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  • Henri Nouwen, prete olandese e scrittore

    Prete geniale e in continua ricerca, credente inquieto, guaritore ferito, profeta dallo sguardo penetrante, Henri Nouwen ha trovato il modo di far giungere il messaggio evangelico al cuore degli uomini e delle donne di oggi. “Parole come carezze” è il titolo di un libro che ripercorre la vita e il suo messaggio, curato da Michael O’Laughlin, suo intimo collaboratore ed estimatore. Anch’io, prete del mio tempo, ho imparato molto da lui e ancora devo “imparare” dalle sue lezioni, considerate quasi profetiche per la vita di tutti. Ha saputo raggiungere un pubblico vastissimo in America e in Europa, perché ha coniugato “la sottile magia” dei suoi scritti con la vivacità del suo eloquio. Sorgente profonda di energie aveva la capacità di far sentire chi parlava con lui una persona speciale e apprezzata. Chi lo incontrava aveva delle esperienze illuminanti e liberanti. I suoi libri hanno affrontato tematiche spirituali e problemi di carattere esistenziale, quali la solitudine e la differenza fra ricchi e poveri. Le esperienze e gli interessi sono parte integrante del suo messaggio. Un uomo con molti amici, per l’abilità ad intrecciare legami di amicizia in un rapporto personale con migliaia di persone. Consigliere fidato per il suo fiuto intuitivo ed empatico. Chi lo incontrava “a tu per tu” costruiva un rapporto illuminante e liberante. Pur essendo cresciuto dentro gli stretti confini del cattolicesimo olandese, ha allargato le proprie vedute, grazie all’esperienza vissuta nel Concilio Vaticano II e all’insegnamento presso Istituti Teologici protestanti. Ha conosciuto e avuto familiarità con il dolore e percorso la sua personale via dolorosa. Attraverso le prove della vita ha raggiunto un livello di profonda stabilità emotiva. Conosciuto, amato e apprezzato largamente in Olanda, Statiti Uniti e Canada, ha lasciato un messaggio di luce e un insegnamento sulla spiritualità, la preghiera e la vita. Prete di grandi doti ha dato grande spazio e rilievo alla persona di Gesù, punto di partenza e di arrivo nella vita. Le parole venivano dal cuore, dando spazio ad una fede attiva e in ricerca, che prendeva forma dalle sue debolezze nell’apertura totale verso Dio. Le iniziali del suo nome (J.M.) “just me” riassumono il senso che aveva di sé stesso, vivendo la sua vita come un uomo qualunque. Lo spirito olandese e la sua famiglia, solida e rispettabile, hanno avuto un ruolo importante sulla sua formazione. I genitori, in particolare lo zio Anton, prete di spicco, è stato un modello per Henri, per i suoi interessi al dialogo ecumenico. Figlio primogenito aveva due fratelli e una sorella più giovani. Padre energico e intelligente, madre profondamente colta e religiosa, fin da piccolo aveva manifestato il desiderio di diventare prete. Entra nel Seminario minore nel 1950 sotto la tutela dello zio Anton, Monsignore e Rettore del Seminario. Il Vescovo era Bernard Alfring, biblista e Professore all’Università di Nimega. Ha acquistato una fama internazionale per i suoi interventi al Concilio Vaticano II, per la difesa di un cattolicesimo progressista e per suoi interventi puntuali ed efficaci. Nouwen frequenta l’Università di Nimega per sette anni, specializzandosi in Psicologia clinica. Porta un nuovo modello di ricerca e di collaborazione nel campo della psicologia e fenomenologia, attratto magneticamente dalle discussioni e dai dibattiti che avvenivano all’Università. Influenzata da Freud e Jung la psicologia ha avuto una grande eco negli ambienti universitari e intellettuali e sulla cultura in generale. Le teorie dell’inconscio, della sessualità, “l’io il super-io e l’es”, le teorie della personalità, tutte le idee progressiste e rivoluzionarie erano nell’aria. Con la sua personalità estroversa era attratto dalla ricerca per l’interazione tra psicologia, religione e cultura. L’incontro con Gordon Allport, psicologo di Harvard, ha accentualo i suoi interessi nella ricerca dei rapporti tra psicologia, psichiatria, scienze sociali e religione. Per comprendere Henri bisogna analizzare il metodo Myers Briggs Tipology Inventory (abbreviato = MBTI). Secondo questo modello ogni persona può essere classificata in base al suo atteggiamento verso il mondo esterno. Ci sono quattro tipi con caratteristiche contrapposte. Ogni persona possiede un elemento diverso rispetto all’altra. Introversione, estroversione, intuizione sensazione, giudizio percezione. Attraverso queste distinzioni era in grado di entrare in contatto con i suoi valori interiori, con gli altri e profondamente con il suo Dio. In questo modo diventava incrollabile e profondamente ispirato. Ha compiuto il suo viaggio nella vita con piena fiducia, il suo esempio incoraggia tutti a fare altrettanto. E’ il modo per seguire le sue orme in questa strada personale. Pensando allo spirito che lo animava colpisce la sua autenticità e la sua originalità.  Anche se non era un artista si può cogliere nella sua vita una forte dimensione artistica. Particolarmente affascinato dalle icone del cristianesimo, considerate “miracolose”.  La Chiesa orientale ha giustificato sulla base del “mistero dell’Incarnazione” come evento, innalzando lo spirito di preghiera. “Le icone non sono riprodotte come copie fedeli eseguite artisticamente ma con raccoglimento del cuore e   della mente”.   Possedeva un livello di creatività inusuale, che potremmo chiamare “licenza artistica”, per il suo approccio alla teologia e alla vita. Il modo di trattare i temi del Cristianesimo era avvincente e originale, perché avevano origine da un temperamento fondamentalmente artistico. Traeva ispirazione da Vincent Van Gogh , uno dei pittori piò apprezzati al mondo. Numerose corrispondenze sono da rilevare: tribolazioni emotive, senso di vergogna e non accettazione, risposta ad una chiamata religiosa, predilezione dei ”poveri”, lotta e incomprensione dei genitori, prima che diventassero famosi.  Il percorso delle loro esistenze diverge quando intraprendono viaggi oltre i confini olandesi, Francia per Van Gogh, Stati Uniti e Canada per Nouwen. L’incontro con L’Arca, associazione di aiuto ai disabili,  in Francia e in Canada ha segnato profondamente la sua vita. Sembra che siano attirati dalla stessa direzione, come se fossero due anime gemelle. L’impulso religioso è stato fondamentale per entrambi, ipersensibili e straordinariamente dotati. Uno dei dipinti più interessanti di Van  Gogh, I mangiatori di patate , fu uno scandalo, perché raffigurava i contadini, che vivevano squallidalmente ai margini della cultura europea. Ciò che dipingeva era la rappresentazione di quanto vedeva e sperimentava. Ogni soggetto è guardato con semplicità, rivolto alla natura e al mondo dei poveri ed emarginati. I campi di grano, le orchidee, i cipressi e la natura espressione del fuoco dei suoi intensi sentimenti, sono “visti dal basso in modo nuovo e trasformato”. Possiamo dire che Henri ha fatto della spiritualità ciò che Van Gogh ha fatto per l’arte. Lo scrittore da cui ha imparato di più è Thomas Merton, un giovane intellettuale convertito al Cristianesimo e divenuto poi monaco cistercense. Entrambi sono rimasti dentro i confini del Cristianesimo con lo sguardo aperto verso il mondo circostante. Politica, cultura, filosofia e letteratura erano i campi che si intrecciavano con l’esperienza della fede. “ Diventare liberi per vedere le cose con occhi artistici e di scrivere per comunicare la propria via verso Dio”.  Guardare il mondo cercando la presenza di Dio ha unito spiritualmente Henry Merton e Vinccent Van Gogh. Il libro La montagna   delle sette balze mette in risalto la somiglianza fra loro. Vita contemplativa e testimonianza del monaco “contemplativo” hanno attinto abbondantemente a figure mistiche antiche e maestri di spiritualità. Verificare gli aspetti familiari in modo creativo e contemplativo di vivere nel mondo, saper tessere di parole spirituali ogni evento è la sua caratteristica. Smaschera continuamente la nostra illusione di conoscere Dio, rendendoci così liberi di conoscere il Signore in modi sempre nuovi e sorprendenti. Questo processo creativo porta ad una comprensione profonda di aspetti del mondo che naturalmente restano nascosti e incompresi. Pur continuando a mettere al centro la Bibbia e l’Eucarestia, preferiva esplorare gli elementi ordinari dell’esistenza ed i sentieri dei suoi sentimenti per cogliere gli aspetti familiari della religione e della vita ordinaria e a saperli vivificare. Questa capacità di vivificare le cose più familiari era frutto del suo modo creativo e contemplativo di vivere nel mondo. Come predicatore e scrittore sapeva tessere di parole salutari ogni evento dell’esistenza, considerando gli avvenimenti con la più grande vitalità. “ Nella casa della vita. Dall’angoscia allì’amore ” è un libro che indica tre luoghi favorevoli in cui coltivare il passaggio all’amore: l’intimità, la fecondità, l ’estasi. L’anima che raccoglie, genera e ascolta attentamente la voce del cuore. Non diventa dipendente dalle proprie paure, ma nell’esercizio dell’amore giunge ad un’apertura totale e universale. Assumere realmente il presente, ritrovare le sorgenti della gioia, saper integrare il soffrire, condurre una vita disciplinata, esercitarsi alla compassione, credere alla preghiera, sono tappe essenziali del cammino della vita.   Il libro che maggiormente ha attratto la mia attenzione è L’abbraccio benedicente, ( ED. Queriniana Brescia ). L’immagine che accompagna la parabola della misericordia è   Il ritorno del figlio prodigo di Rembrandt, assunta come luogo privilegiato della “compassione del padre”. Lo straordinario abbraccio del Padre segna e conferma indelebilmente la relazione di accoglienza, di perdono e di comunione ritrovata. Nouwen ricostruisce le fasi della vita della coscienza, dentro le quali individua la struttura di una storia spirituale e insieme personale e comunitaria, irripetibile e presente in tutti.  “ ’E’ venuto il tempo di affermare tutta la vocazione di essere padre che accoglie con calore i propri figli senza alcuna domanda e senza volere niente in cambio. Abbiamo bisogno di te come un padre   disposto a rivendicare per sé l’autorità della vera misericordia ”. E’ la conclusione del libro. Il testo che raggiunge il vertice della vicinanza spirituale e psicologica è “ Il guaritore ferito”. Indica tre passaggi da uomo di fede e da acuto analizzatore dell’animo umano e della vita. “Da uno gelido isolamento alla vera solitudine, dalla ostilità all’ospitalità, dall’illusione di fede alla preghiera reale”. Indispensabile è condurre un’esistenza radicata nell’essere, nel cuore e nelle relazioni con le persone. Ogni complesso di onnipotenza esige di essere frantumato per dirigere tutte le attenzioni verso una vera purificazione, che permette di esercitarsi come autentici uomini di attesa. L’attesa non è più un vuoto, un tempo perso, una irraggiungibilità negativa, ma è una esperienza che costituisce la persona nella più solida e completa identità. Introduce alla vera esperienza dell’essere e dell’agire per “la gloria di Dio”. Anche la morte non può rimanere estranea alla vita. Il pensiero della morte rischia di vivere una vita di significati deboli e sfilacciati. Farsi amica la morte, vivere, vivere la morte degli altri come reale fraternità. La morte è insieme una perdita e un dono, la Risurrezione deve essere proclamata come “grazia”.  “ Un buon esercizio per tenere vicino la morte è quello che ci conduce a studiare con grande attenzione noi stessi nei momenti in cui la nostra vita si trova in particolare situazione di precarietà, di incertezza e di smarrimento può essere una malattia, un improvviso parziale fallimento, un disagio accentuato del nostro rapporto con gli altri, un non riconoscimento che ci costringe a cambiare l’idea che avevamo di noi stessi. In simili situazioni si acquista una verità indispensabile su di noi che ci riconduce nella fede alla nostra più vera misura”. ( H. Nouwen, Al di là dello specchio , Queriniana, Brescia, 1994 pag.61) Vivifica gli ambiti della sua vita per farla germogliare in una continua creatività, rendendosi capace di evocare fiducia, confidenza, spazio per superare le proprie debolezze, manifestando un cammino che esclude giudizi e condanne. La sua esistenza mostra chiaramente di essere vero discepolo sfiorato dalla mano del vero Maestro, Cristo, che sfida maestri e discepoli ad abbassare le difese per rendersi disponibile ad una maturazione reale. Esprime gli eventi interiori come persona compassionevole, perché la compassione è il nucleo segreto di ogni autorevolezza capace di tenersi ad una certa distanza, per non essere travolto dall’urgenza del quotidiano. Al termine di questo profilo prevale in me un senso di gratitudine, di rispetto e di imitazione. La sua eredità spirituale rimane incisa “nell’animo, nel cuore e nella mente”. La spiritualità di Henri non è tanto un problema da esaminare e analizzare, quanto piuttosto un dono di cui gioire. L’immagine del gigante con i piedi di argilla dell’Antico Testamento si traduce nel Nuovo come un tesoro in vasi di creta. Henri era tanto pieno di fragilità umane quanto lo era della Spirito. Rimane una composizione perfetta di ispirazione divina e di umanità vivace ed estrosa. Un tesoro in un vaso di creta. Una amica molto vicina ad Henri, Jutta Ayer, ha lasciato una fotografia di un girasole in inverno. La testa grigia del girasole è piegata quasi in preghiera ed è ricoperta di una corona di neve. Lo Spirito sta dormendo, ma si sveglierà subito. Sotto la foto sono vergate queste parole: …è all’aria aperta/e assopito l’inverno/portando nel suo volto sorridente/un sogno di primavera. Henri dorme   nella stessa terra sulla quale sta vigile quel girasole. Non sa e non cammina più in mezzo a noi, come il seme che cade a terra e aspetta la primavera, aspetta anche che venga il giorno di un grande raccolto. Osman Antonio Di Lorenzo

  • Sotto le stelle sparse in un manto

    Un momento della presentazione del presepe 2023 (foto: A. Mendozzi). Sotto le stelle sparse in un manto e la cometa brillante su in alto si ripete il piacevole incanto del presepe più santo: nel paesaggio sempre animato tutti giunti per il lieto evento alla capanna vanno a passo lento per adorare con tenero sentimento di Maria e Giuseppe Gesù appena nato, in pochi panni avvolto e sulla paglia adagiato. Alla scena ognuno ammirato ricorda l'Avvento e a quella sacra famiglia come fosse la propria commosso si stringe devoto. Flora Di Rienzo

  • L'incompiuto neogotico della Chiesa Madre

    Passeggiando per via Roma, nel punto in cui questa lascia il posto a via San Giovanni, è possibile intravedere una data scolpita nel muro perimetrale della Chiesa Madre, ad un'altezza di poco meno di 2,40 metri dal suolo. La scoperta è stata effettuata da Giovanni Fiadino, infaticabile camminatore capracottese, e ciò che leggerete qui è frutto di una prima analisi dell'arch. Alessandro Mendozzi. La data iscritta nella pietra è relativamente recente perché segna l'anno 1873 e lascia supporre che stia lì ad indicare un qualche tipo di restauro architettonico, anche se nei volumi riguardanti la Chiesa Madre pubblicati da Luigi Campanelli e Geremia Carugno non v'è traccia alcuna di lavori all'edificio sacro iniziati o terminati in quell'anno. Ma un osservatore attento può inoltre scorgere, soprattutto sul muro orientale - quello della cosiddetta Congrega - ciò che sembra essere un rivestimento, una vera e propria aggiunta estetica e, forse, pure statica e strutturale. Mi riferisco infatti all'accenno di archi a sesto acuto che sovrastano le porte del piano terra, che fino a molti decenni fa erano d'accesso a cantine e a botteghe attive e laboriose. Nel XIX secolo furono infatti di gran moda in tutta Europa due stili architettonici, soprattutto in ambito restaurativo: lo stile impero, portato in Italia dalla foga romantica di Napoleone, e il neogotico, quello del caso in evidenza. L'indiscutibile copertura muraria a est della Chiesa Madre - con la relativa iscrizione - dimostra che in sovrapposizione all'antica struttura della Congrega si era prevista un'aggiunta (circa 80 cm. di profondità) completa di archi a sesto acuto che oggi vediamo interrotta all'abbozzo del terzo arco, segno evidente che il restauro fu bloccato, forse per motivi estetici, forse per mancanza di fondi, forse per liti con l'impresario edile. Il muro orientale di quella che «certamente è la parrocchiale più vicina al Cielo», per oltre un secolo abbruttito da questo raffazzonato incompiuto neogotico, appare oggi in parte riempito dalla casa canonica più chiacchierata d'Italia, ma senza la quale Capracotta avrebbe perso per sempre i locali scolastici e il vocio dei suoi bimbi. L'evidente aggiunta neogotica al muro orientale della Chiesa Madre di Capracotta. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, La chiesa collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Soc. Tip. Molisana, Campobasso 1926; G. Carugno, La Chiesa Madre di Capracotta , San Giorgio, Agnone 1986; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; F. Valente, Luoghi antichi della Provincia di Isernia , Enne, Bari 2003.

