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  • Immagini dal Sannio: la processione di Santa Lucia a Capracotta

    È la Santa della luce e non a caso viene festeggiata proprio durante quello che, prima del calendario gregoriano, era considerato il giorno più corto dell'anno. Santa Lucia, martire cristiana morta durante le persecuzioni di Diocleziano, è molto celebrata in molte città del Nord, in cui quella del 13 dicembre in qualche modo è la data che anticipa il Natale, con tanto di regali ai bambini. Prima delle correzioni introdotte dal calendario gregoriano, il solstizio d'inverno, che segna l'inizio della stagione più fredda, cadeva proprio nella giornata del 13 dicembre, spostato ora alla notte tra il 21 e il 22 dicembre. Nelle campagne, durante la giornata del 13, vi era una consuetudine molto solidale: gli agricoltori che avevano avuto raccolti più abbondanti ne donavano una parte a chi invece aveva avuto una stagione meno fortunata. Si racconta anche che nel Bresciano, dopo un periodo di carestia, alcune signore di Cremona inviarono ai cittadini sacchi di grano a bordo di un carro trainato da asinelli con la distribuzione porta a porta che sarebbe avvenuta proprio nella notte tra il 12 e il 13 dicembre. Fu quello il momento in cui si cominciò a parlare di un intervento della Santa, che in vita donò i suoi averi a molte persone bisognose, dando origine alla tradizione dei doni in occasione del giorno di santa Lucia. Inoltre, secondo la leggenda, nella notte che precede il 13 dicembre la Santa vola sui campi con una corona di luce per riportare fertilità. Un'altra leggenda racconta che in un non precisato luogo, durante un non precisato anno (qualcuno sostiene a Siracusa, città della Santa, nel 1646), durante una fortissima e tremenda carestia che stava decimando la popolazione, proprio nella giornata del 13 dicembre arrivò nel porto cittadino una nave carica di grano. Subito questo "dono" prezioso fu che fu distribuito alla popolazione che era talmente affamata da non perdere minuto alcuno per macinare il grano e produrne farina per preparare il pane. Eppure, mentre il grano bolliva, la gente lo mangiava per acquietare la fame, divorandolo appena cotto. È per questo che in occasione dei festeggiamenti di santa Lucia, in molte zone d'Italia è tradizione mangiare il grano bollito, simbolo di abbondanza e di pace, per ricordare che santa Lucia, portatrice di luce nel buio, con il grano ha vinto la carestia. Questo è quanto accade anche a Capracotta, piccola e ridente località montana in provincia di Isernia, dove la Santa è una delle figure religiose più amate. La tradizione ci racconta che nel 1948 a un cittadino di Capracotta apparve in sogno la Santa, che gli chiese di costruire una chiesetta in suo onore sotto le pendici di Monte Campo. Fu proprio lì che un nutrito gruppo, composto da 22 abitanti del piccolo paese molisano, decise di costruire la cappella in onore di santa Lucia, i cui lavori videro il termine nel 1950, con muratura portante in pietra, una pianta rettangolare a capanna, un portale architravato e un campanile a vela. Furono molti altri i cittadini a contribuire alla realizzazione della cappella, sia come manodopera, sia con donazioni in denaro, provenienti dalla vendita del grano. Nei pressi dell'area in cui sorge la cappella fu scoperto un corso d'acqua fresca e leggera, la cui sorgente si trova ai piedi della montagna, bevibile da una fontana dedicata alla Santa, che sembra abbia proprietà terapeutiche. L'attuale statua presente nel borgo fu donata nel 1952 in occasione di una grande festa in suo onore. Si tratta di una bellissima effige, bella come la tradizione descrive la Santa. A Capracotta, le celebrazioni di santa Lucia si svolgono durante la terza domenica di agosto. Una tradizionale processione, una festa molto sentita. All'inizio dei festeggiamenti viene distribuito il grano cotto benedetto. La statua, che per tutto l'anno resta nella chiesetta, la sera del sabato viene portata in processione presso la Chiesa Madre. Un momento molto toccante e sentito, con i cittadini commossi, le automobili che illuminano la notte, i bambini che sfilano, le fiaccole che illuminano il suono della banda, le preghiere recitate dal sacerdote e dai fedeli, la campana che suona a festa e si fa sentire per tutto il paese. La domenica la statua viene trasportata per le vie del paese, e la sera fa ritorno alla cappella. Un momento molto toccante be sentito da tutti i cittadini del piccolo borgo molisano. Barbara Serafini Fonte: https://www.fremondoweb.com/ , 13 dicembre 2021.

  • Or che mesta è la terra

    Or che mesta è la terra e il ciel si oscura, ed un'aura commossa il bosco sfronda, nell'alma io sento il duo della natura, sempre nascente e sempre moribonda. Deh! perché il sole, al par del sentimento che il cor mi irraggia, ma non scalda più, tra fosche nubi, in mezzo al firmamento, triste all'aere sorride a noi quaggiù! Questo vento che geme alla campagna, trasvolando leggier di cosa in cosa, parmi l'alma del mondo che si lagna perché la vita è dura e faticosa. Oh, tutto tutto a sospirar mi invita nelle profonde intimità del core: perché in principio è il bello della vita e nell'opre di Dio entra il dolore? Oreste Conti Fonte: O. Conti, Liriche , Detken & Rocholl, Napoli 1910.

  • L'Eracle di Capracotta, difensore degli armenti

    Nel suo ricchissimo "Archeologia di Agnone" Bruno Sardella ci informa che in una località imprecisata tra Agnone e Capracotta fu ritrovata una statuetta in bronzo di Ercole, un manufatto oggi irreperibile a seguito della vendita che nel 1970 ne fece il possessore Giuseppe Marcovecchio. L'archeologo sostiene che la statuetta appartenesse all'età sannitica (III-II sec. a.C.) e raffigurasse il dio Ercole con la gamba destra rigida e l'altra flessa; il braccio destro era sollevato in avanti e piegato ad angolo, e la mano probabilmente impugnava una clava (di materiale diverso); il braccio sinistro era invece spostato di lato, verso il basso, mentre reggeva la leontè , la pelle di leone nemeo, trofeo della sua prima fatica. La testa dell'eroe, infine, presentava una capigliatura a riccioli ondulati ben rilevati. Bruno Sardella afferma che «la vicinanza al Gruppo Tufillo fa propendere per una datazione medio-ellenistica [e] secondo quanto riferiscono persone di Agnone, lo scopritore possedeva dei terreni in località Macchia, a sud della Fonte Romita, luogo di rinvenimento della Tavola di Agnone, e non è da escludere che l'oggetto possa provenire proprio da quella zona». Il rinvenimento di una statuetta di Eracle (diventato Ercole in epoca romana) in territorio capracottese rimanda dunque alla possibilità che sorgesse un tempio a lui dedicato su un punto molto alto, presumibilmente la vetta di Monte San Nicola, luogo nel quale si è andato evolvendo, nel corso dei secoli, un qualche culto eracleo, la cui «dimensione collettiva, sociale, [...] si inserisce all'interno della tradizione e si impone come modello di riferimento». Eracle era infatti l'eroe greco per eccellenza, assunto dalle popolazioni indigene dell'Italia Meridionale come cerniera di collegamento tra i Greci delle colonie e la madrepatria, il che fa pensare che il suo mito possa esser giunto in Alto Molise in seconda battuta, attorno al III sec. a.C. Oltre al coraggio, Eracle rimandava anche alla fertilità femminile. L'eroe, difatti, era considerato nel mondo antico un protettore del ventre, sia maschile che femminile. A tal proposito, una particolare attenzione merita il suo simbolo più noto, la clava (purtroppo assente nell'esemplare altomolisano), che in epoca romana veniva usata come amuleto, e che aveva anche un certo ruolo nel proteggere alcune funzioni vitali del corpo umano. Nel Meridione, la diffusione dell'Ercole, affievolitasi a partire dal IV secolo a.C., dovette riprendere nel II secolo a.C. grazie al definitivo stanziamento dei Romani, in concomitanza con la sostituzione etnica operata da questi ultimi. Ma in Alto Molise, dove la romanizzazione fu molto più lenta, il culto eracleo probabilmente rimase appannaggio dei Sanniti, i quali, abitando le montagne interne e riconoscendo un ruolo fondamentale alla pastorizia, vedevano in Eracle non più un eroe bensì un semidio funzionale al loro modus vivendi : il mito lo tramanda infatti come colui che recupera le mandrie per riportarle all'interno del cosmos cittadino. In veste di difensore degli armenti Eracle può essere assimilato alle molteplici e non ben definite divinità autoctone, spesso riconducibili alla tradizione di Silvano. Almeno fino al II secolo a.C., poi, si sviluppò in tutto il Meridione una grande produzione di bronzetti figurati perlopiù collegati a santuari o a forme diffuse di ritualità. Eracle era generalmente rappresentato in nudità eroica, nella posizione dell'attacco. Questa iconografia si addice perfettamente alla costumanza sannita di porre particolare attenzione alla robustezza giovanile: gente forte in grado di pascolare le pecore e, al contempo, combattere i nemici. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: M. D'Andria, L'antica Acerenza, tra paganesimo e cristianesimo , in «Studi Meridionali», 3-4, Roma, luglio-dicembre 1975; P. Di Giannantonio, La Tavola Osca di Capracotta , Lampo, Ripalimosani 2021; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; V. Ramanzini, La clava d'oro di Ercole , in «Mythos», 10, Palermo 2016; B. Sardella, Archeologia di Agnone , Scienze e Lettere, Roma 2021.

