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Il territorio di Capracotta: l'amministrazione pubblica e privata antica



Come poi quei nostri antichi provvedessero alle occorrenze della comunità, e come la governassero in quelle epoche (sempre 1400-1600) non si può che argomentare indirettamente ed incompletamente da saltuarie memorie delle quali raccolgo un sunto. La gestione amministrativa era tenuta da un piccolo consesso formato da un Sindaco proposto dall'Università e nominato dal Governatore, ossia agente del Barone, e da sei eletti, scelti dai cittadini, che insieme eran detti del Governo; restavano nell'incarico da un Settembre all'altro e insieme risolvevano gli affari di ordinaria amministrazione, perché a quelli di più grave e generale importanza eran chiamati a discutere i cittadini senza distinzione. Pare che il Governatore avesse diritto e facoltà di intervenire a presiedere qualsiasi adunanza.

Al Sindaco era affidata precipuamente la gestione finanziaria, per la quale percepiva un diritto fisso di 50 ducati, ed il suo rendiconto annuale era riveduto da due Razionali.

Il Segretario del consesso era detto Cancelliere. V'eran poi due Grascieri, il cui compito era di sopraintendere allo smercio di commestibili al pubblico, a stabilirne i prezzi, invigilarne il peso, le misure, la qualità, far osservare le ordinanze del Governo, i patti da coloro che assumevano forniture, specialmente di carne.

Le Entrate eran costituite dalla tassa sui fuochi in £. 4,25 a famiglia, il complesso della quale si riversava all'Erario; e dalle fide dei pascoli Demaniali, ossia proprii dell'Università, perché quelle sul territorio feudaÌe, che era il massimo, venivano assorbite dal Barone.

Gli Ecclesiastici erano esenti dal focatico e per un certo tempo lo furono anche pel pascolo di loro animali. Non ci erano Dazii, eccetto la Catapania, ossia il diritto di prelevamento di un Rotolo (Kilog. 0,891) di merce, o relativo importo, sopra ogni soma (cioè carico di vettura a schiena) di generi alimentari, generalmente frutta o verdure, pesci, salumi, ecc. dazio che gravava sui forestieri venditori. Stipendiati dall'Università erano: il detto Cancelliere: due Medici con tutto che a quei tempi la medicina si riduceva al salasso, all'applicazione di unguenti ed empiastri, a narcotici, ad estrazioni di denti ed operazioni chirurgiche, parto, fratture e distorsioni ossee ecc.: due consultori legali, i quali non sempre erano in paese: un Mastrodatti ossia Notaio: due guardiani dei boschi e delle campagne: un banditore: un assistente all'orologio pubblico: un sagrestano. C'era una tassa al Barone per la pubblicità dei bandi!

Avevano acciottolate le vie interne; accortamente peraltro fin dai tempi più antichi erano stati lasciati dei tratti aperti fra le case specialmente verso le rupi e coperti da volta in pietre (dette tombe) opportuni pel getto delle immondezze, dei materiali inutili ed anche della troppa neve ammonticchiata nelle vie.

Un orologio sulla torre d'ingresso del primitivo abitato segnava e suonava le ore regolate da un'ora dopo il tramonto.

Avevano anche provveduto a un ricovero pei viandanti, destinando a tale uso un apposito fabbricato, indicato nei documenti col nome di Taverna, la quale si dava a mantenere ad un apposito incaricato, con l'obbligo a costui di tenerla sempre aperta e di fornire il vitto ai viandanti stessi e i foraggi per le loro bestie da cavalcare o da soma. L'istituzione di un tale albergo o ricovero doveva rimontare ad epoca abbastanza remota, come è dato desumere da una iscrizione restata su una lapide infissa sul prospetto di una casa nella piazzetta ora denominata:


XENODOCHIUM HOC

VETUSTATE MAJORUMQUE INCURIA

PŒNITUS DEMOLITUM

ANNO ITERO 1720-1721

A FUNDAMENTIS RÆDIFICATUM FUIT EX LEGATO

R.DI D.NI PHILIPPO BARDARO

ET NONULLORUM PIETATE


Qui rilevo un dubbio che mi si affaccia dal considerare che all'infuori del detto albergo, ricordato col nome di xenodochio, o taverna, sopravvivono col nome di Ospedale le adiacenze della casa ov'è la lapide insieme a un terreno sottostante lasciato gran tempo a prato naturale e ad una via a fianco che scende alla campagna. Inoltre il Giustiniani, nel breve cenno di Capracotta nel suo "Dizionario regionale del Regno di Napoli" edito nel 1797, segna questa espressa menzione: «vi è un Ospedale». C'era dunque un edificio distinto e separato destinato per lo meno a lazzaretto, con la dotazione del terreno annesso e che poi similmente per incuria fu lasciato in abbandono? Il terreno poi nel principio del secolo XIX entrò nel patrimonio della Congregazione di carità; perché? Oppure quel che un tempo era Albergo pei viandanti fu convertito in lazzaretto in tempo di epidemia? Se così avvenne, la trasformazione dovette avvenire già prima della epidemia del tipo esantematico o petecchiale del 1827 che fece circa trecento vittime. Oggi di quell'Ospedale non sopravvive che il nome indicante la località confusamente.

Si può concludere dunque che un certo grado di agiatezza s'era andato diffondendo in paese.

Della gente minuta peraltro ben pochi si dedicavano a un mestiere, intenti tutti d'ordinario alle cure del bestiame. Nessuno poi e di nessun ceto per quanto si rammemori, si dedicò all'arte; le muse non lasciarono cultori degni di nota, forse perché, e non c'è da illudersi su questo, la vita era sotto ogni aspetto assai dura; i mestieri eran tenuti in dispregio perché mal rimunerati; e la pastorizia era preferita perché assicurava alla gente il vitto quotidiano, offriva l'agio delle provvistole familiari, la lana pel vestiario. Ma su questo mi riserbo ritornare nell'esame del periodo storico successivo, volendo offrir prima documentazione di quanto sono andato esponendo, traendola dal nostro Libro delle Memorie.

Leggesi al foglio 154 che il 30 Luglio 1667 (11 anni dopo la peste) «essendosi congregati in pubblico parlamento la maggior parte dei cittadini della Terra nel Fondaco del Ducal Palazzo perché essi, venuti in cognitione come, accesa la candela per l'affitto di detta Terra, rimase al magnifico Giulio De Furnis per 2.000 ducati l'anno, avevan rivolto domanda di prelazione al Sacro regio Consiglio per mezzo del Procuratore Prospero Amedeo, e, avendone ottenuto regio assenso, si era preteso dai ereditori quali cautele volesse dare l'Università per detto affitto. Il Sindaco afferiva l'obbligo delli magnifici D. Filippo del Baccaro, Leone D'Andrea, Amico Pettinicchio, Fabritio Carnevale, e di più offeriva di pagare prontamente ducati mille e di più in fine d'anno altri ducati 2.000 e sempre pagare anticipatamente un semestre durante li quattro anni di detto affitto. Benché non ci fosse necessità di tanta cautela, mentre la Università è ricca, senza debito alcunoi, vi sono 1.500 giumente e più, vi sono più di 50.000 pecore e li su detti quattro nominati possiedono più di 40, 50 mila scudi».



Al foglio 134 nella copia dell'Apprezzo della Terra per la «vendita in beneficio dell'Ill.mo Duca Andrea Capece Piscicelli» fatto dal perito Donato Cafaro nel 1671 trovasi scritto.

