top of page

I risultati della tua ricerca

2278 risultati trovati con una ricerca vuota

  • Viteliù - Anni difficili

    Roma la civilizzatrice, padrona d'Italia, d'Etruria e della Gallia peninsulare; della Spagna, sia pur rivoltosa, e delle terre più ricche del vicino Oriente. La Magna Civitas che aveva sconfitto Annibale, raso al suolo Cartagine e finalmente cancellato i feroces Samnites dalla faccia della terra. Già, il popolo sannita, il "nemico" per antonomasia per Silla e per i Romani di molte e molte generazioni. Vivissimi, nei ricordi di tutti, erano ancora i fatti accaduti dieci anni prima, quando Lucio Cornelio Silla aveva salvato la città dai Sanniti e dai loro alleati, sotto Porta Collina. Tutti ricordavano a Roma quella tremenda notte, fra il primo e il secondo giorno del mese di November del 671, nella quale l'esercito degli Italici, comandati da Ponzio Telesino alleato della fazione di Caio Mario, era stato a un passo dal conquistare la città. La velocità delle truppe guidate da Silla e soprattutto l'arrivo dei rinforzi di Crasso all'ultimo momento, avevano significato la salvezza contro la minaccia dei terribili, indomiti, nemici della Repubblica. Il fantasma delle Forche Caudine, ma anche il ricordo del sacco dei Galli, erano aleggiati per giorni tra i Romani di tutti i ceti. Quella stessa notte, dopo l'insperata vittoria, Silla in persona aveva comandato l'esecuzione di tutti i prigionieri sanniti della touto dei Pentri i quali, a differenza dei guerrieri delle altre etnie, lasciati liberi, furono trucidati a migliaia nel Campo Marzio, tanto che il Tevere fu rosso, per giorni, del loro sangue. Sembrava passato davvero poco tempo da quando sui rostri del foro erano state appese le teste degli oppositori di Silla. I Romani ricordavano ancora i macabri trofei di Mario il Giovane, di Carbone e dei capi italici come Ponzio Telesino e l'anziano Gavio Papio Mutilo. In quel momento Silla era apparso alla maggioranza delle famiglie nobili, favorevoli alla restaurazione degli antichi privilegi repubblicani, come il salvatore della patria. Aveva chiesto e ottenuto i pieni poteri e, cosa rara nella storia di Roma, era stato nominato Dictator. Fin dai primi giorni del suo potere aveva fatto intendere che solo operazioni radicali avrebbero potuto estirpare la mala pianta dei nemici di Roma: occorreva eliminare rutti gli avversari interni ed esterni, romani e italici. Questo doveva fare e questo aveva fatto, fino in fondo. Una delle sue prime preoccupazioni era stata quella di debellare ciò che restava delle forze italiche ostili: Pentri, Marsi e i pochi Carricini, soprattutto. Non solo. Con l'intento di evitare per sempre a Roma il pericolo della rinascita di una ribellione sannita, Silla aveva inviato due legioni a cancellare il Sannio dei Pentri, uccidere e deportare le sue genti. Di quella nazione e dei suoi luoghi d'origine nulla sarebbe dovuto sopravvivere a lui. Così come aveva comandato che accadesse di ognuno dei suoi peggiori nemici. La data del 1° di November, ricorrenza della vittoria di Porta Collina, era stata proclamata festa dello stato. Nel primo anniversario della battaglia, Lucio Cornelio aveva comandato feste memorabili: si erano tenuti sette giorni di banchetti offerti all'intero popolo di Roma, gare di atleti, giochi gladiatori, esibizioni di caccia a bestie feroci e corse di carri. Sul piano interno l'obiettivo principale era stato quello di cancellare ogni traccia della fazione di Caio Mario, Cinna e Carbone attraverso una campagna di terrore e il metodo, spietato, delle liste di proscrizione. All'interno della città si erano diffusi il terrore e l'angoscia. Chiunque, secondo l'inappellabile giudizio del dittatore, poteva essere iscritto nelle liste dei nemici della Repubblica e, senza processo, perseguitato, ucciso con premi in denaro per i delatori e gli esecutori. Intere famiglie erano state distrutte, moltissimi quelli che avevano tentato la fuga spesso senza successo; immensi patrimoni erano stati confiscati, per finire nelle stesse mani di chi aveva denunciato o ucciso i proprietari. Contemporaneamente Silla si era dedicato con grande decisione al riordino dello stato e delle province, dell'ordine giudiziario e persino della religione e dei culti. Riforma dell'ordine sociale e rinascita dell'economia furono suoi precisi obiettivi per una Roma ridotta allo stremo da anni di guerre contro gli Italici e contro Mitridate, fino alla guerra civile fra Silla stesso e Mario. Le casse vuote dello stato erano state gradatamente riempite e la città sembrava ora rinascere a nuova vita, fino a far apparire all'orizzonte l'avvento di una nuova era. Lucio Cornelio, il Dictator restauratore dell'antica repubblica, colui che aveva inteso riportare Roma alle tradizioni dei padri, ma anche ai privilegi della nobiltà patrizia, aveva consolidato il dominio della città fondata da Romolo sull'intera penisola italica e su gran parte del mare conosciuto. Negli anni del suo potere egli aveva suscitato sentimenti contrastanti, mai neutri: odio e amore, riconoscenza e sete di vendetta. Lo si descriveva tiranno, ma molti avevano goduto dei risultati della sua tirannia, si favoleggiava sulla sua vita dissoluta da depravato amante delle orge, oltre che della violenza più spietata contro i nemici. A molti atti di tirannia e di depravazione, soprattutto nell'ultimo periodo della sua vita, egli si era abbandonato. Il suo potere assoluto non era durato più di tre anni. Presto Lucio Cornelio, già anziano al momento del trionfo di Porta Collina, si era ammalato. Sentendo la fine vicina aveva deciso di ritirarsi vivendo gli ultimi mesi della sua esistenza tra il lusso sfrenato e stramberie di ogni genere. Aveva comandato per sé, e aveva ottenuto, funerali in pompa regale, che non si ricordavano a memoria d'uomo, e tali da far impallidire il suo più grande corteo trionfale. Il cadavere su una lettiga d'oro, centinaia i letti funebri dei Corneli estinti, decine di carri che raccontavano le scene della sua vita e altri carichi d'oro e di spezie, un interminabile numero di soldati e cavalieri in assetto di guerra. Erano dunque passati sei anni dalla morte del Dictator, ma la sua ombra si allungava ancora sullo stato e sui cittadini a ricordare il periodo delle proscrizioni e il terrore. La città attraversata dal vecchio cieco e dal suo servo non nascondeva una rinascente opulenza anche se nuovi e vecchi problemi non mancavano. Quell'anno, il 681° dalla fondazione, la Repubblica restaurata da Silla si trovava a fronteggiare diversi importanti pericoli: in Spagna la lunga guerra contro le forze residue della fazione di Caio Mario, nemico giurato del dittatore e della Repubblica, a Oriente la perenne minaccia di Mitridate e, come se non bastasse, proprio quella primavera il capo dei germani Suebi, Ariovisto, aveva passato il Reno con quindicimila uomini, minacciando da vicino la Gallia Ulteriore, la più settentrionale delle province romane. Invero la guerra di Spagna, condotta dall'astro nascente Gneo Pompeo il Grande, volgeva in quel momento al meglio. Nell'inverno appena trascorso il comandante delle forze mariane, Quinto Sertorio, era stato assassinato da un traditore e alla ripresa della campagna primaverile già s'intuiva il progressivo sfaldamento della resistenza nei confronti di una nuova offensiva dell'esercito repubblicano. A causa delle notizie che giungevano dalla penisola iberica, le previsioni a Roma erano volte verso un ottimismo crescente. Lo sforzo militare contro Mitridate in quei mesi vedeva impegnate le legioni di Lucullo, che avevano appena invaso il regno del Ponto e sembravano volgere a proprio favore la seconda fase della guerra. Anche per questo, in quella metà di Majus, le preoccupazioni dei consoli in carica, Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano, erano rivolte soprattutto verso il pericolo più grave per Roma: Spartacus, il gladiatore ribelle, lo schiavo che era riuscito a radunare intorno a sé un esercito composito e sempre più minaccioso fatto da schiavi e rivoltosi di ogni genere, tra i quali anche residui combattenti italici convinti di poter ancora abbattere l'odiata Lupa. Iniziata un anno prima in seguito a una fuga di gladiatori, la rivolta aveva ben presto assunto il volto di una ribellione contro lo stato romano. Indomiti reduci sanniti e lucani, schiavi di ogni provenienza, nemici della Repubblica in cerca di vendetta contro la terribile restaurazione sillana e i suoi beneficiari, rivoltosi di ogni genere e provenienza si erano uniti a Spartacus nella speranza, ancora una volta, di abbattere il potere centralizzato dell'Urbe, abolire la schiavitù e rendere la libertà alla penisola italica. Il sogno del comandante gladiatore era stato fin dall'inizio la costruzione di una nuova Roma, magari comandata da Sertorio, in cui le residue genti sannite e gli altri popoli italici potessero veder rispettati i loro diritti e soprattutto le diverse identità e retaggi culturali. Le bande di Spartaco devastavano, rubavano, assaltavano le proprietà dei ricchi cittadini romani delle province, mentre il grosso delle forze era spesso impegnato a saccheggiare le comunità che non si univano alla rivolta. Le sue scorribande avevano procurato non pochi danni alle città campane e alle vie commerciali delle regioni centrali, rendendo insicure, ad esempio, le vie della transumanza tra l'Apulia e i monti dell'Alto Sannio, dei Peligni e dei Marsi. L'ex gladiatore era a capo di un vero e proprio esercito di almeno quarantamila uomini destinati a raddoppiare in pochi mesi. Giunta la primavera egli intendeva persuadere la Campania a ribellarsi e a proclamare la fine del giogo romano. Nola e Nocera avevano risposto di no, stanche di combattere; troppo vicini nel tempo erano, infatti, il sangue e le devastazioni della guerra sociale e di quella civile. Le due città erano state per questo saccheggiate dalle truppe di Spartacus che nel corso della prima parte della buona stagione si era recato a sud per attaccare Cosenza, Turi e Metaponto. A metà di quella primavera le sue forze erano entrate nel Sannio: Aesernia, Bovia-num, Sæpinum e Beneventum avevano rifiutato di schierarsi, ma non erano mancati gruppi di soldati pentri - i quali avevano bevuto l'odio per Roma con il latte stesso delle loro madri - che si erano uniti al suo esercito abbandonando i nascondigli montani dai quali, da poco meno di dieci anni, stavano partecipando alla guerriglia mai domata dalla Repubblica. Ora si favoleggiava sul numero degli uomini al seguito del Gladiatore: sessantamila, ottantamila, centomila...! Le informazioni che giungevano in Senato erano discordanti, ma sempre più minacciose. In quello stesso anno, compiute le ventotto primavere, un ambizioso e promettente giovane patrizio, Caio Giulio Cesare, diventava Tribuno militare. Nicola Mastronardi Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà , Itaca, Castel Bolognese 2012.