  • Polvere di cantoria... su tela

    Penso che ogni giorno sia come una pesca miracolosa... (R. Zero) L'essere umano, la cui intelligenza va di pari passo con la sua imperfezione spesso restando anche due o tre passi indietro, esprime frequentemente un fenomeno inspiegabile se non addirittura arcano: manifestare scarsa considerazione per un proprio patrimonio culturale pur avendolo fruibile a pochi passi da casa e invece venerarlo e celebrarlo quando ormai lontano o andato perduto. Tale aspetto ha, tra l'altro, severamente colpito anche la valorizzazione dei pittori molisani barocchi: ai loro tempi stimati e apprezzati al punto di venire dai coevi equiparati ai grandi della pittura, mentre oggi quasi dimenticati o appannaggio di pochi cultori ed esperti. Che dire? Purtroppo il British Museum non ha sufficiente spazio neppure nei magazzini per accogliere le opere dei "nostri" pittori, per cui possiamo solo aspettare che l’intelligenza riesca con un colpo di rreni a sorpassare l’imperfezione e ridare dignità a tantissimi artisti molisani che hanno eccelso in tutti i campi dalla pittura alla musica. Artisti il cui codice genetico discende dai guerrieri che misero in ginocchio l’esercito romano ma che sono a noi estremenete più vicini quasi da considerarli dei trisavoli. Basta solo imparare ad osservare e non solo a guardare, ascoltare e non solo sentire: « Di strano – come diceva il celebre ed indimenticabile anatomopatologo prof. Antonio Ascenzi (1915-2000) – c'è solo la nostra ignoranza » . Avere poi due occhi e due orecchie ma una sola lingua dovrebbe indurci tutti a riflettere sul significato del numero di tali doni, invece di usare quest'ultima nel celebre esercizio "del mese di agosto" per parafrasare un nostro detto. In particolare sono rimasto affascinato dalla biografia e dalle opere figura di un nostro corregionale e, se avrete la pazienza di seguire i miei vaneggiamenti, promettendovi di farla breve, capirete da che parte voglio andare a parare... Paolo Gamba nasce a Ripabottoni (CB) nel 1712 e ivi concluderà il suo cammino nel 1782. Figlio di Caterina Di Vico e di Giovan Battista apprezzato decoratore e pittore a sua volta. Troviamo quest’ultimo al lavoro a Sulmona, Ripabottoni e Pescocostanzo. Pescocostanzo tralatro era anche la sede di provenienza degli artigiani Del Sole che realizzeranno gli stucchi della Chiesa Madre Collegiata di Capracotta. Paolo apprenderà dal padre i rudimenti dell'arte in cui si mostra estremamante dotato nonchè apprenderà la lavorazione del rame che gli tornerà utile nel suo soggiorno a Napoli. Il suo talento viene notato dal vescovo di Larino, Giovanni Andrea Tria (1726-1741), che lo invierà a perfezionarsi a Napoli presso la bottega del celebre Francesco Solimena (1657-1747) sostenendone anche le spese. Saranno poi mecenati di Paolo anche il successore del vescovo Tria, nipote ed omonimo (1742-1747) e i prelati successivi. Sappiamo poco del periodo napoletano (1731-1737) al punto che alcuni critici negano vi fosse mai stato, tuttavia il giovane Gamba verrà potentemente influenzato dallo stile del Solimena ma anche da quello dei precursori Luca Giordano (1634-1705) e Giovanni Lanfranco (1582-1647). Possiamo comunque aggiungere che il Solimena era stato personalmente a Ripabottoni dove infatti è conservata una sua opera. Tornato a Ripabottoni accentrerà la sua opera su temi prevalentemente religiosi che denotano un accurato studio delle Scritture. La sua presenza è attestata in molte località molisane: a Larino, nella stessa Ripabottoni (1750 e 1755), Montorio dei Frentani (1738 e 1745), S. Elia a Pianisi (1740), Campodipietra (1774), Colletorto (1741 e 1751) Morrone del Sannio, Fossalto (1758 e 1774), Casacalenda (1752), Agnone (1761 e 1771) Matrice (1779), ma lo troviamo anche in Abruzzo a Barrea, Sulmona, Fresagrandinara, Penne e in Puglia a Rodi Garganico e Cagnano Varano. Volutamente ometto di menzionare le opere anche per invitarvi ad una vostra personale e piacevole ricerca. La sua pennellata viene descritta come larga con tavolozza luminosa, la resa anatomica lievemente difettosa ma con interessanti effetti scenografici e prospettici e panneggi estremamante sfaccettati con figure maestose... Tenete bene a mente queste frasi! In particolare viene chiamato a Colletorto a realizzare una interessantissima Via Crucis nella Chiesa del Monastero i cui lavori di restauro erano in corso per volontà del nobile locale dei Marchesi di Rota (di cui Prospero Sanità, capracottese, ne era custode del palazzo, come menzionato dall'amico e ottimo ricercatore Francesco Mendozzi) e con il concorso del "Magnifico" Crescenzo Campanelli, ivi residente ma emigrato da Capracotta, e con il beneplacito del vescovo Tria. Nella chiesa era in costruzione anche un organo dei D'Onofrio di Caccavone. Ora, faccio un azzardo, colleghiamo un pochino di puntini: Crescenzo Campanelli era parente di Liborio Campanelli arciprete di Capracotta e probabile committente della costruzione dell'organo "Principalone" da parte dei D'Onofrio di Caccavone e Capracotta non era sconosciuta ai colletortesi. Il Gamba si è recato più volte ad Agnone proprio nel periodo in cui venivano probabilmente realizzate le opere presenti in abside nella Collegiata di Capracotta. L'Ultima Cena della chiesa di Capracotta, di cui abbiamo spesso parlato, dipinta sotto l'organo, ed attribuita alla scuola del Solimena, mostra delle caratteristiche pittoriche che, nella mia ignoranza, mi ricordano le descrizioni dello stile pittorico di Paolo Gamba senza contare che le "nuvole" presenti nei dipinti dal Gamba ad Agnone sono in modo impressionante simili alle nuvole del dipinto della chiesa di Capracotta, senza parlare poi dei panneggi degli apostoli e della luce vivida che pervade i quadri con una luminosità spiccata anche nelle scene in "ombra"... E se avessimo finalmente trovato l’autore della nostra Ultima Cena? Credo che le cose sicure in questo mondo siano solo le coincidenze... [L. Sciascia] Francesco Di Nardo

  • 28 luglio 1993: sei capracottesi sul Tetto d'Europa

    S. Sammarone, A. Conti, G. Di Tanna ed E. Paglione sulla vetta del Monte Bianco. Il Monte Bianco, coi suoi 4.810 metri di altitudine, è la più alta montagna italiana, nonché europea. La nascita ufficiale dell'alpinismo in quanto disciplina sportiva coincide proprio con la prima ascensione del Monte Bianco, avvenuta l'8 agosto 1786. Quel giorno di 239 anni fa, infatti, Jacques Balmat (24 anni, cercatore di cristalli) e Michel Gabriel Paccard, (29 anni, medico condotto), entrambi di Chamonix, raggiunsero la vetta dell'imponente gigante latteo. La prima ascensione italiana avvenne invece il 13 agosto 1863 per mano di tre guide di Courmayeur: Julien Grange, Adolphe Orset e Jean-Marie Perrod. Sapete invece chi fu il primo capracottese a scalare il Monte Bianco? Fu don Michelino Di Lorenzo a raggiungere il Tetto d'Europa, ma non è stato possibile intervistarlo poiché, da quando ha subito un grave incidente che gli è costato il femore, sta seguendo una lenta e faticosa riabilitazione. Il certificato di Erberto Paglione. Quella che voglio raccontare oggi è invece l'avventura dei sei capracottesi che mercoledì 28 luglio 1993 raggiunsero la vetta del Monte Bianco. Stiamo parlando di Angelo " Schulz " Conti, Giorgio Di Tanna, Pasqualino " Sapóne " Di Vito, Michele " re Miédeche " Notario, Erberto " Brilùcce " Paglione e Savino " r'Esattóre " Sammarone, un gruppo di amici che, tra la tarda giovinezza e la mezza età, avevano deciso di scalare le più impegnative cime italiane, dal Pizzo Bernina (4.050 m.) al Re delle Alpi. Era l'estate del 1993 quando, partiti da Capracotta, i sei raggiunsero Courmayeur, per tentare di guadagnare la vetta del Tetto d'Europa dal versante francese, probabilmente più facile della cosiddetta "via normale italiana". Una volta preso il Tram del Monte Bianco (TMB) - la ferrovia a cremagliera più alta di Francia che arriva ai 2.372 metri del Nid d'Aigle -, la comitiva approdò al Rifugio del Tête Rousse a 3.167 m s.l.m. Da lì, partiti nel primissimo pomeriggio, fu un gioco da ragazzi raggiungere il Rifugio del Goûter, situato alla ragguardevole altitudine di 3.385 m. Al Goûter i nostri trascorsero la notte, finché all'1:00 di mercoledì 28 luglio, i sei capracottesi - a gruppi di due, ogni gruppo accompagnato da una guida alpina - partirono alla volta della Capanna Vallot (4.362 m s.l.m.), considerato il più alto rifugio alpino francese (si pensi che il record italiano è detenuto dalla Capanna Regina Margherita coi suoi 4.554 m s.l.m.) e, da lì, alle 7:30, toccarono finalmente la cima del Monte Bianco a 4.810 m s.l.m. La cena al Rifugio del Goûter. Rimasti non più di un quarto d'ora in vetta, i nostri imboccarono la strada del ritorno, identica a quella dell'andata fino alla Capanna Vallot, da dove, superando numerosi crepacci e seracchi, raggiunsero la telecabina di Les Houches. A quel punto non restava che tornare a Capracotta, felici di aver conquistato una cima fondamentale per la storia dell'alpinismo, la più alta d'Italia, la più vicina al cielo d'Europa. Tuttavia, per capire quanto sia difficile e pericolosa un'avventura del genere, si pensi che il 2 agosto 1993 il Monte Bianco mieté 8 vittime: 3 italiani, 3 tedeschi e 2 francesi. Una valanga li travolse proprio lungo la "via normale francese", la stessa che i nostri avevano percorso appena cinque giorni prima. Per chi pratica l'alpinismo, il pericolo di morire è una possibilità non solo contemplata, ma ampiamente accettata. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: M. Ruggiero, Cade una valanga, morte sul Bianco , in «L'Unità», LXX:180, Roma, 3 agosto 1993.

  • Breve storia di Ysmen Pireci

    "Il villaggio senza nome", "Fshati pa emër" in albanese, questa raccolta di poesie di Ysmen Pireci ha una storia particolare, proprio come il suo autore. Infatti, ho conosciuto Ysmen nel 1993, allo sportello Anagrafe assistiti (servizio della Medicina di base) della Unità sanitaria locale di Agnone, dove a quel tempo ero addetto e dove egli era venuto ad iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale. Ovviamente, ai fini dell'iscrizione ero tenuto a chiedergli i suoi dati personali identificativi, tra cui la professione: «Attualmente faccio il pastore nella fattoria del notaio Michele Conti a Capracotta... ma al mio paese, in Kosovo, insegnavo Lettere in una scuola media». Chiunque, al posto mio, probabilmente, sarebbe stato curioso di saperne di più su questo giovane immigrato dal Kosovo, in possesso di un regolare permesso di soggiorno in Italia per motivi di lavoro (ma, poi, ho saputo, "esule" per motivi politici e patriottici). Lo accompagnava Michele Di Nucci, capracottese, il quale più che suo capo massaro è stato per Ysmen un autentico fratello maggiore. Michele Di nucci... una persona veramente gentile e cordiale, che è stato e continua ad essere "fratello maggiore" ed amico per tanti lavoratori immigrati della zona di Capracotta dai Balcani e da altri Paesi dell'Est europeo. Lo voglio ringraziare pure io per tanta umanità! Ysmen Pireci è nato il 28 maggio 1967 a Struzhie, un piccolo villaggio del Kosovo (nella circoscrizione di Prizren). Allora il Kosovo era provincia della "Grande Serbia" ma con il 98% di abitanti ad etnia albanese. Il regime serbo non è mai stato tenero con gli Albanesi del Kosovo: ha cercato di "sterilizzare" la loro cultura, di "neutralizzare" la loro identità, di "reprimere" barbaramente e con la pulizia etnica ogni tentativo di autoaffermazione... fino a giungere a quella guerra del Kosovo del marzo-giugno 1999 che la cosiddetta "Comunità internazionale" (leggi N.A.T.O., organizzazione militare tra Stati europei e americani del Nord Atlantico) ha "dovuto" fare contro la Serbia per evitare un autentico genocidio. Purtroppo, dopo il 1999 le diatribe tra Albanesi e Serbi sono continuate nel Kosovo e gli stessi Albanesi si sono macchiati di atroci delitti verso le persone e di irrimediabili distruzioni (specialmente a danno di antichissime chiese della religione ortodossa, che avevano pure un assai rilevante valore storico ed artistico). Durante la dominazione serba (prima della guerra del 1999) non c'è stato giovane kosovaro che non sia stato un patriota indipendentista... così pure Ysmen, il quale è stato sempre sotto stretta osservazione della polizia serba, per la particolare sensibilità umana e culturale, per l'attività clandestina a favore del Kosovo indipendente. Fortunatamente e fortunosamente è riuscito a sfuggire ad un rastrellamento serbo, che ha condotto in prigione e alle torture alcuni suoi compagni di lotta. Con l'aiuto di parenti ed amici è riuscito a rifugiarsi in Italia: ha lavorato per un brevissimo periodo nelle Marche come manovale e poi è giunto a Capracotta, in Molise, dove dal 1993 al 1997 per quattro anni ha fatto il pastore delle greggi del notaio Conti. Assieme ad altri pastori balcanici è stato sistemato nella casetta colonica, accanto ai capannoni delle pecore, in contrada Guastra, località posta su un costone che guarda la vallata del fiume Verrino (a circa 1.300 metri di altitudine), distante da Capracotta circa 4 km e da Agnone 12 km: un luogo isolato rifornito di energia elettrica ma senza telefono o altri conforti. Un clima (specie quello invernale) piuttosto duro. Ma Ysmen si è adattato molto bene all'inusitato lavoro e al clima (peraltro poco dissimile dalle sue montagne kosovare). Quando Ysmen è giunto in Italia era già sposato con Murvete Muja (nata a Prizren il 26 ottobre 1967), che aveva lasciato in patria assieme alla primogenita Biondina (nata a Prizren il 27 gennaio 1994), il cui nome è un chiaro e dichiarato omaggio all'Italia (come Ysmen stesso ama dire). Dopo quasi due anni di permanenza a Capracotta, Ysmen è stato raggiunto da entrambe (moglie e figlia), occupando l'alloggio posto al primo piano della casa colonica. Ad Agnone, poi, il 17 settembre 1995 è nata la sua seconda figlia Albana, il cui nome è dedicato all'amatissima Patria albanese. Crescendo le figlie, Ysmen e la moglie s'accorgevano che non potevano restare isolati in mezzo alle montagne: c'era l'esigenza di farle frequentare la scuola materna e la necessità di farle stare insieme ad altri coetanei. Fu così che decisero di lasciare Capracotta: hanno trascorso alcuni mesi nella vicina cittadina di Roccaraso, nel Parco nazionale d'Abruzzo, dove Ysmen ha lavorato nella cucina di un ristorante. Poi, il trasferimento definitivo in Medolago, un piccolo paese della Lombardia, dove, nella provincia di Bergamo, li aspettavano parenti stretti e altri compatrioti e dove sta svolgendo i più svariati lavori in attesa di quello migliore e più duraturo. In terra di Lombardia, a Ponte San Pietro (BG) il 3 luglio 2003 è nato il terzogenito, Ilir (il cui nome è un ulteriore omaggio all'Illiria, nome che anticamente stava ad indicare quella parte della regione balcanica che si affaccia sul mare Adriatico, compreso l'attuale territorio del Kosovo). Quasi sicuramente la Lombardia sarà residenza definitiva per Ysmen e la propria famiglia e base d'azione e collegamento a favore dell'amato Kosovo. Infatti, oltre a scrivere su giornali della resistenza kosovara all'estero (come "Diaspora"), Ysmen cerca di coordinare interventi e d'inviare in Kosovo aiuti d'ogni genere che riesce a procurare, assieme ai compatrioti del gruppo italiano. Domenico Lanciano Fonte: Y. Pireci, Il villaggio senza nome , Università dei Popoli, Badolato 2005.

