era pronti ad iniziare la fase di separazione dei chicchi dalle spighe. Una persona era posta al centro, compito spesso che già ad otto anni ero in grado di adempiere egregiamente, tenendo la briglia del cavallo interno, mentre l'altro era vincolato al primo con una corda legata al collo di entrambi. I cavalli, a piccolo trotto, giravano calpestando le spighe e gli steli con gli zoccoli, col risultato di far uscire i chicchi e schiacciare e rompere la paglia rendendola più morbida.
I buoi, legati al giogo e seguiti da una persona, trascinavano lungo la circonferenza più esterna una grossa e pesante pietra piatta legata ad una catena, ed era questa che scorrendo sopra le spighe separava il grano.
Per dirigere i cavalli, bastava agitare e far schioccare una rudimentale frusta, senza mai colpire gli animali. Per i buoi era differente, e per spronarli spesso veniva usato il pungolo che colpiva le mucose del sedere; si trattava di un lungo e dritto bastone che aveva all'estremità un piccolo chiodo ben appuntito sporgente, quel tanto che bastava per non arrecare danno. Capitava, a volte, che una pungolata più decisa provocasse l'uscita di una piccola goccia di sangue, che subito richiamava un nugolo di mosche con forte disappunto del bue.
Attorno alle 8, arrivavano le donne con le ceste in testa per la colazione; una grande tovaglia veniva stesa sul prato in prossimità dell'aia e tutti intorno seduti, bambini compresi, ci si serviva di grosse fette di pane, formaggio, raramente una mezza salsiccia, un pezzo di frittata con i cucuccìglie (zucchine) freschi dell'orto, la ricotta del giorno prima ed una cicìna d'acqua fresca da bere.
Finita la colazione, prima di riprendere il lavoro con gli animali, si rassettava l'aia a formare di nuovo la ciambella che si era allargata, mentre Angelino con il gregge si dirigeva verso i pascoli liberi di Monte San Nicola, seguito da un paio di grossi cani.
Si riprendeva a far girare i cavalli e i buoi per circa un'ora. A questo punto si facevano riposare e bere gli animali e si procedeva armati di forche a rigirare il tutto per far emergere le spighe non calpestate. Di nuovo si riprendeva a far girare gli animali fino al completamento dell'apertura delle spighe.
Liberati gli animali, si passava alla rimozione della paglia che veniva direttamente messa nel pagliaio. Sull'aia rimaneva il grano, la càma (pula), tanta polvere e tutti gli escrementi degli animali in essa impastati. Tutto questo, con rastrelli, forche e pale in legno veniva raccolto nel lato più ventoso dell'aia, in attesa della scamatùra (separazione per ventilazione).
Nel frattempo, le donne che in cucina avevano fatto il formaggio, acceso il forno per la cottura del pane (attività settimanale), lavato qualcosa alla fonte e preparato il pranzo, comparivano sull'aia con le loro ceste sulla testa. Secondo i più esperti, a giudicare dalla posizione del sole, era mezzjuórne.
Stesa la tovaglia, questa volta comparivano anche i piatti per servirsi dei cibi posti in capienti spàse (zuppiere) poste al centro, e da bere c'era sempre una cicìna d'acqua ed una fiaschetta di legno per il vino. Quest'ultima era munita di una cannuccia per facilitare e limitare l'erogazione del vino, durante i giri di bevuta a garganella.
Finito il pranzo, si aspettava la brezza che, da ovest, immancabilmente cominciava a spirare prima pigra poi più sostenuta ed intervallata da varie pause: era il tempo della scamatùra. Due o tre uomini, armati di pale di legno, buttavano all'aria il grano, in modo che il vento allontanasse di qualche metro la pula e più distante la polvere. Sul cumulo rimaneva il grano, gli escrementi degli animali, qualche rara spiga non aperta e residui di paglia.
Conclusa questa operazione, era il momento della vagliatura, eseguita attraverso un grosso crivello rettangolare con due manici sul lato corto, che veniva legato sull'altro lato tramite corregge (cinghie di cuoio) ad un bastone verticale nei pressi del cumulo.
Il crivello, tenuto da un uomo per i manici, dopo essere stato caricato di alcune palate, era pronto per la vagliatura, ed era prima agitato in modo ondulatorio e circolare, poi con un colpo verso l'alto ripetendo di continuo il ciclo fino ad esaurimento del carico.
Il grano vagliato si accumulava sopra una ràcana (telo), mentre qualche rara spiga, la paglia e gli escrementi, ossia il non vagliato, venivano raccolti in un sacco come ottimo mangime per le galline. Finita la vagliatura, finalmente il grano caricato in sacchi veniva portato nei capienti cassoni di legno per lo stoccaggio. Le donne, con le scope di ginestra, provvedevano a pulire l'aia per un ulteriore recupero di grano.
Mario, intanto, allestita la tràglia con i buoi, era pronto a trasportare i covoni necessari per la trebbiatura del giorno dopo, per un nuovo ciclo che si ripeteva da 7 a 10 giorni.
Sistemati gli attrezzi e gli animali, Angelino rientrava con il gregge e veniva fatta la mungitura della sera.
Al tramonto ci si riuniva nella capiente cucina per la cena, al primo buio i bambini andavano a dormire e si accendevano un paio di lanterne a carburo. Scambiate ancora due chiacchiere, arrivava per tutti l'ora di riposare.
Finita la trebbiatura, nel periodo di agosto-settembre il grano non necessario alla semina e alla famiglia veniva portato ad Agnone all'ammasso (punto di raccolta) e venduto ad un prezzo fissato. Questo era l'unico mercato certo. La vendita degli altri beni come formaggio, agnelli, lana ecc. erano invece soggetti ai capricci del mercato.
Spesso capitava di fare un viaggio ad Agnone con alcune forme di cacio e tornare con tutto invenduto per mancanza di richiesta, non di prezzo.
Alla fine degli anni Cinquanta, il benessere in forte crescita non aveva toccato la vita dei contadini delle nostre masserie. Iniziò così l'emigrazione verso il Nord Italia ed il Nord Europa alla ricerca di nuove prospettive di vita. Nei primi anni Sessanta il nuovo collegamento stradale rese possibile l'utilizzo di mezzi meccanici e così finì per sempre la trebbiatura coi cavalli.
Renato Di Rienzo
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