  • Erasmo da Taranto

    Erasmo Iacovone non è un martire, nessuno lo considera tale a Taranto. La sua presenza però è tutt'oggi visibile, tangibile. Un ricordo scolpito non solo nelle memorie dei tifosi ma dell'intera città, che ne fa un vanto: un simbolo in un territorio oggi sfortunato, ma che un tempo sognava di recitare nel più importante palcoscenico del calcio italiano, la massima serie. La storia di Iacovone è la storia di Taranto, in un legame inscindibile. Due elementi che si trovarono per caso, si rincorsero intensamente, danzarono tra gli odori acri dei fumogeni in curva e, quando tutto sembrò idilliaco, si abbandonarono; materialmente distanti ed emotivamente vicini, la fede per la squadra non si slegò mai dal ricordo del suo profeta. I rossoblu, come tante altre provinciali in quegli anni, coltivavano grandi ambizioni. I presupposti vi erano tutti nella stagione 1977-78, in una serie cadetta entusiasmante che proprio in quel decennio raggiunse il massimo splendore. Il calcio di allora era completamente diverso da quello odierno: allo spettacolo sul terreno di gioco si affiancava quello sugli spalti, generando un binomio coreograficamente perfetto. Non c'era ancora, quantomeno in Italia, quell'ossessione tattica che condizionerà il calcio moderno. Le compagini mostravano una spiccata propensione difensiva, con quasi tutta la squadra che si faceva carico delle bagarre in mezzo al campo, per poi servire il terminale offensivo a cui era affidato il solo compito del gol. L'undici del Taranto non faceva eccezione, sobbarcandosi tutte le responsabilità del gioco per poi servire fiducioso un tridente composto da Gori-Selvaggi-Iacovone, che quasi sempre mandò in estasi il popolo che calcava i gradoni dello Stadio delle Saline , specie in quella stagione. Il più temuto era proprio il centravanti, un ragazzo non molto alto, proveniente da un freddo paesino nel Molise, Capracotta. Di strada in effetti ne fece molta il giovane Erasmo, che ebbe il suo battesimo calcistico a Tivoli (dove si trasferì in infanzia insieme alla famiglia). Nel girò di qualche anno, dopo un po' di esperienza nei dilettanti, passò per Trieste, Carpi e Mantova. Giunse in Lombardia consapevole che quella tappa avrebbe inevitabilmente condizionato la sua carriera, in meglio o in peggio: la gavetta d'altronde è utile solo quando è di passaggio, ed Erasmo in cuor suo aspettava il salto di qualità. Le 24 reti in due stagioni confermarono le sue sensazioni, e diedero prova del suo spiccato fiuto per il gol. Il feeling con la porta divenne naturale, continuativo. All'inizio della stagione 76-77, a fine ottobre, segnò già sei reti in altrettanti incontri: fu allora che, nel mercato di novembre, il Taranto decise di acquistarlo. Un acquisto esoso per il parsimonioso presidente rossoblu che però, attraverso una serie di contropartite, riuscì a convincere la dirigenza del Mantova. Per il giovane si aprirono dunque le porte della cadetteria. In città vi fu un iniziale scetticismo: Chi è questo? L'abbiamo pagato troppo! In serie B serve esperienza! Iacovone esordì il 31 ottobre del 1976 a Novara, presentandosi ai suoi nuovi tifosi con uno straordinario stacco aereo che impressionò tutti, compresi i difensori che non riuscirono ad arginare l'esplosiva forza nelle gambe. Rete. Proprio l'elevazione fu una delle sue doti chiave. Nonostante non avesse il physique du role di un saltatore, era dotato di un baricentro basso che rendeva i suoi movimenti fluidi e scattanti, virtù comune a tanti grandi calciatori: la sua fu un'agilità atletica mista a forza fisica. Quel gol rappresentò il biglietto da visita a Taranto, che lo iniziò a conoscere dentro e fuori dal campo, rispettandolo e supportandolo. Con il suo prezioso aiuto (8 reti), il Taranto riuscì ad evitare la retrocessione, ponendo le basi per un campionato di vertice nella stagione successiva; certo non fu un amore a prima vista, e anzi ad essere onesti il sentimento sbocciò definitivamente in un altro storico incontro. La stagione successiva i delfini gravitavano nelle zone alte della classifica, trascinati dall'oramai solito goleador, e il 20 Novembre 1977 ad attenderli c'era una storica rivale come il Bari. I galletti erano una squadra rognosa, difficile da affrontare. Inoltre, l'attesa fu febbricitante per un derby tra i più sentiti e pericolosi di Puglia. Il Bari rispettò le attese della vigilia schierando una squadra compatta e solida, attenta a non prendere gol e che tentava il contropiede. Si presentò una situazione di stallo molto simile a quelle che lo stesso Erasmo, grande appassionato di film western, vide tante volte; non solo lui, ma anche la stessa produzione cinematografica di quel genere viveva il suo massimo splendore in quel momento. L'attaccante sapeva come eludere la cavalleria avversaria e lo fece in pieno stile Far West . Punizione battuta veloce sulla trequarti, Iacovone cavalcò velocemente verso l'area di rigore superando le maglie avversarie; poi, una volta ricevuto il pallone, ebbe il tempo di alzare lo sguardo ed incrociare quello dell'estremo difensore del Bari, e la pistola più veloce a sparare fu la sua. Pallonetto delicatissimo che si infilò dolcemente in porta. Taranto trovò il suo eroe ed iniziò a sognare quell' eldorado chiamato Serie A. C'è un'Italia profonda e terribilmente affascinante, unita dal pallone, che vive anche per momenti come questi. Fin quando, il 5 febbraio del 1978, la complessità del destino si manifestò nell'incontro tra Taranto e Cremonese, un punto di svolta per il sogno Serie A e per la vita di Erasmo. Una partita sfortunata, giocata intensamente, in un campionato che vedeva i delfini proiettati verso il secondo posto, valevole insieme al primo e anche al terzo per la promozione diretta. La squadra procedeva spedita verso un traguardo che la città tanto agognava, fiera soprattutto di quel Iacovone primo nella classifica marcatori del torneo. L'estremo difensore degli avversari però quel giorno ci mise del suo: Alberto Ginulfi, infatti, prima di difendere i pali della Cremonese, fu portiere della Roma. Con i giallorossi si mise in luce nell'universo calcistico mondiale in una particolare situazione, ovvero quando parò un rigore al grande Pelè, in occasione di un'amichevole nel Marzo del 1972 tra Roma e Santos. Il lavoro dell'attacco, che già di per sé apparve arduo, si complicò a causa dei due legni colpiti dal numero 9, che costrinsero i padroni di casa a rallentare leggermente la propria corsa. Il triplice fischio del direttore di gara sentenziò l'amara conclusione dell'incontro. I mugugni provenienti dai vecchi parterre si levarono minacciosamente nell'aria, malgrado si trattasse di rammarico, e non di rabbia. Il tifo in fondo è da sempre uno dei più spiccati esempi di irrazionalità, alimentato da un pericoloso elemento quale la speranza, capace di mantener sempre negli affezionati un'innata fiducia nel futuro. I seguaci dello stadio quel giorno ne furono la prova, i calciatori meno. Diretti protagonisti delle sorti della stagione, consapevoli dell'occasione sprecata, uscirono dal terreno di gioco delusi ed amareggiati. Iacovone in particolare, l'uomo più determinante sino ad allora, parve tra tutti quello meno soddisfatto della prestazione. Entrò negli spogliatoi privo della solita grinta che lo contraddistingueva in campo e fuori. Come se percepisse qualcosa nell'aria, qualche energia negativa o semplicemente una sensazione. Del resto, quel giorno fu un ménage à trois tra portiere, attaccante e sorte. Fu quest'ultima ad imporsi, non durante il match ma poche ore dopo. Verso la fine degli anni Settanta c'era una filastrocca che tutti i bambini della vostra età, che abitavano da queste parti, conoscevano a memoria. Faceva così. Petrovic, Giovannone, Cimenti, Panizza, Dradi, Nardello, Gori, Fanti, Iacovone, Selvaggi, Caputi. E l'accento cadeva su Iacovone. La sera stessa parte dei calciatori decise di concludere insieme la giornata, cenando in un ristorante alle porte della città. Erasmo dapprima rifiutò l'invito, d'altronde era stato un giorno lungo e snervante, non aveva voglia di allungarlo ulteriormente. Furono i suoi compagni a convincerlo, quasi a trascinarlo fisicamente, per la vicinanza ad un amico ancor prima che ad un collega. Due giorni dopo sarebbe iniziata la preparazione per la sfida contro il Rimini, sicuri che con lui in campo le cose sarebbero andate per il verso giusto. Ormai i destini di Iacovone e di Taranto erano legati indissolubilmente, tant'è che la società ricevette un'importantissima offerta da parte della Fiorentina, a gennaio, per il suo talentuoso numero 9. Il presidente rifiutò categoricamente: se Erasmo avesse dovuto raggiungere la massima serie, lo avrebbe con i rossoblu. Ed anche lui fu subito d'accordo. Forse non fu una cattiva idea. Forse distrarsi serviva a scrollare di dosso qualche peso, a concentrarsi sul futuro. Il suo futuro, fatto da una missione calcistica e dal figlio nel grembo di sua moglie. Decise di rientrare a casa prima dei suoi compagni, ed in quel momento la sua storia s'incrociò inevitabilmente con quella di un altro ragazzo. Si chiamava Marcello Friuli, sfrecciava sulla Statale Taranto-Lecce con un'Alfa Romeo 2000 rubata, inseguito da una volante della polizia. L'auto viaggiava a circa 200 km\h con i fari spenti. In quello stesso istante la Dyane 6 del calciatore si apprestava ad uscire da una stradina secondaria. L'impatto fu terribile, e il corpo di Erasmo venne catapultato fuori dall'abitacolo con una violenza inaudita. Fu subito chiaro per le forze dell'ordine, che riconobbero il corpo del giovane centravanti, che non c'era più nulla da fare: così morì il Re di Taranto, ai cui funerali partecipò tutta la città. La moglie Paola poco tempo dopo diede alla luce il suo unico figlio: una volta cresciuto, andando allo stadio Erasmo Iacovone , ascoltando i cori della curva, osservando quel volto estraneo ma familiare sui vessilli colorati, siamo certi che quella distanza gli sia pesata di meno; potreste chiedervi questo a cosa serva, ma invece fa tutta la differenza del mondo. Taranto fu sfortunata, Taranto è sfortunata. Con lei anche il suo profeta. Una città che vive di calcio ma che dal calcio non ha mai avuto gioie; che proprio quell'anno sembrava lanciata verso il supremo coronamento insieme al suo condottiero, un traguardo che non raggiungerà mai più. Il campionato si concluse a meno sei punti dall'ultimo posto utile per la promozione: la città perse il suo simbolo, e la squadra non fu più la stessa. Il presente, poi, non è meno amaro del passato. Dopo tanti anni a cavallo tra C2 e C1, oggi il Taranto gravita nei dilettanti. Una categoria di certo non consona ad una piazza così calorosa, così innamorata del pallone. Ad un popolo che continua a subire le angherie del destino e della fratricida mano dell'uomo, annebbiata dai fumi tossici dell'Ilva, quell'industria che proprio negli anni ottanta risollevò temporaneamente la città e che poi, come un boomerang, si è scagliata sulla sua stessa popolazione. Domenico Rocca Fonte: https://www.rivistacontrasti.it/ , 6 febbraio 2021.

  • Amore e gelosia (XXII)

    XXII Si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore, don Salvatore. Faticosamente si erse sul letto con la sola forza delle braccia puntellandosi alla spalliera: non ricordava quasi nulla dei sogni fatti in quella ora circa di dormita, ma un senso di urgenza lo attanagliava: c'era una cosa che doveva fare, anzi due, ma non ricordava nessuna delle due. Il sogno gli aveva risvegliato dentro qualcosa cui doveva mettere mano e subito: ma che cosa? Un'ansia strana, indefinibile lo possedeva e quasi gli mozzava il fiato: doveva ricordare, doveva! In quel mentre la porta si riaprì e la faccia grinzosa della madre, in una maschera sorridente gli fece: – Salvato' è pronto in tavola... Vieni? – Subito mammà, subito... Due minuti e vengo. Non era più tempo di mettersi a riflettere, così si alzò dal letto, infilò le scarpe e si recò in cucina. Il pranzo si svolse silenziosamente, nonostante i tentativi di donna Patrizia di tirare fuori il figlio dal suo mutismo. – Mammà, mi fai portare il caffè nello studio? Aggia fa' qualcosa di importante... Due minuti dopo era seduto alla sua scrivania, tra i suoi amati libri, le penne, i calamai pieni di inchiostro e i suoi fogli bianchi che attendevano di essere vergati dalla sua grafia e colmati della sua poesia. Ma non scrisse niente: se ne stava lì seduto a pensare: Assunta... Ma sì, ora ricordava! La sua novella "Assunta Spina", un vero dramma della gelosia! Perché non adattarlo per il teatro? Bastava renderla più forte, più tragica, con più gelosia e... E insieme con la parola gelosia ricordò l'altra priorità: Elisa! Doveva vederla, subito! Doveva andare a Nocera Inferiore, non poteva attendere il sabato e la domenica... Che cosa stava facendo, con chi stava, chi le gironzolava attorno? Decise: vado alla stazione, prendo il primo treno e scendo a Nocera... Poi si vedrà... Dieci minuti dopo era già in strada: sotto casa c'era un suo amico col carrozzino a due posti, gli chiese un passaggio e con uno schiocco di frusta il cavallino partì... clop clop clop... facevano gli zoccoli sul selciato e il carrozzino avanzava svelto lungo le strade. Giunse alla stazione: c'era un accelerato entro un quarto d'ora, fece il biglietto e salì nella carrozza di seconda classe. Il treno partì in orario con uno sbuffo di vapore: era in viaggio... Francesco Caso