  • Don Sebastiano Ferrelli

    Don Sebastiano Ferrelli (1905-1999). Non era malato, era sazio di giorni e desideroso di andare incontro al Padre, in questo anno a Lui dedicato. Si lamentava spesso dicendo che il Signore si era dimenticato di chiamarlo: il 4 luglio, domenica, giorno del Signore, il Padre lo chiama per accoglierlo tra le sue braccia misericordiose, proprio alle soglie del terzo millennio e alla vigilia del "grande anno giubilare". Lucido fino all'ultimo momento, voleva essere informato di tutte le attività che si programmavano in comunità per seguirle con la preghiera e il sacrificio. Si era allettato da circa quindici giorni e questa situazione lo faceva soffrire, perché voleva essere autonomo per leggere e fare piccoli lavoretti nella sua camera. La notte del 4 luglio ha difficoltà a respirare: il suo respiro sembra un rantolo. Viene chiamato subito il medico di turno che diagnostica una bronchite e gli pratica una iniezione. Verso l'ora di pranzo sta un po' meglio, mangia anche un gelato con gusto. Verso le ore diciotto la situazione precipita improvvisamente. L'intervento del medico si rivela inutile e nel giro di pochi minuti, tranquillamente e serenamente si consegna nelle mani del Padre. Era pronto per questo incontro: riceveva regolarmente i sacramenti dell'eucarestia e della riconciliazione. Già da qualche anno aveva ricevuto, dietro sua precisa richiesta, l'unzione degli infermi. Don Sebastiano nacque il 30 ottobre 1905 da Filippo Ferrelli e Vincenza Carnevale, una parente di quattro fratelli sacerdoti salesiani, fra cui don Giovanni che fa parte della nostra comunità. I1 paese di nascita è Capracotta, un centro dell'Alto Molise in provincia di Isernia, a 1.421 m sul livello del mare. Visse un'infanzia serena, anche se negli ultimi anni di frequenza della scuola elementare, respirò il clima della prima guerra mondiale con gli uomini validi tutti al fronte sulle Alpi e con la mamma rimasta sola in paese a fronteggiare la difficile situazione prima della guerra e poi del dopoguerra. Nel dopoguerra, si diffuse in Italia l'epidemia della cosiddetta spagnola che colpì gravemente la famiglia Ferrelli, perché privò Sebastiano, appena adolescente, della presenza e del sostegno della mamma Vincenza. La mamma aveva un fratello professore a Torino, docente nella real Casa dei Savoia. Il prof. Pasquale Carnevale aveva conosciuto a Torino i salesiani di Don Bosco già dai primi anni del secolo, quando la figura di Don Bosco era scomparsa in Torino da appena 12 anni, ma ancora impregnava dello slancio e della spiritualità delle origini i suoi figli. Amico del beato Filippo Rinaldi, secondo successore di san Giovanni Bosco, era stato lui a far conoscere ai primi del '900 il nome di Don Bosco nel paese di origine, Capracotta, e fu lui ad interessarsi affinché il nipote, rimasto senza la mamma, proseguisse gli studi, frequentando il Ginnasio Salesiano di Genzano presso Roma. Nell'ambiente salesiano si sviluppò e maturò la vocazione salesiana di Sebastiano, che entrato nella scuola di Genzano il 16/11/1919 vi rimase tre anni, completandovi i 5 anni di ginnasio, che allora comprendevano gli attuali tre anni di scuola media e il biennio di scuola superiore. Al termine del Ginnasio, Sebastiano, l'11 settembre 1922, iniziò l'anno di noviziato per divenire salesiano. Fece l'anno di noviziato nella stessa Genzano, presso Roma. Il 21 novembre 1922, all'età di 17 anni, indossava l'abito talare, consegnatogli da uno tra i più eminenti salesiani del tempo, il cardinal Cagliero, che era stato tra i primi giovani a subire l'influsso formativo di san Giovanni Bosco. Trascorso l'anno di noviziato, emise la prima professione religiosa, e frequentò il corso di Filosofia, cioè due anni di studi superiori, sempre a Genzano. Terminatili nel 1925, fu inviato in Umbria nella casa di Trevi (un ginnasio salesiano) in qualità di assistente dei giovani e vi rimase per tre anni, fino all'anno scolastico 1927-28. A Trevi nel 1926 aveva emesso la II professione religiosa, cioè per altri tre anni. Nei successivi quattro anni, dal 1928 al 1932, attese agli studi teologici, a Frascati, il centro più importante dei Castelli Romani. Nel 1929 vi emise la professione perpetua e fu ordinato sacerdote a Genzano il 13 marzo 1932. Per i successivi tre anni, dal 1932 al 1935, lo troviamo in Sardegna in qualità di prefetto e insegnante. Egli ricordava quegli anni con profonda nostalgia. Per lanno scolastico 1935-36 fu all'Aquila come insegnante e consigliere, carica che ricoprì con profondo senso di responsabilità e contrassegnò l'ulteriore sviluppo della sua attività formativa, con gli stessi incarichi, a Tolentino (1936-37). Per i due anni successi vi risiedette in Ancona come insegnante di Religione presso le scuole pubbliche e ancora altri due anni a Terni, cioè per gli anni scolastici 1939-40 e 1940-41, come consigliere scolastico del locale pensionato studentesco. Alla fine del I anno della II guerra mondiale approdò nella casa di Macerata, da dove non si sarebbe più mosso, e vi sviluppò ulteriormente la sua attività di consigliere scolastico e di insegnante di matematica. A Macerata visse gli ultimi anni di guerra e quando la scuola dovette essere trasferita a Loro Piceno, perché Macerata era ormai divenuta obiettivo dei bombardieri alleati, sfollò anche lui, senza rinunciare, sebbene in situazione di emergenza, alla sua attività di docente. A partire al 1941 a tutt'oggi, e cioè per ben 58 anni, la vita di don Sebastiano coincide con la vita stessa dell'Opera Salesiana di Macerata, che, fondata da Don Rua dopo trattative iniziate dallo stesso Don Bosco, nel secondo dopoguerra visse profonde trasformazioni nella struttura edilizia e nelle attività educative in essa sviluppate. Ai tempi di Don Rua, la casa era stata fondata per la formazione di artigiani e anche per questo dedicata a san Giuseppe. Quando 68 anni or sono vi giunse don Ferrelli, la scuola per artigiani era scomparsa, trasformata in internato per studenti di ginnasio: vi affluivano giovani di tutto il litorale adriatico centro-meridionale, dalle Marche all'Abruzzo alla Puglia. Don Ferrelli, dopo la parentesi della Seconda guerra mondiale e il relativo sfollamento della comunità da Macerata, vide le ulteriori trasformazioni dell'Opera: al ginnasio si aggiunse il liceo classico, poi il liceo scientifico e quindi, cessato l'internato, il liceo linguistico. Don Ferrelli, pur ormai estromesso dall'insegnamento attivo e relegato in camera per ragioni di salute, continuò ad interessarsi con passione delle trasformazioni dell'Opera. Purtroppo, già dal 1962, aveva dovuto cessare l'insegnamento perché colpito da totale sordità, non a causa di una patologia dell'organo dell'udito, ma perché una cura di streptomicina gli lese irreparabilmente i centri nervosi dell'udito. La streptomicina era stata appena inventata e non se ne conoscevano ancora i pericolosi effetti collaterali, se non si stava più che attenti al dosaggio. Soffrì molto per aver dovuto abbandonare la scuola, ma continuò ad essere modello in comunità per la regolare partecipazione ai momenti di vita religiosa comunitaria. Negli ultimi anni di vita fu anche colpito da una grave forma di progressiva artrosi deformante, che un po' per volta lo relegò in camera, senza poter più partecipare alla vita di comunità. Gli unici spostamenti che ancora poteva effettuare erano quelli tra il letto e la scrivania. Mi aveva espresso più volte il desiderio di tornare alla casa del Padre per contemplare il suo volto. E se ne è andato in punto di piedi, cosciente e sereno, munito dal conforto di quei misteri di cui era stato solerte dispensatore. Era molto legato agli affetti familiari e ultimamente in particolare alla sorella Maria, alla sig.ra Angelina Carnevale, consorte del gen. Carnevale, cugino di don Sebastiano, come pure alla nipote Benedetta, presenti a Macerata il giorno delle esequie. Gli ex-allievi ricordano con particolare simpatia don Sebastiano. Affermano che era un insegnante esigente, talvolta anche troppo severo. Nonostante tutto si trattava di una severità che era in vista del bene degli alunni. Così per es. lo ricorda l'on. Adriano Ciaffi, che è stato suo allievo: « Se ne è andato in silenzio come era vissuto: eppure era ricco di tanta umanità e sapienza cristiana. Lo porto nel mio cuore tra i migliori ricordi. Concludo con la trascrizione del pensiero da lui posto a chiusura di un breve testamento spirituale: « Chiedo scusa se qualche volta sono stato causa di poca edificazione ai confratelli con la mia condotta. I mali da cui sono stato afflitto da vari anni hanno influito non poco ad isolarmi dagli altri, a rendermi talvolta impaziente e specialmente a pormi in una situazione di forzata impotenza al lavoro. Solo chi è colpito dalla sordità, può conoscere la problematica di questa menomazione. "La società normale non capisce e difficilmente capirà la problematica insita con la sordità" (da una rivista medica). Arrivederci in Paradiso » . Mario Bicego Fonte: Ispettoria Salesiana Adriatica, Don Sebastiano Ferrelli , Macerata 1999.

  • Ricordo di James Senese a Capracotta

    James Senese in concerto a Capracotta (foto: C. Di Bucci). Il 13 agosto 2023 ho trascorso una giornata con James Senese ed il suo staff in occasione del meraviglioso concerto a Capracotta - per il quale ringrazio pubblicamente Pippo Venditti, che negli ultimi anni sta risollevando le sorti musicali del nostro paese. Ricordo che, arrivato a Capracotta con fin troppa leggerezza nel vestire, all'ora del tramonto James cominciò a sentire freddo, per cui gli donai un cardigan blu di lana confezionato a mano da mia zia e che egli portò con sé a Napoli a fine concerto. È quello che vedete nelle splendide foto realizzate quella sera da Cesare Di Bucci. Mia moglie, d'altronde, organizzò per Senese e per i suoi musicisti un catering di altissimo livello, con prodotti perlopiù capracottesi. Figlio della guerra - come racconta Curzio Malaparte ne "La pelle" - James Senese è stato un sassofonista di raro talento e di ingente creatività. I più lo conoscono per aver collaborato con Pino Daniele (in realtà è lui ad aver scoperto Daniele), ma più di tutto James è stato il frontman di band mitologiche, almeno per me che sono un grande appassionato di rock progressivo italiano. Prima con gli Showmen e poi con i Napoli Centrale, Senese ha scritto pagine indimenticabili della musica cosiddetta "leggera". Che dire, poi, delle sua collaborazioni con veri e propri mostri sacri del jazz internazionale quali Ornette Coleman o Gil Evans? Oggi muore a 80 anni Gaetano Senese, musicista impareggiabile, personaggio eccezionale, napoletano verace, italiano nero, ché gli italiani non li si riconosce dal colore della pelle ma dal genio. Francesco Mendozzi

  • Suor Rosa de Baccariis (15 giugno 1780)

    Il manoscritto di suor Rosa Baccari. La storia è quella della famiglia Baccari che va molto indietro nel tempo. Arriva a Capracotta verso la fine del 1400. Successivamente (a seguito di gravi contrasti tra i Baccari e i Di Maio) un ramo della stessa si trasferì a Bonefro e altro ramo, quello dei Di Maio che con Giuseppe (1660-1708) sposa Angela Baccaro nel 1684, a Deliceto (FG). La presenza dei Baccari a Bonefro risale ai primi anni del 1600 con tale Matteo Baccari. Quanto a Rosa de Baccariis (spesso il cognome Baccari ha subito mutazioni anche per distinguerlo da altri rami), la suora che ha effettuato la donazione di cui al documento allegato in favore del convento di Agnone, ci troviamo all'epoca di Nunzio Baccari (1666-1738), dapprima vescovo di Bojano nominato da Vincenzo Maria Orsini diventato papa Benedetto XIII, e poi vicegerente di Roma nominato da papa Clemente XII. Nello stesso periodo un ramo Baccari si trasferisce pure ad Agnone. Proprio qui sono presenti anche le due figlie di Giuseppe Di Maio che, dopo la morte della moglie, le fa rinchiudere nel monastero di Santa Chiara. L'unico elemento che può dare indicazione circa il ramo Baccari a cui appartiene suor Rosa è dato dallo stemma. I Baccari di Bonefro e di Capracotta hanno in comune l'immagine del toro passante al naturale. Lo stemma di Bonefro ha tre stelle, quello di Capracotta ne ha una sola a punte plurime. Bonefro ha nello stemma anche le bacche e il colore azzurro. Suor Rosa de Baccariis dovrebbe appartenere dunque al ramo di Capracotta. Bruno Zappone