  • Viteliù - Un fantasma dal passato

    Molti erano i pensieri che si affollavano nella mente del vecchio cieco durante il cammino. I tempi erano maturi, ne era certo, per compiere ciò che si era prefisso fin dal giorno della sua cattura da parte dei Romani, ma ora le incognite gli apparivano enormi, come non avrebbe creduto. Le conseguenze della sua azione gli si rivelavano ignote. Ostentava sicurezza, anche verso se stesso, ma più la sua meta si avvicinava, maggiori erano i timori che lo assalivano. Si fermò di nuovo, pensieroso, come per prevedere il futuro; sospirò, attribuendo i suoi timori alle debolezze dell'età avanzata, ma non era così; un tale stato d'animo non era nuovo per lui. Era successo anche ai tempi in cui dalle sue decisioni era dipeso il destino di un popolo intero. Tranne che in battaglia, l'incertezza aveva fatto capolino nel suo animo in molte occasioni decisive. Stavolta però, si disse, era diverso. La sua vita stava finendo e ciò che si apprestava a fare era il compimento di un fato che sapeva essere non più rinviabile. Un pensiero, forte più di altri, lo sosteneva: forse lui solo, fra i moltissimi nemici giurati di Lucio Cornelio Siila, avrebbe avuto la sua vittoria nei confronti dello spietato dittatore. L'unico modo per ottenerla era giungere alla meta di quella mattina di Majus . Perciò riprese a camminare con più decisione di prima. Finalmente svoltò, sempre condotto dal servo Kaeso, in una via residenziale di quella zona settentrionale di Roma. Lì le botteghe finivano per lasciare il posto alle abitazioni private. Un quartiere, non grande, di case di benestanti. Si fermarono davanti all'ingresso di una delle ville; Kaeso la conosceva bene. Per almeno sei anni, per un preciso, assillante ordine del vecchio, aveva spiato il ragazzo che abitava in quella casa, con il compito di riferire ogni particolare significativo senza farsi notare. Da qualche minuto il servo aveva intuito dove si stessero recando, ma solo in quel momento ebbe la certezza: ciò che stava per accadere era legato all'adolescente di cui sapeva tutto. Kaeso non conosceva il motivo dell'interesse del suo padrone per quel giovane, pur avendo cercato di scoprirlo in molte maniere. Cosa c'era nel figlio di Lucio Stazio Caro e di Livia, che lo legasse al vecchio cieco? Egli lo ignorava ancora, dopo tutti quegli anni. – Siamo forse arrivati signore? – chiese il servo con una lieve incertezza nella voce. – Questa è la casa di... del... giovane. Era qui che volevate recarvi? Siamo dinanzi all'ingresso. – Bene – mormorò l'anziano. Un respiro profondo gli gonfiò il torace. – Il momento è giunto. Annuncia ai padroni di casa il nostro arrivo. Kaeso tirò la corda e dall'interno sì udì il suono di campanelle. Immediato fu l'abbaiare dei cani che, dalla voce, s'intuivano di grossa taglia. La casa era sveglia e, infatti, subito qualcuno si accostò al pesante cancello di ferro. Una finestrella si aprì e apparvero gli occhi azzurri e sospettosi di un vecchio. – Chi siete? – chiese questi interrogando gli estranei più con lo sguardo che con le parole. L'uomo soffermò la sua curiosità soprattutto su quel cieco dall'aria solenne e sul bastone dalla strana foggia che teneva nella mano destra. Fu quest'ultimo a parlare in un latino che tentava di pronunciare correttamente. – Annuncia ai tuoi padroni che un parente venuto dal Sannio Pentro è tornato a prendersi ciò che è suo. Non fu poca la sorpresa dell'interlocutore che a quelle parole trasalì scrutando ancor più profondamente quello strano personaggio; poi chiuse di scatto la piccola finestra. Dal rumore veloce dei suoi passi, s'intuì la corsa ad avvertire i padroni di casa. Kaeso, dal canto suo, aveva appena sentito le parole che non avrebbe voluto udire. Deglutì a fatica. Era la conferma dei suoi sospetti più neri e ora aveva una voglia matta di fuggire per miglia lontano da quella situazione. Ignorava cosa sarebbe accaduto di lì a pochi minuti, ma a incutergli terrore gli bastava la certezza di aver servito, per anni, un Sannita della touto dei Pentri. Un capo, forse, sotto mentite spoglie, pensò, visto che se Siila ne avesse conosciuta la vera identità, mai si sarebbe sognato di proteggerlo. Ma il dittatore non era uomo da farsi gabbare facilmente. E allora? Tornò confusamente all'ipotesi del traditore. In quale situazione si stava cacciando? Il tradimento è sempre pericoloso... La confusione nella testa del servo era grande, pari solo alla sua paura. Sudava pur avendo brividi di freddo pensando al pericolo sin qui corso. Deglutì ancora. Complice di un capo sannita! Era più che sufficiente per essere decapitato anche ora, a tanti anni dalla morte di Lucio Cornelio. Non fuggì, come impietrito dal panico che lo aveva definitivamente annientato. Il cancello si aprì e sulla soglia apparve il padrone di casa, Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum. Un uomo non alto, ma dall'aspetto gradevole. Aveva il fisico robusto degli Italici; la sua era una gens originaria di quella zona del Sannio Pentro meridionale, divenuta romana da più di due secoli, dal tempo in cui erano terminate le guerre sannitiche. Fin da allora gli Stazi avevano fatto fortuna vendendo a Roma il pregiato olio di Venafrum - proveniente da una particolare qualità di oliva detta liciniana, nota a Roma da almeno due secoli - tanto da permettersi una vita agiata da più generazioni e anche un'abitazione nella capitale in cui Lucio Stazio e sua moglie Livia avevano preso stabile dimora da almeno sette anni. Come dimostravano anche i capelli brizzolati, l'uomo aveva superato da poco i cinquanta anni. Guardò con intensità il vecchio soffermando lo sguardo sulla tunica, sul cinturone di bronzo e su quello strano bastone, dal quale, in particolare, sembrò turbato. Senza staccare lo sguardo dalla piccola scultura a forma di toro, si rivolse al servo. – Un parente che viene dal Sannio, avevi detto, Publio. Ma questi due non mi sembrano parenti. Tanto meno che... vengano dalle nostre terre. Sono di Roma, mi sembra. Fissò l'anziano. – Un viso conosciuto... sì, ci sono! Il tono della voce divenne improvvisamente duro. – Sei l'anziano protetto da Silla! Che cosa vuoi dalla mia casa? – E tu sei Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum. Questa volta il vecchio aveva parlato in osco. Fece una pausa. Nella sua voce si avvertì un impercettibile cenno d'emozione. – Io conoscevo tuo padre Calvo Stazio – continuò parlando nella lingua dei Sanniti che sapeva essere ben compresa dal suo interlocutore. – Fummo bambini insieme, poi giovinetti: non si sa quanti cavalli abbiamo domato e cavalcato insieme, sulle praterie dell'Alto Sannio. Egli vi si recava ogni estate e lì io vivevo. Il nostro affetto andava molto oltre il legame di sangue. Tu dovresti capire chi sono. Un'altra breve pausa per attendere una reazione che non venne. Il padrone di casa lo stava ancora studiando. – Chi io sia veramente lo saprai presto. Accoglimi nella tua casa – aggiunse soltanto. A quelle parole, ora accompagnate dal tono di chi ha autorità, Lucio Stazio non esitò un attimo di più ad aprire il cancello per far entrare i due nell'atrio. Prima di chiudere guardò in strada, a destra, poi a sinistra, per capire chi avesse potuto assistere alla scena. Nessuno, ne fu rincuorato. – Nella stanza delle visite – ordinò – e che non ci disturbi nessuno. Nessuno, capito? I due ospiti, preceduti dall'anziano servo che aveva appena legato due splendidi mastini bianchi originari dei monti dei Marsi, attraversarono Yatrium e imboccarono il corridoio che portava al giardino. Furono introdotti in una camera ben arredata con triclini e vivaci dipinti alle pareti. Due finestre illuminavano l'ambiente; per evitare sguardi indiscreti Lucio chiuse i pesanti tendaggi. Il vecchio chiese di potersi sedere, lo fecero accomodare su uno sgabello dopo che egli ebbe rifiutato il triclinio. Non senza un nuovo moto di sorpresa da parte di Lucio, il cieco chiese che fosse convocata anche la moglie di questi, Livia. La donna venne; entrando osservò curiosa lo strano personaggio. Questi, non appena la sentì arrivare, si alzò in piedi. Poi tese la mano verso di lei, che in un primo momento si ritrasse, e ne cercò il viso; lo sfiorò con una carezza, come per indovinarne i lineamenti. Un sorriso si dipinse, impercettibile, sotto la folta barba bianca. Livia aveva superato da poco i quarant'anni. Era stata una donna molto bella e lo era ancora. Nel portamento e nei suoi modi di fare conservava tutta l'orgogliosa eleganza della stirpe italica di cui conservava anche a Roma le tradizioni più significative. Al contempo, come Lucio Stazio, si era perfettamente integrata nella vita della città. Il comportamento di quell'anziano sconosciuto la incuriosì, senza tuttavia turbarla troppo, in un primo momento. Il vecchio Sannita pretese di restare solo con Livia e Lucio. Questi acconsentì, ma fece cenno al servo dagli occhi azzurri, che rispondeva al nome di Elvio, di non allontanarsi e di rimanere all'esterno, nei pressi della porta. – La benedizione della madre Kerres, di Herekles e Ops e di tutti gli dèi sia su questa casa. Meritate ogni bene per ciò che avete fatto. Il vecchio aveva pronunciato la frase con solennità rimanendo ancora in piedi. Le sue parole erano state accompagnate dal gesto solenne delle mani protese a benedire i due. I coniugi si guardarono, entrambi con apprensione negli occhi. Livia strinse la mano di Lucio. Una sensazione di disagio le attraversava ora il cuore e la mente. – Avete chiesto il mio nome. Ebbene lo saprete. È un nome impronunciabile a Roma. Ma è giunto il tempo di rivelarlo a voi. A voi soli. L'inquietudine della donna cresceva visibilmente. Lucio scrutò il viso del vecchio che con lentezza grave si apprestò a rivelarsi. Si sedette. – Il mio nome è Gaavis Paapiis Mutìl, Meddiss toutico dei Pentri e dei Carficini, Embratur dei Sanniti e dei Vitelios nella grande guerra contro Roma. Silenzio. Un lungo interminabile attimo di stupore fra i due coniugi. Lucio Stazio dapprima scosse la testa, evidentemente incredulo, poi reagì; scattò in piedi e affrontò il vecchio faccia a faccia, sovrastandolo minaccioso, come se questi potesse vederlo. – Non è possibile, sei un impostore! Papio Mutilo si è ucciso a Teano più di otto anni fa! Tutti videro la sua testa nel trionfo di Siila e poi sui rostri del Foro. Chi sei e cosa vuoi da noi, vecchio? Farai bene a lasciare subito questa casa se non vuoi. Il tono della voce era stato violento, minaccioso, ma Lucio Stazio non riuscì a finire la frase. Colui che aveva detto di chiamarsi Papio gli aveva chiuso la bocca con un gesto della mano, interrompendolo. Si alzò di nuovo. – Era la testa di mio fratello, morto durante l'assedio di Nola. Aveva il volto in parte sfigurato in modo che non fosse riconosciuto. Mia moglie Bantia, d'accordo con me, l'aveva inviata a Silla in un cesto: volemmo fargli credere che lei mi avesse rifiutato l'ingresso presso la sua casa paterna e che io mi fossi suicidato. Molti pensarono che lei stessa mi avesse fatto uccidere per salvarsi da Silla; io, infatti, ero in cima alla testa di tutte le liste dei proscritti del... Romano! Ma Lucio Cornelio, pur facendo credere a tutti quella storia, non cadde nell'inganno. Tolse la mano dalla bocca di Lucio e tornò lentamente a sedersi. – Ma lasciate che vi racconti tutto, affinché possiate sapere. Lucio Stazio si avvicinò alla moglie prendendole le mani. Aveva ancora il respiro grosso dovuto alla reazione di poco prima. Si sedette accanto a lei e l'abbracciò. Entrambi avevano lo sguardo fisso sul vecchio; nel viso di Lucio Stazio si leggeva ancora l'ombra del sospetto, in quello di Livia la paura. Il suo cuore intravedeva, con terrore, il vero motivo di quella inattesa visita. – Mi catturarono più di un anno dopo. Nola si era appena arresa ed io stavo tentando di tornare sui miei monti poiché anche Aisernio, la nostra ultima capitale, era caduta. Fu Verre a prendermi, sui sentieri del Monte Tiferno. Lo aveva inviato Silla. Lui non aveva mai smesso di cercarmi, in segreto. Da qualche tempo mi ero ritirato, cieco, stanco di guerre, lotte, sangue, di tanti sogni infranti di un'intera nazione e di tanti altri popoli, contro il destino che aveva sempre favorito, implacabilmente, Roma. Tuttavia abbandonare la lotta contro i nemici della nostra libertà non era stato possibile per me. Pur avendo ceduto da anni il comando a Ponzio Telesino, l'odio di Silla per me era vivo ed io sapevo di non poter cadere nelle sue mani. Avevo fatto di tutto perché la fazione del Cornelio fosse sconfitta, progettai io l'assalto diretto contro le mura di Roma sug-gerendo la strada che condusse l'esercito a Porta Collina; lì il sogno di sconfiggere la Repubblica degli optimates fu a un passo dall'essere realtà. Poi il fato ancora una volta aveva favorito Silla. I Sanniti, lui, non li aveva mai perdonati. Il suo desiderio di vendetta non si era saziato delle stragi e del sangue italico versato a fiumi come non si era visto a memoria d'uomo. Egli voleva anche me. Voleva la vendetta contro chi era riuscito a progettare persino uno stato indipendente da Roma minacciando ancora una volta la sua stessa sopravvivenza; contro il capo dei più ostinati nemici... i più pericolosi: i Samnites , sotto il comando dei quali, insieme ai Marsi, la rivolta di tutti gli Italici aveva avuto origine. Noi, che avevamo osato alzare la testa per riconquistare l'antica dignitas e la libertà... la nazione che al tempo dei padri era stata la sola vera alternativa a Roma e che ne aveva messo in discussione il dominio sull'Italia. Io, sopra tutti; mi considerava la mente della rivolta insieme a Silone, lo stratega della nuova nazione. Il Romano non mi aveva perdonato nemmeno la moneta oscena del Toro e della Lupa che ricordava a tutti l'oltraggio delle Forche a Caudio. Non aveva perdonato il nostro allearci con Mario e suo figlio, pur di vedere la sconfitta dei nobili conservatori. Infine, avendo subito più volte sconfitte da noi, considerava la touto dei Pentri nefasta per la glorificazione piena della sua persona. Una pausa. Si aprì le vesti e mostrò in silenzio il tatuaggio sul petto. Nella stanza il silenzio era assoluto. Riprese. – Se fossi giunto sui miei monti, essi mi avrebbero nascosto. È lì, nell'Alto Sannio, che avrei voluto finire i miei anni. Ma il Romano non volle lasciarmi andare. Fu dopo la caduta di Nola e la mia cattura, che il dittatore decise di ritirarsi a vita privata. Fu il suo ultimo atto, aveva compiuto ciò che doveva e voleva. Lucio Stazio si liberò dalla mano della moglie e, ancora evidentemente incredulo, esclamò: – Perché mai Siila ti avrebbe lasciato in vita? – Volle sfruttare l'inganno in cui mia moglie avrebbe voluto farlo cadere. Aver mostrato al popolo anche la "mia" testa aveva reso completo il suo trionfo su tutti i suoi nemici ora che per tutti anche l' Embratur degli Italici ribelli era morto. Con me in vita, accecato e ridotto in schiavitù nella stessa Roma, la sua sete di vendetta otteneva ancora di più: la mia umiliazione a vita e, attraverso me, l'umiliazione perenne di tutti i Sanniti pentri. Progettò che il mio dolore dovesse rinnovarsi giorno dopo giorno, fino alla mia morte che avrebbe dovuto coincidere con la sua. Fu questa, ai suoi occhi, la sua vittoria più raffinata. Più dei suoi trionfi su Mitridate o sullo stesso Mario. L'ultimo Meddiss toutico, l' Embratur del popolo che a Caudio aveva umiliato Roma e rovinato la sua gens , il comandante supremo di quella gente "feroce" e guerriera la cui scomparsa totale era per Siila l'unica garanzia per la sicurezza dei Romani. Il capo dei capi dei Safinos costretto ad assistere al trionfo di Lucio Cornelio Silla, all'avvento del suo potere assoluto, alla restaurazione della grandezza di Roma. Capite, ora? Ancora una volta solo il silenzio rispose alla domanda del vecchio. – Nei mesi in cui mi ha tenuto prigioniero, prima che morisse, egli mi faceva informare delle sue vittorie e di tutti i trionfi di Roma ovunque accadessero. Sapevo puntualmente delle sue vendette contro i nemici e delle proscrizioni, delle riforme che avrebbero riportato la Repubblica all'antica purezza, ma con un potere e domini immensamente più grandi. Roma, dopo la definitiva scomparsa dei Sanniti, e grazie anche al loro sangue, avrebbe potuto finalmente dominare il mondo. Chiese dell'acqua. Gli fu portata dal servo Elvio, anch'egli come gli altri incredulo di quanto le sue orecchie stavano udendo. Riprese. – Fui messo a conoscenza di tutti i dettagli della devastazione cui sottopose la mia terra e della deportazione della nostra gente. Un suo centurione recitava per me, una volta al mese, l'elenco dei nomi di capi famiglia catturati e decapitati nel Sannio da Verre e m'informava del destino di ogni famiglia i cui membri erano trucidati e i figli condotti in terre lontane. Le giovani stuprate, i giovinetti fatti schiavi. Seppi ancora delle distruzioni, della rovina delle cinte murarie di ogni tipo e delle città fino al più piccolo vico... Un resoconto puntuale in cui le atrocità venivano narrate ridendo. Forse Silla sperava in un mio suicidio. O forse era solo il suo modo di torturarmi. Si avverava ciò che aveva promesso: la cancellazione della nazione sannita e della sua memoria; l'oblio eterno dei nomi dei luoghi e dei monti abitati dai Pentri. Fui anche costretto, il giorno della ricorrenza, a essere presente alla festa della vittoria che ricordava la battaglia di Porta Collina e l'eccidio dei guerrieri sanniti... il mio servo doveva raccontarmi tutte le cose che io non potevo vedere. Anche le più oscene contro il mio popolo. Kaeso, fuori della stanza, annuì conservando l'espressione di stupore e terrore assunta fin dall'inizio di quel racconto. I suoi occhi erano sgranati all'inverosimile. Lucio Stazio e Livia apparivano impressionati da ciò che udivano, così come il loro servo che aveva continuato ad ascoltare anch'egli fuori della stanza. Nessuno osò ancora fiatare. – Una crudeltà – riprese il vecchio, – superiore a ogni umana immaginazione. Poteva dirsi uomo Lucio Cornelio Silla, il dittatore dei Romani? Poteva avere sentimenti umani il capo di un popolo tanto crudele? Quando fui accecato, la notte della mia prima cattura diciassette anni fa, l'ultima cosa che mi fu concessa di vedere era stato lo sterminio di tutti i membri della mia famiglia. Tutto per un suo preciso ordine. Chinò il capo e, per la prima volta dall'inizio del suo narrare, una smorfia di dolore gli apparve nel volto. – Aveva deciso l'estinzione del sangue della mia famiglia oltre che della mia touto... Una lunga pausa come a cercare un pensiero più profondo degli altri. – M a il romano non ha vinto – disse, e alzò la testa in un rigurgito di orgoglio. Livia strinse forte la mano del marito, mentre un dolore acuto le attraversò il petto. Lucio Stazio si scosse e riuscì a parlare. Si accorse in quel momento di avere la bocca secca. – Cosa... che cosa vuoi nella mia casa, forse ti sono venuti meno gli aiuti statali? Perché racconti a noi rutto questo. Sono storie passate. Silla è morto da anni, ormai. Anche se tu... anche se voi foste davvero chi dite di essere, che senso ha ricordare il passato. E perché farlo oggi, qui in casa mia? Gavio Papio Mutilo alzò il capo e volse i suoi occhi spenti verso i coniugi; sembrava che li vedesse. – Una notte di sedici anni fa – disse lentamente – riceveste qualcosa da custodire. Lo avete fatto bene. Qualcosa, o meglio, qualcuno che è caro a me come a voi, ma che non vi appartiene. Quel ragazzo è sangue del mio sangue e parte della grande nazione safina. È l'ultimo dei Papii. Appartiene ai suoi monti, non a voi e tanto meno a Roma. Livia emise un urlo appena soffocato, il marito dovette sorreggerla. La donna cadde, esanime, fra le sue braccia. Nicola Mastronardi Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà , Itaca, Castel Bolognese 2012.

