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  • A.D. 1607: la seconda più antica data epigrafica di Capracotta

    L'iscrizione di via Maiella (fotoel.: F. Mendozzi). Convenzionalmente, un'epigrafe è un testo esposto pubblicamente su pietra, il cui intento è quello di tramandare la memoria di un evento storico, di un personaggio o di un atto. Le parole sono incise, altre volte dipinte, e l'epigrafe si può trovare sia in un luogo chiuso (chiesa, cappella, palazzo ecc.) sia all'aperto (piazza, via, cimitero ecc.). Solitamente le iscrizioni sono realizzate in lettere maiuscole, ma a caratterizzarle non è tanto lo stile della scrittura bensì l'adozione di acronimi o di particolari registri linguistici, improntati generalmente a concisione e solennità, in funzione del contenuto, del contesto e dello scopo comunicativo. In altri casi, le epigrafi si limitano ad annotare l'anno in cui un determinato evento è avvenuto. Limitandoci alle sole date epigrafiche, a Capracotta si contano, allo stato attuale, almeno sei manufatti di qualche rilievo storico, antecedenti all'epoca repubblicana ed escludendo quelle riportanti le date di costruzione apposte, tra il XIX e il XX secolo, sugli architravi di alcuni portoni di palazzi privati. Come tutti sapranno, la più antica data incisa su pietra è quella del 1589 presente sul campanile della Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta, data che ricorda l'edificazione del campanile stesso, rimasto pressoché inalterato dopo la ricostruzione della chiesa avvenuta a fine Seicento. La seconda più antica data epigrafica sta invece nella pietra murata sulla facciata del Santuario di S. Maria di Loreto, che reca la data del 1622, anno in cui papa Gregorio XV spedì una bolla al clero di Capracotta, dopo che questo aveva « fatto costruire, ingrandire, ampliare ed abbellire con elemosine proprie e con quelle di altri credenti una Chiesa o Cappella sotto il nome di Santa Maria di Loreto, vicino [all'abitato] ma fuori delle mura della predetta terra ». Le iscrizioni del 1589 (Chiesa Madre) e del 1622 (Santuario di S. Maria di Loreto). In ordine cronologico ascendente, la terza iscrizione è quella di cui ho parlato in un articolo del 16 dicembre scorso, recante la data del 1700, posta su un architrave abbandonato tra le erbacce del rione S. Giovanni. È importante segnalare in questa sede anche l'epigrafe (non più visibile) di via Carfagna, riportante un cristogramma, una ricerca  che, nel luglio 2019, mi appassionò molto, in quanto scoprii che i numeri incisi non erano una data bensì un versetto dal Vangelo di Luca, riferito alla Congregazione della Visitazione e Morte di Gesù Cristo. La quarta data è quella del 1873, incisa nei mattoni del rinforzo neogotico della Chiesa Madre, a cui pure ho dedicato un articolo nel maggio del 2019. Per quanto attiene l'età unitaria, invece, possiamo ammirare il fregio massonico del "Verrino Trionfante" del 1893 su via Nicola Falconi ed il miliario di epoca fascista posto tra corso S. Antonio e via S. Maria di Loreto. Grazie ad un'imbeccata di Pasquale Potena e Giuseppe D'Andrea, si può affermare, con assoluta certezza, che vi è un'altra data epigrafica, la seconda in ordine di antichità, sul territorio urbano di Capracotta, precisamente in via Maiella, dove, sulla facciata retrostante di un palazzo, è possibile ammirare la data dell'Anno Domini 1607 (foto di copertina). Quel palazzo ha l'affaccio principale su via S. Giovanni 91. Sul retro di questo palazzo è apposta la data del 1607. Le domande cruciali che sorgono sono principalmente due: La data del 1607 a cosa è legata e cosa vuol raccontare? Perché l'incisione è posta sul retro di un palazzo piuttosto che sul fronte? Per tentare di rispondere al primo quesito, possiamo consultare il libro dei fuochi di Capracotta del 1732: tra le famiglie più agiate residenti del rione di S. Giovanni dal XVII secolo figurano quella di Savino Campanelli, di Domenic'Antonio de Maio e di Giovanni Mosca. È probabile che una di queste famiglie benestanti abbia edificato nel 1607 il proprio stabile, che oggi ha uno stile plausibilmente diverso rispetto a quello del progetto originario. Prima della divisione in tre diversi appartamenti, è infatti probabile che le due rampe di scale frontali facessero da corona al portone d'ingresso. Gli altri due palazzi signorili