  • Filippini, oratoriani: una pagina di storia religiosa

    San Filippo Neri (1515-1959). Personalità complessa, alla ricerca costante di una chiara « convivenza ben armoniosa » tra il concreto dell’esistenza e la spiritualità cristiana, Filippo Neri (1515-1595) ha dominato l'epoca della Controriforma nei suoi aspetti religiosi e culturali. Popolarissimo a Roma dove si era trasferito ancora molto giovane, dalla natia Firenze. Suo padre era notaio. Semplice e sereno, burlone e faceto, era di un ascetismo integrale e coerente, come dimostrò col suo attivismo pastorale. Fattosi carico, non solo a parole, della precaria situazione di tanti giovani allo sbando in una Roma cinquecentesca piena di contraddizioni, si impegnò totalmente al servizio di Dio e dei fratelli, specie se giovani. È suo l'aforisma: "State fermi, se potete", con il quale introduceva il discorso con i bambini. La sua santità si affinava continuamente nella quotidiana concretezza dell’esistenza con l'aspirazione alla vita cristiana perfetta mediante l'esercizio della carità. Il suo carisma risultò un punto di riferimento negli ambienti religiosi di Roma ed ebbe seguaci in ogni campo: penitenti, sacerdoti, figli spirituali, giovani senza famiglia. La sua opera perseverante sfociò nell'organizzazione degli oratori, istituzioni che coniugavano la carità operosa con l’attenzione specifica ai giovani ponendo così le basi della Congregazione dell'Oratorio. Questa, però, non era da intendere come un ordine religioso in senso tradizionale con struttura gerarchica e nel quale gli adepti emettono voti di obbedienza, di povertà e castità. L'adesione, non perpetua, permetteva di uscirne quando non ci si riconosceva più nelle linee guida. La Congregazione, inoltre, va detto, non si proponeva solo di esaurire al suo interno tutto il bisogno di spiritualità degli aderenti. Il fondatore trovava del buono, del concreto in seno ad ogni "regola" monastica e ne accettava le motivazioni, le giustificazioni. Gli oratoriani si diffusero in tutta Italia e nelle loro chiese favorirono la fondazione di associazioni laiche e confraternite affiliate agli ordini religiosi diversi, quali i trinitari, i carmelitani ed altri. In Roma, all'epoca, operavano altri campioni della spiritualità operosa, la stessa che faceva brillare l'opera del Neri, in particolare il laico cappuccino fra' Felice da Cantalice. Quando i due si incontravano i bambini che li attorniavano si fondevano in un solo stuolo e spesso capitava che i due fossero oggetto di tiri birboni. In Agnone, gli oratoriani, detti anche filippini, si stabilirono nella Chiesa dell'Annunziata alla fine del '500. Nel 1630, come riportato su due lapidi di marmo poste sotto le acquasantiere, si adoperavano per creare luoghi di sepoltura all'interno della chiesa, destinati ai confratelli e consorelle del Carmelo. All'incirca dalla stessa epoca iniziarono ad officiare anche nella attigua chiesa della SS. Trinità dove operava la Confraternita omonima. I due edifici sacri e i locali del convento finirono poi con l'assumere l’aspetto continuo di unico blocco che è tutt’ora conservato. Le manifestazioni di culto si tenevano all'Annunziata dove si venerava l'immagine del santo in abiti da celebrante, un classico dell’iconografia filippina. Il 26 maggio, giorno della festa, si svolgeva una processione caratteristica con la sacra rappresentazione dell'incontro fra le immagini dei due santi, Filippo e Felice da Cantalice. Come accade in queste occasioni, il rituale col tempo si modifica e, ad interrogare gli anziani, si scoprono modalità differenti. Il luogo dell'incontro può variare, ma il lancio delle vainèlle , cioè i semi di carrube, è sempre presente. In pratica, all'incontro delle due immagini i bambini lanciavano sulle statue manciate e manciate di vainelle, come accadeva dal vivo per le strade di Roma. I ricordi degli anziani sono discordanti sul luogo del percorso processionale dove avveniva l'incontro. Alcuni avevano sentito parlare di una normale processione in onore di san Filippo che si effettuava fino alla chiesa dei cappuccini dove, per l’occasione, la statua di san Felice veniva esposta all'esterno. Successivamente, a seguito di modifica del percorso, l'immagine del cappuccino veniva traslata, con proprio corteo processionale, e l'incontro avveniva a S. Giovanni o addirittura al Borgo. La sacre rappresentazione dovette, in seguito, dar luogo ad abusi tanto che il clero non partecipò più alla processione e le due immagini procedevano da sole, accompagnate da nugoli di bambini. Nel '700 agli oratoriani subentrarono i caracciolini e l'immagine, rimossa dall'Annunziata, fu traslata a S. Biase dove il culto continuò nelle forme che abbiamo ricordato. E la scelta di tale chiesa non è da ritenersi insolita in quanto, all'epoca, la SS. Annunziata rientrava nella giurisdizione di quella parrocchia. In tempi più recenti si instaurò un altro uso, a devozione della devota famiglia Cerimele. Il giorno 26 maggio venivano distribuite scodelle di "pasta e fagioli" e questa distribuzione assunse carattere devozionale per cui prima di assaggiarne si recitavano opportune, appropriate, confacenti preghiere. Tutto questo accadeva in Agnone. Il 26 maggio 1595, all'età di ottant'anni, dopo lunga e dolorosa malattia, Filippo Neri passò a miglior vita. Fu canonizzato nel 1622. Il messaggio di fondo che ci ha lasciato si può sintetizzare nella certezza che il raggiungimento della santità, attraverso l'accettazione gioiosa delle difficoltà esistenziali e delle sofferenze di ogni giorno, è proponibile a tutti e non solo ai predestinati. Alessandro Delli Quadri

  • Amarcord: "L'altalena dei ricordi" di Aldo Trotta

    Questo libro, molto articolato, pieno di citazioni, colto, intriso di fede e di religiosità, di riflessioni sulla vecchiaia, la malinconia, la solitudine e la nostalgia, è stato scritto da Aldo Trotta, medico, persona che oltre al suo grande amore per sua moglie Anna, si potrebbe definire anche malato di "capracottesità". Aldo parla molto anche di sua madre, Cesarina la 'Ammara , ostetrica a Capracotta, di suo fratello Carlo, di amici e parenti, dello spazzaneve donato a Capracotta da paesani emigrati nelle Americhe. Aldo racconta anche del devastante terremoto dell'Aquila, dove lui e la sua famiglia si trovavano in quella circostanza, perché Aldo è stato medico anche presso l'ospedale dell'Aquila. Fatte le dovute e rispettose differenze, io, leggendo il libro, vi ho notato qualche analogia tra la storia di Aldo ed Anna, e la mia storia con Antonia, partendo dal ritrovamento delle lettere scambiate durante i rispettivi fidanzamenti, dal cambio di molte residenze e sedi di lavoro, dalle "nozze d'oro" mancate, dalle malattie neurologiche e degenerative che hanno colpito sia Anna che Antonia, entrambe insegnanti. Aldo parla anche di nostalgia e solitudine! Io, in questi ultimi dieci anni di solitudine, ho imparato ad "ascoltare il silenzio". Per quello che Aldo scrive sulla vecchiaia, invito i lettori a leggere l'interessante analisi del problema che lui fa nel suoi libro, partendo dalle parole di Claudio Baglioni nella sua canzone "I vecchi", per arrivare, passando per il detto popolare " Sié 'ccisa la vecchiaia! ", al libro di papa Francesco "La lunga vita". Il giorno dopo, il 26 luglio 2024, festa di sant'Anna, si è tenuta, nella bella ed utile biblioteca parrocchiale voluta da don Elio, in collaborazione con volontari paesani, e realizzata nelle ex carceri di Capracotta, la presentazione del libro "La nonna di Dio", ad opera dell'autore Franco Pasquale di Chieti, alla presenza di parecchi concittadini che, con l'occasione, hanno visitato ed apprezzato la nuova e ricca biblioteca parrocchiale. Mi sono sentito gratificato perché, visitando gli scaffali pieni di libri, ho rivisto anche quelli che, assieme ai figli, donammo alla biblioteca tramite Daniele Di Nucci, il factotum, dopo aver venduto casa nostra a Roma. Alla fine della cerimonia, ho salutato Aldo Trotta, che era presente, ci siamo scambiati poche parole di auguri per tutte le Anna, come sua moglie e mia madre, che si chiamava Anna pure lei... Chiedo scusa agli autori dei libri esaminati, ai loro parenti e ai lettori, di questo mio "Amarcord" realizzato in forma artigianale, manoscritto da me con grafia condizionata dalle cataratte. Per saperne di più bisognerebbe leggerlo! Tonino Serafini

  • Giovanni Pollice riceve la Medaglia "Hans Böckler"

    Un momento del conferimento della medaglia. In occasione del 70° anniversario dell'accordo sul reclutamento di manodopera tra la Germania e l'Italia, la Confederazione dei Sindacati Tedeschi (DGB) ha organizzato una cerimonia svoltasi oggi a Berlino durante la quale è stata conferita a Giovanni Pollice la Medaglia Hans Böckler. Si tratta della più alta onorificenza conferita dai sindacati tedeschi che Pollice ha ricevuto per il suo decennale straordinario impegno sindacale. In qualità di presidente di lunga data dell'associazione sindacale contro il razzismo, la xenofobia e l'estemismo di destra "Non toccare il mio compagno / La Mano Gialla" Egli si è sempre battuto per la diversità e contro il razzismo. Durante la cerimonia di premiazione, ha sottolineato il suo impegno per la convivenza democratica alla luce dello spostamento politico a destra: "La democrazia deve essere difesa ogni giorno di nuovo". Pollice stesso è figlio di lavoratori migranti. All'età di 12 anni, è arrivato nella Germania meridionale dal Comune montano di Capracotta, Regione Molise, per raggiungere il padre. Dopo aver frequentato le scuole, ha fatto la formazione professionale e conseguito il diploma di congegnatore meccanico presso una cartiera. Dopo la formazione iniziò ad impegnarsi, prima come rappresentante dei Giovanni, poi come membro del Consiglio aziendale e successivamente nei sindacati con incarichi dirigenziali: «I lavoratori stranieri subivano molte ingiustizie. Volevo fare qualcosa al riguardo e aiutare le persone», spiega la motivazione alla base del suo continuo impegno sindacale per una società basata sulla solidarietà.

  • Voglia matta di nuciéglie

    Fiera capracottese di inizio '900. Nel lontano 1962 avevo 7 anni, la mia era una famiglia contadina che viveva della vendita del latte e di qualche vitello, tenendo presente che all'epoca non avevamo più di 6-8 capi di bestiame. In poche parole, in casa mia giravano pochi soldi, anzi pochissimi, perché appena si vendeva un vitello si doveva saldare il debito fatto alla Cooperativa o da Giorgetto per gli alimentari, dal macellaio e nei vari altri negozi: gli acquisti a quei tempi si facevano tutti a debito, con la lebrètta (aveva la copertina nera). Arrivò il giorno di san Giovanni, ricordo benissimo che c'erano in quel periodo i Mondiali di calcio del Cile '62 che noi bambini andavamo a guardare allo Sci Club. In quel giorno, oltre ai festeggiamenti religiosi, arrivarono i barroccini dei nucellieàre con noccioline, lupini e quant'altro. Mi venne una voglia matta di mangiare le noccioline, per cui andai a chiedere i soldi a mia mamma Elisa. Costavano 100 lire. Quella povera donna non aveva nemmeno 5 lire, re pòrtazecchìne era completamente vuoto. Io cominciai a fare capricci, a piangere, a gettarmi a terra, tanta era la voglia de re nuciéglie . La misi letteralmente "in croce" la mia mamma, tant'è che cominciò a rovistare nei cassetti finché non trovò una banconota 100 lire fuori corso, e forse nemmeno lei sapeva che lo era. Tutto contento corsi in piazza, già pregustando i miei nuciéglie . Andai dal nucellàre chiedendo una busta de nuciéglie e dandogli le 100 lire; egli si accorse che erano fuori corso e mi disse: – Uagli ó, passa da arrète ca te diénghe re nuciéglie... Mi affibbiò ne zambat ó ne nel sedere che me lo ricordo ancora oggi. Piangente e umiliato da quel gesto, tornai a casa, rimuginandoci su per parecchio tempo. E ancora adesso ripenso alla mia infanzia vissuta in ristrettezze, a come gli adulti trattavano i bambini. C'era parecchia ignoranza e poca sensibilità verso di essi da parte di alcuni adulti, anche di quelli che avrebbero dovuto essere gli educatori: i maestri, insomma, non sempre si dimostravano tali. Michele Sozio

  • Mauthausen, 18 febbraio 1918

    Michele Daniele (1879-1957). Un soldato che pare uno spettro ambulante, tendendo le ossute mani, mi avvicina e ripete con un fil di voce: – Sono della sua provincia, di Monteroduni, mi sento morire, mi faccia la carità di prendersi cura di me!... Lo guardo e, come atterrito, fo un passo indietro, poiché ricevo l'impressione che si ha dello scheletro a cui sia attaccata della pelle cerea. Prendo le sue generalità: Faralli Loreto del 7° artiglieria fortezza. Dispongo che sia subito inviato all'ospedale, appena vi sarà posto, ed includo il suo nome nell'elenco degli «invalidi» più gravi, con la speranza di farlo ritornare a riabbracciare i suoi nel bel paesello del mio Molise. Ma farò a tempo? Con lui vi è una vera squadra, tutti della mia provincia, in maggioranza dei paesi limitrofi alla mia Agnone; Carovilli, Capracotta, Castel Verrino, Pietrabbondante. Tutti mi raccomandano e tutti mi raccontano i loro guai. Alcuni mi dicono di essere affetti da malattie croniche, altri di avere disturbi e disagi familiari, altri, mostrandomi il piastrino di alluminio attaccato al berretto, su cui è inciso il numero di matricola, accampano, quale miglior motivo di rimpatrio, la loro anzianità in prigionia, vale a dire sofferenze patite in più. Ho una parola di conforto e di speranza per tutti, cercando di far capire che la mia potenza è molto, molto limitata, affinché non si facciano troppe illusioni. E dicendo di mettermi a loro completa disposizione per quel che posso e che è in me, mi allontano, quando uno di essi mi raggiunge e mi offre una copia della lettera che una vera madra italiana, la signora D. S. di San Felice Slavo, scrisse al proprio figlio Michele, disertore, in data 8 maggio 1916. È una lettera che, capitata ed aperta per errore, in questo campo ha fatto epoca perché in essa sono scolpiti il cuore e l'amor patrio delle nostre pure donne. La leggo. Caro figlio, Ti scrissi una lettera fin dal passato mese, rammaricandomi con te dell'atto vigliacco che hai commesso col darti disertore, e dalle tue risposte mi accorgo che non fai cenno a quanto ti scrissi. Torno a ripeterlo, perché il cuore mi sanguina ancora dal dolore per la tua condanna alla fucilazione, ma, se da una parte mi ha cagionato immenso dispiacere perché il mio amore di madre mi trascina, dall'altra vedo che è stato un castigo ben meritato, pagando così meritatamente quanto, da vigliaccio, hai commesso. Caro figlio, non so come sei stato trascinato a commettere un simile atto! Hai dato onta alla nostra famiglia che si vantava di avere parecchi figli a servire la Patria, hai disonorato il tuo Paese che giustamente non ti riconosce più per suo concittadino! Oh! Quale conforto avrei io avuto, e mi sarei rassegnata, se ti avessi saputo morto sul campo di battaglia, anziché sentirti dare volontariamente al nemico! Ti scongiuro, figlio, se caso mai credi che il processo a tuo carico sia stato male eseguito, ti scongiuro di fare una domanda di revisione, o, nella peggiore ipotesi, se tu sai di essere colpevole, di chiedere grazia al nostro Gran Sovrano, il quale, senza dubbio, anche nelle amarezze della guerra, potrò rivolgerti uno sguardo di compassione. Ciò è quanto ho creduto dirti perché il decoro della famiglia me lo imponeva. Ti prego di darmi risposta e di farmi sapere come le cose stanno. Con le lagrime agli occhi, ti abbraccio. Tua madre Marianna. Che lettera! Oh, se la leggessero non i prigionieri, ma i soldati al fronte! Oh, benedetta, benedetta quella mano che l'ha scritta! E, senza perder tempo, la mostro ad un ufficiale austriaco, che parla italiano, ed a due fratelli irredenti che fan servizio nel campo, e tutti e tre rimangono sorpresi ed ammirati. Domando, poi se quel disertore si trovi qui, per potergli parlare, ma mi si risponde che è altrove perché i disertori sono tenuti in un campo a parte: Theresienstadt, ove hanno il più spietato trattamento che si possa immaginare perché si chiedono loro informazioni, notizie e schiarimenti sulle nostre truppe, che essi non sanno dare. Ben meritato. La lettera capitò qui per isbaglio d'indirizzo e fu messa in circolazione per il nobile patriottismo che l'ispira. Michele Daniele Fonte: M. Daniele, Calvario di guerra. Diario di prigionia in Austria , Alpes, Milano 1932.