  • Un paesaggio di guerra

    Panorama di Capracotta ed il direttore ministeriale nazista A. I. Berndt. Un paesaggio in crescita offre grandi vantaggi a chi lo usa per difendersi; così insegnano le esperienze della tradizione classica. Ma già al giorno d'oggi nei principali campi di battaglia della guerra mondiale, questa affermazione ha perso validità. Vale solo con limitazioni e su teatri secondari, dove, per esempio, come nella guerriglia, il colpo sparato da un fucile nascosto su una collina ha l'ultima parola. Questo tipo di combattimento predatorio, antiquato e superato, è ancora soggetto a leggi da cui il corso delle grandi battaglie della guerra tecnologica si è da tempo distaccato; infatti, la potenza di fuoco, generata dal fronte compatto e concentrato delle armi pesanti e dal prodigo utilizzo di munizioni, ha tolto al terreno agricolo o non antropizzato il suo valore difensivo. Semplicemente il fuoco di sbarramento e i bombardamenti a tappeto spianano questi fragili scenari naturali. Al contrario nel caso di incertezze, chi attacca, grazie alla superiorità delle sue armi e del suo materiale bellico, rimane padrone del proprio spazio, perché sarà in grado di impedire lo spianamento di alberi, siepi, frutteti, boschetti di castagni o uliveti. Sa come sfruttare ogni possibilità di copertura e mimetizzazione del suo schieramento e della sua preparazione in un paesaggio così variegato. È lui a trarre vantaggio da questo terreno. Da tali esperienze e conoscenze, la leadership tedesca ha tratto le sue conclusioni relative alla scelta della zona in cui posizionare la linea del fronte attraverso l'Italia. Costringere il nemico, nel caso in cui non volesse rinunciare all'attacco, a colpire in punti dove la battaglia non possa essere decisa solo dalla superiore potenza di fuoco. I pendii rocciosi nudi e le masse montuose disboscate tra il Tirreno e l'Adriatico si ergono senza copertura e il paesaggio non offre riparo. Il difensore può concentrare così il fuoco delle proprie armi. sulle poche valli e strade che solcano questo territorio. Può scavare le postazioni in profondità nella roccia e nei punti dominanti, che non possono essere facilmente distrutti nemmeno da continui attacchi aerei. Di fronte all'artiglieria nemica si ergono le montagne, che in alcuni punti superano i 2.000 metri di quota e offrono al difensore protezione dietro le sue creste e dorsali. Nonostante la somiglianza di queste montagne calcaree, la vista che si presenta nella zona del fronte appenninico e abruzzese non evoca il ricordo delle formazioni rocciose alpine che si ergono maestose oltre il limite arboreo. La grandiosità della forma primigenia si trova in questa zona d'Italia solamente in rari casi, dove le pareti rocciose emergono dalla corona del bosco autunnale tutt’attorno, caratterizzato dal rosseggiare dei faggi e delle querce, dal viola cupo della vegetazione spoglia, dal velluto verde scuro degli agrifogli. Orograficamente prevalgono invece le enormi dorsali, le forme coniche troncate, mentre le cime, nude, spoglie e prive di vegetazione, giacciono come ossa sbiancate dal sole. Involontariamente, anche senza conoscere la storia della sua desolazione, abbiamo la sensazione di trovarci in mezzo a una montagna devastata e morta, e temiamo di cadere sotto l'incantesimo dell'immobilità di questo paesaggio lunare. Tuttavia, il suo grigio non è morto; è risvegliato dalla luce limpida tipica dell'altitudine e del Mezzogiorno.  Le superfici rocciose illuminate dal sole brillano cangianti, chiare e colorate. La durezza dell'ambiente è addolcita e ammorbidita da ombre profonde e plastiche, il cui profondo blu, dato da un'alternanza tra luce e oscurità, avvolge e leviga gli aspri rilievi. Niente di vivo prospera qui sotto il sole. Non si vede nessuna traccia di vegetazione, ma una cosa la natura concede in abbondanza: «la luce del sole e l'ombra della terra». Sappiamo che la spogliazione forestale delle montagne fino al fondovalle è opera dello sfruttamento umano. Già nell'antichità iniziò il disboscamento, specialmente quando Roma fu costretta durante le guerre puniche a costruire flotte imponenti. Dove ancora oggi il bosco cresce sui pendii e dove una corona protettiva di foreste ammanta una cima, si può vedere l'effetto benefico nella conservazione dello strato fertile del suolo. Fino a 1.500 metri di quota durante l'ascesa alle montagne, si susseguono le terre rosse di origine carsica appena arate, i pascoli e i prati che si rinverdiscono dopo l'inverno. Là dove la cima, nuda e priva di vegetazione, precipita verso il basso, i torrenti invernali e primaverili, le cui scanalature sono incise nella roccia come le nervature di una foglia, trascinano tutto il terreno fertile nelle valli e nelle gole. Solo laggiù, nelle depressioni, prospera una vegetazione più rigogliosa, impostata su un terreno alluvionale profondo. L'aspetto implacabile che suscitano i massicci rotondi e imponenti non corrisponde alla loro struttura rocciosa; infatti, il loro calcare è friabile e lo dimostra l'aspetto frantumato e frastagliato di molte montagne. La popolazione diminuisce dalle pianure costiere a est e a ovest verso l'alto Appennino. Tuttavia, è sorprendente fino a quali altezze inospitali i villaggi di montagna si aggrappano ai ripidi versanti rocciosi. Cercano sempre punti inaccessibili e dominanti, invece di espandersi nella fertile pianura. Una lunga storia di insicurezza politica, guerre reciproche e brigantaggio, contro cui di tanto in tanto i papi cercavano di intervenire nel territorio dello Stato Pontificio, si riflette nella struttura compatta di questi villaggi e paesini di alta quota. Si raggruppano strettamente come castelli, là dove un tempo solo rocce e alture potevano scoraggiare i disturbatori. Visti dal basso, sembrano disegnati segretamente nel profilo naturale della montagna, come immagini illusorie. Come una merlatura scolpita nella pietra, il paesino di Capracotta si snoda lungo la cresta attraversata dalla strada del passo. Solo il bagliore delle finestre alla luce rossa dell'alba rivela improvvisamente un'opera umana, che appare come una crescita di cristalli di roccia opachi, incastrati l'uno nell'altro, là in alto. Altrove, la strada si snoda per chilometri attraverso un'ampia valle alta, incastonata tra due coni di pietra, che nella sua desolazione sembra una coppa vuota sollevata verso la luce. Solo nelle alte brughiere e nelle lande della Scozia si può ritrovare la stessa silenziosa magia. Durante il viaggio da queste regioni poco sviluppate, conosciute solo in parte come aree sciistiche dai romani, verso ovest, assistiamo all'abbassarsi delle montagne fino alle pianure laziali e campane. Anche il fronte segue questo profilo discendente. Alle quote intermedie, le colture delle valli si estendono ancora sui pendii. In particolare, il tocco argentato degli estesi uliveti si stende sulle alture e sulle depressioni. I motivi delle colline spoglie e prive di foglie coprono la salita. Quando scendiamo sotto i 500 metri, riappaiono le chiome larghe e scure dei pini marittimi. I noci fiancheggiano le strade, i castagni crescono rigogliosi dai ceppi come boschetti o formano fertili frutteti. Ogni pietra è coperta di rovi, gli ultimi ciclamini fioriscono sul ciglio della strada. Le canne erigono muri alti e impenetrabili. Così siamo scesi nell'antico territorio delle pianure fertili e coltivate. Il contadino è sempre stato di casa qui. Tra queste pianure si ergono antiche località come Tibur  e Tusculum , tutte residenze di imperatori e generali romani, e ora castelli papali. E su un'altura solitaria si erge l'Abbazia di Monte Cassino, da cui si irradiò l'ordine benedettino. Vedere oggi la guerra totale attraversare questo paesaggio umano e passare attraverso luoghi venerabili, che uno dopo l’altro e senza vantaggi militari cadono vittime del terrore dei bombardieri anglo-americani, è un'esperienza che ci fa dubitare della realtà. Al contrario, il mondo spoglio delle ciclopiche strutture di pietra ci appare come la vera Heimat  della guerra. Questo mondo è destinato a essere il teatro del conflitto, e lo scontro tra ferro frantumato e roccia manca dell'assurdità incendiaria, che proviamo di fronte a un cratere di bomba come se fosse la pianta di una chiesa paleocristiana. Alfred-Ingemar Berndt (trad. di Luca Ciprari) Fonte: A. I. Berndt, Die Landschaft des Krieges , in «Deutschland im Kampf», 113-116, Berlin, maggio-giugno 1944.

  • La famiglia Castiglione, dalle Marche a Capracotta

    Cartolina della famiglia Castiglione. Da documenti famigliari, sappiamo che intorno al Cinquecento un tale Giovanni Castiglione, perseguitato politico, fuggì dalle Marche con molte ricchezze e si sistemò a Capracotta per trovare sicurezza in questo alto e isolato monte. Costruì, all'ingresso della Terra Vecchia, una parte dell'attuale casa di famiglia col sottoposto giardino sulle rupi spendendo 500 ducati, somma enorme per l'epoca. Non si hanno altre notizie precise sugli immediati discendenti di Giovanni per mancanza di documenti. Infatti, i primi registri parrocchiali sono del 1644 e le numerazioni dei fuochi conservate nell'Archivio di Stato di Napoli andarono completamente distrutte durante gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale. Nei registri della Dogana di Foggia, tra i locati, cioè coloro che erano autorizzati a spostare le loro greggi lungo i tratturi per svernare nei pascoli del Tavoliere della Puglia, troviamo nel 1639 Vincenzo Castiglione e, dal 1720 al 1740, Giovanni Castiglione. Durante l'epidemia di peste del 1656, il casato rischiò di scomparire: morirono 10 componenti della famiglia e si salvò un unico maschio di nome Salvator. Per quanto riguarda la farmacia, la famiglia Castiglione conserva tuttora un interessante documento storico del 1808 dell'allora re di Napoli: Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. Il sovrano francese autorizzava Domenico Castiglione di Capracotta a esercitare il mestiere di « speziale di medicina » , così come si chiamava allora il farmacista. Arrivando a tempi a noi più vicini, l'esponente più popolare e illustre della famiglia Castiglione è indubbiamente Filiberto Castiglione: farmacista, come da tradizione famigliare, e podestà di Capracotta. Filiberto nacque a Capracotta il 19 dicembre del 1889 da Costantino (25/12/1856 - 08/05/1943) e Vittoria Falconi (02/09/1864 - 22/11/1892). Morì il 18 aprile 1973 a Campobasso. Frequentò il Liceo a Sessa Aurunca (CE). Conseguì la laurea in Chimica farmaceutica presso l'Università degli Studi di Roma nel 1913. Iniziò l'attività professionale presso la farmacia dell'ospedale di Verona. Prese parte alla Prima guerra mondiale e fu di stanza nella sanità militare ad Ancona (1915-16) e a Chieti (1916-17), sul fronte veneto nell'ospedale da campo "057" dal 1917 al 1918. Terminata la guerra, tornò a Capracotta dove esercitò presso la farmacia fino all'arrivo degli Inglesi nel novembre del 1943. Nella sua farmacia preparava, come si usava all'epoca, sciroppi, pomate, suturava ferite, medicava tutti con abilità, altruismo e generosità. Così lo ricorda ancora oggi l'avvocato Giannino Paglione: «Chimico farmacista, con le sue intuizioni galeniche, riusciva a prestare conforto a chi ne aveva bisogno. Era amico fraterno di mio padre e ricordo le tante telefonate da Busso a Capracotta, e viceversa, per reciproche consultazioni in casi complessi». Podestà negli anni Trenta e Quaranta e durante l'occupazione tedesca, riuscì, inizialmente, a conciliare le esigenze degli occupanti con quelle della popolazione. Salvò dalla distruzione tedesca la piazza Stanislao Falconi e il palazzo comunale e, malgrado il pericolo, con i funzionari Achille e Gustavo Conti, Michele Ianiro, Arnaldo Sammarone, con il messo Donato Carnevale e la guardia municipale Antonio Sammarone, riuscì a mettere al sicuro ciò che si poteva dei documenti e dei registri comunali, scaraventandoli dalle finestre. La sua abitazione non venne distrutta perché sede della farmacia. Sempre in prima fila con don Leopoldo Conti, don Carmelo Sciullo, il suo amico radiologo Mainardo Tomiselli ed altri volontari per avvisare i capracottesi dei pericoli incombenti: reclutamento degli uomini, distruzione ecc. Da testimonianze dirette sappiamo che nascose diversi giovani nel salotto della sua casa, con balcone che dava sulle Ripe, mascherando la porta con un armadio. In caso di pericolo un particolare segnale avvisava i rifugiati che si calavano con robuste funi nella parte posteriore della casa per fuggire o ripararsi negli anfratti dei Ritagli. Quando giunsero gli Inglesi, nel novembre 1943, il comando alleato stabilì il trasferimento del dott. Filiberto in un centro di raccolta di esponenti fascisti in Padula (SA): decisione quanto mai non giustificata da alcuna necessità perché il dott. Castiglione, che non aveva mai fatto del male a nessuno, non costituiva certo un pericolo per il nuovo esercito di occupazione. Ciò è anche ribadito da don Carmelo Sciullo, che tra l'altro dice che «don Filiberto fu caricato su un camion come uno che aveva fatto del male, quando invece aveva tanto lavorato nel periodo così triste di Capracotta, e anche prima, a favore della popolazione; non gli fu permesso neanche di salutare la famiglia e la moglie». Vi fu una raccolte di firme per chiedere la revoca del provvedimento di internamento: questa iniziativa aggravò la sua situazione gli Inglesi si convinsero che era un personaggio molto influente e quindi pericoloso. Nel 1945, quando tornò da Padula, lavorò nella farmacia di Baranello fino a quando, nel 1953, vincitore di concorso, ne aprì una nuova a Campobasso che prestò, ininterrottamente, servizio notturno per parecchi anni ed è ora condotta dal nipote Filiberto Castiglione. Fu amato e apprezzato a Baranello come a Campobasso ove continuò a preparare cialdini e prodotti galenici con i figlioli fino alla bella età di 80 anni, quando cominciarono a venirgli meno le forze. Fu presidente dell'Ordine dei Farmacisti di Campobasso per diversi anni. Si spense serenamente e dolcemente, così come aveva vissuto, ad 83 anni, il 18 aprile 1973 nella sua casa di Campobasso. Il funerale si tenne a Capracotta. Furono in tanti a seguire il suo feretro, in una luminosa giornata di primavera, dalla Chiesa Madre di S. Maria in Cielo Assunta al cimitero ove ora riposa, con i suoi cari, nel cappellone degli Arcangeli. Domenico Di Nucci Fonte: http://www.immigrationfromcapracotta.com/ .