del rione di S. Giovanni, infatti, sono quello al civico 65 di via S. Giovanni e quello al civico 16 di piazza Gianturco (che probabilmente era il Palazzo De Maio, una delle famiglie più ricche di sempre a Capracotta). Il retro del palazzo. Se questa ipotesi può in qualche modo giustificare l'edificazione a settentrione, nel neonato quartiere della borghesia cittadina, di un palazzotto, tuttavia non convince pienamente né spiega come mai la data epigrafica sia stata incisa sulla facciata retrostante, quella che affaccia sulla valle del Sangro, quasi a strapiombo dei Ritagli, con l'iscrizione che, tra l'altro, è in posizione estremamente laterale ed anonima, quasi randomica, rispetto alla simmetria della pianta del palazzo stesso. La grossa pietra rettangolare con la data dell'Anno Domini 1607 sta infatti all'angolo con la cosiddetta "tomba di Rascia", uno dei sottopassaggi tipici di quel quartiere. È possibile soltanto asserire che, se l'epigrafe non è "riciclata" da un altro fabbricato, questo palazzo è più antico del Santuario di S. Maria di Loreto. Per risolvere entrambi i quesiti, dunque, sono costretto ad azzardare alcune ipotesi. Due anni prima, nel 1605, il feudo di Capracotta era stato confermato a Isabella Caracciolo, che aveva dovuto adire le aule di tribunale poiché, alla morte di sua nonna Aurelia d'Evoli, la ripartizione dei feudi di famiglia era stata oggetto di usurpazioni. Capracotta, d'altronde, faceva gola a tanti, poiché proprio in quegli anni la nostra industria armentizia stava provocando un costante e cospicio aumento del P.I.L. locale: aumentavano i capi di bestiame, aumentavano gli scambi commerciali di lana, aumentavano le rendite su pascoli ed erbaggi, aumentava l'indotto legato alla transumanza, aumentavano del pari le dimensioni del paese stesso. In quel clima di boom economico, Capracotta conobbe persino un aumento nella domanda di "servizi spirituali", tanto che nel 1603 era ufficialmente nata una congrega legata all'ordine di san Filippo Neri e unita a doppio filo con i «preti dell'oratorio dell'Annunciata d'Agnone», i quali avevano preso integralmente le regole della Confederazione di Roma. Dopo quello principale di Agnone, l'oratorio di Capracotta era uno dei quattro che sarebbero dovuti sorgere sul territorio diocesano di Trivento «et tutti havranno da stare sotto la santa obedienza di V. S. e de la sua religione». L'iniziativa ebbe presto risonanza, tanto che alla metà di giugno le cinque piccole comunità di preti «riformati»   erano attive. Il 13 giugno 1603, nel giorno della festa della SS. Trinità, fu inaugurata la congregazione filippina di Capracotta, con grande soddisfazione di tutto quel popolo. «Essi vivono sotto li nostri et vostri instituti», così scrissero i padri filippini romani della Chiesa di S. Maria in Vallicella. Mi risulta che all'incontro per stipulare l'atto d'unione in forma legale, avvenuto «nel refettorio della casa di Agnone» il 12 ottobre 1617, partecipò per Capracotta padre Marco de Zelli, forse il preposto della nostra casa oratoriana di S. Filippo Neri. È altresì pensabile, allora, che il palazzo di via S. Giovanni 91 fosse proprio la sede dell'oratorio capracottese di S. Filippo Neri e che la data epigrafica racconti la sua edificazione, avvenuta quattro anni dopo l'istituzione della comunità religiosa, che in un primo momento, forse, si riuniva nella primitiva Chiesa di S. Maria o in un altro edificio a pigione. La posizione sul retro, poi, si spiegherebbe col fatto che il fine dell'attività oratoriana era la santificazione dei membri mediante la libera pratica dei consigli evangelici, la vita comune condotta in spirito familiare e di fraterna carità, la semplicità e la preghiera. Se in quel palazzo - o nelle sue immediate vicinanze - in futuro dovesse venir fuori un fregio riportante un cuore che arde, simbolo inconfutabile della Confederazione dell'Oratorio di S. Filippo Neri, allora vorrebbe dire che l'ipotesi principale di questo mio articolo è corretta. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Tip. Antoniana, Ferentino 1931; A. Cistellini, San Filippo Neri: l'Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità , libro III, Morcelliana, Brescia 1989; V. Di Luozzo, I tratturi, la transumanza e la loro storia , Capracotta 2017; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016.