  • Yemen, Cina e ritorno

    Ore 10:35. La porta del Bar dei Pini si spalancò con uno schianto. Entrò in scena la lady che aveva ceduto alla proposta di Piovaccari. Ornella, occhialoni scuri, tailleur sabbia, borsa rigida. Capelli tirati su male, rossetto mezzo sbavato, sguardo stravolto. Sembrava una che si era vestita in quattro minuti dopo una notte selvaggia. A stento salutò. Si piazzò al bancone. Bartolomeo le versò dell'acqua ma lei, almeno in un primo momento, non disse nulla. Poi sbottò... «Sapete dov'ero stamattina? In questura. Passaporto urgente. L'agente sbuffava, la foto tessera è venuta con gli occhi chiusi, quella dei timbri ci ha messo venti minuti per trovare l'inchiostro. Alla fine me l'hanno fatto. Un miracolo. Ma tanto non sono più partita». Silenzio. In fondo al locale, Fabrizio, il fonico, sorseggiava il suo latte di mandorla con una cannuccia fucsia. Indossava un basco verde pistacchio, un maglioncino rosso e blu scivolato su una spalla, pantaloni senape, scarpe lucide color bordeaux. Un orecchino a piuma gli penzolava da un orecchio. Stava scrivendo qualche appunto su un blocco nero, usando una penna stilografica rococò. «Cara... almeno le ha detto se si volava in business o nella stiva accanto alle gabbie dei polli?». Lei sbattè gli occhiali sul bancone. «Dovevamo partire oggi. Per lo Yemen. Mi aveva detto: prepara tutto. Domani si va. Ti voglio con me». Bartolomeo mugugnava, fingendo di lucidare il bancone. «E stamattina mi scrive telegrafico: partenza improvvisa per la Cina. Urgente. Torno in settimana. Resta pronta». Fabrizio chiuse il quadernone di scatto. «Ah!!! Ruggero Piovaccari. Il diplomatico... Cenetta all'hotel de Russie, vino d'annata, complimenti finti. Poi paga tutto coi punti della benzina e sparisce». Lei lo guardò, esausta. «Pensavo fosse serio... che volesse farmi una proposta di lavoro vera...». «Lei pensa. Lui bluffa. Fine, cherie». Intanto si aprì la porta del bar. Entrò Riccardo, storico amico di Piovaccari, nonché "galeotto" e testimone dell'incontro fra il millantatore seriale e la donzella "sedotta e abbandonata". Appena vide la donna, intuendo l'ennesima "sola" di Ruggero, si bloccò come una statua di sale. Poi, con una giravolta da ginnasta olimpico, uscì alla chetichella sperando di non essere notato. «Riccardo!» urlò talmente forte la signora, che anche a San Pietro l'avrebbero sentita. Neanche a dirlo, un secondo dopo la porta si spalancò di nuovo. Entrò Anna, la paranoica moglie di Riccardo. Tailleur nero, sguardo assassino, borsa tenuta come un'arma. Appena varcò la soglia, i clienti si misero le mani nei capelli. Anna puntò dritta la presunta rivale. «Signora. Mi tolga una curiosità. Doveva partire con mio marito? Ho letto dei messaggi strani. Parlava giustappunto di una donna misteriosa e di un viaggio. Sono sicura che stava bluffando». La donna alzò il sopracciglio. «Guardi che io suo marito lo conosco, ma non ho nulla da spartire con lui. Dovevo partire con un suo amico». «Ah sì? E perché allora, appena l'ha vista, ha girato i tacchi come se avesse visto la morte?» «Probabilmente perché ha la coscienza sporca. Non sono fatti miei». «E lei, con chi doveva partire, allora?» «Con Ruggero Piovaccari». Anna restò un secondo in silenzio, poi sbottò a ridere fragorosamente in stile "Crudelia De Mon": «Certo! Ruggero Piovaccari. Lo conosciamo tutti. È un tipo strano che usa mio marito per ottenere consensi». Ornella tirò fuori il cellulare, che in quel momento vibrava, e lesse con un ritrovato sorriso a trentadue denti: «È lui! È lui! Scrive: torno nel weekend. Preparati. Ci aspettano giorni intensi». Fabrizio si risistemò l'orecchino senza badare ai vaneggiamenti della poveretta. Si limitò solo a mugugnare: «Giorni intensi... notti in uno squallido motel di periferia e un biglietto da dieci euro per il taxi». Dal fondo, Mario e Romoletto si alzarono. Ciascuno estrasse una banconota da 50 euro e la poggiò sul tavolo come in un film western. Ubaldo, uscendo con lo straccio, esclamò: «Che è successo?» E Mario, prontamente: «È successo il fattaccio... Ma non è partita». Poi, ognuno lanciò la propria scommessa sulla prossima destinazione farlocca: Maldive durante la stagione dei monsoni, Etiopia con volo low cost e pernottamento in un albergo a ore, o forse Capracotta, che tra le mete era la più fattibile. Enzo Di Stasio Fonte: E. Di Stasio, Il Caffè dei Pini. Racconti di un bar della periferia romana , Sigem, Roma 2025.

  • Paese... d'un tempo

    L'8 settembre 1984 (foto: Lefra). Montagne frastagliate che cullano le case arroccate sul dirupo; abeti imponenti verso il cielo; greggi belanti, le erbe brucanti pregne di rugiada pronte ad empire turgide mammelle; croce di ferro sul monte, traguardo per pochi; impietoso per tanti arresi al ripido pendio. Inverni sempiterni di focolari accesi per tiepido tepore a corpi infreddoliti dalla neve: manto copioso e bianco che s'adagia come in sfera di cristallo. Primavere che riportano alla vita: mammole nei boschi colorate ove ciminiere fumanti creano carbone novello; rumore di esperti mestieri per vicoli e per strade. Bella l'estate che fresca richiama i lontani, riempie le case per preghiere devote alla Madonna. L'autunno uggioso ci porta il novembre mesto e silenzioso che si riapre all'amore dei defunti: ultima dimora senza tempo per chi è andato via lungo stretto ed angusto sentier senza ritorno. Ugo D'Onofrio

  • Amarcord: "Carmine Carnevale" di Pasquale Damiani

    Carmine, da pastorello a Capracotta ad imprenditore di successoa Londra, guidando la sua famiglia coinvolta nella progressiva crescita dell'azienda, ma sempre con il suo attaccamento a Capracotta, fino alla realizzazione di un caretteristico albergo alle pendici di Monte Campo. Carmine, fin da bambino, era stato molto attento a ciò che faceva Berardino, suo padre, che aveva parecchie mucche e pecore, producendo ottimo formaggio che si lavorava a casa, a Capracotta. Giovaissimo, lui partecipò ad una transumanza in Puglia, accudendo mucche, pecore e capre. Questa esperienza gli fece capire che ciò che si produceva in Puglia non lo si poteva realizzare a Capracotta. A 17 anni andò a lavorare in un caseificio di Frosinone, dove carpì i segreti della mozzarella e dei prodotti freschi. A 19 anni Carmine ebbe una proposta di lavoro da parte di un compaesano che aveva avviato un discreto ma modesto caseificio a Londra. Tornò a casa per informare i suoi della proposta e della sua volontà di accettarla! Sua madre non era contenta, ma suo padre condivise la sua scelta. Il giorno della sua partenza per Londra abbracciò tutti dicendo che entro poco tempo si sarebbero riuniti a Londra, cosa che poi avvenne. Vita di sacrifici, i suoi, sorretto dal carisma familiare, sostenuto da tutti, specie da sua moglie Stephanie. Nel 2000 Antonia ed io andammo a trovare Fabio, nostro figlio, a Londra, dove lui era andato per aggiornarsi e specializzarsi nel suo lavoro di parrucchiere, e visitammo lo stabilimento caseario dei Carnevale, essendo Antonia amica di una signora della loro famiglia, e ci stupimmo per quello che vedemmo, in particolare della "flotta" iniziale di 15 furgoni che ogni mattina partiva dal loro caseificio per rifornire i clienti, compresa la Casa Reale inglese, dei prodotti "Carnevale". Nel corso degli anni Carmine diventa socio di alcuni ristoranti e di un auto-garage a Brighton, poi di "Pasta & Pasta" e di "Vini Pregiati". Nel 2015 l'azienda Carnevale introduce una nuova produzione di salsicce fresche sotto il marchio "Salsicciamo". Crescendo così l'azienda, allargando il campo di attività, per sostenere una distribuzione capillare pure in Scozia e Galles, crebbe anche la loro flotta di furgoni attrezzati. La vita della famiglia Carnevale è stata ricca di successi aziendali, di riconoscimenti, e segnata da dignitosa sofferenza per i propri lutti. Chiedo scusa agli autori dei libri esaminati, ai loro parenti e ai lettori, di questo mio "Amarcord" realizzato in forma artigianale, manoscritto da me con grafia condizionata dalle cataratte. Per saperne di più bisognerebbe leggerlo! Tonino Serafini

  • Amarcord: il "Diario" di Giuseppe Trotta

    Il "Diario" di Peppe Trotta è stato ritrovato, dopo anni dalla sua morte, dai suoi figli Enza ed Ercole, da essi assemblato e pubblicato nel 2023. Peppe, da apprendista barbiere, arriva ad essere, dopo una lunga trafila, responsabile di agenzia bancaria, vivendo una vita difficile e movimentata, tra i suoi molti lavori e viaggi, fino a giungere alla meritata pensione. Il "Diario" è intenso, quasi giornaliero, e non consente al lettore di interrompersi nella lettura: i fatti sono incalzanti! Io l'ho letto con molto interesse, poche soste e tanta ammirazione! Il "Diario", secondo me, potrebbe essere diviso in quattro parti: quella relativa alla giovinezza di Peppe a Capracotta, prima e dopo la Seconda guerra mondiale. Peppe ha svolto molti mestieri e lavori da impiegato precario a Capracotta, impegnandosi a curarne anche due contemporaneamente per non dire no alle proposte, per sfruttare le sue capacità e per non pesare sulla famiglia; il servizio militare di leva dalla fine del 1942; nel luglio 1943 la caduta del fascismo, e poi l'8 settembre l'armistizio di Badoglio e il comando alleato, con l'inizio di vita di Peppe da soldato "sbandato" come tanti altri militari italiani; la fine della guerra nel 1945 e il ritorno alla vita civile. Peppe ha viaggiato molto durante il suo servizio militare normale, usando mezzi di trasporto normali, ma durante il periodo del suo sbandamento si è spostato con ogni mezzo di trasporto possibile e soprattutto a piedi, in viaggi rischiosi ed avventurosi. Dopo la distruzione di Capracotta e dopo la ritirata dei Tedeschi, inizia l'arrivo in paese degli Alleati, che cominciano ad occupare le poche case rimaste in piedi per alloggiare soldati canadesi, inglesi e polacchi che aumentano sempre più. In precedenza, il 4 novebre 1943, veniva compiuto dai Tedeschi il feroce atto di guerra: la cattura e fucilazione dei due fratelli Fiadino, Gasperino e Rodolfo, di cui ho parlato anch'io ne "Il mio diario". Però, dal "Diario" di Peppe ho avuto conferma che i giovani condotti sul posto della fucilazione fossero tre: c'era pure Alberto, il terzo fratello, che però saltò dal camion tedesco che li conduceva al luogo del martirio, riuscì a fuggire attraverso i campi e si salvò. Un'altra notizia, a questo riguardo, l'ho appresa sempre da Peppe ed è relativa all'ordine che diede il comandante della pattuglia canadese, che per prima era giunta in paese: avendo saputo di questa orribile rappresaglia tedesca, il tenente canadese, con i suoi uomini e il concorso di alcuni capracottesi, procede all'esumazione dei corpi dei due fratelli Fiadino trucidati, che vengono ricomposti in due bare di legno approntate dai falegnami locali, portati al cimitero e tumulati in due loculo concessi dal Comune. L'8 dicembre 1943 riprende l'esodo dei capracottesi lì ritornati e dei pochi che erano rimasti nonostante tutto, per decisione del comando alleato che necessita di tutto ciò che è rimasto in piedi per ricoverare i propri soldati che aumentavano sempre: si tenga presente che l'inverno nevoso e gelido era vicino. La mattina dell'8 dicembre '43 tutti gli abitanti di Capracotta vengono caricati su autocarri militari e condotti per una destinzione a loro ignota. Trascorsa alla meglio la prima notte a Campobasso, si riparte in treno senza sapere dove erano diretti. Nella sosta alla stazione di Lucera, molti sfollati riescono a sfuggire ai controlli, uscire dalla stazione e lasciare il treno, grazie al sostegno e aiuto di altri capracottesi, che già si erano stabiliti in Puglia e che avevano saputo dell'arrivo di un treno con profughi capracottesi. Tra i compaesani di Lucera cito solo la famiglia Magnapésce , di cui ho conosciuto qualcuno! Per i profughi, e soprattutto per i militari sbandati come Peppe, inizia un continuo spostamento tra paesi, città e campagne pugliesi, essendo la Puglia occupata da Inglesi e Americani e non dai Tedeschi. Peppe si presenta al distretto militare di Foggia come soldato sbandato, riprende la vita militare e a viaggiare per l'Italia, fino alla fine della guerra nel 1945. Ottiene il congedo dal servizio militare nel 1946, torna civile e ricomincia a fare parecchi lavori. Giuseppe Trotta (primo a sx) a Capracotta nel 1957. Nel 1951 sposa Giulia, cugina di Antonia, e dal 1954 Peppe inizia il lavoro in banca, prima a Capracotta e poi a Roccaraso, divenendo responsabile dell'agenzia della Banca Popolare di Castel di Sangro. Chiedo scusa agli autori dei libri esaminati, ai loro parenti e ai lettori, di questo mio "Amarcord" realizzato in forma artigianale, manoscritto da me con grafia condizionata dalle cataratte. Per saperne di più bisognerebbe leggerlo! Tonino Serafini