  • Un architrave che ricorda l'espansione di Capracotta nel XVII secolo

    Il luogo in cui giace l'architrave. Su segnalazione di Pasqualino Potena, ho tentato di studiare la "pietra parlante" che giace, apparentemente abbandonata, al termine di via S. Giovanni, lì dove il civico 93 cede il passo al primo numero di via Maiella, a due passi dalla monumentale fontana della «nettezza, salute e civiltà». In quello spazio, oggi desolatamente vuoto, vi era un tempo un arioso palazzo ch'è stato abbattuto dalla furia nazista nel novembre '43. La famiglia che lo abitava emigrò oltreoceano, per cui l'edificio, nel dopoguerra, non venne ricostruito. La pietra in questione, dicevo, è chiaramente un architrave e probabilmente era quella del portone principale del palazzo in questione. Sulla facciata a vista sono incisi quattro caratteri, il secondo dei quali è oggettivamente insolito. A mio avviso, però, rappresenta il numero 7, motivo per cui quella scolpita potrebbe essere una data: 1700. Non è da escludere che, al di sopra dell'architrave, vi fosse un'altra pietra lavorata recante lo stemma di famiglia. L'incisione preente sull'architrave di via S. Giovanni. Questo significherebbe che il palazzo demolito nel 1943 era stato edificato due secoli e mezzo prima, al termine di quel processo che, a partire del XVI secolo, aveva portato l'urbanizzazione di Capracotta, stretta tra le mura della Terra Vecchia, ad estendersi a sud verso la Chiesa di S. Antonio di Padova, ad ovest verso la Chiesa di S. Maria delle Grazie, ad est verso la Chiesa di S. Antonio Abate, e a nord verso la Chiesa di S. Giovanni Battista. Il nostro edificio del 1700 potrebbe allora rappresentare il culmine dell'espansione a settentrione. Chiaramente, la mia è una semplice supposizione, per cui ben vengano ulteriori riflessioni in merito a questa pietra che tutti possono ammirare dopo una passeggiata nel cuore del rione di S. Giovanni. Francesco Mendozzi

  • Glass

    Chiara Sozio, di origini capracottesi. Chiara Sozio, per metà toscana per metà molisana, nasce e cresce con la passione per la filosofia, per i libri e per la poesia. Scrivere l'ha aiutata ad uscire da un momento poco luminoso della sua vita. I bambini le hanno fatto ricordare la bellezza delle piccole cose. Le piace passare le giornate camminando tra la campagna. Era la regina di un castello fragile e corruttibile. Contro le pareti aveva cercato di infrangersi. A pezzi, come l'anima della regina, cercava di ricostruirlo tagliandosi. Esposta senza protezioni. abitava adesso il vento. Piantato sul nulla di detriti di vetro. Troppo taglienti da raccogliere. Troppo taglienti da buttare via. Chiara Sozio Fonte: C. Sozio, Giona , Aletti, Villanova di Guidonia 2019.

  • Teodolindo Castiglione

    Una delle opere più note di Teodolindo Castiglione. Teodolindo Castiglione era il figlio più giovane dell'immigrato italiano Vincenzo Castiglione, farmacista originario di Capracotta, oggi provincia di Isernia, in Molise, che si stabilì a Ibitinga, in Brasile. Egli fu un importante avvocato paulista, che ricoprì la carica di vicepresidente dell'Ordine degli Avvocati della città di San Paolo. A lui è intitolata una strada di quella città. Aveva sposato Helena Delfino Amorim Lima, dalla quale aveva avuto due figli: Reynaldo e Georgina, quest'ultima sposata con Lino Otto Bohn. Eminente professore e scrittore, Teodolindo Castiglione ha scritto molti libri. Tra questi: " Os recibos de quitaçâo e as renuncias no direito trabalhista " (Le ricevute di pagamento e le rinunce nel diritto tributario, 1943); " A eugenia no direito de familia " (L'eugenetica nel diritto di famiglia, 1944); " El Código Penal brasileiro " (Il Codice Penale brasiliano, 1956); " Estabelecimentos penais abertos e outros trabalhos " (Istituti di pena aperti ed altri lavori, 1959); " Lombroso perante a criminología contemporanea " (Lombroso di fronte alla criminologia contemporanea, 1962); " A tomada da Bastilha " (La presa della Bastiglia), conferenza tenuta al Teatro "Río Branco" di Ibitinga il 14 luglio 1922. Antonio Virgilio Castiglione (trad. di Francesco Mendozzi) Fonte: http://www.immigrationfromcapracotta.com/ .

  • Viaggio tra i tesori nascosti della Chiesa di Capracotta (IV)

    Il pulpito della Samaritana al pozzo Il pulpito della Chiesa Madre. «Guarda da che pulpito viene la predica!» è la tipica esclamazione rivolta a chi ci rimprovera quegli stessi difetti che anch'egli possiede ma di cui non si rende conto. Il pulpito, in effetti, è una piattaforma rialzata presente in quasi tutte le chiese di una certa età, la cui struttura era funzionale alla predica. Dal pulpito il sacerdote s'innalzava al di sopra della folla e ammoniva, spiegava, redarguiva, benediceva. I migliori proponevano dal pulpito l'esegesi delle Scritture, i peggiori lo usavano a mo' di palco per i comizi elettorali. La ricca Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta di Capracotta, sulla prima colonna della nave di destra, ha un pulpito con base in marmo e parapetto in legno, sul quale è presente un prezioso dipinto, riferibile ad un pittore di scuola napoletana del XVIII secolo, che raffigura Cristo e la samaritana. A destra, in basso, sono presenti tre personaggi, mentre a sinistra è visibile una figura femminile ed, in secondo piano, delle colonne in un paesaggio collinare. L'episodio della samaritana al pozzo è narrato soltanto nel Vangelo di Giovanni, dove Gesù cambia radicalmente la vita di una donna che era giunta al pozzo per riempire la sua brocca d'acqua. Il messaggio teologico sta proprio nell'incontro con Cristo: chi Gli si avvicina e si abbevera alle Sue acque, avrà l'esistenza rivoluzionata, piena, redenta. Dio, dunque, è una possibilità di salvezza e la samaritana ha deciso di prendere sul serio quella possibilità. Il rischio, tuttavia, è quello di passare vicino al pozzo senza fermarsi. Questa la narrazione evangelica: Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli disse la donna: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?». Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore, – gli disse la donna – dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le disse: «Va' a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene "non ho marito"; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?», o: «Perché parli con lei?». La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?». Uscirono allora dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l'un l'altro: «Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: "Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura?". Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: G. Binazzi, Cristo e la samaritana al pozzo nella iconografia dei primi secoli , in «Bessarione», 4, Roma 1989; L. Campanelli, La Chiesa Collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Tip. Molisana, Campobasso 1926; G. Carugno, La Chiesa Madre di Capracotta , S. Giorgio, Agnone 1986; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016.

  • Palazzo Capracotta a Napoli

    La facciata di Palazzo Capracotta. Il Palazzo Capracotta è un palazzo monumentale di Napoli, ubicato in via Monte di Dio. Il palazzo, tra i più antichi della strada, venne costruito verso la fine del '500 dalla ricchissima famiglia Carafa di Stigliano (committente anche dei palazzi Cellammare e Donn'Anna). Nel 1606 passò ai De Leyva che lo tennero per pochi anni, in quanto già nel 1618 venne ceduto ai Manriquez (che ne erano ancora proprietari nel 1689, come testimoniato dalla relazione censuaria di Antonio Galluccio sulla collina di Pizzofalcone). Nel corso del secolo successivo divenne proprietà dei Capece Piscicelli, duchi di Capracotta, i quali si estinsero nel 1859 con la morte di Beatrice Capece Piscicelli. A partire da quell'anno il titolo ed il palazzo passarono al nipote Giovanni Piromallo (trasformatosi nel corso del '900 da dimora nobiliare a condominio benestante). Il palazzo si presenta con una veste neoclassica, certamente dovuta ai rinnovamenti apportati nella prima metà del XIX secolo. Una traccia della costruzione originaria va rintracciata nelle ornie di piperno che avvolgono alcune finestre del piano ammezzato. Degno di nota è anche l'austero ed imponente scalone che si apre a destra dell'androne. Allo stato attuale il palazzo è ben tenuto, avendo giovato di massicci interventi manutentivi negli anni '00. Italo Ferraro Fonte: I. Ferraro, Napoli. Atlante della città storica: Pizzofalcone e "Le Mortelle" , Oikos, Napoli 2010.

  • Amore e gelosia (XXIX)

    XXIX Mi sono sempre chiesto: ma come vivevano per davvero i nostri antenati di inizio secolo scorso, come erano coinvolti dai loro sentimenti, come erano forti l'amore e la passione? Sì, perché è inutile nasconderselo, oggi non viviamo più allo stesso modo le nostre storie, i nostri amori e perché no? Anche i nostri odi, l'invidia e il rancore. Tutto sembra si sia affievolito, diluito e addirittura sciolto all'interno di un calderone in cui si sono mescolati con: l'egoismo, la vanità e la ricerca della vita bella, piena di impegni, con decine di storie per ognuno di noi e tutte senza alcuna profondità né alcun coinvolgimento estremo, solo interessata partecipazione, ma neppure tanta. Mi sbaglio? Ho un'idea falsa della realtà? Può darsi... ma vivo da osservatore da anni, ho insegnato ai giovani per decenni e i cambiamenti ho potuto seguirli passo passo. Una storia d'amore appassionata, romantica, vissuta con gioia totale, amore perenne e imperituro, dando tutto se stesso o tutta se stessa all'altro o all'altra... Beh, non ve ne sono tante in giro. In giro c'è sesso, quello è a gogò, e lo si scambia per amore: talvolta lo è, ma quasi sempre è tutt'altro. In giro c'è edonismo e narcisismo: siamo tutti divenuti pavoni e narcisisti, pronti a far mostra di sé ovunque e in ogni occasione. In giro c'è voglia di far baldoria e vita bella con gli amici, dimenticando a casa il marito, la moglie e perfino i figli se del caso. Non voglio apparire un moralista, ho tutti i miei peccati esposti alla luce del sole: ma questa è la realtà che appare ai miei occhi e che ci rende così distanti, anni luce distanti da come vivevano i loro amori, che al massimo erano uno o due per una vita, i nostri antenati... Elisa, la bella nocerina, e Salvatore, il poeta napoletano sommo, si amavano molto di più di quanto noi possiamo oggi concepire: si incontrarono, si riconobbero e non si lasciarono più, mai più: uniti per la vita. Questo andava chiarito: ora la nostra storia che li riguarda può proseguire... Francesco Caso

  • I fan di Capracotta

    Corso S. Antonio dopo la nevicata del 2003. Può un paese avere un fan club? La risposta è affermativa ed il paese in questione è Capracotta. Gli appassionati di meteorologia che partecipano ai vari forum di Catalogna o di Spagna studiano in maniera esaustiva le condizioni meteorologiche di questa località e oltre a ciò promuovono iniziative tese ad organizzare escursioni per conoscere più da vicino ciò che avviene in questa zona montuosa del centro Italia. Però spieghiamo la causa dell'interesse per Capracotta. Situato negli Appennini a 1.420 metri sul livello del mare, nella provincia di Isernia al confine con l'Abruzzo e con una popolazione di 1.121 abitanti, Capracotta è orientato in modo tale da ricevere l'ondata diretta delle perturbazioni provenienti da ovest, da est e da sud. Ciò che desta curiosità è che le perturbazioni provenienti da ovest che giungono in Catalogna solitamente esaurite, hanno però il tempo di raccogliere abbastanza umidità del Mediterraneo e, di conseguenza, interessare gli Appennini con rinnovata energia: per cui essendo ubicato ad una considerevole altitudine, Capracotta ha delle nevicate "con i fiocchi". Nella piazza del paese opera una webcam che i tanti appassionati di meteorologia utilizzano per osservare gli enormi accumuli di neve: se solo citiamo il dato degli oltre 3.397.000 accessi registrati fino al 28 dicembre 2007, ci possiamo fare un'idea di quanto interesse risvegli la neve in questa zona. Alfred Rodríguez Picó (trad. di Virginio Mirra) Fonte: https://www.elperiodico.com/ , 29 dicembre 2007.