  • Radio R.A.M.A.

    Radio Alto Molise nasce nel 1979 in un locale sotto il Bar Aquilonia ad Agnone (Isernia) per iniziativa di Peppino Di Ciocco, Oreste Palmiero, Piero Barbieri, Erenia Di Nucci, Pasquale De Simone e Franco Zarlenga detto Akai (tecnico). Il ponte radio un baracchino montato a Capracotta. L'emittente irradia i suoi programmi dagli 88.800 MHz. La prima trasmissione ad andare in onda è l'incontro di calcio di terza categoria Vastogirardi-Aquilonia commentata da Costantino Pierdomenico. Le trasmissioni dalle 6 alle 24. Il palinsesto è composto da musica, dediche, radiogiornali, interviste, giochi a quiz. In radio ci sono: Teodoro Busico, Nunzia Zarlenga, Loredana Marcovecchio, Niki De Martino, Vittorio Labanca, Mauro Marinelli, Franco di Toro. Nel tempo entrano anche: Paolo Delli Quadri, Mercede Catolino, Carlo Serafini, Antonio D'Ascenzo. Nel 1980, presidente Michele D'Ascenzo, l'emittente entra a far parte del circuito nazionale Tirradio. Dura fino alla fine degli anni '80, poi chiude. Massimo Emanuelli Foto: M. Emanuelli, Alza la tua radio per favor... Storia delle radio libere italiane di ieri e di oggi , Gammarò, Sestri Levante 2025.

  • La nebbia avvolge la casa

    Una brumosa Capracotta (foto: F. Di Nardo). La nebbia avvolge la casa in un velo di sposa, ne copre le forme e rimane stesa lasciando vedere solo due macchie di rosa; poi si muove lenta e di nuovo si posa bagnando ogni cosa; alla carezza del sole si fa subito ritrosa e sparisce precipitosa. Flora Di Rienzo