  • L'Ultima Cena di Capracotta

    Il dipinto dell'Ultima Cena (foto: A. Mendozzi). Et in Arcadia ego Assunto da poco l'incarico di organista della Chiesa Collegiata di Capracotta, a pochi giorni dal compiere la maggiore età, approfittavo dei pomeriggi per passare qualche ora immerso nello studio alla consolle del Principalone. Ricordo che, durante uno di quei momenti, un violento fortunale si abbatté sul paese con una pioggia così intensa da farmi interrompere a metà il brano che, studente maldestro, stavo evitando di "maltrattare" eccessivamente. Un tonfo improvviso, quasi una detonazione, seguìto da un fortissimo scroscio provenne dalla Cappella della Congrega. Correndo attraverso la chiesa deserta, ne aprii la porta e la vista di cosa era accaduto mi traumatizzò. Un ampio tratto del pesante intonaco era crollato dal soffitto con i relativi stucchi mentre dalle tavelle denudate, come da una gigantesca e mostruosa ferita, un torrente d'acqua cadeva dall'alto allagando il pavimento ingombro di macerie. Di ritorno all'organo, nella sacrestia, un rivolo d'acqua cadeva dal soffitto scorrendo sull'antico armadio e gocciolando sui libri al suo interno. Un senso di ineluttabile disperazione, mista a rassegnazione, per la presa di coscienza dell’abbandono in cui stava precipitando non solo la chiesa ma, come un simbolo, tutta la cultura di Capracotta, già devastata dallo spopolamento, mi rimase addosso per molto tempo. Avevo torto. Il fiorire, mai come oggi, di associazioni culturali tese alla riscoperta del nostro passato insieme alle numerose iniziative degli enti locali senza contare il restauro della Chiesa Madre e del suo organo, la nascita del coro polifonico si manifestano come una luce, spero sempre più intensa e duratura, che sembra allontanare le ombre di uno squallido e terribile oblio. A tutti gli operatori di questi gruppi, ai promotori delle iniziative culturali, ai partecipanti, agli amministratori comunali e parrocchiali di qualsiasi colore che hanno lavorato e tuttora operano instancabili per il rilancio di questa Comunità dedico queste sconclusionate righe. Diverse le strade, le idee e le opinioni ma unico l'obiettivo finale. Letteralmente rapito dalle pubblicazioni comparse su Letteratura Capracottese e su "Amici di Capracotta", mi sono appassionato nello sviluppare un rudimentale studio sul quadro in olio su tela raffigurante "L'Ultima Cena" che campeggia sul Coro della Chiesa Madre e sovrastato dalla splendida cantoria. Alle brillanti osservazioni di Francesco Mendozzi e di Francesco Di Rienzo, ascoltate anche dalla loro viva voce, si aggiunge, senza pretese, qualche nota di un terzo Francesco. Per l'attribuzione dell'opera, tradizionalmente legata al nome di Francesco (...e quattro!) Solimena (1657-1747) detto anche Abate Ciccio, non posso che accettare quanto più volte affermato da chi mi ha preceduto: sicuramente fu opera della sua bottega ma non abbiamo prove sicure della diretta mano del pittore. Peraltro sono riportate, sparse per il Sud, altre opere raffiguranti lo stesso soggetto attribuite alla sua scuola: non era raro a quei tempi che nelle varie botteghe pittoriche o scultoree il maestro dava lo spunto o curava il bozzetto che poi veniva eseguito e completato dagli allievi. Ad esempio, nella Cattedrale di Rieti è conservata una scultura raffigurante santa Barbara (patrona della città) attribuita ad allievo anonimo di Gianlorenzo Bernini (1598-1680) ma su disegno diretto del Maestro. Il tema dell'Ultima Cena è stato più volte ripreso dalle scuole pittoriche: è il momento della istituzione della Eucaristia che sarà il punto centrale della celebrazione della Santa Messa nella Chiesa Cattolica, la base del dogma della transustanziazione del corpo e del sangue del Cristo. Celebre quella di Leonardo da Vinci commentata di recente anche dall'amico e maestro Aldo Trotta in una appassionante e intrigante relazione su uno dei significati simbolici legati alle figure. Infatti la pittura così come avviene in tutte le altre arti non è solo la fotografia di un momento storico o leggendario ma anche un modo per includere a fini didattici elementi metaforici ed allegorici intuibili o nascosti legati alle convinzioni dei committenti e a quelle personali dell’artista spesso in contrasto tra loro e con i canoni ufficiali. I maestri di tutte le epoche hanno lavorato e giocato su questo argomento. Il messaggio percepibile (essoterico) si lega a quello nascosto (esoterico). Ma andiamo per gradi e per simboli... Il momento cristallizzato nel "nostro" dipinto è la benedizione del pane e del vino: il Cristo benedicente è al centro della scena e fonte di gran parte della luce che pervade la scena a ricordare che è lui il lumen gentium . In altre raffigurazioni, come in Leonardo, invece il momento è quello della rivelazione del prossimo tradimento seguito dallo stupore squassante degli apostoli in reazione a tale notizia. La figura di Gesù appare triangolare a ripresa del tema trinitario e il contrasto tra il volto rivolto al cielo con la mano alzata a benedire mentre l'altra posata sul tavolo su un oggetto non definibile (un rotolo = la Sacra Scrittura?) indica la prossima ascesa al cielo e la accettazione della volontà del Padre ma l'esistenza di un ultimo legame con la terra o un lascito verso di essa (il Vangelo?) o la ripresa del « come in cielo così in terra » . In posizione diametralmente opposta, in deciso contrasto alla figura del Cristo e con il viso, parzialmente avvolto nell'ombra e rivolto verso l'osservatore, Giuda Iscariota sta meditando su quanto sta per compiere (la mano sinistra sulla bocca) mentre con la mano nasconde, sotto il bordo del tavolo, quello che sembrerebbe essere il sacchetto dei trenta denari, elemento molto frequente nei dipinti del periodo. La bassa e appuntita attaccatura dei capelli con il corto naso adunco ha un preciso riferimento alla raffigurazione, lombrosiana e mefistofelica, tipica dei canoni dell'epoca, dei lineamenti ascritti ai « deicidi e perfidi » ebrei, in contrapposizione alle figure più "romane" e "cristiane" degli altri apostoli. Giuda poiché traditore restava ebreo, gli apostoli erano passati oltre. In dipinti coevi tali caratteri sono spesso ancora più esasperati. Questa falsa, triste e discriminante iconografia resterà purtroppo a lungo nel corso della Storia. Un agnello nel piatto di portata davanti al Cristo, pronto per essere consumato, richiama il tema dell' Agnus Dei , il cui sacrificio porterà alla Redenzione dell'uomo. Il calice di cristallo posto accanto, che si osserva anche in altri quadri simili, è la raffigurazione del Sacro Graal: la coppa in cui, durante la Crocifissione, Giuseppe di Arimatea raccoglierà il sangue del Crocifisso morente. Non a caso molti autori ritengono la parola Sacro Graal, descritta per la prima volta nel Medioevo da Chrétien de Troyes ( Saint Graal ) come corruzione del termine Sang Royal (= Sangue Reale). Ma questa è un'altra storia. Alla destra del Redentore, Giovanni, l'apostolo « che Gesù amava » , si è appena distaccato dall'abbraccio sul Suo petto e, con le braccia raccolte e gli occhi chiusi, cerca di conservare, nel suo cuore, la divinità di quella stretta (Gv 13,25). Egli era il suo vero amico e testimone privilegiato, sempre presente in ogni episodio evangelico: l'apostolo a cui il Cristo morente affidò la Madre, colui che « da quel giorno prese Maria con sé » (Gv 19, 25-27). Alla sinistra del Cristo, Pietro alza lo sguardo a partecipare alla Sua visione celeste come in presagio alla Chiesa che su di lui sarà edificata ed al compito di conservare le chiavi del Paradiso. Il coltello incrociato al di sopra della forchetta davanti alla sua figura ricorda l'arma con cui fra poco reciderà l'orecchio di Malco, il servo del Sommo Sacerdote, mentre queste due posate formano anche la croce rovesciata su cui il primo Papa sarà martirizzato in Roma. Poco più a sinistra dell'osservatore, vestito di rosso, Tommaso è riconoscibile dalla mano chiusa a pugno con il solo indice levato: sarà quello il dito che il Risorto inviterà a porre nel Suo costato per convincerlo alla veridicità della Resurrezione. Quattro, come gli Evangelisti, le possenti colonne alle spalle dei convitati ma, a sinistra e sul fondo altre due colonne antiche che si perdono nella nebbia della visione celeste a rammentare le due colonne del Tempio di Salomone, Joachim e Boaz, o del Maestro e dell'Apprendista (e qui forse un riferimento massonico): il Vecchio Patto che viene sostituito dalla Nuova Alleanza. Molto anziano, come in tutte le raffigurazioni, Matteo Levi, al fianco di Pietro, esattore delle tasse, è identificabile dal libriccino contabile posto davanti alla sua figura. Oscuro, se non misterioso, il significato dell'oggetto davanti al tavolo ed in primo piano. Identificabile da alcuni come una saliera e quindi simbolo di regalità e sapienza potrebbe essere un chiaro riferimento alle leggi mosaiche e riferimento alla pulizia morale e al legame tra uomo e Dio (Lev 2,13). Tuttavia, mia osservazione, osservando il basamento bianco si nota una impressionante somiglianza al basamento bianco del fonte battesimale della Chiesa Madre. Quindi prendendo questo come allegoria del Battesimo che Gesù ricevette da Giovanni il Battista, l'oggetto superiore potrebbe essere il vaso di alabastro contenente gli unguenti profumati che la peccatrice versò sui Suoi piedi: Egli era il Mashiah , il Messia, l'Unto del Signore. Ecco allora, con il balsamo riparatore, i simboli della Sua regalità Celeste e Terrena e la testimonianza del Suo potere di rimettere i peccati a chi ha fede in Lui: « la tua fede ti ha salvato » (Lc 7,36-50). Molti i passi evangelici esaltanti la potenza salvifica della Fede che poi saranno anche il fondamento delle riflessioni operate da Martin Lutero ed alla base della Chiesa riformata. Sicuramente collegato e richiamante la simbologia dell'Unto del Signore è il libro aperto posto sul leggio in alto a sinistra. I miei complimenti più sinceri ed ammirati a Francesco Mendozzi che è riuscito a decifrare le parole scritte sulle pagine aperte: trattasi, come ha sagacemente intuito, dei versetti relativi alla preparazione dell'olio santo per le unzioni sacre e per il servizio del Tempio (Es 30, 22-25). L'olio che ha consacrato i Re d'Israele, l'olio con cui il profeta Samuele unse Saul primo Re e con cui poi lo stesso Saul unse David dalla cui stirpe regale discese Gesù. Inutile ricordare che Christos in greco, derivato da Mashiah , significa proprio "consacrato", "unto". Passiamo ora alla figura alla estrema sinistra del dipinto: l'uomo che versa l'acqua. Interessante e suggestiva la dissertazione analitica che Francesco Mendozzi sviluppa circa l'identificazione di questa figura con Giuda ormai ridotto a servo e quindi escluso dal novero dei Dodici poiché già sostituito: una considerazione altamente conscia del significato allegorico legato alle pitture di questo periodo. Tuttavia - e il più che stimato amico Francesco mi perdonerà - consentitemi di affiancare alla sua stuzzicante teoria delle ulteriori osservazioni a mio parere inquietanti. L'uomo che versa l'acqua non è infrequente in tali rappresentazioni: è identificabile, secondo alcuni, nel servo che Gesù ordina ai discepoli di seguire per trovare i locali in cui consumare la Cena. Nella nostra tela il suo volto non è definito, lasciato in ombra e sfumato. La prima stranezza: in quei tempi attingere l'acqua in Israele era compito affidato alle donne e l'episodio di Gesù e la Samaritana al pozzo di Sicar (Gv 4,5-42) ne è un tipico esempio. Tra l'altro tale passo evangelico è rappresentato nella pittura che adorna la balaustra del pulpito della nostra Chiesa Madre. Va riportato che alcuni autori collegano a tale figura anche il ricordo della trasformazione dell'acqua nelle nozze di Caana. Il Cristo sapeva che i discepoli non avrebbero avuto alcuna difficoltà ad identificarlo poiché era una situazione inconsueta agli occhi di un osservatore ebreo di quei tempi. Non solo, aggiungerà: « seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: il Maestro dice dov'è la mia stanza » (Mc 14, 12-26). Quindi se la semantica non è una opinione e gli antichi lo sapevano bene, e sapendo che le Scritture sono estremamente precise su parole e termini, il Cristo conosceva bene il padrone e i suoi servi, e il padrone sapeva già che avrebbe ospitato quella Cena. Ricordiamo che tale ambiente, che Gesù sapeva esser al piano superiore della casa, era sito nel quartiere dedicato agli esseni (a Gerusalemme una porta della città era chiamata Porta degli Esseni) e solo gli esseni, poiché votati alla castità, avevano servitori esclusivamente di sesso maschile. Aggiungiamo che Giovanni Evangelista pone la Cena al mercoledì 15 Nisan in disaccordo con gli altri evangelisti che la pongono al 14 Nisan e che da nessuna parte figura che tale Cena sia effettivamente la cena della veglia ebraica. Inoltre gli Israeliti, al seguito di Gesù ormai prigioniero, rifiuteranno di entrare nel pretorio da Pilato per la prima udienza onde evitare di contaminarsi e non poter celebrare la Pasqua. Quindi la Pesach , o pasqua ebraica, non era stata ancora celebrata. A questo punto sorgono decine di domande di cui posso dare una piccola selezione. Gesù seguiva un calendario diverso? Era il calendario degli esseni? Giovanni è in errore? Aggiungo che durante la crocifissione i soldati che si erano divisi le vesti di Gesù, tirarono a sorte per la tunica poiché tessuta in un solo pezzo (Gv 19, 23-24) e una voce, non confermata, riteneva che tale indumento fosse tipico degli esseni. Gesù era esseno o comunque collegato agli esseni? E se decine le domande centinaia le pagine scritte al riguardo. In ogni caso direi che il Redentore non celebra la Pasqua ebraica ma una Sua Cena. Pertanto, cosa intendevano i pittori di quei tempi inserendo "l'uomo dell'acqua"? Una figura apparentemente secondaria ma qui esaltata proprio dal suo permanere sfumata e nell'ombra (nascondere mostrando e mostrare nascondendo). Di quali segreti erano a conoscenza in opposizione o in aggiunta ai committenti? E ancora una volta, come scriveva Vittorio Messori, la grande e unica domanda importante, posta secoli prima da Mosè al roveto ardente, ripetuta da Pilato e oggi da noi duemila anni dopo, è sempre la stessa: «Chi sei?» Noi ci sediamo in cerchio e supponiamo, ma il Segreto si siede in mezzo e sa. [R. L. Frost] Francesco Di Nardo