  • Tragedia a fari spenti, il sogno spezzato del re di Taranto

    «Aveva 26 anni, i capelli ricci e lo sguardo gentile, di testa le prendeva tutte: Erasmo Iacovone fu travolto all'una di notte, mentre usciva da un ristorante. E pensare che non voleva andarci»... Il re di Taranto non ha ancora compiuto ventisei anni e ventisei anni non sono niente, un'ombra appena accennata nel contorno di una vita che sta prendendo forma. Ha i capelli ricci, i baffi sudisti, lo sguardo gentile. Quando fa freddo - prima del fischio d'inizio delle partite - saltella per sciogliere i muscoli poi incrocia le braccia sul petto e muove su e giù le mani per scaldarsi, nel gesto di chi riserva tenerezza a se stesso. Non è alto, ma va su in elevazione come un petardo. Il pezzo forte del suo repertorio è il colpo di testa. Gioca centravanti, la maglia di lana grezza gli pizzica la pelle, il numero 9 è cucito a mano sulla schiena, tra una striscia rossa e una blu. Ogni suo gol è una scintilla che accende il sogno della Serie A, la città di Taranto l'ha eletto idolo. Il re si chiama Erasmo Iacovone e non sa che nell'ultimo salto perderà la sua corona. Gliela toglierà un destino bastardo, uno schiaffo contrario, una coincidenza minima, però definitiva. Iacovone muore all'una di notte del 6 febbraio 1978. È al volante di una Dyane 6 quando esce dal parcheggio di un ristorante - la "Masseria" - e viene investito da un'auto - un'Alfa Romeo GT 2000 - che sta correndo a velocità elevatissima e con i fari spenti. Alla guida c'è un pregiudicato, si chiama Marcello Friuli, ha 24 anni, lavora saltuariamente all'Italsider, la più grande acciaieria d'Europa, oggi Ilva. Poche ore prima ha rubato una vettura in viale Virgilio, la macchina è intestata al professor Giulio Bernardini. Dopo aver forzato un posto di blocco Friuli sta fuggendo da una volante della polizia che è partita all'inseguimento. L'impatto è devastante. La Dyane 6 di Iacovone sta facendo manovra per immettersi nella Statale che va verso Taranto ed è praticamente ferma, l'Alfa è una palla di cannone che viaggia a 180 chilometri all'ora. Iacovone muore subito, trauma cranico, inutile la corsa in ambulanza, nel disperato tragitto verso l'ospedale SS. Annunziata. Il suo assassino, Friuli, se la cava con una prognosi di dieci giorni. Quando viene a sapere dell'incidente, la moglie di Iacovone - Paola Raisi - si trova a Carpi. È lì che si è trasferita la sua famiglia dal Veneto, dove Paola è cresciuta. È incinta del quinto mese di una bambina, ha programmato un controllo di routine. La bambina nascerà e si chiamerà Maria Rosaria, per tutti Rosy. Paola e Erasmo si sono conosciuti cinque anni prima, quando lui giocava con il Carpi in Serie D. Si sono fidanzati, nel giugno del 1977 si sono sposati, l'idea di un figlio è parsa ad entrambi una cosa da fare, subito bisogna farla. Il giorno prima della tragedia il Taranto ha giocato in casa contro la Cremonese, la partita è finita 0-0, molti i rimpianti per i pugliesi. Iacovone si è reso protagonista di un paio di azioni pericolose, ma ha trovato un portiere, Alberto Ginulfi, in stato di grazia. Iaco - come lo chiamano compagni di squadra e tifosi - è giù di morale, una settimana prima - contro la Pistoiese - si è sbloccato ed è tornato al gol dopo due mesi di astinenza, avrebbe voluto dare continuità alle sue marcature. È consapevole che i suoi gol sono fondamentali per alimentare il sogno della Serie A. Ne ha già segnati 8, quando muore sta lottando per il titolo di capocannoniere della Serie B con Massimo Palanca del Catanzaro e Stefano Pellegrini del Bari. L'ultimo gol della sua vita - contro la Pistoiese - è il riassunto di tutta una vita. Iacovone scatta sull'abbrivo di un'intuizione, prende il tempo al difensore avversario, entra in un'area di buche e pozzanghere, supera rocambolescamente il portiere - Poerio Mascella - e accompagna il pallone in porta. Erasmo è un molisano di Capracotta, in provincia di Isernia. È figlio di un postino, fin da ragazzino il calcio riempie le sue giornate. Ha cominciato a giocare all'inizio degli anni '70 con l'Omi Roma, la squadra delle Officine metalmeccaniche, poi Triestina e Carpi, dove si è messo in luce, segnando con una certa continuità e contribuendo alla promozione della squadra in Serie C. Ha il coraggio di un leone, l'ardire del combattente. Di testa è una furia. Un anno e mezzo prima di morire - nell'autunno del 1976 - è arrivato a Taranto dal Mantova, al mercato autunnale, per 400 milioni di lire, un investimento economico non da poco. Con la nuova maglia del Taranto ha debuttato a fine ottobre, contro il Novara: si è alzato dalla panchina e ha realizzato il primo dei suoi 8 gol, tutti di testa. Un segno del destino. Dicono somigli a Beppe Savoldi, il bomber che qualche anno prima è passato dal Bologna al Napoli con un'operazione di due miliardi di lire. A Iacovone - fin dalle prime settimane del 1978 - si è interessata la Fiorentina e quello - comunque vadano le cose col Taranto - per lui sembra davvero l'anno buono per il salto in Serie A. La domenica successiva alla sua morte il Taranto vince 3-1 a Rimini. La maglia n.9 di Iacovone la indossa il veronese Corrado Serato. È lui a segnare dopo appena tre minuti il gol del vantaggio. Serato ha 27 anni, quella sarà la sua ultima stagione da professionista. Dopo il gol non riesce a trattenere l'emozione e scoppia in lacrime. La squadra in quelle settimane di dolore reagisce col cuore, ma la morte di Erasmo segna il confine dei sogni. Il rendimento si appanna, la corsa rallenta e - nelle ultime 12 giornate - il Taranto vince una sola volta, alla penultima, quando ormai la promozione è sfumata. La stagione 1977-78 di Serie B - cominciata con grandi speranze - vede il Taranto del portiere croato nato a Pola, Zeljko Petrovic, e del futuro campione del mondo Franco Selvaggi che diventerà noto come "Spadino", classificarsi all'8° posto, in un'ammucchiata che comprende altre deluse, quali Sampdoria, Cesena e Sambenedettese. Non ci vuole nemmeno andare, alla "Masseria", Erasmo, quella sera. Preferisce stare a casa, ma i compagni insistono. Torna a casa, telefona alla moglie Paola, alla fine decide di raggiungere i compagni, anche per poco, giusto per stare insieme e fare gruppo, è così che fa un calciatore consapevole del suo ruolo all'interno dello spogliatoio. Due giorni dopo la morte di Erasmo, il presidente del Taranto - Giovanni Fico - decide di intitolargli lo stadio, che fino ad allora si chiama Salinella. Sotto la curva dello Iacovone, oggi c'è una statua in bronzo: è stata realizzata vent'anni fa dallo scultore Francesco Trani. Ai funerali partecipano in 15.000, inevitabilmente piove. Sulla strada per San Giorgio Ionico - a poche decine di metri dal luogo dove è morto Iacovone - è stato costruito un centro commerciale, poco più in là c'è una lapide che dà testimonianza di una morte prematura, un dolore condiviso, un sogno interrotto". Quel giorno non andai a scuola, piansi il mio campione, lì, in quello stadio che avrebbe portato il suo nome. E attraverso le lacrime che mi rigavano il volto (come ora mentre scrivo) insieme alla pioggia, riuscivo soltanto ad urlare la mia rabbia: "IACO, IACO, IACOVONE". Furio Zara Fonte: F. Zara, Tragedia a fari spenti, il sogno spezzato del re di Taranto , in «La Gazzetta dello Sport», Milano, 3 febbraio 2022.

  • Capracotta, il grande freddo

    È già destinata a rimanere nella storia la grande nevicata del 5 e 6 marzo 2015. Siamo a Capracotta, nel Molise, dove in meno di 24 ore sono caduti oltre due metri di neve, tanto che qualcuno si è visto costretto ad uscire dalla finestra anziché dalla porta. Un fenomeno straordinario, quello che ha fatto sin da subito parlare di record e ha fatto sì che il piccolo paese della provincia di Isernia, collocato sull'Appennino a circa 1.400 metri sul livello del mare, balzasse agli onori delle cronache nazionali e internazionali. Giorni di visibilità mediatica, ma anche giorni di intenso lavoro per far fronte agli innumerevoli disagi legati alla viabilità. Da queste parti, un vecchio detto dice che "qui ci sono undici mesi di freddo e uno di fresco". Poche parole per delineare le caratteristiche climatiche di Capracotta, che pure in altre occasioni si è ritrovata a fare i conti con straordinarie nevicate, come quelle del 2003 e del 2005. A raccontarci i giorni del grande freddo è il maresciallo capo Oronzo De Fano, Comandante della locale Stazione. «Ha iniziato a nevicare nel pomeriggio del 5 marzo e ha smesso nelle prime ore del 7». Fiocco dopo fiocco, per ore ed ore, la neve ha continuato a cadere ininterrottamente, fino a comporre una cartolina tutta bianca intarsiata dalle linee rette dei tetti, «uno spettacolo suggestivo che però ha significato lo stop alla circolazione, la paralisi della vita quotidiana e dunque l'impossibilità, per molti, di raggiungere il posto di lavoro». Gli oltre due metri di neve hanno fatto da sbarramento anche al portone della caserma dei Carabinieri in via Guglielmo Marconi. «Non riuscivamo ad entrare dal portone principale», racconta De Fano. In quei giorni gli addetti alla Stazione, dipendente dal Comando Compagnia Carabinieri di Agnone, sono stati impegnati, insieme ai volontari del Soccorso Alpino e al Corpo Forestale dello Stato, nel gestire le problematiche scaturite dalle precipitazioni intense, come la rimozione degli accumuli di neve dalle principali strade di collegamento. In prima linea, sui mezzi speciali in loro dotazione, il maresciallo capo De Fano, gli appuntati scelti Alessandro Caruso, Fabio Le Donne, Nicola Caldararo, l'appuntato Piero Di Giacomo. «Ci siamo mossi con il gatto delle nevi e con la motoslitta per portare medicine e generi di prima necessità nelle abitazioni e in una casa di riposo». Un'attività ma soprattutto un "servizio" nel senso professionale ed umano del termine, quello per cui i carabinieri di Capracotta si sono guadagnati la riconoscenza della popolazione e il plauso dell'amministrazione comunale. Messo da parte il maltempo, però, come scorre la vita, a Capracotta? Sport e natura è il connubio vincente di questo piccolo comune dove, a 1.573 metri d'altezza, spicca la località di Prato Gentile, divenuta meta rinomata per gli amanti dello sci di fondo grazie ad una pista di circa 15 chilometri. Un luogo, questo, da decenni palestra all'aperto di tanti atleti poi divenuti veri campioni. A proposito di natura, sempre su questo territorio c'è il Giardino della Flora appenninica, un orto botanico naturale dove l'imperativo è: tutelare la biodiversità. Ci sono i faggi, gli abeti bianchi, l'angolo delle rocce e quello delle farfalle. Il maresciallo capo De Fano, origini pugliesi e, per l'esattezza, baresi, è arrivato a Capracotta nel dicembre 2002. Alle spalle un'esperienza di quattro anni presso il 12° Battaglione Carabinieri "Sicilia", a Palermo, dopo aver frequentato la Scuola Sottufficiali a Velletri e a Firenze. Da tredici anni, dunque, il suo impegno nella Benemerita lo profonde qui in Molise. È un paesino tranquillo, Capracotta, dove è ancora vivo il ricordo delle truppe tedesche che, nel 1943, lo rasero al suolo. E dove oggi la caserma dei Carabinieri rappresenta un presidio irrinunciabile dello Stato, luogo di contatto quotidiano tra la divisa e la gente. Un rapporto di fiducia reciproca, insomma, quello che lega i cittadini di Capracotta agli uomini dell'Arma, e che si traduce in collaborazione quando, ad esempio, si scorgono in paese facce sospette. «La gente ci vuole davvero bene», nota De Fano. Che la sua squadra la guida non soltanto nelle attività di protezione civile, ma anche in quelle di prevenzione e repressione dei fenomeni criminali. Perfino in un posto così isolato, infatti, è capitato di ricevere "visite" da parte di malviventi in trasferta dai territori più problematici di Puglia e Campania. Qualche anno fa, ad esempio, durante la festa patronale di San Sebastiano, che si svolge nel mese di luglio, i militari dell'Arma hanno arrestato in flagranza di reato tre persone per spaccio di banconote false. Un risultato reso possibile dalla collaborazione della gente che, ritrovatasi con in mano biglietti da cento euro contraffatti, non ha esitato ad informarne prontamente il maresciallo De Fano, che con i suoi uomini si è messo immediatamente sulle tracce dei falsari. Stefania Marino Fonte: S. Marino, Paese che vai, caserma che trovi , in «Il Carabiniere», LXIX:5, Roma, maggio 2015.