  • La morte dell'on. Tommaso Mosca

    Tommaso Mosca (1859-1927). Nell'età di 68 anni si è spento in Roma il 24 marzo l'On. Tommaso Mosca, già Deputato del Collegio di Agnone, al Parlamento Nazionale. Le competizioni, le lotte che si sono svolte vivacissime pro e contro di Lui, per più di un decennio, nel Collegio nostro sono ormai lontane nella memoria di tutti. Gli eventi che da alcuni anni hanno mutato profondamente indirizzi, metodi, sistemi politici e civili consentono ora solo per poco o solo a pochi, nella intimità della memoria, rievocazioni di fatti e di uomini rappresentativi di altri tempi. Nondimeno noi crediamo doveroso l'omaggio alla memoria dell'On. Tommaso Mosca, che fu magistrato insigne, che per meriti indiscussi raggiunse i più alti gradi della magistratura italiana, e che fu nostro comprovinciale illustre. Se la gratitudine fosse, come dovrebbe essere, una delle prime virtù dell'animo umano, molti dovrebbero serbare gratitudine e dimostrarla pubblicamente all'On. Mosca, che ha beneficato molti. Nella speranza vivissima che questo avvenga, l' Eco intanto si associa al gravissimo lutto di Capracotta, della Provincia nostra, della Magistratura italiana, inchinandosi riverente alla memoria dell'Onorevole Tommaso Mosca. Guglielmo Labanca Fonte: G. Labanca, La morte dell'On. Tommaso Mosca , in «Eco del Sannio», XXXIV:4, Agnone, 8 maggio 1927.

  • In Italia la caccia al lupo si fa dalla finestra

    Capracotta, dicembre. I lupi scendono a Capracotta, con la prima neve. Sono magri, affamati: da due mesi non c'è più un gregge, sui pascoli alti. L'odore delle stalle li attira, dopo il tramonto, in paese. È tempo di preparare le cartucce coi pallottoloni grossezza "numero uno". La settimana tra Natale e Capodanno, quando le notti, avvicinandosi la luna piena, si faranno più chiare, sarà propizia per chi voglia prendersi il gusto di fare qualche buona schioppettata, senza affrontare grosse fatiche, senza prender freddo, senza infangarsi. Ci sono due maniere di dare la caccia al lupo (e, dicendo questo, non si tiene conto della trappola, della tagliola, del boccone avvelenato, che sono sistemi ai quali il cacciatore vero non ricorre mai). D'estate si fa la "mena". Si va a cercare il lupo nelle zone più lontane e selvagge della montagna; tre o quattro buoni tiratori si mettono in agguato, nei passaggi obbligati; quindici o venti battitori, con trombe e mortaretti, si dispongono in cerchio nella boscaglia ed avanzano verso il punto dove gli altri attendono, bocconi, col fucile spianato. Il loro compito è di fare il più gran fracasso possibile perché il lupo non tenti di rompere il cerchio che va stringendosi attorno alla tana ma fugga, invece, verso il luogo dove gli è stato teso l'agguato; e non si stenterà a credere che proprio i più paurosi sono, di solito, eccellenti battitori. Durante l'inverno, cioè dalla fine di novembre alla fine di marzo, si fa la posta; ed è molto più comodo. Non c'è da affaticarsi con lunghe marce. Si può stare in pantofole; e, per vincere la noia dell'attesa, c'è sempre la possibilità d'avere una tazza di caffè caldo o un pungo di castagne arrosto; perché la posta la si fa in paese, senza uscire di casa. La caccia al lupo, in questa stagione, non sdegna piccoli conforti: si appoggia il fucile al davanzale della finestra e si tiene un cuscino sotto le ginocchia. Quando gli armenti abbandonano i pascoli di montagna e vanno a svernare nella pianura pugliese, anche il lupo scende più a valle e si avvicina all'abitato. Per qualche settimana vive nel bosco e non ne esce che molto di rado; ma, con la prima neve, caduta in letargo la maggior parte dei piccoli animali selvatici, la fame lo spinge ad avventurarsi anche tra le case. Soltanto i grandi greggi sono partiti per Minervino o per Lucera; e c'è sempre qualche centinaio di pecore che sverna, al chiuso, in ogni villaggio dell'Abruzzo e dell'Alto Molise. Il lupo tenta, ogni notte, l'assalto alle stalle. Pescasseroli, Barrea, Rivisondoli, Pescopennataro, Alfedena, Pescocostanzo, Vastogirardi sono paesi di lupi; ma più di tutti, forse, è Capracotta. Qui, davvero, non c'è bisogno di passare la notte all'addiaccio per far la posta al lupo. È il lupo che arriva, col buio, e si aggira per le strade. Lo attira l'odore caldo degli ovili. Se non ci sono cani, se c'è una breccia aperta, gli può andar bene: si rifarà, in un quarto d'ora, di molti giorni di digiuno. L'ultima strage fatta entro l'abitato di Capracotta può dare la misura della sua ferocia: un lupo solo, in via Nicola Falcone, a due passi dal municipio, ha sgozzato quindici pecore; poi, entrato in una stalla vicina, ha ucciso e trascinato via una capra. Il pastore Vincenzo Sozio ed i suoi familiari, che abitano proprio sopra la stalla, non hanno sentito nulla. La strage, come sempre, era stata silenziosa. Le pecore belano soltanto in due casi: quando hanno bisogno di sale e quando stanno per partorire. Alla apparizione del lupo battono la zampa a terra, come fa il coniglio impaurito e, se è preclusa ogni via alla fuga, si stringono una contro l'altra, si lasciano scannare in silenzio. Fatte queste premesse, introdotto il lettore in un paese tra le cui case si aggirano, tutte le notti, i lupi affamati, sarebbe facile continuare il discorso con un tono da storia dell'orco. Forse è proprio quello che ci si aspetta. Ma, anche avendo nelle mani una così seducente materia, la cosa più interessante che si possa raccontare resta sempre la verità. Da Capracotta non può venire nessuna conferma a Cappuccetto Rosso. Che sono questi lupi? Sono grosse bestie di pelo rossiccio (un lupo abruzzese adulto pesa, talvolta, sessanta chili; ed è tutto muscoli ed ossa: non si pensi di trovare sotto la sua pelle una sola noce di grasso). Il lupo ha zanne terribili; e gli occhi, come si legge nella favola, sembrano davvero carboni accesi. È proprio identico a quelli che si vedono nella vecchia stampa popolare della slitta che fugge in una desolata distesa di neve, mentre la famelica torma l'insegue, implacabilmente, sempre più da vicino. Il cocchiere tiene la frusta per la parte più sottile e se ne serve come di un randello, ma già uno dei tre cavalli, azzannato alla gola, s'impenna. Un passeggero, sporgendosi oltre la spalliera, ha fatto fuoco con la grossa pistola; un lupo è caduto riverso, macchiando di rosso la neve; ma un altro ha già spiccaato il balzo e la prima ad essere sbranata sarà la giovane donna che si stringe nella pelliccia. Forse, in Siberia, sarà davvero così. Ma il lupo abruzzese va quasi sempre solo; al massimo in gruppi di due o di tre; ed ha paura dell'uomo. Chi vuole può passeggiare per le strade di Capracotta, con le mani in saccoccia, a qualunque ora della notte. Ad un tratto sentirà un tramestìo, a trenta o quaranta passi di distanza; scorgerà l'ombra di una bestia che galoppa, rasente al muro, verso la campagna. È il lupo che fugge. La fame lo spinge ad avventurarsi tra le case; ma si aggira sempre furtivo, sospettoso, pronto a battersela al primo allarme. Fa come il cane randagio che dai contatti con l'uomo non ha mai cavato nulla di buono, ma solo pedate e sassate; e non aspetta che gli arriviate vicino; non fa distinzione tra il ragazzaccio e voi: scappa prima di essere a tiro. La posta al lupo è comoda; ma, per la ragione che si è detto più sopra, richiede una lunga, paziente preparazione. Bisogna che il lupo si fermi un momento, se si vuole avere il tempo di mettere a segno una buona fucilata. Sparargli mentre scivola nell'ombra, sospettoso e inquieto, significa sprecare la cartuccia. Allora, si fa a questo modo: si comincia ad adescare il lupo al tempo della luna nuova, quando la notte è perfettamente buia; ogni sera si mette un grosso pezzo di carne o un intero animale in un punto scoperto, a una ventina di metri dalla finestra alla quale, al momento opportuno, si starà appostati. All'alba si va a vedere; e, le prime volte, si troverà l'esca appena mordicchiata: il lupo ha fiutato l'insidia; si è avvicinato diverse volte; ha dato un morso ed è scappato via. In seguito, a poco a poco, si rinfrancherà e farà un pasto più abbondante; se si dovrà rinnovare l'esca, pazienza; ma si dovrà insistere per dieci o dodici giorni. Verso il decimo giorno di luna si potrà scorgere il lupo a due o trecento metri, in modo d'avere il tempo di prepararsi. È il momento buono. I sei o sette cacciatori si assegnano i turni a sorte. La veglia potrà durare dalle diciannove alle tre del mattino, ma il turno migliore è quello che va dalle ventuna alle ventuna e trenta perché, ritiratosi l'ultimo sonnambulo, Capracotta a quell'ora diventa deserta. Tolto un vetro a una finestra del primo piano, un cacciatore si mette in agguato. Gli altri aspettano al pianterreno, attorno al bracere. Fanno cuocere le castagne nella cenere calda; mettono a rosolare le salsicce. Un lume ad olio rischiara debolmente la scena; e sono state tappate con cura tutte le fessure della porta: guai, se trapelasse soltanto un filo di luce. Si intendono a gesti: il minimo rumore potrebbe compromettere ogni cosa. Questa è la posta al lupo, che i trattatisti considerano caccia grossa. È una lunga, monotona veglia che si concluderà con un'unica schioppettata. Ma a qualcuno certamente toccherà di sparare quella cartuccia, perché non si dà mai il caso che il lupo manchi all'appuntamento. Lo si vede apparire, furtivo, all'angolo della strada. Eccolo che si ferma a tiro, sopra l'esca. Uno starnuto basterebbe a farlo scappare come una lepre. Il cacciatore è appostato a una finestra del primo piano, e nemmeno una tigre divoratrice d'uomini dovrebbe fargli paura. Eppure, anche il buon tiratore talvolta si impressiona e sbaglia colpo. Quanti potranno essere i lupi che vivono su queste montagne? Non è facile fare il computo, perché il lupo, a differenza dell'orso, non ha mai una tana fissa e si sposta con facilità da una zona all'altra, percorrendo decine di chilometri in poche ore. Nell'Abruzzo e nell'Alto Molise ne devono esistere, comunque, parecchie centinaia. Sono vili, di fronte all'uomo; sanguinari e crudeli con gli animali che aggrediscono. Il lupo che riesce a superare le reti di uno stazzo o a penetrare in un ovile compie sempre una strage inutile; azzanna alla gola tutte le bestie che può; l'odore del sangue lo ubriaca, esaspera la sua ferocia. È una scena spaventosa che dura pochi minuti. Lascia a terra, sgozzate, quindici o venti pecore; ne porta via una sola, viva, per divorarsela in pace. L'afferra piantandole i denti nella collottola, la costringe a camminargli a lato, fianco contro fianco; e continuamente la sferza con la coda. È un fatto accertato centinaia di volte; e qualcuno ha creduto di escludere che il lupo, incitando a sferzate la sua vittima, compia un atto volontario e intelligente; si tratterebbe soltanto di un movimento riflesso, dovuto allo sforzo ed alla posizione del collo piegato, appunto, da quella parte. Ma i pastori dicono di no. Sono colpi duri; e il lupo picchia con maggiore violenza quando la pecora si impunta, o vuole che prenda la rincorsa ad un passaggio più difficile. È temuto da tutte le bestie, tranne che dall'orso e dal cane da pastore. Ma il cane da pastore non lo può vincere, e lo sa. Il suo compito è di ingaggiare battaglia, di tenere a bada il lupo perché non si avventi subito contro il gregge, di dar tempo agli uomini di accorrere. Sono zuffe furibonde: spesso ne resta vittima il cane; il lupo mai. Tanto è vero che, tra i pastori di Capracotta, si è tramandata come un fatto straordinario la storia di un mastino che, arrivato nello stazzo quando la strage era già cominciata, affrontò il lupo e lo uccise; poi accumulò sul corpo del vinto le venti pecore ch'erano state sgozzate e salì sulla catasta aspettando, trionfante, l'arrivo del padrone. Ritenuto autore della carneficina fu, invece, freddato con una schioppettata a bruciapelo. È uno dei tanti, ingenui racconti dei pastori abruzzesi. Ma è una leggenda. E certamente è leggenda anche la storia del toro che combatté col lupo e l'uccise. La carogna restò infilzata nelle lunghe corna e il toro non permise che alcuno si avvicinasse per levarla. La mandria scendeva a svernare nella pianura pugliese. Camminò cinque giorni, attraversò paesi e città, sempre con quel trofeo. La gente accorreva sbalordita. Arrivò a Canosa. Il corpo del lupo, ormai gonfio e semiputrefatto, cadde da solo; e finalmente il toro chinò la testa: non aveva bevuto né brucato un filo di erba, dal giorno della battaglia. Anche la storia del soldato sbranato, che ebbe credito alcune settimane fa su qualche giornale, è pura favola. A Vastogirardi ci fu, tuttavia, un caso tragico, l'estate scorsa. Un lupo idrofobo addentò quattro persone che morirono tutte, per il contagio. Era un vecchio lupo, tra i più grossi che si erano visti su queste montagne, ed aveva cicatrici in quasi ogni parte del corpo. Forse era stato, a sua volta, infettato da un cane. Fu visto aggirarsi nelle campagne di Capracotta, di pieno giorno. Si capì subito ch'era idrofobo e gli si diede la caccia, ma senza successo. A Vastogirardi, l'ultimo che aggredì fu un contadino intento ad arare il campo. L'uomo, non avendo via di scampo, sfilò il timone dell'aratro ed affrontò risolutamente la lotta. Fu una scena tremenda che durò parecchi minuti; ma, alla fine il lupo, colpito alla nuca da una violenta randellata, cadde a terra, morto. Il contadino si credette salvo. Era stato addentato ad una coscia e ad un braccio, ma le lacerazioni erano superficiali. Giudicò di potersele curare da solo e, quando lo portarono all'ospedale, il contagio aveva fatto troppa strada perché lo potessero salvare. Tommaso Besozzi Fonte: T. Besozzi, In Italia la caccia al lupo si fa dalla finestra: il tempo di ucciderlo è la decima notte di luna, dalle nove alle nove e mezzo , in «L'Europeo», VI:1, Milano, 1 gennaio 1950.