  • La Colomba Bianca, i guastatori nazisti e i solai ballerini

    La prima vettura di prova della Colomba Bianca in Agnone. La Colomba Bianca, i guastatori nazisti, i solai ballerini di molte case di Capracotta e la leggenda che riguarda la mancata ricostruzione di una ferrovia sono i protagonisti di una curiosa storia non ancora completamente scritta, indissolubilmente legati tra loro in un intrigo diabolico di eventi storici in apparenza disomogenei. La Colomba Bianca Il notaio Filippo Bonavolta il 25 luglio del 1909 registrò l'atto costitutivo della S.F.A.P., Società Ferroviaria Agnone Pescolanciano, su progetto dell'ingegnere Federico Sabelli. Il percorso lungo 37,435 km partiva da Agnone a 800 m s.l.m. e giungeva a Pescolanciano a 762 m s.l.m.; il punto più alto del percorso era ai 1.100 m s.l.m. di Rocca Tamburri mentre il più basso era ai 650 m s.l.m. del Verrino. La prima pietra fu posta il 29 ottobre 1911; la prima vettura arrivò a Pescolanciano il 16 maggio 1914; il 23 dicembre 1914 alle ore 11 «la prima vettura di prova, bianca come una magica colomba, arrivava in Agnone in mezzo a due fitte ali di popolo commosso ed esultante»; il 6 giugno 1915 avvenne l'apertura ufficiale con il trasporto gratuito dei giovani chiamati alle armi per la Prima guerra mondiale. Per completare l'intero tragitto la Colomba Bianca impiegava in media 3 ore, salvo imprevisti; d'inverno spesso anche i passeggeri davano una mano per liberare i binari da cumuli di neve. Era una strana colomba bianca che volava per le valli del Verrino e del Trigno, che non tubava ma annunciava il suo arrivo alle fermate con un fischio di sirena. In un periodo in cui gli orologi erano un lusso riservato solo ad una ristretta cerchia di possidenti, il fischio della locomotiva era l'orologio di tutti e scandiva le ore del giorno nelle quattro corse quotidiane. Lungo il percorso c'erano 6 piccole stazioni con fabbricati e 4 fermate; a Tre Termini c'era anche la stazione Vastogirardi-Capracotta. Il percorso era molto vario e lambiva terreni coltivati, vigne, uliveti, querceti e abetaie; bellissimo e affascinante era il paesaggio sia d'estate che d'inverno. La S.F.A.P era una società per azioni il cui capitale sociale era fissato in più di 5.000 azioni di 100 £ ciascuna; gli azionisti erano di vari paesi e la maggioranza era logicamente di agnonesi essendo all'epoca Agnone una vera e propria città industriale; c'erano anche azionisti di Capracotta e precisamente: Banca di Capracotta con 5 azioni; Luigi Campanelli con 3 azioni; Amatonicola Conti con 1 azione; Gregorio Conti fu Ruggiero con 3 azioni; Tommaso Conti con 20 azioni; Claudio Conti di Ettore con 1 azione; Giovanni Conti fu Agostino con 3 azioni; Guglielmo Conti fu Croce con 2 azioni; Michele Falconi fu Gregorio con 1 azione; Leonardantonio Falconi fu Pasquale con 10 azioni; Vincenzo Ianiro di Giovanni con 1 azione. La società a lungo andare si trovò in gravi difficoltà economiche; già nel 1926 si era accumulato un passivo enorme che portava dritto al fallimento che avvenne, dopo varie peripezie tra esercizi provvisori, bilanci in rosso, riduzione di spesa e licenziamento di parte degli operai, il 30 agosto 1940; il curatore fallimentare della S.F.A.P. cedette per 100.000 £ l'esercizio della ferrovia alla S.A.M.; questa grave situazione fu determinata soprattutto perché il podestà agnonese dell'epoca rifiutò l'acquisto, in conto del Comune, della società e fece svanire anche il tentativo degli operai disposti a subentrare nella conduzione della società; la società fu dunque ceduta alla S.A.M., Società Automobilistica Molisana, e subito la procedura di fallimento e conseguente acquisizione furono sospese in attesa di direttiva da parte della Corte di Appello di Napoli perché imprevedibilmente i beni immobili non erano stati inclusi nella pratica fallimentare e nell'attivo della S.F.A.P. Nel frattempo la Colomba Bianca non era più tale perché era diventata di color verde e viaggiava sempre più vuota: erano troppe le tre ore di percorrenza, il trasporto su gomma era diventato un valido antagonista ed aveva preso il sopravvento. I guastatori nazisti L'ultimo viaggio per poco non si concluse in tragedia; il 13 novembre 1943 una pattuglia tedesca fermò, armi alla mano, la motrice condotta da Michele D'Aloise che abbandonò il posto di guida solo dopo che un ufficiale tedesco, pistola in pugno, al grido di "Kaputt", stava per ucciderlo. Le motrici e tutto il materiale viaggiante furono incendiati, poi venne distrutta tutta la linea aerea e con uno speciale carrello munito di un robusto rostro, furono divelte e spezzate a metà tutte le traversine in legno sull'intera linea. Successivamente vennero prese di mira l'officina e la centrale termica; ed a questo punto vale la pena riportare quanto mi riferì l'amico Cesare Di Ciocco, figlio del custode della centrale all'epoca della distruzione: Come vedi, non tutta la centrale saltò in aria; una buona metà è ancora in piedi e tutto il merito fu di mio padre che, afflitto e disperato, mentre i genieri tedeschi minavano il fabbricato, si aggirava qui intorno quasi volesse ancora proteggere la sua creatura dall'imminente fine; ad un certo momento, un ufficiale tedesco, che parlava italiano, anche se stentatamente, gli fece cenno di avvicinarsi e gli chiese se voleva salvare una parte dell'edificio; immaginati la gioia di mio padre! E così l'ufficiale gli indicò non solo una finestra sul retro che avrebbe lasciata aperta ma anche quale miccia tranciare non appena la colonna tedesca, dopo aver acceso la miccia, si sarebbe mossa. Lo avvertì che aveva pochissimo tempo per entrare e per tagliare la miccia, che rischiava di saltare in aria o di essere scoperto. E così nascosto tra i pini non appena vide la colonna muoversi, scavalcò letteralmente la finestra, tranciò la miccia e fece in tempo ad allontanarsi. I tedeschi sentirono il boato, videro la colonna di polvere che saliva al cielo e non si accorsero di nulla; ed ecco perché questa parte del fabbricato dov'erano la turbina a vapore e gli accumulatori porta ancora i segni dell'esplosione; sono rimaste in piedi le quattro mura senza il tetto e si vedono ancora i punti di attacco delle maestose volte a botte. E così la Colomba Bianca dipinta di verde, non volò e non fischiò più: la furia nazista aveva cancellato un sogno. Restarono lungo la linea i 75 km. di binari abbandonati e tutte le traversine spezzate. I solai ballerini Dopo lo sfollamento, nella primavera del 1944, i capracottesi tornarono al paese distrutto e cominciarono a recuperare tra le macerie tutto quello che poteva essere utile per la ricostruzione. Qualche trave, le pietre, le tavole e perfino la sabbia (la rena ). Gli altri materiali necessari erano acquistati altrove, soprattutto il cemento e la calce viva. Domenico Di Nucci, dopo aver invitato un esperto nella produzione della calce, z' Rezziére da Canzano, cominciò a produrre calce dalle tante fornaci (dette calcare ) che vennero costruite in vari posti dell'agro di Capracotta. Impegnato in questa micro impresa, con la famiglia ospitata in una casa presa in affitto, trascurò la ricostruzione della sua casa alla Fundióne , fino a quando i due fratelli Matteo, Nicola ed Enrico, non iniziarono la ricostruzione delle loro abitazioni nello stesso gruppo di case. Allora Domenico decise che era il momento di armarsi di coraggio e affidò i lavori a una squadra di esperti muratori: la loro micro impresa, "La Disperata", era costituita dai mastri Donato Vizzoca, Innocente Marinelli, Quirino Di Tanna e Candido Ciccorelli; i figli Carmine, Mario e Giovanni si trasformarono in manovali insieme all'altro figlio mentre Italo si dedicò a preparare tutta la malta occorrente. In breve tempo furono completate le quattro mura perimetrali e il tetto; erano finiti i soldi e la casa per un po' restò così. È bene precisare che per la ricostruzione, a differenza di quanto avviene oggi a seguito di grandi calamità, non ci furono contributi e sovvenzioni; ogni famiglia dovette rimboccarsi le maniche e affrontare tutte le spese cercando di risparmiare il più possibile. Purtroppo anche un grave incidente sul lavoro turbò non poco la pesante atmosfera che si respirava a Capracotta: nella ricostruzione di una casa incendiata, a San Giovanni, proprio nell'ottica di salvare il salvabile, a lavori quasi ultimati, una parete che sembrava stabile e robusta, improvvisamente crollò travolgendo l'impalcatura e Candido Ciccorelli. In un contesto sociale in cui tutti conoscevano tutti, in cui i vincoli di parentela erano estremamente ramificati, l'improvvisa scomparsa di un valido mastro rappresentò una grande tragedia non solo per la famiglia ma anche per la comunità tutta. Ed ecco che in punta di piedi la Colomba Bianca entra nell'intreccio con la storia di Capracotta. Ognuno cercava di arrangiarsi alla bene e meglio; per costruire i solai occorrevano robuste travi di legno, costose e non facili da reperire; sottovoce qualcuno consigliava altre strade. Domenico Di Nucci ne ebbe la conferma quando, qualche tempo dopo, mentre raccoglieva il fieno nel suo prato della Vecénna , fu avvicinato da uno strano tipo; disse di chiamarsi Michele G. e, additando la casa alla Fonte Giù (adesso via Trigno), gli chiese se era disposto ad acquistare, a Staffoli, alcuni binari della ferrovia come travi di ferro per costruire i solai. Era ben informato perché la casa era ancora un guscio vuoto. Alla richiesta di informazioni ed alle perplessità, Michele rispose che altri capracottesi avevano già utilizzato i binari; chi li acquistava doveva portare le misure precise e pensare al trasporto da Staffoli. Venne pattuito il prezzo di 7.000 £ e la stretta di mano suggellò l'accordo. E così 7 travi da 11 metri furono utilizzati per il solaio della stalla della sua casa. Non fu agevole il trasporto dei binari che pesavano complessivamente circa 18 quintali. Apparve già in corso di costruzione che quei binari non erano poi molto adatti allo scopo; nonostante fossero utilizzati in coppia per costruire voltine di mattoncini a tre fori con gesso, la grande elasticità richiese subito il rinforzo con pilastri di mattoni; ma, nonostante i pilastri, i solai erano molto elastici e davano la sensazione di essere ballerini. I carabinieri, non appena il traffico divenne troppo palese, fecero un sopralluogo in tutte le case costruite o in ricostruzione e portarono in caserma per accertamenti tanti capracottesi tra i quali Mario Di Nucci, suo figlio; furono interrogati e rilasciati; sembrò che la cosa finisse lì ma la giustizia prese il suo tempo e il suo corso e Domenico e Mario furono convocati al Tribunale d'Isernia come imputati per incauto acquisto, insieme ad altri 29 capracottesi. Si ritrovarono faccia a faccia con Michele G., che si presentò vestito come uno straccione, con un paio di pantaloni rattoppati, una maglia sbrindellata, le scarpe scalcagnate ed addirittura con i due calzini di diverso colore. Nonostante l'abbigliamento, con sentenza n° 347 del 5 dicembre 1951, Michele G. fu condannato ad un anno e sei mesi di reclusione per furto aggravato, avendo venduto le rotaie, a più riprese, affermando di essere autorizzato a farlo dalla S.A.M. Per tutti i capracottesi non si procedette per intervenuta amnistia; invece Mario Di Nucci fu assolto per non aver commesso il fatto. La leggenda da sfatare Circolava nel dopoguerra e circola ancora oggi la leggenda che la mancata ricostruzione della S.F.A.P. fosse da attribuire all'utilizzo dei binari della ferrovia come travi per solai, soprattutto da parte dei capracottesi; la storia però non si nutre di dicerie e fandonie. I documenti invece attestano altro: dopo la guerra vi furono tentativi e pressioni per ricostruire la ferrovia Agnone-Pescolanciano; l'allora on. Remo Sammartino, tentò di far rientrare la S.F.A.P. tra le opere da ricostruire ma desistette quando si rese conto che la legge sulla ricostruzione imponeva di ricostruire il tutto esattamente secondo il progetto iniziale che era ormai obsoleto e non al passo con la tecnologia del momento; si sarebbe trattato di ricostruire una cattedrale nel deserto senza nessuna prospettiva economica per il futuro. Successivamente, ad un'interrogazione presentata dall'on. Francesco Colitto, la risposta dell'allora Ministro dei Trasporti on. Aragona fu negativa, in quanto la Commissione per il piano regolatore delle ferrovie, il 18 giugno 1947, inserì la S.F.A.P. nella terza categoria, ossia tra quelle non indispensabili e che potevano essere abolite con sostituzione mediante servizi automobilistici. Nei documenti ufficiali non c'è dunque alcuna traccia del danno arrecato dai capracottesi; la verità è che la ferrovia non fu ricostruita solo per scelta, discutibile, del governo di allora. Il campanilismo irragionevole che per tanto tempo ha compromesso i rapporti tra i comuni dell'Altissimo Molise, si è spesso nutrito di fandonie che una larga schiera di persone diffondeva ad arte per interessi personali, per alimentare ulteriori discordie e per tentare di giustificare qualcosa di ingiustificabile! La voce che attribuì a tal danno la mancata ricostruzione della S.F.A.P. fu figlia di quel mostro che sarebbe ora di sradicare! Domenico Di Nucci Fonte: D. Di Nucci, La Colomba Bianca, i guastatori nazisti, i solai ballerini e una leggenda da sfatare , in AA.VV. I racconti di Capracotta , vol. I, Cicchetti, Isernia 2011.

  • La voce della campana

    Una delle campane di Capracotta (foto: A. Mendozzi). La voce della campana rompe il silenzio, corre da monte a monte fino alla piana; rintocca prima forte poi più debole nel vento s'allontana a scuotere i sensi e le opere della vita quotidiana, ogni volta alla preghiera tutti chiama, all'unione dei cuori, al giubilo, alla pietà cristiana quasi fosse parola umana. Flora Di Rienzo

  • Il Mega Maga è sempre aperto

    Il geniale Antonio D'Andrea. In un paese dell'Appennino molisano non hanno molto rispetto per lo slogan "Make America Great Again", noto come Maga , utilizzato da Trump ma prima ancora da Clinton. La "casa degli oggetti" messa su un anno fa a Capracotta si chiama Mega Maga, dove Maga in realtà sta per magazzino. Presto diventerà un Repair Café, un Caffè delle riparazioni, cioè uno spazio aperto alla comunità nel quale le persone possono portare oggetti rotti e imparare a ripararli grazie all’aiuto di volontari. Ma già oggi è possibile portare e ritirare oggetti al Mega Maga, al momento completamente autogestito, tanto da essere sempre aperto: un semplice chiavistello, infatti, senza alcun lucchetto, permette di aprire dall'esterno la porta di questo capannone di due piani abbracciato da un piccolo giardino. Le spese dell'affitto, spiega Antonio D'Andrea, che più di altri ha creduto nell'idea, sono per ora coperte dalle donazioni. Nel Mega Maga trovano spazio mobili, elettrodomestici, lampadari, piatti, coperte ma anche libri e giocattoli. « Quando hanno portato una macchina da cucire ho pensato che sarebbe bello creare l'angolo del cucito per recuperare i tanti abiti che abbiamo raccolto – dice Antonio – E poi l'angolo della falegnameria, l'angolo artistico e ovviamente l'angolo del tè... » . Intanto mostra un forno praticamente mai utilizzato: era di una signora che non c'è più, i figli l'hanno portato sperando che possa essere finalmente utile a qualcuno. Colpisce la quantità di lana accumulata. « Stiamo immaginando di ricavarne dei cuscini paraspifferi, indispensabili qui in montagna, o dei teli per la pacciamatura in agricoltura, oppure della bambole ribelli dedicate a Rosa Luxemburg » , dice convinto Antonio. L'idea è che una volta a settimana qualcuno doni del proprio tempo non solo per aggiustare o trasformare qualche oggetto ma anche per insegnare ad aggiustare. Al momento, Pietro, che sa far di tutto con gli attrezzi, ha cominciato a frequentare il Mega Maga. C'è anche Michele, che invece ha messo a disposizione il suo camioncino per ritirare gli oggetti più ingombranti. E nel paese altri si stanno interrogando su come dare una mano. Tutto senza l'intermediazione del denaro. Di certo, il grande tavolo di legno posto al centro del salone sarà il piano di appoggio per tanti aggiustatori. Diverse associazioni della regione hanno cominciato a conoscere il Mega Maga (per contatti è possibile scrivere a barchettaebbra@gmail.com ). E il Comune? « Purtroppo la cooperativa che gestisce il porta a porta non è del paese e quindi è difficile creare una relazione » , spiega Antonio. Di certo, tra mille difficoltà, questo luogo sembra pronto a ridare vita a tanti oggetti, mettendo in discussione la logica delle discariche, ma anche a ricomporre relazioni e a immaginare un futuro diverso per un territorio alla prese con lo spopolamento. Ha scritto Vito Teti: «Abbiamo bisogno, per salvarci, per salvare la specie, se siamo ancora in tempo, di una grande rivoluzione culturale, morale, di rigenerare i luoghi e i cuori, di un nuovo vocabolario, di nuove parole, di nuove pratiche... Dobbiamo pensare altrimenti»... Gianluca Carmosino Fonte: https://comune-info.net/ , 9 ottobre 2025.