  • Clipper l'americano

    Il Capracotta-Clipper nel 40° anniversario. Le deciassètte de innàre de re Millenoveciéndecinquanda, re ju ó rne de sand'Andu ó ne, tutte tutte, bu ó ne bu ó ne, so' partùte tutte quande da re pòrte napultàne pe la via chieàne chieàne: ècche ŝ tieàne p'arrevià! So' 'ndrate a Capracotta tutte tutte, tutte 'ngòppa alla Chiana de la Madonna, mamma meja che culònna! Annieànde va r'Ambasciatore, circundàte da bandiére, appujàte a le barriére tande tanda a svendulà. Ch'accugliènza a ŝ tu pajése, tutte tutte re capraccutti ŝ e, mulisàne e abruzzìse, tutte tutte a fe ŝ teggià. Ne delùvie de ŝ tendiàrde de re core tutte jarde, 'mbacucchàte de fuliàrde, tutte tutte a svendulà. Capracotta z'arrescàtta, sémbra pròpia na tembèŝta, mamma méja che grossa fe ŝ ta, tutte tutte a candeggià. Battemiénde assieà de mieàne quanda càlane r'Amerechieàne, tand'abbriàcce e assieà rechieàme pe la ŝ toria arraccundà... Ècche appare re spartenève, arrialàte dall'oriunde italieàne che tutte re core e che du mieàne ma fermàte demucriŝtiane!… Bensì nen vingene re cumuniŝte, ormai sò pr ó nde cinghe... liŝte ca re mannan a "Baff ó ne"... però re "Scude" allucca: « N ó n-n ó n! » . Ma Baff ó ne n'à 'nd ó penzà? Ca Clipper nen ze r'à che ffà! Ze ŝ trafòca la cara Ledda: « R'utilizza alla Uèrra Fredda... » . Baff ó ne ha uerreggiate che re chiearre de la Wehrmacht, Capracotta ne sa quacc ó sa… cumbattévane còme mieàtte. Và alluccanne ze Pasquale: « Quisse è n'attrezze ch'assià vale! » È cundènda zia Feluména: « È na machena che ne vale la pena! ». La figlia de la bionda Jolanda: pur'essa 'ngoppa tutta ghianga, allenata alla prupaganda de re Cumblesse naziunale. R'accumbagnane re puliziuotta che le pistole a re cappuotta… Va gerieanna sott'e 'ngoppa z'arruffiana pe Capracotta!... Sbatte le mieane la bona Aurora: « Finalmende èva ora! ». R'arresponne Venranda: « Chess'è tutta prupaganda! ». Sta calann Marijasandina ch r porta tutt alla candina stappa cjend e cchjù buttigl: “P me set tutt frjat e figl!”. Zi Nd’netta dà r panin ch n cist: “Semm tutt figl d Gesù Krjst! Clipper suddisfa a ognun n scundenda maje niscjun”. Mariuccjannina fa chiù bjegl: mett croc e fav’c e martjegl: “Ed è buon ca ci sta ca putemm arr’ngasà!...”.   Marjettella parla chjar: “N facet r juorn amar… r Munn p qujss è bjegl ca è varje r c’rvjegl!...”. Ognun z te r sija “Palmir” ch’è cchiù furb d n ghir… ciascun z te r sija Andrejott fa cambà e dà pagnjott!... Facet com putet vutat andò vulet Ca Clipper quand passa la striscja lib’ra a tutt lassa!”. “Sv’ndulamm ghjango sjor quist’è r simbul d’ll’amor!.. “Agitamm bandiera roscja ca Clipper maje z’angoscja!.. E’ ar’partit r squadron tutt ngopp ar marm’tton! Da r Popul applaudit sembra avanzan gl’jardit!.. “Natalin” e “Gasparuccje” Dall’Abruzz b’ttigljuccje: “Jat’c chjan ch r b’ccruccje Nz po maje sapè a r vutuccje..”