  • La guerra fredda

    Passano gli anni e della guerra fredda solo si sa che minacciosa dura. Si vive di speranza e di paura. E, con continua estesa propaganda si raccomanda sapersi meritar le promozioni nel fare ordigni per le distruzioni. C'è chi sostien di rinnovar le leggi, la Religion, le idee sociali, tutto. Che se d'accordo non sarà distrutto quello che è in vigor di vecchia usanza guerra ad oltranza!... senza pietà, né tregua o compassione se occorre la totale distruzione... L'altra parte sostien che si è in errore... Che quel che più convien è di tacere, se evitar si vuol di non vedere il cataclisma di una immensa fiamma... Che un tal programma, un tale inaccettabile desìo va contro ogni buon senso e contro Dio. E, mentre aumentan le voglie divise, l'odio e lo sdegno sono in gran progresso. Ma un passo falso non sarà lo stesso di quello di ogni tempo del passato... Se un pazzo nato vuol consigliar la prova, per gli onori, convien seguirlo a vista, e farlo fuori! Per questo sviluppar d'intelligenza l'uomo trascura il vero alto Comando che finge d'ignorarlo! E fino a quando non si convince che, se mette in giuoco tutto, ben poco ne sarà salvo. Una gran lotta a fondo spoglierebbe di beni e vita il mondo. Sono avversarï assai pericolosi. Non sognan, minacciandosi, che solo vittoria, per poter così, da un Polo all'altro dettar leggi ad ogni Stato. Perciò in agguato stanno continuamente, sostenuti dalla speranza, ed essere temuti. E mentre la gran massa spera in Dio per l'alterata e vile fantasia che può portare i capi alla pazzia, (i quali ognun vuol far troppo l'audace), ovunque gridan tutti: – Pace, pace. ( 1961 ) Nicola D'Andrea Fonte: N. D'Andrea, Le poesie di Nicola D'Andrea , Il Richiamo, Milano 1971.

  • Esperimenti di skijöring e sleddog sulle nevi di Capracotta

    La gara di sleddog del febbraio 1983 a Prato Gentile (foto: P. Di Ianni). Lo skijöring (dal norvegese skikjøring , "guida con gli sci") è uno sport invernale che in origine prevedeva esclusivamente che una persona sugli sci fosse tirata da un cavallo, in genere guidato da un pilota. Il cavallo tira una persona, priva di bastoncini, semplicemente fissandosi su una fune di traino in un modo analogo allo sci nautico. Pare che lo skijöring equestre abbia avuto origine come velocizzare i viaggi invernali ma oggi è soprattutto uno sport da competizione. Si pensi che lo skijöring a cavallo fu una disciplina dimostrativa alle olimpiadi di St. Moritz dell'11-19 febbraio 1928. La sciatrice Giulia Orazi. Appena due anni dopo, nel 1930, lo skijöring giunse a Capracotta, prima località appenninica a tentare esperimenti in tal senso. Se il cav. Giovanni Paglione è stato l'antesignano del nostro sci nordico, per quanto riguarda lo skijöring la pioniera è stata Giulia Orazi, grande sportiva romana, «sciatrice di vaglia, nonché detentrice del titolo nazionale femminile in fuoribordo e fuoriclasse del tennis da tavolo». Prima del XX secolo, infatti, in Italia l'educazione sportiva non era considerata importante e fu il fascismo a rivalutarla, anche e soprattutto per coloro che portavano la gonna, benché molti italiani restassero ostili alla pratica sportiva per le donne. Il regime fascista, invece, incoraggiò grandemente lo sport femminile ed il fine era preciso: dare figli sani e robusti alla Patria. La Orazi, come scrisse la Gazzetta dello Sport in un articolo di Giusepp Sabelli Fioretti, «ebbe l'idea di requisire un cavallo ed adattarlo alle funzioni di locomotiva. Fu così che i buoni capracottesi videro caracollare su e giù, stupefatti, il nobile destriero, trascinando nella sua scia la coraggiosa innovatrice e qualche ardimentoso allievo». Tuttavia lo skijöring ebbe vita breve a Capracotta, forse a causa della penuria di cavalli, che i capracottesi avevano ormai sostituito con i muli. Dopo gli esperimenti avanguardistici dei primi anni '30 Capracotta tornò a battere nuove strade sciistiche soltanto mezzo secolo dopo, con due diverse discipline, minoritarie e poco conosciute, ma sicuramente affascinanti. La prima fu lo sleddog, ossia la corsa su slitte trainate da cani, perlopiù di razza alaskan husky . Nel febbraio 1983, infatti, sul pianoro di Prato Gentile si svolse una gara di questo sport che vide giungere una compagine direttamente dalla Calabria con tanto di sponsor (ovviamente di cibo per cani). Si narra pure che nei giorni precedenti aveva imperversato una tale bufera di neve che gli atleti calabresi furono costretti a "parcheggiare" i cani nel salone del ristorante "Santa Lucia". Immagino che il gestore di allora - un simpatico termolese soprannominato Bangladesh - non dovette gradire quegli ospiti inattesi. Gare di sci d'erba a Capracotta (foto: F. Di Tella). L'ultimo esperimento sportivo sugli sci tentato a Capracotta fu quello dello sci d'erba, praticato nell'estate del 1987 al cosiddetto Prato di Conti, dove era stata installata persino una manovia di 200 metri per permettere agli sciatori - estivi ed invernali - di risalire in tutta comodità. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: F. Fabrizio, Sci d'erba. Capracotta, stazione invernale in funzione solo... d'estate , in «Il Mattino», Napoli, 7 aprile 1987; A. Mauri, Sane, robuste, feconde. L'educazione sportiva delle giovani fasciste , in «Italies», 23, Marseille 2019; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. II, Youcanprint, Tricase 2017; G. Sabelli Fioretti, Farinosa, centimetri sessanta, Olimpia, Firenze 1942; Una sportiva romana , in «Giornale delle Donne», Torino, 15 aprile 1931.

  • Usi e costumi di Capracotta: palma benedetta

    Le ragazze del nostro popolo, lungi dal chiedere alla palma funerei responsi, all'uscir dal lungo verno, le chiedono quello dell'amore. Così, mentre nelle vie del borgo, nei palagi, ne' tuguri continua la gentile tradizione degli avi, e tutti si scambiano il saluto di pace e si acquetano le ire, si spengono gli odî, si suggellano le amistà; mentre ogni acquasantiera, ogni campo, ogni stalla si adorna del simbolico ramo d'olivo, perché protegga le case e propizi il ricolto e gli animali, le ragazze, trepidanti, gettano sul carbone acceso le foglioline d'argento della sacra pianta, esclamando: – Palma benedétta / i' te lave e i' te nétte / dimme tu se me vò bene / l'amor mio e quanda vène. – Pàlema che vié na volta all'anne / dimmi se me marìte aguoànne. La palma dapprima scoppietta, fume, si torce, si accartoccia, saltella allegramente. Il responso è favorevole, e le belle fanciulle, col cuore riboccante di gioia, lo dicono a tutti e lo scriverebbero anche in cielo, se potessero. Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese , Pierro, Napoli 1911.

  • Amore e gelosia (XXVIII)

    XXVIII – Salvatore... Volevo dirti che... Io dovrei venire a Napoli venerdì ma... Mamma mi ha detto che abbiamo un impegno, dobbiamo andare a Capracotta, il suo paese. Lei tiene un sacco di proprietà e il notaio l'ha chiamata perché una sua zia è morta e le ha lasciato altre due case con annesso ovile, pecore e capre. Salvatore si mise a ridere: – E con queste ora quanti ovini possedete? Ma che ne fate poi di tutti questi animali? Elisa si irritò: – Non scherzare! Ci sono i pastori che fanno i formaggi, quelli che ti porto ogni tanto a casa tua! E poi ci danno un tanto sulle vendite! – Va bene, va bene... Ma tu che cosa c'entri ora in tutto questo? Vide che a Napule sabato ci sarà un grande ricevimento per festeggiare il successo di "Assunta Spina"... I miei amici ti aspettano e... pure io ci tengo ad averti vicino! Devi venire elegante e bella, come sei! Dici a tua madre che deve rimandare e... – Non posso Salvatore, non posso farlo. Il notaio ha già fissato l'appuntamento pure con gli altri eredi... Vorrà dire che stavolta farai a meno di me... Ci vedremo la prossima settimana, non sarà la fine del mondo. La ragazza aveva parlato col massimo della freddezza di cui era capace e la cosa non sfuggì alla sensibilità del poeta. – Ah, è così? E allora va bene... Ora me ne vado, poi ci sentiamo... Magari mi fai un bel telegramma da Capracotta... E raccolto il cappello e il soprabito, l'uomo se ne andò senza neanche dare ad Elisa il bacio di congedo. La ragazza a sua volta neanche glielo chiese e rimase brevemente sulla porta, poi chiuse e mestamente andò dalla mamma in cucina. – E allora? Glielo hai detto? Cumme l'ha pigliate? – Mammà se n'è gghiute fridde fridde... Secondo me agge sbagliate... – Nun ce penza'! Non hai sbagliato niente! E tutto sommato, se la storia finisce è ancora meglio! Loche pierde 'o tiempe e te fai vecchia! Nun te scurda' che si na bella uagliona, sei ricca e possidente e ce stanne almeno dieci uagliune che facessere 'e pazze pe se mettere cu te! – Mammà, vide che si chiste è 'o scopo tuoie, me ne vache mò mò a piglia' 'o treno pe Napule e corre da Salvatore! – None figlia mia, dicevo così per dire... Mò però devi essere forte, non lo devi vedere per almeno un mese, se lui ti scrive o ti manda un telegramma poi vediamo come rispondere... E si vene cca a Nucera facciamo dire che non ci sei... T'adda desidera', s'adda scemuni' e poi tu lo metterai a scegliere: me spuse o te vuo' sta cu mammete? Un sorriso di pregustazione della vittoria si affacciò sulla faccia della donna: questo era il suo piano di battaglia, se avesse funzionato il merito sarebbe stato tutto suo. – Ma nun fernisce ccà! Fra na decina di giorni gli dobbiamo fare giungere all'orecchio che ce sta uno che ti vuole, che sta facenne 'o pazze pe te, che è ricco, bello e di buona famiglia! Elisa sbuffò: – Mammà me pare proprio na scemità! Salvatore è omme fatte, figurati si se scenne sta pazziella de criature! – Figlia mia, cumme se vede che nun canusce l'uommene! A gelosia se li mangia, li rosica dentro! Stamme a senti', imma fa accussì... Francesco Caso

  • Il Parco fluviale del Verrino

    Il ponte sul Verrino (foto: A. Mendozzi). Il torrente Verrino, modesto corso d'acqua con la sorgente a quota 1.200 m.s.l.m., ai limiti dell'abitato di Capracotta, presenta scenari e ambienti selvaggi che ne fanno un ecosistema raro, ben conservato e con la presenza di numerose testimonianze di opifici lungo le sponde. L'orografia dei luoghi, soprattutto nella parte iniziale, e la necessità di superare un notevole dislivello, pari a circa 300 metri in soli 4 km., determinano uno scenario particolarmente tormentato. Il fiume scorre spesso tra pareti instabili, composte prevalentemente da rocce scistose, ma sempre dense di vegetazione, con essenze di ontani, salici, pioppi, aceri, maggiociondoli, noccioli, carpini, rovelle ed un sottobosco dove è costantemente presente il pungitopo. Nel Piano Paesaggistico l'area viene elencata fra gli elementi di valore eccezionale poiché «la presenza di salti d'acqua e di cascate naturali associate ad una fauna ed una flora pressoché intatte e incontaminate fanno della parte alta del fiume Verrino uno dei posti più belli e naturalmente conservati nell'intera area». Dalla stradina, sulla sinistra idrografica, si ha la visione completa dello spettacolo con lo scenario di una serie di cascate immerse tra una folata vegetazione così descritta da Lucchese: «Sulle pareti rocciose, che per la loro natura calcarea risultano più resistenti all'erosione dell'acqua, si osserva la presenza di una vegetazione rupestre di notevole interesse e bellezza... A queste specie si accompagnano densi cespi di edera dalla crescita rampicante rigogliosa. Tali associazioni si osservano sulle pareti stillicidiose o nei pressi delle cadute d'acqua, per cui le cascate assumono un aspetto attraente, quasi da far pensare ad un tipo di vegetazione addirittura tropicale, suggestione aumentata dagli arbusti che spuntano abbarbicati sulle pareti, quali il leccio, il terebinto, il fico. Infine, c'è da sottolineare che sulle pareti umide crescono densi popolamenti di muschi ed epatiche incrostanti che contribuiscono ad aumentare la particolare suggestione di un ambiente unico ed eccezionale». Ma la eccezionalità, non solo naturale, appare motivata anche dalla presenza di una centralina idroelettrica, tre mulini di cui uno in buono stato, e di una ramiera, testimonianze presenti nel solo tratto sino al mulino Casciano, nei pressi del ponte della ex statale 86. Oltre vi sono una serie di fonderie e mulini, come quello scamozza ancora funzionante, azionati dalle acque del Verrino che dopo aver mosso macine e magli, si gettano nel Trigno, poco più di 20 km. dopo, in località Sprondasino. Un vero percorso di archeologia industriale i cui elementi potrebbero essere facilmente collegati con un percorso pedonale panoramico, che andrebbe sistemato con piccole opere. Si tratta di un'area in cui l'aspetto selvaggio dei luoghi, i notevoli valori ambientali, i caratteri geologici, le testimonianze legate alla vita vissuta ne fanno un ambiente «unico assimilabile ad un monumento naturale, in cui non è stato modificato il rapporto uomo-natura». Claudio Di Cerbo Fonte: C. Di Cerbo, Il Parco fluviale del Verrino , Consorzio Moli.Gal, Capracotta 2001.