  • Oltre la valle: Capracotta

    Capracotta è un paese situato a 1.421 m. sul livello del mare ed è il più alto comune dell'Italia appenninica. Poiché sono sicura che anche l'eventuale lettore di questo libro avrà, come tanti altri, la curiosità di sapere l'origine del nome, dirò che la leggenda popolare narra che alcuni zingari, avendo deciso di fondare una cittadina, per compiere un rito in uso presso di loro, bruciarono una capra, che riuscì a fuggire dal rogo e si rifugiò sui monti, ove stremata di forze, esalò l'ultimo respiro. Gli zingari costruirono, dove essa si era fermata, la chiesa parrocchiale intorno a cui sorse il paese. Invece sembra che il nome derivi dal latino: castra cocta , ossia accampamento protetto da un ager coctus , che era un muro di cinta fatto di mattoni. Non è da escludere infatti, che un distaccamento romano stesse di stanza in quelle alture per utilizzare le possibilità strategiche della località, che domina la vallata del Sangro fino al mare. Non mancano tesi che fanno risalire il significato dello stemma comunale, raffigurante una capra che fugge da una pira, alla prova del fuoco in uso presso i Longobardi, che avrebbero fondata la cittadina. Ma a questo punto penso che il lettore si sia già annoiato delle mie disquisizioni di sapore arcaico. In generale chi domanda il perché di quel nome, vuol solo trovare un po' di umorismo nella spiegazione e perciò si distrae appena il racconto prende una piega seria. Il capracottese ha un carattere sui generis : si presenta bene anche se è un contadino. Gli artigiani, poi, sembrano professionisti: infatti si esprimono in buon italiano e sono impeccabili nel vestire. Fino a qualche decennio fa non vi era distinzione fra artigiani e contadini come negli altri centri del Molise, ma spesso le donne delle famiglie artigiane, con disinvoltura, praticavano i lavori campestri. Tra i miei antenati non vi è, per quanto ho potuto sapere, nessun bifolco e pertanto io spiego la mia mania di fare la giardiniera e di non disdegnare la zappa, come conseguenza di un flusso di sangue di quel popolo, che circola ancora nelle mie arterie. Bonifacio VIII soleva dire che i Fiorentini costituivano il quinto elemento della terra, perché erano sparsi dappertutto e noi dovremmo affermare che i Capracottesi ne sono il sesto, perché emigrano facilmente a causa delle modeste risorse economiche del paese. Essi sono fattivi ed intraprendenti e si adattano a fare qualunque mestiere. Si dice addirittura che Cristoforo Colombo ne trovasse qualcuno in America, quando vi sbarcò. Di qui è venuto forse l'appellativo: «zingari di Capracotta» da cui è nata poi la leggenda della fondazione del paese. Capracotta resta una delle cittadine più caratteristiche d'Italia per le abbondanti nevicate. Un antico adagio dialettale dice: Giovedì cumènza, venerdì con la tridenza, sabato senza fine e domenica mattina. Se dura fino alla messa, tutta la settimana con essa. La tormenta a Capracotta offre uno spettacolo meraviglioso e terrificante. Rarissimamente la neve discende lenta ed a larghe falde. Il sibilo della bora, che irrompe dalle falde di Monte Campo, investe le strade con un turbinio spaventoso ed irresistibile. Nei punti dove si forma il mulinello, la neve si arrampica volteggiando in monticciuoli aguzzi e ghiacciati. Si nota all'imbocco del paese una larga zona spazzata che potrebbe sembrare un'oasi privilegiata di pace, quasi la sede della natura, che ivi siede per manovrare l'opera dei venti nella costruzione del fantastico panorama. E invece quello è il posto ove si scatena con l'impeto più travolgente la furia della tormenta, a cui si unisce talvolta, cupo e disperato, l'ululato del lupo proveniente dai campi, e la neve, battuta e percossa, atterrita, fugge lontano per ripararsi a ridosso delle vecchie case. Nei giorni di bufera la vita si arresta e la massaia deve sciogliere la neve per ricavarne acqua, poiché i rubinetti si gelano e spesso le tubature si rompono per la forza dilatatrice del ghiaccio. I portoni diventano inservibili perché la neve li ricopre e i pochi cittadini che hanno l'ardire di affrontare il maltempo, spesso devono uscire dalle finestre e misurare bene le forze dei propri polmoni prima di affrontare l'impeto e la sferza del pulviscolo che mozza il respiro. L'inesperto forestiero, che in quei giorni si avventura a Capracotta dallo scalo di S. Pietro Avellana, facilmente vi trova la morte, come accadde ad un giovane dell'Aeronautica diretto al nostro osservatorio meteorologico. Sceso dal treno, chiese a mia sorella Matilde, che giocava con alcune compagne, la strada per andare in paese. – Non è il caso di andarvi ora ed a piedi. Fiocca ed è molto pericoloso, – disse la ragazza, che aveva sentito storie terrificanti di uomini rimasti mummificati dal gelo o lasciati a brandelli dai lupi. La neve scendeva giù pigra e solo a tratti seguiva brevi giri di danza, come una sirena stanca del suo canto pieno di malie. Ma il giovane, facendo l'atto di coprirsi il volto con la sciarpetta, rispose: – Eh! che coraggiosi siete voi qui. Lo ritrovarono dopo tre giorni nei pressi delle masserie di Agnone, senza scarpe, bocconi per terra, in posa di chi dorme un sonno profondo. Quando, però, da S. Pietro si riesce a comunicare ai Capracottesi che qualcuno si è messo in viaggio, allora il popolo offre uno spettacolo commovente di solidarietà umana. I sacrestani si affrettano a suonare le campane per indicare allo sperduto la direzione del paese. I rintocchi, in quei casi, portano nell'animo di chi se ne sta rincantucciato accanto al camino un senso pauroso di morte e di gelide sofferenze. I più forti escono in massa dal paese e, quasi sempre, riescono a salvare il malcapitato, che viene accolto in un letto caldo delle prime case. Talvolta, però, la bufera sorprende a metà strada anche il capracottese, come avvenne ai due coniugi soprannominati: "Zimpa", che tornavano dalle masserie di Guastra. La moglie non resse all'impeto della tormenta ed il marito se la caricò a spalle e la portò per un tratto, finché, a pochi passi dal paese, nei pressi del cimitero, non ebbe più la forza di proseguire e si schiantò a terra col grave fardello, spettacolo pietoso di amore e di coraggio, che commosse la stampa dell'epoca. Ma il caso straordinario e paradossale si ebbe alcuni anni fa, quando furono mandati a soccorso delle popolazioni bloccate elicotteri ed alpini. Questi ultimi riuscirono a salvarsi per l'intervento dei Capracottesi, che uscirono in massa dietro i rintocchi delle campane. Un tempo era molto progredita la pastorizia. Dopo la transumanza invernale i massari ritornavano dalle Puglie seguiti da ricchi greggi e da diversi pastori. Le pecore se ne venivano consumando il loro chilometrico pasto che interrompevano, quando le ombre della notte inducevano i pastori a piantare gli stazzi. All'alba, quasi rifatte dalla rugiada che imbrillantava le lane, riprendevano la via e il belato senza posa, che pareva ripercosso dall'eco dei monti in attesa. Il rientro coincideva con la festa di San Giovanni ed aveva un carattere solenne e simbolico. La pecora che si pasce nei prati ondulati e nei pendii scoscesi di Capracotta, ha la possibilità di brucare erbe che sono privilegio dei pascoli di alta montagna e può offrire un latte ricco di sostante nutritive e di sapore speciale. Perciò fino a qualche decennio fa, erano rinomate le caratteristiche ricottine, alte e sottili, dal sapore tenue e profumato, le grandi trecce di pasta di scamorza che da lì si sono diffuse in altri paesi e i mastodontici formaggi. Con la trasformazione dell'agro pugliese, durante il ventennio fascista, la pastorizia decadde e il paese perse una cospicua fonte di benessere. Papà ci parlava spesso di quei pastori, della loro vita, delle sfide e dei contrasti in rima, con cui riempivano la monotonia delle lunghe serate, forse perché un anno li aveva seguiti in Puglia, in compagnia di una zia, moglie di un massaro, che gli aveva trovato del lavoro presso un falegname di Ripalta. Aveva allora meno di diciotto anni ed il suo cuore era rimasto tra le montagne. Tuttavia lavorava di lena per farsi un gruzzoletto che gli consentisse di portare all'altare la donna corteggiata. Lì conobbe il principe Zaccaglini che aveva commissionato al mastro presso cui lavorava, un discreto numero di capriate per coprire i cascinali nei suoi terreni. Mio padre capì, cogliendo un loro discorso, che la lunghezza delle travi che avevano a disposizione, non era sufficiente a formare il triangolo adatto alla copertura dei tetti e si permise di suggerire un rimedio che riuscì buono, tanto che tutte le cascine poterono essere coperte utilizzando il legname che era già in bottega. Il principe, che non aveva figli, invitò spesso il giovincello, facendolo sedere al suo fianco. Avrebbe voluto trattenerlo lì, ma mio padre non desiderava altro che tornare alla sua Capracotta, ora che il gruzzoletto guadagnato gli apriva l'animo a tante speranze. Elvira Santilli Fonte: E. Tirone, Oltre la valle , Cappelli, Bologna 1968.

  • Capracotta, febbraio 1885: tasse, nettezza, ferrovia e banca

    Capracotta, 23 Febbraio 1885. Si deplorano molti errori marchiani e mezzani occorsi nella compilazione dei ruoli delle imposte pervenuti a questo Comune, e molti poveri contribuenti si trovano indicati con nomi, cognomi, e paternità di origine tutta ostrogota... e, ciò che più monta, con altre e nuove imposizioni!... Ma via, cari contribuenti (dice monna Finanza), non menate rumore per una cosa da niente, prendete un foglio di carta... bollata, fate il reclamo, e tutto si accomoderà. Amen! Il Consiglio Comunale si riunirà per la sessione di primavera nel p.m. di Marzo. Le materie da trattarsi sono poche, e quasi le ordinarie. L'umile corrispondente dell' Aquilonia , ultimo fra questi padri conscritti; con la voce più grossa che potrà fare; raccomanderà a chi di dritto la più scrupolosa nettezza del paese; ed appena squagliate le nevi, lo sgombro di tutto il letame da vicino o dentro l'abitato. Senza queste giuste ed energiche disposizioni la salute pubblica lascerà molto a desiderare. Il dottore Signor Giuseppe Conti mi ha detto che già nel paese serpeggiano parecchie malattie contagiose (morbillo, scarlattina, difterite, accidenti!). E lo stato civile registra dal primo gennaio sino ad oggi 28 morti, la maggior parte bambini! Per un paese di quattromila abitanti, e poco più, non c'è male! Tutti i capracottesi si associano con tutto il cuore ai voti espressi dalla cittadinanza di Agnone circa la ferrovia Isernia-Sulmona, e Vasto-Isernia. Speriamo di sentir fra non lungo tempo (almeno prima di andarcene in cataletto) il fischio della vaporiera echeggiare nelle nostre valli, e sui nostri monti. Ma quella benedetta strada provinciale che si vuole da taluni per Pescopennataro, e da altri per Capracotta e Vastogirardi guasta in certo qual modo il buon accordo che dovrebbe sempre regnare fra Agnone e Capracotta. Pescopennataro faccia costruire la strada obbligatoria verso il Sangro; ma coi proprii denari , e sarebbe già tempo: non è vero, onorevoli signori della prefettura di Campobasso che state facendo troppo apertamente due pesi e due misure? E nell'altra mia mi dilungherò un bel poco su questa materia; perché ora ho paura di riuscire prolisso, e perdere le... staffe. Scriverò pure di un mio desiderio circa una Banca popolare da impiantarsi nei nostri paesi; e sarebbe un vero bene pei piccoli proprietari, operai, e negozianti in piccolo dei nostri luoghi. Io già tengo le adesioni delle nostre tre Società operaie, e di parecchi signori ricchi e filantropi fra i quali primeggia l'ottimo cav. Signor Federico Falconi, il quale è stato il primo propugnatore ed inspiratore di così ottima idea. La Banca, o magari una succursale di altra Banca delle nostre provincie dovrebbe aver sede costà in Agnone; e perciò animo, signor Direttore dell' Aquilonia , non abbandoniamo il destro di renderci utili ai nostri luoghi natii. Ottaviano Conti Fonte: O. Conti, Corrispondenze della provincia , in «Aquilonia», II:5, Agnone, 1 marzo 1885.

  • Cronaca nera capracottese 1910-1919

    In un precedente articolo sulla cronaca nera capracottese ho indagato il primo decennio del XX secolo. Oggi intendo proseguire quell'analisi sociologica mettendo sotto indagine il decennio successivo, quello che va dal 1910 al 1919, dividendo una volta ancora la ricerca in sezioni sulla base della percezione della gravità del misfatto: contravvenzioni, furti, lesioni, disgrazie e omicidi. La fonte del lavoro è sempre la rubrica "Echi molisani" del quindicinale agnonese "Eco del Sannio" ed anche stavolta renderò anonimi i colpevoli dei reati più gravi e non farò menzione dei suicidi, per garantire loro il diritto all'oblio. Per quanto riguarda le contravvenzioni semplici abbiamo ben 42 denunce, presentate avverso coloro che «dovrebbero dare il buon esempio», in quanto sorpresi a gettare «robe immonde nella pubblica via». L'anonimo corrispondente ci riporta alla mente la nemmeno troppo antica usanza di scaricare l'urina dai buccìtte , le minuscole finestre presenti in molte case capracottesi, e termina la propria requisitoria con un lapidario: «Senza commenti!». Per quanto riguarda i furti, la cronaca del decennio riporta 7 casi, di gravità piuttosto diversa. Si va dai piccoli furti di legna, come nel caso di «ignoti [che nei primi del mese di ottobre 1910] tagliarono ed asportarono dal bosco aperto ed in danno dell'Amministrazione Comunale un albero di faggio ed uno di melo selvatico per un complessivo valore di £ 7 circa», o della sig.ra Antonietta Policella che, per scaldarsi, fu costretta a rubare «da un orto aperto, una quantità di legna da ardere per un valore di £ 15». Ancor più veniale il furto perpetrato il 12 marzo 1911 da Anna Latino, che «da una camera disabitata, ed in danno di Di Tanna Giacomo, di Loreto, d'anni 30, involò salsiccia e frutta sottaceto per £ 1,29». In tutti questi casi si tratta di sottrazioni di beni materiali dettate probabilmente da condizioni di estrema miseria che, se non giustificano il misfatto in sé, perlomeno lo rendono perdonabile. Diverso il caso del calzolaio agnonese Liberatore De Simone che, «pur sapendo di non aver denari, si fece somministrare dall'oste Grifa Giandomenico, fu Bernardo, d'anni 83, da mangiare e da bere». Arrestato dai Carabinieri di Capracotta, il De Simone disse ai militari di chiamarsi Enrico Sammartino, aggiungendo all'insolvenza la falsa dichiarazione. Brutto anche il gesto di Maria Tesone che, «trovata sulla pubblica via una busta contenente £ 300 in biglietti di banca, smarrita da Litterio Maria Rosa, se ne appropriava». Ancor più gravi i furti commessi da ladri di professione. Il primo caso è datato 16 settembre 1911, quando «verso le ore 2:45 [...] due sconosciuti, mediante scasso della porta d'ingresso, penetrarono nella farmacia di Castiglione Costantino, fu Giuseppe, d'anni 55, del luogo, e da un cassetto, che pure scassarono, involarono a danno dello stesso lire 60 circa in biglietti da 5 e 10 lire. I ladri sorpresi dal figlio del derubato, a nome Ciro, alla vista del giovane fuggirono». Il 21 gennaio 1916, invece, «ignoti, mediante chiave falsa, aperta la porta del negozio di [sottrassero] la somma di £ 30 in biglietti di banca». I reati si fanno più gravi quando si tratta di lesioni personali: in questa fattispecie si annoverano 5 denunce. La prima vera aggressione avvenne il 9 gennaio 1910, ma ho già pubblicato la notizia per intiero qui . Gli altri casi sono in qualche modo ascrivibili al mondo dell'infanzia e del lavoro: il 29 maggio 1912 il quindicenne Giuseppe Policella, «venuto a diverbio per cosa da nulla, con Sammarone Carmine di Mariano, d'anni 10, con un sasso gli produsse alla bocca guaribili in giorni 10 con indebolimento permanente delle funzioni masticatorie». Il 27 dicembre 1913, invece, «Covatta Francesco riportò lesione di coltello all'avambraccio sinistro, guaribili in giorni 15, da certo D'Angelo Ferdinando». Od ancora il 6 settembre 1917, in aperta campagna, Alberto Di Nucci, «per ragioni di interesse, alla distanza di circa 50 metri, sparò due colpi di fucile, carico a minuto piombo, contro Di Rienzo Giulio, causandogli alla mano sinistra una lesione guaribile in dieci giorni, salvo complicazione». Decisamente più moderna - segno dei tempi che non cambiano mai - la denuncia presentata il 9 luglio 1914 contro Felice Mendozzi, il quale «lasciava vagare per le vie del paese, sfornita di museruola, una sua cagna, che morsicò il novenne Di Loreto Pasquale, producendogli lesioni alla mano destra e alla gamba sinistra, guaribili in 15 giorni». Nel decennio che va dal 1910 al 1919 Capracotta ha conosciuto almeno 3 tristi disgrazie. Il 1911 si aprì con quella di Camillo Di Nella, di anni 64, il quale «mentre transitava sulla via Pescopennataro-Capracotta per rincasare, a causa della molta neve caduta, perdette le forze e non potendo più proseguire la via il disgraziato morì sulla via stessa per assideramento»: una delle tante disgrazie invernali che ho menzionato in un apposito articolo del 1° novembre scorso. Anche il Capodanno del 1914 fu funestato da una morte accidentale, quella del piccolo Sabatino Comegna, di appena 2 anni e mezzo, che «nel camminare all'indietro nella propria abitazione, cadde, disgraziatamente, in un caldaio di acqua bollente, riportando ustioni pel corpo, in seguito alle quali il 6 detto mese cessò di vivere». Sorte simile toccò il 16 agosto 1917 al bimbo Carmine Giuliano, di appena 18 mesi, il quale, «mentre era nella cucina, cadde in una tinozza piena di conserva bollente, riportando tali scottature da morirne». Nel decennio sottoposto a indagine Capracotta fu teatro di due assassini: un infanticidio e un femminicidio. Il 2 novembre 1910 la trentaquattrenne Colomba, che aveva dato alla luce una bimba, «frutto di amori illeciti», pensò bene di strangolare la neonata fino ad ucciderla e di gettare il cadavere nel Verrino, forse allo scopo di salvare il proprio onore: il 17 novembre Colomba venne arrestata dall'Arma dei Carabinieri. Il 7 aprile 1911, invece, il pregiudicato Luciano, di anni 37, «vigilato speciale» dalle forze dell'ordine, ordì per gelosia l'omicidio di sua moglie Carmela, di 10 anni più giovane. Luciano riuscì a convincere Carmala a seguirlo verso il bosco di Vallesorda finché, giunti nei pressi del Lago di Mingaccio, «preditoriamente ve la fece cadere entro col viso avanti, trattenendola immersa fino a che fu morte». Il giorno stesso Luciano venne inutilmente arrestato. Il caso di Luciano e Carmela, più di tutti gli altri citati, racconta una tendenza storica dura a morire: quella della donna che, minacciata dal suo uomo e nonostante le ripetute denunce sporte, resta vittima inascoltata della violenza maschile. I corsi ed i ricorsi storici rappresentano il cammino dell'umanità che passa dal senso alla fantasia ed alla ragione e poi, corrompendosi, ricade in basso, nello stato selvaggio, per riprendere di nuovo il processo ascensivo ed iniziare il ricorso della civiltà... Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVII:1, Agnone, 12 gennaio 1910; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVII:4, Agnone, 28 febbraio 1910; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVII:18, Agnone, 30 novembre 1910; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVII:19-20, Agnone, 31 dicembre 1910; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVIII:1, Agnone, 21 gennaio 1911; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVIII:3, Agnone, 5 marzo 1911; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVIII:4, Agnone, 26 marzo 1911; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVIII:5, Agnone, 21 aprile 1911; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVIII:15-16, Agnone, 30 settembre 1911; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XIX:11, Agnone, 30 giugno 1912; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXI:1, Agnone, 16 gennaio 1914; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXI:4, Agnone, 5 marzo 1914; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXI:13, Agnone, 25 luglio 1914; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXIII:1, Agnone, 23 gennaio 1916; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXIII:3, Agnone, 20 febbraio 1916; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXIV:8, Agnone, 31 agosto 1917; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XXIV:9, Agnone, 8 ottobre 1917; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016.