  • Carmela Di Tanna Carnevale

    Carmela Di Tanna (1939-2025). Sabato scorso si è celebrato il funerale di "Zia", mia zia e madrina di battesimo. Ho avuto la fortuna di vederla poche settimane prima della sua scomparsa e le ho chiesto di descriversi: Io e mia sorella minore siamo arrivate negli Stati Uniti da adolescenti. Abbiamo viaggiato da sole su un transatlantico degli anni '50, senza accompagnatori o guide (niente superscivoli o zavorre sofisticate). Non viaggiavamo in prima classe: a malapena era la terza. I nostri portafogli non erano foderati d'oro e parlavamo una sola lingua che non era l'inglese. Fummo consegnate nelle mani di parenti lontani che non avevamo mai incontrato. Abbiamo lasciato i nostri genitori, nove fratelli e tutti quelli che conoscevamo. A questo punto starete pensando: "Che cosa fece?" Lavorò, imparò la lingua, affinò le sue capacità e risparmiò i guadagni come meglio poté. Si sposò e diede alla luce tre figlie. Utilizzò le sue competenze per aiutare a sostenere la sua famiglia, prima come sarta e poi come ristoratrice: tutte cose che gli italiani sanno fare bene. Aiutò il marito ad avviare la propria attività. Ha educato le figlie, le ha viste sposarsi e ha dato il benvenuto a tre nipoti. Proprio quando era pronta a godersi il riposo, ha ricominciato daccapo, crescendo e prendendosi cura dei nipoti. Ha festeggiato i 60 anni di matrimonio con l'uomo che aveva incontrato a 16 anni. Ballava quando c'era la musica e piangeva quando calava la tristezza. Zia è stata la spina dorsale della sua famiglia. Ricorderò sempre quanto amava la sua famiglia e spero che riposi in pace, sicura che anche noi l'abbiamo amata. Toni Cappelli Boyd (trad. di Francesco Mendozzi)

  • Le nostre vie si dividono (I)

    Sam non ci svegliò alle tre: fui io a svegliarmi e a scoprire, aprendo la porta, che stava per spuntare il giorno. Presto fummo fuori, sulla via acciottolata, e Sam rimise la scala dove l'aveva trovata. Nessuno, in paese, era ancora uscito di casa, ma la prima luce grigia cominciava ad illuminare la collina sulla quale si trovava la frazione . Partimmo in fretta. Pensavo che Sam ci avrebbe guidati in un posto coperto, dove saremmo rimasti tutto il giorno per raggiungere il fiume al tramonto, così quando egli voltò a destra e cominciò a scendere, mi fermai. – Ehi, Sam – gli chiesi, – dove vai? – Al Sangro! – mi rispose sorpreso. – Lo traversiamo, no? – Adesso, con questa luce? – Naturalmente... – Ma come, non capisci che prima che siamo al fiume sarà giorno? È lontano, lo sai... – Che mi importa! Dobbiamo attraversarlo stamani, luce o non luce! – Non pensi che sia meglio nascondersi qui intorno e cercare di sapere qualcosa sulla posizione dei tedeschi, e magari di avere una guida? – No, no! Ti dico che dobbiamo traversare adesso. Vieni? Per una volta mi accalorai. – Penso che sei matto, Sam. Sarebbe un suicidio. Per il momento, non sappiamo nemmeno dove siamo, e stai scendendo alla cieca. Ascolta la voce della ragione! – Piantala di chiacchierare, ogni minuto è prezioso! – Io non mi muovo. Anche se voi tre andate... – Vieni, vieni! Ci mettemmo a discutere - Curly e Bunny erano d'accordo con me - ma era come parlare ad un muro. – Ma non ve l'ho detto stanotte che avremmo traversato all'alba? – Sì, – risposi, – ma parlavi delle tre. Adesso sono le cinque e mezza. Sam, che durante gli ultimi minuti aveva preparato in fretta i sacchi, mi porse il mio, si gettò il suo sulle spalle, e mi dette la mano. – Ecco, Uys, stringila, – mi disse. – Addio, e buona fortuna! Speriamo che ce la farete. Ci vediamo a Bari... Strinse le mani anche agli altri, e l'attimo dopo già si arrampicava sulla cresta di una collina in direzione del Sangro, stagliandosi contro il cielo grigio già orlato di rosa. – Al diavolo! – dissi rivolgendomi agli altri. – Perché avrà la testa così dura? Probabilmente lo acchiapperanno. Bene, comunque starà in guardia... – Ero ancora irritato, ma una certa tristezza si stava già insinuando nel mio animo, perché, fino a questa separazione che sembrava così definitiva, io e Sam eravamo sempre stati insieme. Passammo il giorno in un eccellente nascondiglio costituito da un gruppo d'alberi con il sottobosco molto folto, a circa mezzo miglio dalla frazione. Lassù, verso le nove, venimmo "adottati" da un bambino di dieci anni in groppa ad un placido somaro dalle orecchie molto lunghe che, quando fu alla nostra altezza, si fermò di colpo, volse lentamente la testa verso di noi e ragliò sonoramente. Pipino non solo voltò il somaro e ci portò un'eccellente colazione, ma ci convinse a scendere alla frazione e a pranzare con la sua famiglia. L'estrema povertà del villaggio costituiva una precisa accusa al pseudo-socialismo di Mussolini; ma l'ospitalità della famiglia di Pipino - c'erano un padre, una madre e nove figli - fu così calorosa da farci ricordare sempre con affetto e con rimpianto quella povera piccola comunità raccolta nelle casette color cenere sul fianco della collina. Ci dettero informazioni dettagliate sul luogo migliore dove traversare il fiume, ci caricarono di rifornimenti, e verso le cinque eravamo di nuovo nel nostro rifugio, Il sole era tramontato quando cominciammo a scendere il pendio alla nostra sinistra. Passo passo giungemmo in vista del fiume po meglio della sottile nebbia che si sollevava da esso. Lontano, alla nostra destra, sulla riva del fiume c'era il paese di Ateleta; e una strada, fiancheggiata dalla linea tranviaria, correva lungo l'argine settentrionale. Leggermente a destra oltre il fiume c'era il villaggio di Castel del Giudice in cima ad una collina alta e isolata. Una strada si dirigeva verso di esso, e poi ne usciva continuando lungo l'argine meridionale in direzione dell'Adriatico; sulla vetta più alta del crinale davanti a noi si vedevano le chiazze bianche delle case di Capracotta, il nostro obiettivo di quella tappa. All'alba, si sperava, saremmo stati oltre Capracotta sulla nostra destra. In quel momento sembrava miglia e miglia lontano. Il nostro obiettivo immediato e più pericoloso era la traversata del Sangro, il superamento di Castel del Giudice e la marcia fino al margine dei boschi. Un quarto d'ora dopo raggiungemmo la casa di un uomo che, come ci aveva detto il padre di Pipino, aveva fatto fortuna negli Stati Uniti, e poi era tornato a morire al suo paese, tre mesi prima dello scoppio della guerra. Eravamo nascosti fra i cespugli ad una cinquantina di metri dalla strada in attesa che facesse buio, quando un contadino ci sorprese comparendo all'improvviso e venendo a sedersi accanto a noi. – Ci sono quattro dei vostri, ad un centinaio di metri, – ci sussurrò. – Se volete vederli, vi ci porto io! – Grazie, ma non vogliamo vedere nessuno. Anche se la vostra faccia ci piace, – risposi. – Bene, ne sono contento. Pensavo che vi avrebbe fatto piacere vederli. Loro, credo, sarebbero contenti. Sono rimasti là tutto il giorno. Si sentono un po' soli... – Non abbiamo voglia di far visite in questi giorni. I trasporti non funzionano, e meno siamo, meglio è. – Hanno cercato di passare il fiume stamani, ma i tedeschi hanno sparato e son dovuti tornare indietro. Uno è stato ferito. Ma non preoccupatevi, nulla di grave. Un colpo di striscio. Nel pomeriggio gli ho portato bende e garze. Presto attraverseranno. Gli porterò i vostri saluti. Buona fortuna per la traversata. Sarà facile al buio... – E se ne andò come era venuto fra i cespugli. Restammo circa tre minuti in un fossato presso la strada. Poi io l'attraversai. Non si vedeva anima vita, e sulla collina dove, lo sapevamo, i tedeschi avevano un nido di mitragliatrici, splendeva una sola luce. Traversai la linea tramviaria, raggiunsi un argine, fischiai, e gli altri furono presto con me. Facendoci largo fra le canne giungemmo subito alla riva del fiume, largo una ventina di metri e liscio come uno stagno. A Castel del Giudice brillavano alcune luci, e si udiva il suono di qualche camion sulla strada ghiaiosa lungo la collina. Ci spogliammo, cacciammo i nostri abiti nei sacchi, legammo le scarpe assieme per i lacci, e guadammo con l'acqua al petto. Poi facemmo un bagno, il primo dopo molte settimane, usando a turno un pezzo di sapone casalingo datomi da Marta più di un mese prima. Poco dopo ci rimettemmo in moto e camminando in fretta giungemmo ad un muro di pietra che costeggiava la strada. Quando sollevammo la teste al di sopra di esso, vedemmo cinque o sei camion, a fari accesi, che scendevano giù da Castel del Giudice. Balzando giù dal muro, attraversammo con indifferenza la strada, sebbene il primo camion fosse appena passato e altri si avvicinassero da entrambe le direzioni. A venti metri dalla strada, sedemmo su un argine al limitare di un bosco per guardare il traffico. Ci sembrava tutto molto buffo: i camion, le macchine degli ufficiali, le voci in tedesco, tutto era molto divertente, e dovemmo trattenerci per non ridere forte. Non restammo allegri a lungo. Il bosco in cui entrammo era così fitto che avanzarvi era faticosissimo. Dove non c'erano i rami bassi che univano come sbarre un albero all'altro, il nostro procedere era impedito da ogni genere di cespugli spinosi che ci graffiavano e ci trattenevano. Ma la peggiore caratteristica era l'asprezza della salita e la totale oscurità che ci impediva di vedere ad un passo davanti a noi. Passarono forse tre ore prima che trovassimo un sentiero. Lentamente la foresta divenne meno folta, gli alberi più alti, i cespugli meno fitti; anche l'oscurità diminuì. Di quando in quando si vedeva, disegnato in nero contro il cielo scuro, il crinale spazioso che costituiva la nostra meta. Da qualche parte stava sorgendo la luna, e una pallida luca gialla era apparsa sul profilo oscuro dei monti. Ma sarebbero occorse ancora tre ore prima che essa si innalzasse visibile nel cielo. Il terreno era molto accidentato. Curly era stato nominato battistrada, e già avevo discusso diverse volte con lui sulla direzione da seguire: sembrava che avesse una netta preferenza per i pendii scoscesi e che trascurasse volutamente il terreno pianeggiante e più facile. Non c'era metodo alcuno nella sua follia, e glielo dissi. Uys Krige (trad. di Piero Pieroni) Fonte: U. Krige, Libertà sulla Maiella , trad. it. di P. Pieroni, Vallecchi, Firenze 1965.

  • Capracotta 1675

    Il disegno manoscritto nel "Monimentum singularis". Questo che potete ammirare qui sopra è un disegno miniato realizzato dal reverendo slovacco Tobia Masnizio (1640-1697) nel 1676 dopo che egli, assieme al compagno Giovanni Simonide (1648-1708), subì un'infinita serie di violenze psicologiche e fisiche per non aver rinnegato, sotto le accuse di un tribunale controriformistico, il proprio credo. Quelle violenze si protrassero non solo nel tempo ma anche nello spazio, tanto che da Bratislava, nel Regno d'Ungheria, egli venne catapultato a Capracotta, nel Regno di Napoli, assieme a 40 pastori evangelici, recalcitranti quanto lui. È una storia inedita che narrai, con dovizia di particolari, nel mio " L'inaudito e crudelissimo racconto " del 2018. Oggi voglio però parlare soltanto di questa affascinante illustrazione, cercando di non ripetere quanto scritto nel libro. Il sesto foglio del "Monimentum singularis" di Masnizio è infatti dedicato alla forzata permanenza dei due preti protestanti in Contado di Molise e Terra di Lavoro, tra Isernia ed Aversa. La vignetta in alto a destra mostra Capracotta così come emerse dai terribili ricordi del sacerdote slovacco. Credo che sia indispensabile analizzare questa immagine con estrema attenzione perché è l'unica rappresentazione fedele della Capracotta della seconda metà del XVII secolo. Innanzitutto la scena è animata. In basso a destra si vede un pastore con le sue pecore e un cane a far da guardia al gregge. Al centro della scena vi sono invece quattro uomini: i due in testa e in coda sono guardie dell'Università di Capracotta, la coppia al centro è invece quella dei malcapitati stranieri trovatisi il 3 maggio 1675, per un capriccio del destino, nel nostro paese. Le guardie hanno fermato i fuggiaschi e li stanno conducendo prima in speciaria (farmacia) per poi tradurli nelle prigioni della nostra chiesa. Chi ha un minimo di dimestichezza con Capracotta ha già capito che la scena si svolge dinanzi all'odierno Santuario della Madonna di Loreto, che sul lato destro mostra un campanile con cupola a cipolla di cui non si ha memoria. Quello odierno, piccolo e in posizione sud-ovest rispetto all'asse prospettico, è infatti un elemento che desta perplessità negli studiosi che si cimentano nell'analisi architettonica della chiesa. Il disegno di Masnizio dirada invece ogni dubbio e ci tramanda la conformazione della cappella della Madonna di Loreto così com'era tra il grande restauro del 1622 e la ricostruzione della prima metà del '700, che grossomodo è sopravvissuta fino ad oggi: praticamente l'attuale chiesa è stata edificata a destra di quella antica, e quest'ultima è stata evidentemente convertita in canonica. Sulla strada, ai lati della cappella della Madonna di Loreto, appaiono due croci stazionarie, di cui una, quella d'oriente, è pressoché identica all'attuale. Chiaramente non è la stessa ma presenta i medesimi arnesi (a rappresentazione dei mestieri) attaccati sul legno orizzontale che oggi troviamo, ad esempio, sulla croce del Calvario o su quella della Crocetta. La seconda croce, quella d'occidente, è invece un mistero: sembra una normalissima croce campestre come quella del Procuoio. Dietro la chiesa, leggeremente a sinistra, si vede uno stazzo (in capr. jàcce ), luogo di sosta temporanea per le greggi innalzato dai nostri pastori tanto in paese quanto sui tratturi quand'era tempo di transumare. Arriviamo infine al paese vero e proprio, appena visibile sulla destra del disegno, e protetto da possenti mura, che allora si affacciavano sui Rinforzi (o Celano), l'attuale intera via Roma. In questa rappresentazione capracottese si contano poi ben diciassette croci in cima agli edifici, a rappresentare iconicamente chiese intra extraque mœnia , istituti religiosi e congregazioni. Al 3 maggio 1675 si contavano infatti nella nostra cittadina: la Chiesa dell'Assunta, in ricostruzione; la Chiesa dei SS. Giovanni, Sebastiano e Rocco; la Chiesa di S. Antonio di Padova; la Chiesa di S. Maria delle Grazie; il monastero di S. Croce di Verrino; il monastero di S. Giovanni Capraro, abbandonato; l'oratorio di S. Filippo Neri; l'ospizio di S. Antonio Abate; la badìa di S. Giusta; la badìa di S. Maria della Consolazione; la Congregazione del Carmine; la Congregazione del Corpo di Cristo; la Congregazione del Purgatorio; la Congregazione del Rosario; la Congregazione del Sacramento; la Congregazione della Morte; la Congregazione della Visitazione. All'esterno dell'abitato si nota un altro paio di croci stazionarie: la prima, molto grande, in quella che dovrebbe essere la località Coccia Muzzo e che forse sta ad indicare le contrade capracottesi sotto i Ritagli; la seconda croce è invece lontana e forse rappresenta altri castelli della valle del Sangro. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: A. Barone, Della vita del padre Francesco Pavone della Compagnia di Gesù , libro I, De Bonis, Napoli 1700; L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Scuola Tip. Antoniana, Ferentino 1931; G. Carugno, Santa Maria di Loreto, da «Venerabile cappella» a «Santuario diocesano». Indagini, ipotesi, cronaca , San Giorgio, Agnone 1993; A. Cistellini, San Filippo Neri: l'Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità , libro III, Morcelliana, Brescia 1989; F. Mendozzi, L'inaudito e crudelissimo racconto della prigionia capracottese e della miracolosa liberazione , Youcanprint, Tricase 2018.

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