  • Capracotta, balcone del Molise, pronta ad accogliere gli sciatori

    Flora Paglione, Anna Sozio e Filomena Paglione con le coppe vinte nel 1956. È davvero meraviglioso questo popolo di Capracotta: le macerie purtroppo ancora abbondanti sono lì, muta e terribile testimonianza dei non lontani giorni della sua quasi totale distruzione; ma a testimoniare altresì la indomabile volontà di rinascita di questo che è certamente il popolo più intraprendente del Molise, sono ormai le centinaia di abitazioni ricostruite, le opere riattate, tutto ciò che utile alla vita e che inerte giaceva e che oggi invece, rinverdisce e rifiorisce alimentato dalla linfa amorosa della durissima volontà dei figli di Capracotta. E così, con somma sorpresa e, diremo gioiosa sorpresa, abbiamo vista issata ancora una volta, la vecchia gloriosa insegna che reca, sullo sfondo, le vette nevose ed eccelse del Campo e del Capraro, stagliantesi immacolate nel cielo terso del grande Appennino Molisano: l'insegna che or è quasi mezzo secolo, nel lontano 1901, il famoso maestro Paglione, alzò per primo o sotto la quale si formarono generazioni intere di sciatori o di "scarponi" che hanno vinte le più dure gare in aspra competizione con gli alpeggiatori del Cadore e del Monrosa. Lo Ski Club Sotto la Presidenza di Noè Ciccorelli, la appassionata guida di Pasqualino Venditti, con animatori del calibro di vegliardi insigni della montagna quali il quasi ottantenne cavaliere Ottorino Conti che nel lontano 1935 offrì gioioso alla Patria le dodici coppe e le trentacinque medaglie d'oro conquistate, lo Ski Club di Capracotta, visitato nella sua giornata inaugurale dal Presidente del Turismo Molisano avv. Ciampitti e dal Direttore dott. Ferrara, dal prof. D'Uva, vice Segretario della DC, si appresta a nuove competizioni, a nuova vita, a più fulgide vittorie. L'amico Venditti, direttore sportivo del Club, ci ha accompagnati, nella visita agli ampi locali, completamente rimessi a nuovo, forniti di riscaldamento, buffet ecc, e di tutto ciò che può essere utile per un proficuo esercizio di questo arditissimo fra gli sport: ci ha dichiarato che programma dello Ski Club è quello di dare nuova vita al turismo molisano invernale, che la guerra aveva bruscamente fermato in tutte le sue brillanti attività prebelliche; «non è tollerabile – egli ci ha dichiarato – ha i campi immensi di neve, che dura mesi e mesi senza soluzione di continuità, restino così inutilizzati dagli sportivi della Campania e del Lazio, che oggi, ancora una volta hanno mezzi celeri a disposizione per poter raggiungere Capracotta; non è ammissibile che i capracottesi stiano con le mani alla cintola ad assistere alla valorizzazione di tante altre località infinitamente inferiori a Capracotta, senza muovere un dito per far risorgere il turismo invernale capracottese». Ardore di consensi A questo proposito il Presidente del Turismo avv. Ciampitti e il direttore del medesimo dottor Ferrara ci hanno dichiarato che sono rimasti meravigliati di aver trovato tanto ardore di consensi in Capracotta e nei comuni del Mandamento alle loro richieste di alloggi comodi e confortevoli da offrire alle masse turistiche invernali: Capracotta da sola offe più di trecento letti, oltre il suo ricostruito Grande Albergo Vittoria, gestito da Oreste Janiro; e centinaia di letti offrono Pescopennataro, incantevole località sommersa in verdeggianti abetaie, S. Angelo del Pesco e Castel del Giudice, assise sulle rive del Sangro fragoroso e crosciante fra le rupi della sua vallata incantevole: dappertutto i nostri rappresentanti turistici hanno offerto la loro linda ospitalità montanara tanto più preziosa quanto più è semplice e scevra da... ardori speculativi come avviene laddove l'ospitalità è divenuta ormai un mestiere. Il turista, ci hanno dichiarato il dottor Ferrara e Pasqualino Venditti, potrà trovare ottime pensioni, complete con vitto abbondantissimo, per mille lire giornaliere, inoltre Capracotta è raggiungibile da Roma e da Napoli alle otto del mattino; e coloro che hanno poco tempo a disposizione potranno ripartire il pomeriggio alle 15 per entrambe le direzioni rientrando in serata alle loro destinazioni. A questo punto è subentrato l'interrogativo: sarà raggiungibile Capracotta? Un messaggio da Jersey La risposta ce l'ha data un simpatico giovane, bruno e gagliardo, un emigrato capracottese, Sebastiano Pallotta, sarto in Burlington (NJ) uno di quegli italiani che hanno la loro fortuna scritta negli occhi ardenti di volontà e nella mente fervida di iniziativa. Egli è arrivato in aereo da Burlington il 27 novembre, latore di un messaggio del Sindaco di Jersey City al Sindaco di Capracotta e che abbiamo personalmente intervistato. Ci ha dichiarato che le migliaia di capracottesi residenti in Baltimora, Bristol, Trenton, Burlington, Filadelfia ecc. hanno ben compreso che la accessibilità invernale è per i capracottesi una questione di vita o di morte: è nata così l'iniziativa di fornire Capracotta del suo spartineve. «Avreste dovuto vedere, così come io ho visto con i miei occhi – ci ha dichiarato il giovane emigrato capracottese – l'entusiasmo di Jersey City il giorno 10 ottobre scorso, giorno della prima grande manifestazione pubblica: ben 17 corpi musicali attraversarono le vie della città avendo in testa la insegna del "Capracotta Clipper", si chè in breve ora furono raccolti oltre 7.000 dollari, e quello stesso giorno la ditta costruttrice consegnò la gran macchina, del peso di oltre dodici tonnellate, al Comitato di Trenton». Pastoie burocratiche Non un capracottese mancò all'appello e tutti erano convenuti in Jersey City, e nei loro occhi si leggeva la gioia e la soddisfazione di poter dotare la patria amata e lontana di un mezzo che ne assicuri una vita tranquilla e scevra dalle preoccupazioni invernali. Il 9 dicembre, nel massimo teatro di J.C. si è avuta la seconda grande manifestazione cui hanno partecipato del tutto gratuitamente i migliori e più famosi artisti, ed il ricavato è servito a finir di pagare il mastodontico spartineve. Non del tutto entusiasta si è dimostrato l'intervistato dello spirito realizzatore dei rappresentanti capracottesi in Italia, ai quali il Pallotta fece visita appena disceso dall'aereo di Ciampino latore del messaggio di Mr. Kenney e che richiede l'invio di personale che vada a ritirare e a prendere in consegna lo spartineve: ma poi pensiamo che le pastoie burocratiche e le incertezze di taluni, non vorranno tardare di un minuto il momento in cui a Capracotta sarà assicurato il traffico e con il traffico la vita. Fonte: Capracotta balcone del Molise pronta ad accogliere gli sciatori , in «Momento-Sera», IV:298, Roma, 17 dicembre 1949.

  • Chi è Dio?

    Girolamo Imparato, "La cresima", S. Elia a Pianisi. Come è noto il vescovo di Capracotta risiede a Trivento. I rapporti tra il Clero di Capracotta e il vescovo non sono mai stati buoni, ma ciò non ha mai impedito che le funzioni liturgiche e le cerimonie seguissero le norme che facevano parte della tradizione religiosa cristiana. Tra esse quelle della Cresima che erano anche un'occasione per consolidare rapporti di comparanza con familiari o amici che per i motivi più disparati erano costretti a vivere lontani dal paese. Perciò la Cresima era spesso un momento straordinario per legare con un gesto simbolico il futuro di un bambino alla protezione di un parente o una persona importante che per quella occasione speciale veniva dalla Puglia. Si raccontava a Capracotta che il giorno stabilito il Vescovo, vestito con gli abiti delle cerimonie solenni, con la mitra e il bastone pastorale, assistito dal parroco che reggeva il vaso dell'olio santo che sarebbe servito all'unzione della fronte del cresimando, si pose sul gradino più alto dell'altare dell'Assunta. I bambini si erano sistemati in basso, tutti allineati, in maniera che il padrino potesse appoggiare la sua mano destra sulla spalla destra del ragazzo e farsi garante della promessa. Per questo motivo la Cresima viene chiamata "Confermazione" e viene associata simbolicamente all'arruolamento dei giovani tra i soldati della Chiesa. Il tutto anche con una verifica, sia pure formale, delle qualità del padrino. Perciò il Vescovo, con toni anche scenografici, rivolge alcune domande la cui risposta in genere viene concordata durante le prove nei giorni che precedono la cerimonia. Domande semplici che fanno parte del bagaglio culturale di qualsiasi cristiano. Quella volta accadde che per contingenze inderogabili il padrino non potette partecipare alle prove in parrocchia. Anzi arrivò in chiesa proprio mentre la cerimonia della confermazione stava iniziando. Gli fu detto di porsi dietro il ragazzo e di appoggiare la mano destra sulla sua spalla destra e di fare come facevano tutti gli altri. Sicché, seguendo la fila, si trovò, come gli altri, al cospetto del vescovo che ad alta ed intellegibile voce gli pose la fatidica domanda di dottrina: – Chi è Dio? Un momento drammatico mentre il vescovo lo guardava negli occhi aspettando la risposta. Un frammento di tempo interminabile per una domanda alla quale, onestamente, non era facile rispondere. Nessuno suggeriva una soluzione. A questo punto il padrino, superato l'attimo di panico, non esitò a giustificarsi: – Eccellenza, ma io mó sono arrivato da Cerignola... Franco Valente

  • La presenza dell'orso bruno marsicano nel secolo XIX

    Al 1869 risale l'ultima pubblicazione relativa alla Marsica, quella di Antonio Di Pietro che conclude quella triade di Autori fondamentale per la storia di questa sub-regione abruzzese formata con il Febonio e il Corsignani. Il Di Pietro, a pagina 297 del suo lavoro, parla delle montagne di Opi dove vivono «gli orsi che presentano buona, ma diffcile caccia a quei robusti abitanti». L'Ottocento è stato anche il secolo che ha visto l'Abruzzo visitato dagli ultimi viaggiatori stranieri; oltre a quelli finora citati, è opportuno ricordare anche il Kaden che ci testimonia la presenza dell'orso nelle montagne di Valloscura (oggi Roccapia) il quale, insieme allo Stieler e al Paulus, in un altro successivo lavoro, ricordano ancora la presenza dell'orso nelle montagne di Pettorano, centro vicino il precedente Roccapia. Contrariamente a quanto affermato dal Delfico, invece, che voleva nel 1756 l'ultimo rappresentante del plantigrado nel massiccio del Gran Sasso, Jules Gourdault, pubblicando nel 1877 il resoconto del suo viaggio in Italia afferma che alle falde del Gran Sasso «si stendono splenditi paesaggi di tipo elvetico; pascoli immensi; foreste di querce e di abeti, dove vivono l'orso e il camoscio». Le osservazioni del Gourdault, in contraddizione a quelle del Delfico, rimandano alla polemica riportata dal Lopez a proposito della fauna del Gran Sasso. Infatti alcuni autori hanno posto in dubbio la presenza dell'orso su quel gruppo montuoso, ma a noi interessa sottolineare il fatto che tutti in qualche modo, forse in discordanza con le loro stesse conclusioni, riportano notizie sull'esistenza del plantigrado nel Gran Sasso, mentre Achille Costa aveva aperto il suo lavoro sull'orso dicendo che «sebbene oggi esso sia stato completamente distrutto entro i limiti della nostra provincia, mentre ancora vive in quella dell'Aquila, non sono rari i vecchi che ricordano le uccisioni degli ultimi orsi i quali abitarono, quasi senza forse, il Gran Sasso e, certo, le montagne ad esso vicine, così p.es. i monti di Castelli». L'Autore concludeva il suo contributo affermando che «in ogni tempo l'orso appartenne alla nostra provincia non soli intenti storici, ma così vicini a noi che può dirsi scomparso da ieri». Sempre nel 1877 abbiamo un'altra conferma che le montagne di Pescasseroli erano particolarmente preferite dal plantigrado in questione. Essa ci viene data da una nota relativa a Carmine Grassi e Carmine D'Addario che come guardie «hanno prestato un più speciale servizio circa la Reale Riserva di Caccia essendo stati dal Municipio distaccate in quelle contrade dove è noto di esser l'ordinaria stazione del maggior numero di orsi». Concludiamo la trattazione delle notizie sull'orso nel corso dell'Ottocento dando uno sguardo all'Alto Molise. Da una pubblicazione del 1889 apprendiamo che «alle spalle del monastero, vicino Cerro, è situata Rocchetta [...] e Orso dalle cui radici nasce il Volturno [...] La incurvatura delle colline di Castellone nasconde Pizzone [...] di fronte ad una montagna [...] quasi tutta boscosa, nella quale trovasi l'orso di cui si fa annualmente particolare caccia». Oltre alla citazione della caccia al plantigrado è da sottolineare il significativo nome dato ad una contrada della zona: Orso. Sempre per questa area, in una monografia di Venafro edita nel 1877, leggiamo che un ipotetico osservatore da questa città vedrebbe le montagne della catena delle Mainarde «ove spesso si dà la caccia all'orso». Nel corso di questo secolo, comunque, «l'orso di tipo marsicano» è ricordato anche nel territorio di Juvanum e «nelle foreste di Vastogirardi e Capracotta dove si racconta di un prete, don Anselmo Di Ciò, il quale, trovando spesso divelti i lacci da lui posti per prendere le pernici, si appostò e scoprì che il ladro abituale era un grosso orso». Dalla Statistica del Sipari, infine, si ricava che nel periodo 1828-1898 vennero uccisi novantuno orsi e sei orsacchiotti nelle montagne di Barrea, Villetta Barrea, Civitella Alfedena, Opi, Pescasseroli, Lecce, Gioia, Villavallelonga, Settefrati e Castellafiume e che tra i cacciatori si misero in rilievo Francesco Neri e Francesco Sipari da Pescasseroli, Filippo Tarolla da Barrea, Leonardo Dorotea da Villetta Barrea e Antonio Orazi da Gioia dei Marsi. Tra questi andrebbero menzionati anche altri validi cacciatori come Vincenzo Graziani e Giacomo Di Ianni da Villetta Barrea, Cirillo Cocuzza da Villavallelonga che non vengono citati nella Statistica del Sipari. Gianluca Tarquinio Fonte: G. Tarquinio, Testimonianze storiche della presenza dell'orso bruno marsicano in Abruzzo e nelle aree limitrofe , Grafitalia, Sora 2001.