  • Capracotta, uno sguardo alla montagna del Molise

    Capracotta è un paesino del Molise, in provincia di Isernia, che conta circa 870 abitanti. Questo antico borgo, ricostruito dopo la Seconda guerra mondiale, ha fatto parte in passato del Regno delle Due Sicilie e del Regno di Napoli, che ne hanno caratterizzato la cultura e le tradizioni. Dopo Rocca di Cambio, è il Comune più alto dell'Appennino: il paese infatti è situato a circa 1.421 metri sul livello del mare. Questa caratteristica ha permesso a Capracotta di diventare nel corso degli anni, a partire dal 1950, una delle più importanti stazioni sciistiche d'Italia, nonostante ci sia stato un importante decremento demografico dal 1921, quando contava circa 4.700 abitanti, fino ai giorni nostri, con gli attuali 870 residenti circa. Breve storia di Capracotta Sulle origini del nome Capracotta, vi sono parecchie teorie in merito. Alcuni studiosi come Ugo Mosca, attribuiscono il nome alla combinazione di due termini italici del passato, e cioè kapp , che significherebbe "luogo alto", e kott , che significherebbe "luogo roccioso". Altri studi e ricerche attribuiscono la nascita del nome Capracotta ad antiche tradizioni e leggende come quella che sostiene che i Longobardi, appena insediatisi nella zona, abbiano sacrificato una capra in nome del dio Thor. Un'altra leggenda più colorita riguardo la nascita del nome Capracotta, che potrebbe in ogni caso avere un fondo di verità, testimoniato dallo stemma del Comune, racconta che alcuni zingari, in passato, vollero costruire un villaggio dove attualmente è situata Capracotta. Durante la permanenza nel luogo, essi accesero un fuoco per arrostire una capra ma questa saltò fuori e riuscì a scappare. Leggende a parte, la storia di Capracotta, o comunque di quelle che sono state le prime civiltà presenti nella zona, è piuttosto antica; vi sono tracce infatti che fanno risalire fin dal Paleolitico i primi insediamenti umani. Il periodo sicuramente più incisivo e determinante per il piccolo paese molisano è stato sicuramente il Medioevo, che ne ha caratterizzato non solo l'aspetto costruttivo delle abitazioni, ma anche la cultura e le antiche tradizioni fino ai giorni nostri, con forti influenze dovute alla conquista e alla presenza longobarda. Capracotta tra cultura arte e storia Durante la Seconda guerra mondiale sono state molte le antiche costruzioni e monumenti andati persi per sempre a Capracotta; il paese è stato quasi completamente distrutto da parte delle truppe tedesche durante la Seconda guerra mondiale e molte opere, patrimonio culturale nazionale, non esistono più. Tra le tante, spiccava una torretta con un orologio lungo le mura di cinta dell'antico paese, risalente all'epoca medioevale. La ricostruzione, iniziata negli anni '50, ha sicuramente modificato sostanzialmente la morfologia di Capracotta e di tutto il suo comprensorio. Sono state ricostruite strade, abitazioni e chiese, tra le quali il Santuario della Madonna di Loreto, la Chiesa parrocchiale e la Chiesa di San Giovanni Battista, tutte importanti mete turistiche. Nella stessa zona di Capracotta sono presenti alcuni importanti parchi e aree naturali come il Giardino della Flora appenninica, il Parco fluviale del Verrino o la sorgente dell'Acqua Zolfa. Nello stesso periodo della ricostruzione post-guerra, sul Monte Capraro iniziarono i lavori di costruzione di quello che poi diventerà uno dei più importanti e frequentati centri sciistici d'Italia. Le abbondanti nevicate invernali, spesso da record, come quella del recente 2015, quando caddero 2 metri di neve in poche ore, favoriscono il turismo invernale e gli sport sciistici grazie anche ai molti impianti e strutture presenti. Capracotta, area geografica e clima Come abbiamo visto, Capracotta risiede a circa 1.400 m. di altitudine. Il punto più alto del Comune è la vetta di Monte Campo, che si innalza fino a 1.746 metri di altitudine. L'area circostante, a valle, è caratterizzata dalla presenza del fiume Verrino e, come abbiamo visto, da importanti aree naturali preservate, come appunto il Giardino della Flora appenninica, dove sono presenti moltissime specie floreali e arboree dell'Italia centro-meridionale. Il clima a Capracotta è, ovviamente, particolarmente rigido nei periodi invernali; non è raro imbattersi infatti durante l'inverno in vere e proprie bufere di neve che spesso mettono in difficoltà la popolazione locale, mentre le estati sono caratterizzate da temperature miti e fresche, monitorabili attraverso la nuova stazione meteo e la webcam. Come raggiungere Capracotta Nonostante si tratti di un paesino situato ad alta quota, raggiungere Capracotta non è difficile. Da Roma ad esempio è possibile raggiungere questa meta turistica in meno di 3 ore: basta prendere l'autostrada A1 in direzione San Cesareo e proseguire seguendo le indicazioni per Roccaraso (altra importante località turistica invernale), Campobasso, Isernia. A questo punto è necessario prendere la strada statale 650, ovviamente proseguendo direttamente per Capracotta. Esistono ovviamente altri itinerari altrettanto validi, come ad esempio l'uscita per Castel di Sangro, sempre sull'autostrada A1, e proseguendo sulla statale 627 che ci porta a destinazione, fiancheggiando lo splendido Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise. Capracotta, turismo, sport invernali ed eventi Come abbiamo visto, Capracotta è un importante centro turistico invernale, meta di moltissimi appassionati sportivi, vip e personaggi dello spettacolo. Alberto Sordi, nel film "Il conte Max", citò Capracotta, definendola «la piccola Cortina degli Abruzzi». Nel 1997 è stata sede dei Campionati italiani assoluti di Sci di fondo, grazie all'impianto all'avanguardia situato nella zona di Prato Gentile. Nel 2008 ha ospitato la Continental Cup, diventando "Capitale d'Europa" dello sci di fondo. Ma Capracotta non è solo neve e sport, ma anche cultura, festività e tradizioni locali. Il Comune e l'amministrazione sono piuttosto attivi in merito, grazie anche all'attività della Pro Loco. Oltre alle varie strutture che è possibile visitare, come chiese e parchi naturali, Capracotta ha una grande tradizione culturale religiosa. La festa patronale in onore di san Sebastiano martire è un evento che raccoglie ogni anno moltissimi fedeli ma anche turisti e persone provenienti da zone limitrofe. Altro evento religioso di particolare rilevanza sono i festeggiamenti in onore della Madonna li Loreto che si svolgono nei giorni 7, 8 e 9 settembre. A Capracotta è possibile assaggiare la famosa pezzata, che è un'antica tradizione pastorale. Questa è in sostanza una sagra dell'agnello alla brace e della pecora bollita, che si tiene ogni anno la prima domenica di agosto ed è caratterizzata dalla semplicità nel reperire gli ingredienti e facilità di preparazione; un evento culinario quindi che probabilmente non farà felici gli animalisti più accaniti, ma che di sicuro caratterizza quelle che sono le antiche tradizioni capracottesi, in pieno stile con il nome di questa splendida località molisana. Fonte: http://www.meteoinmolise.com/ , 12 giugno 2018.

  • Amore e gelosia (XXI)

    XXI Tornato a casa, don Salvatore era ancora tutto agitato. Buttò il cappello sulla seggiola nell'ingresso, il bastoncino nel portaombrelli e si recò direttamente nella sua stanza, senza passare, come era solito fare, in cucina, dove sua madre era certamente in attesa che lui si ritirasse. Si buttò sul letto e fu subito preda dei suoi pensieri: la sua esasperata sensibilità di artista lo teneva in pugno, in lui la normalità assumeva subito la veste sgargiante del dramma, della disgrazia, dell'esaltazione, della gioia immensa o dell'infelicità estrema, ed era a quei sentimenti possenti che attingeva per scrivere poesie e canzoni che travolgevano letteralmente il popolo napoletano, di per sé teatrale e amante del gesto forte e del coinvolgimento eterno nell'amore, fino alla morte. L'uomo Don Salvatore era consapevole che l'attrice Adelina Magnetti aveva scherzato parlando di Elisa, per pungolarlo a scrivere per lei: il poeta Di Giacomo, invece, era ormai preda del dubbio, della paura e della gelosia. Che cosa stava facendo la bella nocerina? Stava a casa sua o era in giro con le amiche e con... amici? Si erano visti due giorni prima, lei era venuta a Napoli, e avevano trascorso ore bellissime, poi lui l'aveva riaccompagnata alla stazione, un ultimo bacio, una stretta di mano e il treno era partito. Il prossimo incontro era previsto per sabato, sarebbe andato lui a Nocera, avrebbe dormito a casa della zia di Elisa a San Giovanni in Parco e per due giorni sarebbe stato con la sua bella. Ma ora due giorni erano troppi, una enormità, una vastità di tempo insopportabile: come avrebbe fatto scorrere tutte quelle ore? La porta si aperse e la voce trepida della madre risonò nella stanza: – Giacumì, sei tornato? e non sei venuto a salutarmi? non ti senti bene? – No mammà... è che... sono stanco, è stata na matinate faticosa, 'o teatro, gli attori, 'e pensiere... aggia scrivere assolutamente coccosa per donna Adelina Magnetti e nun sacce addo aggia accumincià... – Nun ce penza', stamme a senti'... fai una cosa: fatti un'ora di sonno e poi vieni a mangiare. Ti svegli che stai meglio e forse ti viene pure 'a vena poetica pe scrivere. Io vache in cucina a dare una mano, statte buone figlio mio! La porta si chiuse lentamente e delicatamente e, senza che l'uomo se ne rendesse conto, il sonno calò sulle palpebre e si addormentò. Fu un sonno agitato: volti noti e facce sconosciute si alternavano sul palcoscenico dei sogni di quell'ora tormentosa. Elisa, Elisa... poi la figura di Elisa sembrò dissolversi e ritornare, ma stavolta qualcuno la chiamava ad alta voce con un altro nome. Assunta, Assunta... Francesco Caso