Nella descrizione dell'interno della Chiesa trovansi annoverati molti altari con le famiglie che ne avevano il patronato. Nella navata centrale verso l'altare maggiore uno dedicato a S. Maria della Pietà e S. Francesco di Paola della famiglia Pettinicchio: di fronte l'altro al Crocifisso un tempo della famiglia Pede poi dell'Università. Verso la porta uno a S. Maria di Montevergine e. S. Vito della famiglia Di Majo; l'altro a S. Maria di Costantinopoli della famiglia Carnevale.

Nella navata sinistra uno alla Madonna del Rosario della Confraternita della stessa; un secondo all'Annunziata della famiglia Di Janni; un terzo allo Spirito Santo e S. Caterina della famiglia Baccari: un quarto a S. Francesco della famiglia Di Rienzo.

Nella navata destra un primo a S. Anna della famiglia D'Andrea, un secondo ai SS. Innocenti della famiglia De Bucci; un terzo a S. Leonardo della famiglia Carfagna; un quarto alla Concezione della famiglia Campanelli.

Lateralmente un altare a S. Maria degli Angeli della famiglia Tartaglia; e all'incontro quello a S. Carlo dell'Università, un altro alla Concezione della famiglia Colangelo ecc.

Il complesso di tutti i su riferiti accenni mi par bastevole a credere che una notevole prosperità erasi andata diffondendo in paese a quel tempo, e fosse dovuta all'industria prevalente, l'allevamento del bestiame specialmente ovino.

Ed a questo proposito credo opportuno di aggiungere qualche ricordo che è attinente a moltissimi altri comuni e comunelli della nostra regione. La spinta data dagli Aragonesi a popolare di greggi e d'armenti il deserto Tavoliere di Puglia ed a renderselo fruttifero con l'offrire ai loro possessori la sicurezza di trovare dei posti determinati fissi e bastevoli al numeroso bestiame che non poteva restare l'inverno sui nostri nevosi monti abruzzesi e sanniti, indusse i possessori stessi non soltanto ad accrescerlo, ma a preferire quindi innanzi la Puglia alla Campagna romana anche per cansare l'incontro delle pressioni del differente governo politico ed amministrativo papale; ad assoggettarsi al disagio del più lungo percorso, al pericolo dei guadi di tre maggiori fiumi e di molti torrenti che lo attraversavano, ma che ne era compensato dal tempo e dall'agio che potevano impiegarvi, senza che le bestie trasmigranti ne soffrissero per deficienza di cibo, offerta da Tratturi, dai Riposi, e dai villaggi. Di più essi trovavan conveniente lo stendersi in quelle vaste e pressoché abbandonate terre, costituendovi una prima forma di dominio che per quanto precaria, era però reiterabile.

Ai massari (possidenti industria armentizia diremmo oggi) capracottesi furono assegnate vaste estensioni di pascoli nelle Locazioni di Canosa, Gaudiano, Locone, Minervino, cioè nel versante a destra delle corrente dell'Ofanto, dall'antico ponte di Canosa in su verso Venosa e quindi fin sulle Murge di Minervino, pascoli che le loro generazioni tennero fino al secolo XIX ed alcuni posseggono tuttora.

Confesso di non aver consultato l'Archivio della Dogana di Foggia per più ampi e precisi ragguagli su ciò, ma nell'Onciario del 1743 trovasi annotazione che eranvi già iscritti come Locati: la Cappella di S. Maria di Loreto, membri delle famiglie Baccari, Castiglione, Conti, D'Andrea, Di Janni, Melocchi, Mosca, Pizzella, Di Tella. Però sicuramente ve n'eran parecchi altri non menzionati nell'Onciario forse perché assenti al tempo della compilazione, ovvero perché non domiciliati in paese, ad esempio il Duca.