. R’avv’sjat “Sammartin”: “N v’vet troppa vin Ca s nò n’arriscit a vutà E la lista n nz pò signjà…”. R’ha dat ragion n v’cchjarjegl: “R’accumbjagnjass’n r frjat o r figl s c stjann purtjass’n pur l mammuccje, r nuonn, r bisnuonn, eppur r tatigl”. Ma ci sta na prupagandista ngamba: “N’accumbagnjat proprja a niscjun ca c n stjann assjà, ch n nsjann vutà, n jat mb’ccjann r Munn facet’r sbagljà… S Spart’nev dàrà ajut pur a s pajs stjann tuorn tuorn tutt tutt svis!.. R’aspettan pur a pesch’p’nnatar Ca tanda tanda cos maje so chjar. Stet calm - stet calm Ghjangh sjor va vulann… R caccavoscje z’è mbannat la Sezion ha cund’stat… Ma Baffon nz n mborta Mica penza a Capracotta… Proprja Iss nn’andò p’nzà Ca Clipper n nz r’ha cch fa. Sott all’ “Angel d r Pesh” loch djann ova fresch… A r Paes d r “Caldora” r mb’ndic’n alla “Cann’llora!” A l Massarje d Gesù Crist: “Chest so cos a nu maije vist! Alla Vija d Sant’Amich r so accuot ch nn nd dich!!! Ar’passa a “Crapagghjanca” n de gnjend ch r manga!.. Com’è bella Capracotta tutt vjann sott e ngoppa! Siend siend è com romba Vid vid è com zomba. Scappa e vibra tutta l’onda l’Appennin ch rimbomba!.. Ecch arriva la bufera mena vjend ar “Pagljaron” fort accellera r motor e sparisc endr a r ghjangòr! Arr’accap’ta a r “C’rrit’” r cand’njer dà la “Marsala” N’ata vota sparisc l’ala Mjes a r Munn ch z’è ann’rit.  Quand passa “San Klipper” canda allegr pur P’ppin porta fjasca e mena vin va sunann e fa piattin!...  Com’è bbell quand passa pulit e lustr d’ingand lassa! ngoppa l’autista z d’vert z’allundana e maje invert! Vola e fila fila nir nir sembra propria na c’mm’nera mena fum e cchjù n nz ved però n poch z la cred!... Ar “Vuast d r Gjrjard” par propria n leopard! Quand scappa com’è bjegl zomba e vola e fa saltjegl!  Ammiran la gend d r Wuast: “poess ca maje chjù nz uasta! Com avarrimma fa senza d qujss? Nu pr’jamm assjà proprja p d’iss!” Alla kiana apuò d “Stafful” sembra proprja n gjugattul Tutt arrivan p r v’dé e jss scjoscja com a n Re! Sta passann ar Car’vigl: p d’iss na festa d pesc e ngujll. N’mbarlamm apuò d’Agnon: r’acccuogl’n ch r cambanon! Alla Vija d r V’rrin Loch maje manga l vijn! All’a pp Mond Quamb Loch r’aspettan tutt quand! Evviva - evviva Capracotta Semb viva, maje z’è morta! C vuleva r Spart’nev p fa a tutt quand vev!.. R Cumbjegn ch r Cristjen r Cristjen ch r cumbjagn nz sjend’n chjù ljagn tutt nzjembra a mb’rrjacà!.. C vuleva veramend p fa pac a tanta gend R’arr’purtat alla “Libertà” mo ognun po’ passà… Ra r’nnuta la sch’ttezza mo ognun’ po vutà!........ Chesta è la sacra v’r’tà Ca Clipper gjà alla storia sta! Baffon nz r’aveva propria a k fa “R vid Clipper angora sta qua. Z’è persuasa pur la Edda: “È f’nuta la “Uerra Fredda”. Mo f’steggian r cumblejann la b’ll’zza d r s’ssjand’jann. Evviva - evviva Suand Clipper f’steggja pur iss ngoppa a st Terr! Adduoss a iss du bandier chella roscja e l’ata ghjanga n ndè gnjend ch r manga: “R “Cinguanda…” e gnend kiù!” Com saluta Capracotta sembra angora na g’v’notta… Nu r purtamm alla Stazjon St’asp’ttann la penzion!.. ( 2010 ) Teodorico Lilli