  • Il Santuario di Santa Maria di Loreto

    Storia L'attuale Santuario di S. Maria di Loreto abbraccia due tempi per quanto riguarda la sua edificazione: l'uno (entro il periodo 1550-1600) che si riferisce ad una chiesetta primitiva detta "venerabile cappella", progettata e realizzata dai pastori del luogo; l'altro riguardante il suo ampliamento definitivo e la sua "consacrazione". Risparmiato dai Tedeschi - insieme alle altre chiese nel corso del secondo conflitto mondiale che fece del paese terra bruciata - la Chiesa di S. Maria di Loreto, invecchiata dal tempo e pericolante, fu oggetto di accurate opere di consolidamento e restauro. Il 30 agosto 1978 il vescovo di Trivento, mons. Antonio Valentini, con suo decreto, elevava la chiesa a Santuario Diocesano. Architettura La pianta è a croce latina con abside dietro l'altare a semicerchio. Dotata di una sola navata senza altari o nicchie laterali, la sua struttura ricorda quelle del Romanico stile ultimo, con variazioni suggerite dall'architetto del tempo. La facciata, con portone d'ingresso centrale e sovrastante rosone, ripropone alcuni richiami di stili dal romanico misti a caratteristiche locali. L'interno, a croce latina, s'impone per la singolare soluzione centralizzata nell'unico altare sulla cui struttura si eleva la nicchia che accoglie la statua della Madonna di Loreto. Il pregio dell'altare, in marmo, è nel paliotto settecentesco sottostante l'altare stesso, con dimensioni molto grandi e di fine fattura, come la scelta dei vari marmi, in colori bianco, giallo, verde. La statua della Madonna è derivata originariamente da un tronco ligneo solido che mostra l'immagine seduta, con il capo delicatamente segnato da corona regale e, prima del furto del 1981, col Bambino che faceva un tuttuno con il tronco. Per dotare la Vergine di un manto stellato fu resecato il Bambino, dotando l'immagine, a sinistra di un braccio fittizio per sostenere il Bambino e a destra di un altro braccio in armonia con l'altro. Dopo il furto del 1981 l'attuale Bambino, bellissimo, era conservato nella Chiesa Madre e faceva parte del gruppo della Madonna del Rosario del 1800. Religiosità e folklore Il popolo nutre una profonda e tradizionale devozione verso la Madonna di Loreto che usa chiamare "Madonnina" e nutre verso di Lei una religiosità singolare che non ammette sospensioni di sorta. Sempre venerata, la Vergine viene celebrata ogni tre anni nei giorni 7, 8 e 9 settembre, preceduti nel santuario da una novena di preghiere e canti, che sono l'anima credente di un popolo geloso delle sue tradizioni, seguita dal «folklore di una festa unica che non cessa di essere una storia nuova». Inno alla Madonna Dolce e cara Madre nostra, del cor balsamo e fragranza, di dolcezza e di speranza viva fonte ci sei Tu. Rit.: O Madonna di Loreto, per noi prega... Pellegrini al Tuo Santuario noi veniamo a rinnovare delle genti il secolare inno sacro dell'amor. Madre santa, Madre buona, salve a Te! Ti grida il core; nella gioia, nel dolore noi Ti ameremo ognor. Quel Bambino che ci mostri sorridente, o Madre pia, è del mondo Luce e Via, è l'eterna Verità. Sulle strade della vita ci accompagna la Tua mano e a Te corre da lontano il nostalgico pensier. La corona che Ti cinge quella fronte di Regina, ogni cuor di figlio inchina al potere del Tuo amor. Madre, Tu che sei pietosa, Capracotta ognor proteggi; fa che sepre a Te s'inneggi, dai Tuoi figli in terra e in ciel. Virgilio Felice Di Virgilio Fonte: V. F. Di Virgilio, Santuari d'Abruzzo e Molise , Squilla, Tocco da Casauria 2002.

  • Capracotta e la Grande Guerra

    Anche la comunità di Capracotta fu chiamata a sostenere lo sforzo bellico. Nel decennio dal 1911 al 1921 il flusso migratorio verso l'America si era quasi arrestato; la guerra iniziata in Europa nel 1914 rendeva inoltre insicure le rotte atlantiche. La popolazione infatti passò da 4.268 del 1911 a 4.715 nel 1915. Nel Libro delle Memorie custodito presso la casa comunale, da pagina 238 a pagina 242, con scrittura a mano, sono elencati tutti i militari mobilitati per la Grande Guerra, con l'indicazione del grado, cognome e nome (per i cognomi composti la prima parte non è stata scritta, come ad esempio per il cognome Dell'Armi, che è scritto solo Armi), la paternità solo nelle iniziali, le eventuali conseguenze riportate durante il conflitto. La paternità dei caduti è stata poi completata, ove non indicata, con i dati ripresi dall'Albo dei Caduti di Abruzzi e Molise. Nel corso dei quattro anni di guerra i chiamati furono in tutto 663 più un frate soldato: Ufficiali: 28 + 2 allievi ufficiali; Sottoufficiali: 33 di cui un maresciallo dei Reali Carabinieri; Caporali maggiori: 41; Caporali: 39; Appuntato: 1; Carabinieri: 5; Soldati semplici: 514. I morti furono 65, i mutilati e invalidi 40, i feriti 47, i decorati 9, due dei quali caduti in combattimento, più una promozione straordinaria per meriti di guerra. I deceduti coincidono con le informazioni ricavate dall'Albo dei Militari del Regio Esercito, della Regia Marina e della Regia Guardia di Finanza, "Morti o Dispersi nella Guerra Nazionale 1915-1918" (vol. II, "Abruzzi e Molise"), edito nel 1926. I dati sono stati immessi in un database al fine di controllarne l'esattezza e di estrapolare i dati statistici. I militari morti, mancanti sulla stele commemorativa, sono Nicola Colacelli e Francesco Paglione, tutti e due correttamente riportati, il primo a pagina 239 e il secondo a pagina 241, nel Libro delle Memorie. Anche il soldato Serafino Sammarone, fatto prigioniero, e risultante scomparso a pagina 241, è riportato poi correttamente come deceduto. La data della sua morte non è nota, ma, considerando la sua posizione sulla lapide al posto 55°, si può dedurre che sia morto tra il 30 agosto e il 1 settembre del 1918; per questo ho indicato la data del decesso al 31 agosto. Dalla ricerca effettuata posso affermare che i nostri militari sono rimasti tutti al loro posto, da «prodi montanari sanniti», così come riportato nella stele commemorativa del nostro paese. I capracottesi deceduti nella Grande Guerra erano quasi tutti militari di truppa; pochi militavano nell'artiglieria e nel genio, mentre il grosso apparteneva alla fanteria, reparto che registrò in assoluto le perdite più numerose. Molti morirono per le ferite riportate in combattimento e altri in conseguenza di malattie; alcuni morirono durante la prigionia probabilmente anche per fame, così come altri risultano dispersi. L'Italia fu l'unica nazione che impedì alla Croce Rossa di far recapitare ai prigionieri i pochi viveri che i familiari riuscivano, con grande sacrificio e privazioni, a racimolare, perché il comando italiano li giudicava dei vili. La partecipazione al conflitto fu così vasta che in pratica ogni famiglia del nostro paese ebbe un familiare o parente coinvolto. A fatica si cercò di elaborare il lutto mantenendo vivo il ricordo dei caduti, tanto che in molte famiglie fu assegnato al primo nato il nome del familiare deceduto. Difficile non immaginare il dramma della madre dei due fratelli Francesco e Pasquale Giuliano, morti rispettivamente il primo all'età di 20 anni nel 1916 e il secondo nel 1918 all'età di 25 anni. Il più giovane militare deceduto aveva compiuto da 3 mesi 19 anni, mentre al più anziano mancavano 2 mesi per compiere 37 anni. A cavallo fra le due guerre, nei pressi della Madonnina furono piantati 63 pini a ricordo dei capracottesi deceduti nella Grande Guerra. Io spero che questa ricerca, ampliata in occasione del centenario della Grande Guerra mondiale, serva a stimolare in tutti la memoria storica, la riflessione sull'inutile tragicità della guerra e la volontà di creare condizioni di vita in cui la pace sia al centro della vita della collettività locale e mondiale. In una delle prime manifestazioni per ricordare i cento anni della Grande Guerra, avvenuta il 26 maggio nel complesso di San Pietro a Perugia, con una cerimonia laica e religiosa sono stati ricordati i tredici giovani studenti e neolaureati del "Regio Istituto Superiore Agrario Sperimentale", poi Facoltà di Agraria ed ora Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali di Perugia, che caddero durante la Prima guerra mondiale. Tra i caduti ricordati figura Michele Campanelli (1890-1915) di Capracotta (Campobasso). Si era laureato con una tesi sulla zootecnia in Molise, conservata nell'archivio storico dell'Università, e aveva appena iniziato a lavorare nella "propaganda agraria", come allora si chiamava il lavoro delle Cattedre ambulanti, quando venne chiamato alle armi. Fu uno dei primi a cadere sul Carso nel luglio di cento anni fa. Sebastiano Conti Fonte: S. Conti, Capracotta e la Grande Guerra , in V. Di Nardo (a cura di), Capracotta e la memoria della Grande Guerra (1916-2016) , Capracotta 2016.

  • Marco Monaco, il primo capracottese acrobata di... professione

    La cosiddetta edilizia acrobatica si basa su alcune tecniche derivate dall'alpinismo, dalla speleologia e dall'arrampicata, trasferite nel campo dell'edilizia e della manutenzione. Le tecniche di edilizia acrobatica sono sempre più diffuse in Italia - un Paese disseminato di borghi arroccati con strade strettissime - e rappresentano la soluzione ottimale per eseguire interventi di manutenzione riducendo costi e tempi dell'opera. Marco Monaco, capracottese classe 1984, è uno dei quattro soci della neonata Delta Funi S.r.l., una startup giovane e originale con sede sociale a Sulmona, specializzata nel settore delle lavorazioni edili con tecnica di sospensione in doppia fune, edilizia civile, residenziale e industriale. Tra i tantissimi servizi offerti da Delta Funi vi è infatti la messa in sicurezza industriale e civile, il ripristino di parti lesionate, la posa in opera dei cappotti termici, il restauro, la riparazione e la costruzione di tetti, la rasatura armata e la pittura, la posa in opera di intonachino silossanico, il montaggio di condizionatori, luci e antenne, la pulizia dei vetri, le sanificazioni, la pulizia delle gronde e la posa in opera dei dissuasori anti piccioni. Marco e i suoi tre soci vantano una grande esperienza acquisita negli anni, assicurando la qualità assoluta dei prodotti adoperati e soluzioni progettuali via via idonee - e spesso ardite! - imposte dal continuo mutamento del mercato in cui opera. I vantaggi dell'edilizia acrobatica sono infatti numerosi: evitando l'uso di ponteggi e cestelli elevatori, si abbattono sensibilmente i costi e i tempi di realizzazione delle opere, a volte troppo elevati in rapporto al lavoro da svolgere. Eseguendo le lavorazioni con tale tecnica si ha accesso a diversi vantaggi: nessun ingombro sulle facciate delle abitazioni, minima occupazione di suolo condominiale e/o pubblico, maggior sicurezza e pulizia, ed estrema velocità nell'esecuzione del lavoro stesso. A Marco Monaco ed alla sua Delta Funi non possiamo che fare i nostri più vivi complimenti, sperando che possano presto affermarsi anche qui in Molise. Francesco Mendozzi

  • I presidenti della Repubblica a Capracotta

    Nel giorno del primo scrutinio segreto per l'elezione del 13° presidente della Repubblica Italiana vorrei fare una brevissima panoramica sui capi di Stato che hanno finora visitato Capracotta: Giovanni Leone (1908-2001) e Giorgio Napolitano. Poco più di vent'anni fa moriva Giovanni Leone, giurista di chiara fama, deputato democristiano, senatore ed ex presidente della Repubblica. Personaggio divisivo, del quale è ancor oggi difficile fornire un'interpretazione corretta e definitiva, Leone fu il solo presidente a sciogliere il Parlamento e si dimise dal suo incarico 6 mesi prima del termine naturale, a causa di una montante campagna mediatica che lo voleva implicato nello scandalo delle tangenti sugli aerei militari Lockheed, accuse che non furono mai provate in sede giudiziaria. Dopo l'esperienza presidenziale Giovanni Leone venne almeno un paio di volte a Capracotta, ospite dell'Hotel Vittoria, e in molti ricordano quest'uomo docile ed imperscrutabile, un senatore a vita sotto il sole dell'agosto capracottese. Giorgio Napolitano, invece, lo conoscono anche i più giovani perché è stato il predecessore di Sergio Mattarella. Deputato comunista, ex ministro dell'Interno e oggi senatore a vita, Napolitano è stato il primo presidente della Repubblica Italiana ad essere eletto per un secondo mandato, allorquando, il 22 aprile 2013, dinanzi ad una crisi politica ed economica di portata storica, dimostrando un grande senso delle istituzioni, riuscì a tenere stretti attorno al suo nome gli schieramenti politici. Napolitano fu in visita a Capracotta nell'ottobre del 1993, quand'era presidente della Camera dei Deputati. Giunto ad Isernia in visita istituzionale per celebrare i 50 anni della Resistenza, il Presidente si ritrovò presto a rispondere alle domande circa lo scandalo sui fondi neri del SISDe. Nonostante ciò, fu «particolarmente toccante la visita al cippo che ricorda Giaime Pintor a Castelnuovo al Volturno» e, nel pomeriggio, giunse anche a Capracotta, dove fu ricevuto dal sindaco Ciro Mendozzi e dal consiglio comunale. Nella biblioteca comunale Napolitano «ha tenuto una commemorazione pubblica dei fatti del '43», prima di ripartire alla volta di Fornelli, ultima tappa del suo viaggio in Molise. Non ero ancora nato quando Giovanni Leone veniva in vacanza a Capracotta ed ero un bambino quando Giorgio Napolitano giunse a farci visita. Tuttavia compresi l'importanza del momento storico - la mafia aveva dichiarato guerra allo Stato - quando vidi l'immane codazzo di auto blu sfilare sulla Montesangrina all'altezza delle Fonticelle. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: R. Arena, Trattativa Stato-mafia: le cinque cose da sapere , in «La Stampa», Torino, 25 settembre 2014; G. Mancinone, Napolitano: Bisogna reagire alle insinuazioni , in «L'Unità», LXX:255, Roma, 31 ottobre 1993; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. II, Youcanprint, Tricase 2017.