Né soltanto con le Locazioni andaron fuori stendendosi i capracottesi; molti andarono acquistando vigne in contrade vicine ove erano o s'impiantavano viti. Nello stesso Onciario del 1743 sono annotati possidenti di vigne per circa 20 mila ordini (ogni ordine di un filare di 15 viti; 800 a 1.000 ordini per ettaro) la più parte in agro d'Agnone, contrade Acquasalsa, Pietronero, Vallon del Cervo, ma ne avevano anche a Belmonte, a Borrello ecc. Nelle carte di acquisto, permute, obbligazioni riguardanti dette vigne trovasi d'ordinario l'indicazione d'esser costituite di viti latine, attestazione sicura che i vitigni erano originari del Lazio, ai cui vini i nostri han sempre avuto grandissima rassomiglianza.

L'industria degli ovini ne aveva portato seco altre; ad esempio la fabbricazione dei pannilana. Non v'era e non ci fu, sino ai nostri tempi, altra stoffa pel vestiario. Calze, vestiti, manti da donna mantelli, giacche, coperte, tutto era in lana. In flanella per lo più anche le camicie da uomo, le mutande e le mutandine donna. Per gli abiti maschili la tinta della stoffa, anzi della lana in toppe, veniva fatta esclusivamente con l'indaco; l'indaco vero vegetale, ed ancora al giorno d'oggi la maggior parte dei lavoratori adopera questo igienico decente e duraturo vestiario, con le camicie di flanella a carne nuda. Per le vesti da donna anticamente e fino alla formazione del nuovo Regno d'Italia la tinta delle gonne era in un inalterabile rosso cremisi, tinta di cui s'è perduto il segreto. Alle coperte da letto le donne si sbizzarrivano di crear tinte svariate, e a svariati disegni. Ogni casa, può dirsi, aveva il suo arcolaio, il suo filatoio, il telaio, la caldaia, il tino da tingere. Ai molini erano annesse le gualchiere. Il nostro geografo Giuseppe Galanti ricorda che in Capracotta ed in Morcone erano fabbriche di panni ordinari. Le guarnizioni delle vesti e delle mantelline da donna erano in seta, e come ricorda il Cafaro, qualche donna più ricca aveva abiti pure in seta. La biancheria era generalmente di canapa filata e tessuta pure nelle case, e candeggiata al sole in lunghe striscie sulla neve, ma ve n'era anche in lino ed anche in bambagia che veniva dalle Puglie. Sconosciuto il cotone.

Altra industria fu ed è tuttora quella della composizione dei basti per bestie da soma che rimase quasi come un privilegio, un monopolio dei bastai capracottesi, conservato fino ai nostri giorni, trasmesso in determinate famiglie di padre in figlio, che poi si sono sparsi in gran numero dei paesi del mezzogiorno, gelosi d'insegnare il mestiere ad altri.

Circa le vicende del nostro territorio nel decorso del 1500 e 1600 è da ricordare che il governo spagnuolo soppresse i dieci Giustizierati, ricostituendo le Provincie in numero di dodici. Il nostro Contado di Molise, all'estremo del quale rimanemmo, venne segnato all'11° posto e si estese dal Sangro fino alla Capitanata.

Localmente, all'infuori dell'assegnazione dei demani feudali al Duca Capece Piscicelli, altri mutamenti avvennero. I benedettini di Montecassino, che eran soliti di esigere direttamente le rendite o i terraggi in derrate da una trentina di famiglie di coloni coltivafori, nel 1600 lo dettero in locazione ai fratelli Giovanni e Berardino Mosca per 102 tomoli di grano. Posteriormente la locazione fu assunta da altri.

Degli altri mutamenti nelle parti di S. Croce di S. Maria Caprara, di S. Nicola della Macchia ho già fatto parola innanzi.

I governanti spagnuoli, a quanto pare, vollero che ogni Provincia serbasse un emblema distintivo e l'avesse anche ciascuna Università da figurare nelle principali sedi dei pubblici assembramenti e nei sugelli (timbri) metallici da adoprarsi, di cui le prime impressioni trovansi nell'Onciario compilato nel 1743.


Luigi Campanelli




 

Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.

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