  • Messaggio del parroco di Capracotta don Elio Venditti

    Don Elio Venditti durante l'ultima festa dell'8 settembre. Carissimi tutti, dopo sei mesi di assenza dalla Parrocchia, per motivi che voi ben conoscete, penso di riprendere al più presto il mio servizio in mezzo a voi. Intanto, un grande "grazie di cuore" a tutti voi che mi avete seguito ed accompagnato in questo periodo duro e difficile della mia vita. Spesso ho avvertito il vostro "pensarmi" e la vostra preghiera al Signore e alla Madonna di Loreto per me. Le vostre preghiere sono state esaudite! Ed eccomi, quasi pronto, per riprendere un nuovo cammino assieme a voi, per ringraziare il Cielo di tutti i benefici ricevuti e per riaffidarci a Dio con volontà e impegno. Ringrazio i confratelli sacerdoti, che - in questo tempo di assenza - mi hanno sostituito. Un grazie speciale va a don Francesco Martino, ai padri caracciolini, a Daniele ed Ennio e a quanti sono stati vicini alla Parrocchia in ogni necessità. Mercoledì prossimo - 5 marzo, giornata delle Ceneri - inizia la Quaresima, tempo opportuno per prepararci alla Pasqua del Signore - che celebreremo quest'anno il 20 aprile. La Quaresima è tempo di impegno a livello spirituale: la preghiera, che ci deve cambiare in meglio, con un po' di digiuno e qualche opera buona ci saranno di aiuto per sentirci più vicini al Signore. Durante la settimana Santa, poi, sarà tra noi padre Lorenzo che ci aiuterà a riconsiderare la nostra anima e riavvicinarci, con una buona confessione, a Dio e alla Chiesa. Auguro a tutti una Quaresima fruttuosa e lo sarà se torneremo a pregare,ad essere presenti la Domenica in Chiesa e a compiere opere di carità. Mi direte e le nostre feste estive? La festa del Protettore, san Sebastiano, si celebrerà il 13 luglio-domenica. La festa con la processione per le strade del paese aprirà una settimana di preghiere elevate al Signore per intercessione di San Sebastiano, per chiedere salute, benessere, pace per noi e per il mondo intero in questo tempo travagliato e difficile per tutti. Pregheremo per una settimana dinanzi alle reliquie (parte del corpo) di san Sebastiano, che giungeranno tra noi dalla Basilica del Santo in Roma. Il giorno 20 luglio, dopo la Santa Messa solenne faremo la processione per il paese, portando le reliquie del Santo, al quale affideremo con preghiera e devozione il nostro paese. La sera del 20 ci sarà uno spettacolo teatrale a chiusura della settimana di festa. Nel mese di agosto, quest'anno, si compiono 300 anni dalla consacrazione della Chiesa Madre, Santa Maria in Cielo Assunta. Per tale ricorrenza il programma sarà preparato e reso noto a tempo opportuno. Intanto, nelle giornate dal 22 al 24 agosto saremo impegnati per iniziative appropriate all'evento. È certo che sarà privilegiata,non solo la memoria storica del Tempio, ma, in modo particolare le iniziative spirituali, che avranno come scopo un vero risveglio della nostra fede di credenti, per essere cristiani autentici in un mondo distratto e sempre più lontano dalle cose che hanno vero valore e che, perciò, utili alla creatura umana resteranno per sempre, perché ci avvicinano e portano all'Eterno. Grazie per avermi letto e arrivederci a presto. Don Elio Venditti