  • La strada d'erba (V)

    Ma nell'attesa giunse la novella: – Il pecoraio aveva saldo il cuore, ma non la gamba, ché a Montereale, palpando i muli a prova nella fiera, gli fu sferrato un calcio nel ginocchio. E con la gamba rotta al santuario d'isola fu portato, perché grazia il bel san Gabriele gli facesse. – A quell'annunzio piansero le donne nell'amoroso cuore già presaghe; e allor la madre: – Ebbene alla Montagna dell'Angelo n'andrò pregando in voto, doman col vetturale, e con due pegni invocherò che presto o la sua gamba possa sanare o almeno il cuore tuo. Discesero gli armenti nell'ottobre verso gli antichi pascoli, nel loro secolare cammino che una legge sovrana impone, come impone agli astri il lor corso immutabile. Ma al vecchio ovile non tornarono le torme, e nell'assenza del lor capo altrove, sotto altra guida, posero lo stazzo. E seguendo il tratturo, per la terra dondolarono i loro campanacci le belle e fulve pecore lanute; e poiché fu richiesto del padrone, un buttero rispose: – Per quest'anno in casa si rimane, nell'Abruzzo, a tòrvi moglie. – E più s'accrebbe il pianto. Un vespro di novembre sulla porta apparvero due rozzi montanari. – Gesù e Maria – togliendosi il cappello dissero. – È questo il forno di Battista, il padre d'Anna? Siamo di Camarda d'Abruzzo, qui venuti per sonare la novena alla bella Immacolata; se va bene, torniamo per Natale. Or voi che avete fuori il Crocefisso, fateci fare qui la prima posta. – Come il padrone ad onorarli trasse il biondo vino, in belle due caraffe, aggiunsero: – E notizie vi rechiamo d'Antonio, il pecoraio: buone nuove, ché l'acqua preziosa della fonte or quasi l'ha guarito nella gamba, e conta di calare qui a Natale, a far lo sposalizio. Ed ora in pegno che noi di Dio la verità diciamo, per la sposa accettate questo scrigno. Meraviglie ne trasse in sulle prime l'uomo, e confuso e tocco un po' nel cuore a sé chiamò le donne. E nella casa, triste per più che una stagione, un rivo di luce sparse il suo zampillo d'oro. E, all'edicola accanto, i fiori e i ceri furono appesi avanti al Crocefisso; e così poi di strada in strada, ovunque fosse in paese imagine dipinta; e a sera tutto il cuore della gente al suon delle zampogne pastorali si raccolse. E rapito egli ascoltava, ché da molti e molti anni non udiva la melodia dei rustici strumenti schiudersi in dolce flutto fra le lampe. Era quello un miracolo d'amore? Tutta la vasta casa n'era gonfia, come ben traspariva dai lucenti occhi delle sue donne. E come il giorno della vigilia presero commiato, Anna, la sposa, loro disse: – O gente mia d'Abruzzo, alle vostre buone mogli ritornate, e la Vergine vi trovi con esse, ché domani è la sua festa, grande per ogni cuor devoto. Questo è lo scrigno di legno, intarsiato nell'ore dell'inerzia più penosa; ed ecco a lui ritorna, perché dentro vi trovi un altro segno della fede. E alla nuova novena v'aspettiamo. Era solo il padrone dentro il forno, ché nella notte il giovine alla chiesa s'era già mosso con le donne; solo, solo davanti la sua fiamma rossa. Ma come il primo tocco udì nell'aria, una finestra aperse, e l'onda grave e lenta, sotto il mar degli astri, tutto l'avvolse. E pianse allora e, sui ginocchi ripiegando, pregò: – Questa campana ormai annunzia, o Signore, la tua nuova venuta fra le genti; e già al presepe fa la prima stazione il sacerdote cristiano nel santo sacrifizio della messa. Indi al suon di cornamusa, belante a Te s'accosta nell'aurora l'agnello che più caro avesti al mondo, simbolo d'innocenza e obbedienza. E come hanno le stelle le vie azzurre negli abissi del cielo, or fa', Signore, che seguendo l'antica strada d'erba, dal monte alla pianura, trovi il gregge il pascolo fiorito alla sua fame, e pur vita il pastore, come sempre di tutti i tempi fu, su questa terra gran dispensiera agli uomini di pane! Umberto Fraccacreta Fonte: U. Fraccacreta, Nuovi poemetti , Cappelli, Bologna 1934.

  • La strada d'erba (IV)

    Eran chiare le notti, e già a ponente la luna nuova s'inarcava rossa a maggio, come sposa adorna d'astri. E piamente mossero sui carri verso Monte, e con essi alcune donne i cui figli attendevan cavallucci di cacio ed ostie piene. La vallata dall'ombra verde di Stignano come una culla li accolse nel suo grembo. Scese la notte e il morbido suo fiume azzurro schiuse, tremulo di stelle; e un suon di canna agreste, dai silenti faggi della campagna fatta scura e dolorosa, a mescersi poi venne alle piane lor preci. La prim'alba ad altri li confuse che per altre strade alla stessa valle Carbonara eran giunti, sboccando ad una foce, in un flutto di canti e di stendardi; e avanti a loro messa fu l'insegna cinta di veli e adorna di fioretti, e, dietro, i pellegrini scalzi in coro su per l'erta salita verso il Monte alla cui cima, come un baluardo, rosseggiava nel cielo il santuario. Or avvilito e triste il pecoraio con le pecore, i butteri e i pastori abbandonava il pian di Puglia al suono querulo dei campani. Alla pastura estiva, dove fra i bacini eccelsi l'acqua ricanta la sua gioia all'erbe, or spingeva la torma tutta scarna e senza lana il giovine d'Abruzzo; ma il tratturo, sebbene asciutto al fondo, le prode aveva ancora violette di nuova malva; e l'avido suo gregge, sostando ed indugiando lungo i fossi e i margini, più lento andava; e dietro non lo premeva assorto il mandriano, ché il suo cuore lasciava alla pianura. Già paghe alla promessa dell'addio, or le donne più dentro nella casa si ritrassero a far le tele e i lini, perché fossero pronti al suo ritorno. Poi la campagna s'ammantò di giallo: favorita dai freschi venti occidui, si strinse l'oro nelle dure spighe; e grande fu l'offerta del frumento fatta dal Tavoliere non mai esausto, ove il ciel l'assecondi, di donare al colono più provvido e tenace il giusto premio delle sue fatiche. Ed affacciato all'uscio del gran forno or egli ansioso domandava, e fino a lui giungeva l'eco del clamore dall'aie vaste ed assolate, dove già s'ammassava il grano. Una mattina che alla porta sostarono i carretti, più sacchi rotolarono nel forno, stretti alla gola e pieni di frumento. E quei, traendo in casa la dorata messe, rendeva grazie: – Ancor permetti, o Signore, ch'io faccia le provviste: avrà nel verno il forno l'alimento, né verrà meno ai poveri il buon pane. Poi la campagna s'intristì nell'afa della torrida estate, nel silenzio dell'opre smesse e nell'urlante rabbia dello scirocco, come un morto suolo che la luce devasti coi corruschi gorghi. Così ristora, nell'influsso degli astri, e rifeconda le sue forze il Tavoliere, scrigno ognor possente dell'amore di Dio, che vi s'asconde nell'infinito campo delle zolle. II silenzio cresceva nella casa come un'ombra notturna, con presagio di tristi giorni. Disse allora l'uomo alla donna: – Tu vedi che non vane eran le mie parole: il pecoraio più non s'è fatto vivo, e si capisce. L'annata è stata grama e le speranze più non sono pei greggi. Forse a mente tiene il mio detto: fan carbone e legna dei boschi, e seminati fan dei paschi. E sai, anche il bel Parco della Notte, tutto ombroso di querci, cerri e d'olmi, presso lo Spino Santo che frescura dava in estate e caldo nell'inverno alle vacche per entro i rami folti, pur quello è stato rotto con l'aratro, perché il grano ci vuole per il pane, e non il cacio, come già gli dissi. E forse questo lui se lo ricorda. Più non v'è qui pastura e lui non torna, e tu la figlia avrai sempre nel pianto. Son costoro del Sannio e dell'Abruzzo come i lor carbonai di Capracotta, che qui carbone e legna fanno, e soldi rivendendoli a noi con la bilancia; e poi, quand'è l'estate, alla Fontana dell'Orso se ne vanno. Ma per questi pure verrà la fine, ché la terra di Puglia è nostra, e i nostri contadini che la lavorano essa adunque sazi! Umberto Fraccacreta Fonte: U. Fraccacreta, Nuovi poemetti , Cappelli, Bologna 1934.

  • La strada d'erba (III)

    La donna, che cuciva accanto a loro, all'uomo sempre intento alla fatica disse: – Per ritornello un tempo avevi che costoro d'Abruzzo sono gente ruvida e dalla testa dura, come l'aspro granito delle lor montagne; ma lui ha più che un briciolo di cuore, e parla come un musico che incanta. – L'uomo taceva e si sentiva solo, solo nel forno con l'aduste braccia. Col giorno delle Ceneri poi venne il tempo della rigida astinenza, e le due donne, che il quaresimale giù ripiegava nelle lunghe soste dei venerdì di marzo, impazienti furon di bere al calice celeste. Asperso di domestica rugiada, sulla bambagia crebbe presto al buio, nella quiete della casa, il grano coi lunghi steli gialli in sofferenza. La fanciulla l'aveva in sua custodia quel po' di grano che le ricantava, nel grande amore di Gesù, la pace delle estasi odorate dell'incenso. E un giorno cupo di silenzio e d'ombra con pure mani ne intrecciò la chioma, perché non sole o vento, ma l'ebrezza provasse di morire nel sepolcro, pallido di tremore, in un supremo atto d'offerta, ai piedi dell'altare. I butteri e i pastori a prender Pasqua vennero nelle chiese e per le case, seco traendo agnelli e ramoscelli. E i rami si portaron benedetti ai loro paschi e nelle loro mandrie, perché men scarso d'erba fosse il prato, e più abbondante il rivolo del latte, e più dolce il riposo; ove le carni presto immolate furono, secondo vuole l'antico rito, sulla mensa. E all'opera più alacre risonava il forno, nelle spire della rossa fiamma accogliendo i pani e le focacce e le carni dal fumo inebriante. E l'uom restituiva quella grazia, ormai fatta nel caldo del suo forno bruna e forte, alle donne che per entro fra l'origano avevano intrecciato steli di palma per santificarla. Fiori di pesco e tuniche celesti fluttuaron nell'aria, e la campana, silenziosa per due giorni interi di passione, su dal piano ai clivi all'uomo ricantando l'alta gloria, onde gonfie d'argento intorno sparse. Alla mensa di Pasqua l'uomo accolse il giovine che s'era già promesso il giorno della Candelora, e il latte così rappreso nell'usate forme asperse del suo lieve aroma d'erba la santità del pane e dell'agnello. Dopo l'uomo s'aprì con la sua donna: – Or voi donne osservate zitte, meglio che noi uomini. Il nostro pecoraio da un mese a questa parte già mi pare un po' più mogio e mutolo. Vien maggio e di nozze non parla. Eppur dovrebbe farsi codesto parentado, innanzi che parta con le pecore! Qual figlio da due mesi l'accolsi nella casa. Ma la donna sapeva: – Oh no, timore non v'è. Sempre lo stesso, più pensoso egli è a causa del gregge: nel gennaio la malerba dal cupo fior turchino, nella valle Capoccia ove più fonda è l'ombra, a nove pecore gli attorse le budella. E fu cruda l'invernata, e magra d'erbe poi la primavera, né più buona è la frasca dell'olivo. Per questo è triste: la stagion del cacio va sempre peggio e, se continua asciutto, in via si metterà prima di maggio. Al suo ritorno si faran le nozze, per bene e senza fretta; e alla Montagna dell'Angelo trarremo presto in voto. Umberto Fraccacreta Fonte: U. Fraccacreta, Nuovi poemetti , Cappelli, Bologna 1934.