  • La Collegiata di Deliceto, sorella della Chiesa Madre di Capracotta

    Interno della Chiesa del SS. Salvatore di Deliceto (FG). Il 18 dicembre scorso, al convegno "Deliceto: tra storia, transumanza e fede nella metà del '700", cominciai il mio intervento affermando che la storia di Capracotta era legata a quella di Deliceto - splendida cittadina adagiata sui Monti Dauni - sia in virtù dei nostri pastori transumanti, che lì passavano, sia per la ricca famiglia De Maio, che in blocco si trasferì da Capracotta a Deliceto nel Settecento. Al termine del lungo e interessante convegno, un distinto signore si avvicinò per congratularsi con me e mi confidò che vi era un terzo motivo che legava le due cittadine: il progettista della Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta di Capracotta era lo stesso della Chiesa del SS. Salvatore di Deliceto. Quel signore ha ragione. Egli è un avvocato delicetano che risponde al nome di Mattia Iossa ed è lo storico più stimato della sua città, avendo all'attivo alcuni volumi di storia patria locale. È stato proprio Iossa, vent'anni fa, a scoprire la polverosa delibera capitolare, approvata nel 1744 dal clero locale, nella quale vi era «una notizia del tutto inedita; il nome dell'architetto [...] La delibera reperita conferma che si trattava di un milanese e dà il nome: Carlo Piazzoli». Le ricerche in tal senso sono state pubblicate nel volume "La Collegiata insigne di Deliceto", edito nel 2003 per conto dell'Associazione Culturale Delicetana. Noi sappiamo che Piazzoli in realtà era comasco, nativo di Pigra, appartenente a una famiglia di architetti e stuccatori, «operanti non solo nel Nord d'Italia ma persino a Vienna», ed effettivamente egli fu l'ideatore della nuova Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta di Capracotta, consacrata nel 1725, vent'anni prima che progettasse quella di Deliceto. Il tempio pugliese, infatti, venne abbattuto, perché fatiscente, nel 1744, ma il nuovo edificio, costruito nello stile del tardo barocco meridionale, non vide la luce prima del 1800. Il massimo promotore dell'opera di riedificazione fu l'agnonese Antonio Lucci (1681-1752), che era vescovo di Bovino, un religioso che Mattia Iossa non esita a definire «sant'uomo», e non a torto, visto che nel 1989 è stato beatificato. Probabilmente fu proprio mons. Lucci, che evidentemente ben conosceva l'architetto pigrese per i suoi grandi lavori a Capracotta, ad indicarlo al Capitolo di Deliceto quale possibile incaricato. Carlo Piazzoli, infatti, fu protagonista di un'intensa attività lavorativa in Abruzzo e Molise a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, prima di tutto in qualità di stuccatore (Chiesa di S. Pietro a Ripateatina, Chiesa dell'Immacolata a Montorio al Vomano, Chiesa di S. Chiara a Città S. Angelo, Chiesa di S. Giovanni a Colledimezzo, Chiesa di S. Maria del Popolo a Bomba, chiese di S. Chiara e di S. Agostino a Chieti) e poi di architetto-progettista, come nel caso del convento di S. Francesco di Guglionesi ed ancor più nella meravigliosa cattedrale di Chieti e nella Chiesa di S. Domenico de L'Aquila, restaurate dopo il disastroso terremoto del 1706. Un progetto del Piazzoli molto simile a quelli di Capracotta e Deliceto lo si può rinvenire anche a Villamagna, in provincia di Chieti, nella bella Chiesa di S. Maria Maggiore. È probabile che Carlo Piazzoli morì proprio a Villamagna nei primi mesi del 1748, il che fa supporre che la chiesa delicetana sia stato il suo penultimo progetto architettonico. La facciata principale della Chiesa del SS. Salvatore di Deliceto ha due ordini ed «è formata da una dinamica superficie convessa che riduce, illusoriamente, la distanza tra le ali». A differenza di quella capracottese, ha un solo portale d'ingresso e una porta laterale, mentre nel nostro caso vi sono due porte frontali minori che immettono alle navate laterali. Devo ammettere però che, da capracottese, una volta entrato nella chiesa di Deliceto lo stupore è massimo: sembra davvero di essere catapulati nella Chiesa Madre di Capracotta, tanta è la somiglianza fra i due templi. Persino il pulpito in marmo ripete i motivi ornamentali del nostro. Spero che questo articolo conoscitivo sulla Chiesa del SS. Salvatore di Deliceto sia il primo di un lungo percorso di confronto e analisi con la Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta e - perché no? - anche di fitto scambio culturale e religioso. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, La Chiesa Collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Tip. Molisana, Campobasso 1926; M. Iossa, La Collegiata insigne di Deliceto , New Print, Foggia 2003; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; M. Moretti, Architettura medioevale in Abruzzo (dal VI al XVI secolo) , De Luca, Roma 1971; D. Palanza, Fra Salvatore da Villamagna. Da servo degli uomini a servo di Dio , Youcanprint, Tricase 2014; N. Tomaiuoli, Aspetti e problemi dell'architettura del '700 nella provincia di Foggia , in «La Capitanata», XXXI:2, Foggia 1994.

  • I custodi del Santuario

    Vincenzo Casciero, penultimo custode del Santuario di S. Maria di Loreto. È tradizione che la custodia del Santuario sia affidata a chiunque (singolo o famiglia) ne faccia richiesta. Ecco i custodi di cui si è avuto notizia, fino ai nostri giorni. Agli inizi del 1900 custodi del Santuario erano i coniugi Domenico Falconi e Grandizia Evangelista. La coppia, senza figli, decise di adottare una bambina orfana di entrambi i genitori dell'età di cinque anni, Maria Antonia Venditti, che sposò Vincenzo Di Nucci, nipote di Domenico Falconi. Vincenzo Di Nucci, detto Vincenzo "della Madonna", fu custode del Santuario dal 1918 al 1962. A Vincenzo Di Nucci subentrò, fino al 1967, Antonio Liberato Venditti. Successivamente la custodia fu affidata a Mauro Giuliano che la curò fino al 1969, e poi a suo figlio, Celestino che la tenne fino al 1974. Dopo la famiglia Giuliano, si sono susseguiti Sebastiano Campana, fino al 1982, e Carmela Cacchione, fino al 1988. Dal 1989, a tutt'oggi, il custode è Vincenzo Casciero. Fonte: AcR, I custodi del Santuario , in «Voria», II:4, Capracotta, settembre 2008.

  • Amore e gelosia (XXVII)

    XXVII Tutte le strategie della madre di Elisa minacciavano di naufragare prima ancora di essere messe in atto. Salvatore Di Giacomo stava vivendo uno dei momenti di massimo fulgore della sua carriera di drammaturgo: aveva completato il suo dramma "Assunta Spina", l'aveva sottoposto al vaglio della grande attrice per cui l'aveva scritto e l'entusiasmo era alle stelle: sarebbe stato messo in scena subito! Tutta una girandola di impegni coinvolse il poeta: le prove, i cambiamenti, le aggiunte o le sottrazioni al testo, il lavoro alla biblioteca che pure bisognava mandare avanti, e in tutto questo, come è facile arguire, le donne non mancavano mai di apparire, girare, danzare intorno, civettare e usare tutto l'armamentario di cui sono state fornite dal buon Dio. Attrici affermate e attricette, tutte belle, piene di brio, ambiziose e avide di attirare l'attenzione del grande poeta: non si sa molto di presunte amanti del nostro eroe, era un uomo molto discreto, ma di amicizie profonde e durature si hanno notizie. E fu proprio durante le prove di "Assunta Spina", che comparve sulla scena una giovinetta destinata ad essere una delle attrici più importanti di tutta la cinematografia italiana di quegli anni: Francesca Bertini. A notarla, a favorirne la carriera fu don Salvatore Di Giacomo che fu colpito subito dalla bravura della giovane, la volle nel cast del suo dramma e ne divenne amico. Fu un rapporto amicale duraturo, tant'è che lo stesso scrittore volle ed ottenne di cambiarle il nome d'arte: la ragazza si chiamava Elena Seracini Vitiello, e don Salvatore la trasformò in Francesca Bertini. Alcuni anni dopo, l'attrice volle ricambiare la stima e l'affetto che aveva ricevuto: nel 1915 era diventata una grande star del cinema muto, a livello internazionale. Memore del suo esordio in teatro, volle portare a cinema il dramma di Di Giacomo "Assunta Spina". Lo fece, da interprete e da produttore: il successo fu enorme, le sale si riempirono di spettatori e ancora oggi il film rappresenta uno dei momenti alti della cinematografia muta italiana. In tutto questo fervore, che cosa avrebbe potuto fare mai una donna di provincia, addirittura di un paese di provincia quale era Nocera, per farsi sposare da Salvatore Di Giacomo, al centro della vita culturale della grande Napoli? Elisa era consapevole di tutto questo: quando si recava nella grande città per incontrarsi con Salvatore, le capitava spesso di ritrovarsi nelle quinte di un teatro ad attendere che il suo innamorato sistemasse qualcosa. Aveva visto e capito bene quale fosse il mondo in cui il suo uomo orbitava e splendeva: ma doveva agire, tentare il tutto per tutto, e... E il piano di mammà non era male, non era niente male... Semplice ma funzionale, ora andava applicato, stava a lei. Francesco Caso

  • Il nuovo sindaco di Capracotta

    Via Luigi Campanelli a Capracotta (foto: F. Mendozzi). Onorevole Sig. Direttore, giacché il suo collaboratore Ahasvero vuol fare la pubblica presentazione dei sindaci della nostra provincia, dico io, perché non sarebbe permesso ai medesima di farla da sé? Dirà lei che questo metodo automatico può produrre l'inconveniente che i sindaci facciano i Cicero pro domo sua ; ma, senza entrare nel merito della quistione (come dicono i moderni giuristi) io, modestia a parte, voglio sperimentare un'autopresentazione del sindaco di Capracotta. Avrò detto una sola bugia? Ebbene mi si punisca. Accetto qualunque pena, magari l'abbonamento per 17 secoli al "Corriere del Molise". Fatto il quale preambolo, apro al colto pubblico, all'inclita guarnigione ed al reverendo clero del Sannio il mio passaporto (?) dove vi sono i seguenti connotati ... (Ora che ci penso... che peccato non saper fare un pupazzetto!... come ci starebbe a proposito). Dunque ecco che si legge nel passaporto: Statura – metri 1,72. Capelli – color sauro-bruciato-calvizie e canizie progredienti. Fronte – rugosa (coll'apparecchio fotografico Röntgen si scopre all'interno una sostanza analoga a quella della Cucurbita dei botanici). Occhi – ...due. Naso – superlativo. Bocca – piuttosto taciturna. Mento – coperto di barba baio-cuprica. Mani – a posto. Altre membra – tutte regolari , quelle in corrispondenza del naso alquanto prolisse (per esempio le orecchie). Colorito – monarchico costituzionale... Almeno questo mi pare che presi quando il signor Pretore m'invitò a leggere la formola del giuramento. Difetti fisici particolari – quarantadue anni d'età. 2) Ammogliato con duplice prole mascolina. 3) Quattrini pochi, blasone niente. Le signore non se l'abbiano a male. Ora il colto pubblico infastidito dirà: ma noi vogliamo sapere che avete fatto di buono per esser nominato sindaco. Ecco qua... mi spiego subito: i connotati ce li dovevo mettere perché così ha fatto il signor Ahasvero per i gli altri miei colleghi: quanto a quel che ho fatto io è presto detto. La prima operazione fu quella di venire al mondo e fu nell'ottobre 1854 (a proposito mio padre era stato celibe 50 anni: come poté mai al 50° anno determinarsi a...?). Dopo mi chiuse nel collegio di Campobasso e imparai a leggere (c'era con me un piccino Bevilacqua tutto pepe: era forse l'attuale direttore del Corriere?). Nel '72 presi la licenza liceale a Maddaloni; e nel '76 il rettore dell'Università D. Arcangelo Scacchi mi firmò una cartapecora che mi proclamava dottore in legge! Pover'omo! chi sa che dice all'altro mondo di quella firma messa così a casaccio! E che mormoreranno con lui D. Diego Colamarino, Polignani, Alianelli! Se mi chiamassero a fare un'altra volta l'esame di diritto amministrativo? Che magnifico fiasco! Penseranno i lettori: ...e fate il sindaco? Ed il caso non è liscio: ma intanto io mi consolo, pensando che per l'ufficio di sindaco non è necessario né il diritto amministrativo, né la licenza liceale, e che molti altri sindaci, come me, sarebbero riprovati all'uno ed all'altra. Ma basta... Torniamo alla mia vita pubblica. Dunque dopo avuta la cartapecora tornai in patria nel '77. Una sera m'invitarono a cena (della cena mi ricordo bene... c'era molto spor locale... lepri, trote, pernici... il vino forse era un po' cotto... ma non saprei): il giorno dopo sentii la mia proclamazione a candidato consigliere comunale per opera dei commensali. Detto fatto: poco dopo ebbi l'invito di andare a sedere nel nostro parlamentino, dove per parecchi anni ebbi la soddisfazione, il piacere e l'onore di vedermi tutte le proposte, tutti gli ordini del giorno e anche tutti i reclami respinti e rigettati. Naturalmente gli spropositi erano i miei e quindi zitto, poi parecchio di quella roba andata così a male ha prodotto conseguenze peggiori. Intanto io duro al mio posto, come un caporale svizzero fino all'89, in cui, dopo le mutazioni arrecate da Crispi alla legge comunale, venne su una rappresentanza popolare, che, senza complimenti, cacciò fuori me; quattro o cinque consiglieri, che (beati loro!) hanno da poter vivere senza il consiglierato né altra professione, e due guardie municipali. In quel frattempo però non mi fecero stare ozioso, mi fecero fare il giudice conciliatore, nel quale ufficio ebbi modo di sperimentare tutte le gradazioni della mia pazienza, che non è poca. Poi tre anni fa mi rielessero... fui fatto anche assessore... e per colmo di gloria mi consegnarono tutte due le effe di assessore delegato, e così per più d'un anno ho potuto far le prove di questa graziosa carica della quale mi pare che i grattacapi sieno molti e si goda un lauto compenso di espressioni e commenti che il Signore Dio ci salvi. Il più bello però è questo. Nelle ultime elezioni io fui il 14°: e dei membri dell'attuale Giunta tre votarono contro il mio nome non solamente come consigliere, ma anche come assessore, dimodoché non sono meno meravigliato dei miei lettori ed elettori come possa dondolarmi sulla rurale sedia del rappresentante il potere esecutivo . «Vita breve, morte certa, del morire l'ora è incerta» dicono i passionisti. Se il pubblico vuol sapere quel che fo attualmente, rispondo che faccio quel che fanno tutti gli altri sindaci, metto un centinatio di firme al giorno, che naturalmente vanno a finire sotto al Sottoprefetto. Che altro posso dire? Si vuol sapere quel che penso del problema sociale, del bimetallismo, della musica di Wagner, dei preraffaellisti, del futuro conclave? Questo poi lo dirò un'altra volta. Capracotta, 1° marzo 1896. Luigi Campanelli Fonte: Ahasvero, I nuovi sindaci (da un comune all'altro) , in «Corriere del Molise», II:44, Campobasso, 19 aprile 1896.

Complimenti, ti sei iscritto a Letteratura Capracottese!

Organigramma | StatutoContattaci

© 2015-2025 Letteratura Capracottese APS

Via San Sebastiano, 6 - 86082 Capracotta (IS)

C.F. 90050910943

bottom of page