  • L'UFO e lo scienziato americano

    È poco dopo la mezzanotte del 12 agosto 1983. Un fisico americano, in vacanza in Italia con la sua famiglia, sta guidando lungo la strada di montagna che collega San Pietro Avellana a Capracotta, in provincia di Isernia. I tornanti si susseguono, e l'auto avanza lentamente lungo i pendii del Monte Capraro. Improvvisamente, all'ennesima curva, i quattro notano una luce intensa sul lato opposto del burrone, poco sotto la strada che devono percorrere. In un primo momento pensano che siano i fari di un autocarro che viene dalla direzione opposta, ma, incuriositi, si fermano per osservare meglio. Quello che vedono li lascia senza parole: non si tratta di un camion, ma di un cono di luce bianca che si eleva da un oggetto scuro nascosto tra gli alberi, a circa 100-150 metri di distanza. La luce brilla a intermittenza, ed è talmente accecante che il fisico deve distogliere lo sguardo. L'oggetto ha una forma tondeggiante ed è grande più o meno come l'auto della famiglia. Sembra poggiare a terra, circondato da una fila di luci multicolori che ruotano. Per un attimo restano tutti immobili, indecisi su cosa fare. Dopo 15-20 secondi, il fisico decide di avvicinarsi. Riaccende il motore e riprende lentamente la marcia, ma quando superano il gruppo di alberi che oscurava la visuale, si rendono conto che l'oggetto non è più lì: ora si trova direttamente sotto il punto dove si erano fermati a guardarlo. Il fisico frena di nuovo e accosta. Lascia luci e motore accesi e scende dall'auto insieme al figlio quattordicenne. La moglie e la figlia, rimaste in macchina, cominciano a gridare per la paura, ma lui, per nulla intimorito, le zittisce: vuole verificare se l'oggetto emette qualche suono. Cala un silenzio assoluto. La vallata è immersa in una quiete irreale. Dopo un paio di minuti, il figlio suggerisce di tornare indietro. Le donne in macchina, ormai terrorizzate, insistono affinché non si avvicinino ulteriormente. A malincuore, i due risalgono in auto. L'oggetto, nel frattempo, si solleva lento sopra gli alberi. Decidono di allontanarsi, ma dopo aver percorso un paio di curve, si fermano di nuovo. Questa volta scendono in tre, lasciando in macchina solo la figlia, ormai paralizzata dalla paura. Si voltano verso l'oggetto, che si sta spostando lungo la valle in direzione nord. Il fascio di luce conico è sparito, ma le luci multicolori che ruotano attorno al bordo sono ancora ben visibili. Dopo qualche minuto, risalgono in auto e riprendono la strada. Si fermano un'ultima volta dopo oltre un chilometro. Il fisico, che non riesce più a scorgere l'oggetto, si affida alla moglie e al figlio, che continuano a osservarlo muoversi in lontananza, stagliato contro il profilo della montagna. Tornati a casa, nessuno riesce a dormire. La mattina seguente si recano dai Carabinieri per chiedere se ci siano state altre segnalazioni o attività militari nella zona, ma non ottengono risposte. Tornano allora sul luogo dell'avvistamento, nella speranza di trovare qualche traccia, ma non c'è nulla. L'unico risultato è che il figlio, sopraffatto dall'emozione, finisce quasi per avere una crisi isterica. Edoardo Russo Fonte: E. Russo, UFO. Fenomeno o mito? , Rizzoli, Milano 2025.