  • La strada d'erba (II)

    Ma l'arte del lamento ben sapeva l'ardente pecoraio: – Ebbene vada come per giusto quello che tu dici. Or noi dei monti che soltanto paschi abbiamo, dove mai menar dovremmo, quando la neve o il ghiaccio ce li copre, le nostre buone pecore affamate se non in Puglia, nella vostra piana? Ciò da secoli avviene, non da ieri; e il tratturo è la strada d'erba aperta a noi del monte verso la pianura dal sole arrisa, che da me, dai padri a cui donò il benessere, fu sempre come novella madre benedetta. Otto mesi dei dodici dell'anno, ben otto qui restiamo, onde la vera casa per noi è questa; e quando in via per l'erboso tratturo ci mettiamo, un antico stornello in cuor ci canta: Donna di Puglia in terra di Montagna. Aveva l'uomo troppo caro il forno, cui vita dar voleva oltre la propria vita. Così che quando il giorno dopo la moglie disse a lui: – Non si rassegna la nostra figlia –, s'ebbe un urto al petto. S'accasciò, si riprese e diè di piglio ad una pala, e dalla rossa brace scoppiarono a miriadi scintille, sì che parve per entro vi bruciasse il vecchio ceppo del suo rotto cuore. Or non aveva requie fra le mura della casa. Ma quando udì nell'ombra rompersi dei singhiozzi, il grosso nodo che da più giorni lo teneva stretto, si sciolse anch'esso, e sui capelli neri di sua figlia una lagrima depose insieme con un bacio. Sotto voce avvertì poi la moglie: – Il due febbraio è festa per le case buone; e avvisa dunque che venga per la Candelora. Ebbero dolci tempre le campane sulla prim'alba acerba di febbraio, e nella casa sveglia fin nell'ombra arse più che una lampada sui quadri, nella soavità dell'olio biondo. A terza che la messa fu cantata, con l'acqua venne insiem la candeletta, quella che brucia nelle più solenni attese della vita e della morte; e seco trasse aroma d'innocenza, come se nella casa inavvertito fosse scorso un turibolo d'incenso. E la vergine cera a fior dipinta di fianco al letto appesa in fila venne, come l'altre ingiallite ormai dal tempo. Sul muricciuolo s'erano adunati, di fronte al sole scialbo, i passerotti in festa, per sentire l'aura mite del forno e per assumer le cadute briciole con un trillo su nell'alto. E la giovine disse al pecoraio: – Ho fatto un voto e, prima che in cammino si mettano le pecore, la mamma noi due accompagnerà in pellegrinaggio a Monte, al santuario dell'Arcangelo. – E lui rispose: – E quando mia sarai, meco ti condurrò a San Gabriele, al nostro Santo che di là d'Assergi, nella vallata opposta del Gran Sasso, ha il santuario caro ad ogni cuore d'Abruzzo, con la piccola fontana che guarisce le piaghe più ribelli. La festa è nel settembre, e tutto il mese è un accorrer di gente. E te vicina allora avrò per sciogliere il mio voto. V'era dintorno come un primo vago effluvio di viole a ciocche, quelle che s'aprono sul muschio lungo i muri, dove più urge il croscio violento delle piogge. E salendo sulle balze egli stupì vedendo già fioriti gli orli di pratoline, nell'azzurro velo dell'aria. Ed un mattino roseo e molle del riposo della notte (notte d'aprile in cielo di febbraio), tutto il piano s'empì delle farfalle tenere in vetta ai mandorli trapunti; e il giovine sognava: – Profumata neve è questa che fiocca sulla terra al tuo precoce soffio, o primavera! Umberto Fraccacreta Fonte: U. Fraccacreta, Nuovi poemetti , Cappelli, Bologna 1934.

  • La strada d'erba (I)

    La strada pastorale gonfia ai bordi l'onda di nuove lane, come in cielo la Via Lattea raddensa la sua chioma più morbida di stelle. Già in pianura l'archimandrita avvolto nel tabarro sta immobile nell'ululo selvaggio dei venti. Ad una legge secolare egli obbedisce; e non lo tiene pure il suono che nel cuore il vecchio dio Pan gli versa dal flauto armonioso? Lì fermo sul bastone d'avellano, le piante ha radicate come un fauno dentro le pieghe erbose della terra di Puglia che col fascino materno a sé l'avvince. E i tinnuli campani, che mescolan l'argento di lor timbri ai tremuli belati intorno erranti, solo egli sente, e i brividi dell'erba. Cala la sera e il caldo ovil dischiude, mentre svanisce in cielo la montagna. Dal Tavoliere, verso tramontana, o pastore d'Abruzzo, quando è chiara l'aria, tu scopri con lo sguardo acuto il bel profilo della tua montagna. E la discerni ché per l'ardue nevi è bianca sovra il fondo cilestrino del cielo, e sacra al cuore tuo di figlio. E il tratturo è la via che nell'ottobre col branco ti sospinge in basso, e dopo nel maggio ai freschi mai ti riconduce; la via che come un verde fiume aulente fin dai millenni agli avi dei tuoi avi si schiuse giù dal monte alla pianura; e questa, al pari di seconda madre, te nutrì, fin d'allora, di dolci erbe. Ma non della Maiella, del Gran Sasso era quel pecoraio ch'or è un anno qui nella piana s'ammalò d'amore. Veniva dalla terra di Camarda, e giovin era, e ben provvisto capo di numeroso gregge; e come errava per le viuzze d'un di questi borghi, ove lo stazzo aveva dell'armento, gli prese il cuore un bel balcon fiorito di rose sulla porta d'un gran forno. I butteri calavan con le mule in paese, recando a basto il fresco cacio alla pesatura, un giorno solo per settimana, come l'erba scarsa era nel verno e assai più scarso il frutto. Ritornavano al poggio verso il vespro con le fiscelle vuote di ricotta, ma con in cambio, dentro le bisacce, il pane caldo: il prezioso dono offerto dalla casa alla campagna. Or nel tempo più aspro ben più carchi si curvavano i dorsi delle mule fin sui fianchi coperti delle rame dell'olivo, il sapor delle cui fronde spandeva nella bocca delle bestie aroma d'olio e latte. Il giovin capo sulla soglia attendeva impaziente: aiutava i garzoni a trar le frasche nell'ovile che come una selvetta si serrava d'argentei ramoscelli; e poi con umil atto agli aspettanti distribuiva la più eletta grazia del pane, la sostanza su cui mani tenere eran passate a por la croce, l'umile segno di benedizione. II padrone del forno a sé in disparte un dì chiamò la donna: – La ragazza adesso cuce dalla sua maestra; stammi dunque a sentire. Non mi garba, già te lo dissi, il giovin castellano di Camarda. So bene ch'è provvisto alla montagna di podere e casa e di buon gregge, e suole qui fornirsi in grosso di farina, pane e d'olio. Ma la figliuola nostra non mi sento di dargliela per moglie. Molto meglio per lei sarebbe un fabbro, un mastro d'ascia del paese, e finanche un mio garzone che mi portasse avanti questo vecchio forno. Quel montanaro invece lungi di qui la condurrebbe ad appassire nelle case, fra i salici e le nevi del Gran Sasso. E ricordati del detto che mai non falla: gli uomini d'Abruzzo per un vomere danno in cambio un ago, ci succhiano la terra e se ne vanno. Dirò ai garzoni che le lor provviste se le facciano altrove, e che qui dentro non vi mettan più piede; ché costoro dei monti sono di fatture esperti. II giovin ebbe il cuore in gran tumulto, e a quella volta un giorno se ne venne. Ma l'uomo, sempre fermo, alfin concluse: – Sappi che adesso più non mi convince la grande utilità del tuo mestiere. Non vedi che la terra si trasforma? Ove son più da noi quei folti boschi, quei grandi paschi che assiepavan dentro le nostre case? Fan carbone e legna dei boschi, e seminati fan dei paschi, sì che pochi ne resta. E mi domando: quale bisogno abbiamo noi del cacio, della pecora? Il grano a noi bisogna, per farne la farina e il pan che sazia! E l'uom che lo produca è necessario, e un forno che lo metta fuor ben cotto per la povera gente or come il mio fa che può dare cento chili al giorno. Un uom che a ciò s'industri per me conta, e me farà felice con mia figlia. Umberto Fraccacreta Fonte: U. Fraccacreta, Nuovi poemetti , Cappelli, Bologna 1934.

  • Il leone e la gazzella

    Il maestoso re della giungla apatico vagava pei suoi domini, ostentando un'imponente eleganza, tentava d'ignorare il suo bel portamento. Un impala si godeva il pascolo, felice di attraversare quei prati. Un inno alla grazia, questo era, come se Fidia lo avesse scolpito fin dentro le viscere. Col bell'incedere suo aristocratico, la gazzella incontrò la morte, e con sorpresa ascoltò: – Sei fortunato, il potere si inchina dinanzi alla grazia. Poi rispose sottilmente: – E la grazia venera la grandezza. Virgilio Juan Castiglione (trad. di Francesco Mendozzi) Fonte: F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. II, Youcanprint, Tricase 2017.

  • Tanka del Verrino

    Fiume Verrino, nel cuore dell'inverno di grande irruenza sa bene il fatto suo il Molisano DOC. Di questi tempi alquanto minaccioso, la sua corrente impaura la gente con l'impetuoso gorgo... Ma cambia umore col verde e il sol d'aprile, dolce rifugio diventan le sue sponde con l'acqua cristallina. Le sue cascate splendidi anfratti e salici, bellezza antica, nella stagion d'amore si rinnovella il cuore. Marisa Gallo

  • La Madonnina in festa

    La filiera di ceri infittita per la Sua festa è richiamo di corolle stellari estatica fiaccolata su voci di oranti del paese proteo al Suo sorriso di Madre. Ogni cero un nome una voce un sorriso un voto una lacrima un grazie. Ogni fiamma un cuore una mano un popolo di cuori e di mani pellegrino al Suo trono di Regina iride di pace. Il silenzio ascolta sacro la litania di gioie ed umani affetti che si rinnovella nel tempo e si consuma come ad ogni goccia il lucignolo e ricrea nuove luci come ad ogni sospiro l'anima per la Sua festa. Pellegrina per le nostre strade sulla sagra di desideri in processione Te ne ritorni ora a farTi solitaria nella Tua casa. Ma visibile dal portale aperto come arcobaleno brillerà il Tuo volto invitante all'occhio di chi passa accanto e Ti ricerca come figlio incontro a sua Madre. Geremia Carugno Fonte: G. Carugno, L'arcobaleno. Versi per Capracotta , Litterio, Agnone 1993.

  • "Un paese del Sud", una poesia di don Geremia Carugno

    Ho ritrovato, fra i miei libri, una pubblicazione del caro e indimenticabile don Geremia Carugno, parroco a Capracotta per oltre 30 anni. Don Geremia scriveva le sue poesie nelle lunghe notti invernali, quando a Capracotta, la neve e la bufera fanno sentire più aspra la solitudine, la paura ti assale e ti entra nella vita. Don Geremia, solo nella sua casa canonica, attigua alla maestosa Chiesa Madre di Capracotta, superava il suo deserto con la preghiera che spesso traduceva in versi, pensando a chi viveva nel dolore e nella solitudine. Come succede spesso il "valore" di un uomo lo si scopre solo dopo la morte. Don Geremia è morto il 28 agosto del 2007 dopo una lunga malattia. Credo che sia giunto il tempo di ricordarlo con la giusta misura che si deve a un Poeta. Per questo vi invierò una alla volta i suoi versi pubblicati nel 1981 e raccolti nell'opuscolo dal titolo "Le rose di Gerico". È un modo non solo per ricordare il mio parroco, l'arciprete di Capracotta, ma anche per non dimenticare tutti i popoli che vivono nella sofferenza; infatti i versi sono stati scritti per il Terremoto del Sud nel 1980. Nei nostri giorni altri terremoti hanno portato morte, dolore e distruzione. "Non lasciamoli soli!". Gustate la bellezza e la profondità della prima poesia. Alberto Conti Un paese del Sud Ora so perché quella coltre di campi da arare seminata di pali di bidenti e zappe lasciati all'aria nella pausa di colazione all'ombra mi parve il volto di un camposanto. - Se il paese era scarno invecchiato come un convento quei pali sapevano il numero della gente viva - Come a un cenno infatti la distesa si animò di figure femminee tutte lente stanche vaghe come fantasmi e le braccia rotearono rapide le lame che affrettavano le zolle con una lena che sapeva di fretta e di richiamo Ora sulla via che portava ai casolari vuoti ogni gonna trascinava un pianto e un lamento e tante braccia cullavano un vagito e i pali delle zappe e dei bidenti all'aria sulle spalle mi davano l'idea delle croci croci che in quel paese del Sud attendono le braccia dei cirenei. Geremia Carugno Fonte: https://www.diocesitrivento.it/ , 21 ottobre 2009.

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