  • Polvere di cantoria: una nonna un po' particolare

    P. di Matteis, "Pan e Siringa", olio su tela, 1695. Questa volta indosseremo i panni dei viaggiatori del tempo e dello spazio in modo diverso: andremo nel fantastico mondo dei miti greci, in Arcadia per essere precisi, per fare la conoscenza del dio Pan. Figlio di Ermes e della ninfa Penelope, aveva il torace con fattezze umane ma corna, gambe, zoccoli e coda di capra. Pastore ed apicoltore, Pan era il protettore dei boschi, delle greggi e di tutto ciò che aveva a che fare con la terra: in sostanza, tutto il visibile. Per questo, la parola greca per identificare "tutto" era appunto pan . Pur se descritto di indole bonaria ed allegra e sempre disposto ad aiutare chi fosse in difficoltà, egli diventava furibondo se qualcuno si azzardava a turbare la sua serenità, con urla veementi che terrorizzavano il malcapitato, e da qui il termine "panico". Si racconta che la sua nascita, nonostante non appartenesse agli dei olimpici, fosse precedente a quella di Zeus e - aggiungo - forse anche il suo culto, perché il legame con la venerazione della terra lo pone come derivato dai riti della Grande Madre. Da qui anche il suo aspetto parzialmente animalesco. Le sue urla terrorizzarono e fecero fuggire Tifone, durante la guerra dei Titani, liberando così Zeus che ne era prigioniero. Il capo degli dei, per ringraziarlo, lo immortalò nella costellazione del Capricorno. Un giorno il nostro Pan si innamorò perdutamente della ninfa Syrinx, figlia di Labano, dio dei fiumi e, vedendola passare nel bosco, la inseguì. La ninfa, non ricambiando questo amore, si diede ad una fuga disperata raggiungendo una palude dove, davanti ad un grande canneto, supplicò suo padre di trasformarla in una canna così da potersi salvare. Pan, rattristato, fu tuttavia meravigliato quando una lieve brezza mosse le canne facendole risuonare dolcemente. Presa allora una canna, la tagliò in sette pezzi di lunghezza decrescente e, dopo averle legate trasversalmente tra loro, creò uno strumento a fiato dal suono caratteristico, con cui venne sempre raffigurato e a cui diede il nome della ninfa, syrinx (siringa), chiamato anche "flauto di Pan": la nonna dell'organo a canne! Negli strumenti a fiato tubolari, un flusso laminare di aria, urtando contro il bordo della canna (flauto traverso, siringa) o contro il dente (flauto, organo), va incontro ad una turbolenza che genera il suono, mentre la parte tubolare ne determina il timbro e la nota. Molti autori definiscono la zampogna come progenitrice dell'organo confondendola o identificandola con la siringa, mentre in realtà la zampogna è uno strumento ad ancia, dove il suono è prodotto dalla vibrazione di una linguetta di legno o di metallo e quindi più parente della fisarmonica e dell'armonium. Un suono particolare, preceduto da una percussione sonora: il transitorio di attacco, o "sputo", molto ricercato anche in particolari registri dell'organo. La siringa si diffuse in tutto il mondo e chi come me è stato ragazzo negli anni '70 ne ricorderà sicuramente il caratteristico suono nei dischi degli Inti-Illimani. Nello stesso errore caddero i traduttori del brano "Syrinx" di Teocrito, traducendone il titolo in "Zampogna". Il Technop æ gnion è una forma compositiva letteraria creata da Simia di Rodi nel III sec. a.C., dove la grafica dei versi disegna sul foglio l'oggetto che ne viene descritto ricalcandone la forma. Ed ecco che Teocrito, con versi a scalare, crea sul foglio la forma di una siringa e non di una zampogna! Peraltro, quest'ultima ha una origine più tarda rispetto al flauto di Pan. A discolpa va comunque detto che con la parola syrinx vengono identificati entrambi gli strumenti. Un errore analogo di cui parleremo in un'altra sede si verificò con la traduzione di « suspendimus organa nostra » (Sal 136) con « appendemmo le nostre cetre». I traduttori forse ignoravano che piccoli organi portativi esistevano anche durante la prigionia ebraica in Babilonia e quindi prima del V sec. a.C. Le origini dell'organo sono più antiche di quanto si possa immaginare: il suono della terra, del vento e di tutta la natura. Un soffio, un semplice soffio che si fa musica vibrando nel cuore di una ninfa... Francesco Di Nardo

  • Anche gli organisti alzano gli occhi al Cielo

    ...e non sempre per recitare una preghiera! Una foto, una semplice foto umoristica su un povero organista liturgico caduto nello sconforto della domenica sera dopo essere stato bersagliato da domande, richieste ed affermazioni assurde di "avventori", coristi, prelati e fedeli nelle fasi che precedono o seguono il servizio liturgico o, ancora, durante lo studio e la preparazione. È stato come aprire le chiuse di una diga ed un fiume di siparietti, raccontati da organisti di ogni dove, ha riempito la pagina social di un gruppo a loro dedicato: una lotta per la sopravvivenza di artisti che, mentre cercano rendere al meglio il valore della liturgia della Parola insita nella musica sacra, si scontrano quotidianamente con ignoranza, supponenza, maleducazione, sbadataggine e sciatteria ma, passato il primo disorientamento, esorcizzano il tutto con un sorriso e, per chi vuole intendere, spargono poi semi di conoscenza su questa meravigliosa arte dove divino, bellezza, simbolo, studio e ricerca guidano all'incontro con il Creatore e, per chi non crede, alla scoperta della spiritualità che alberga nel profondo di ogni cuore. Ho umilmente pensato, quindi, di raccogliere queste "perle" in un breve "manuale" analitico quasi come fosse una dissertazione clinica su entità nosologiche ricordando però che al severo e austero "Soli Deo gloria" si affianca sempre il gioioso "Servite Domino in l æ titia" (Sal 99,2). Non è mancato, infatti, chi ha fatto notare che la profondità ed elevazione del messaggio affidato ai musicisti liturgici non debba lasciare spazio e mal si accosti a questo frivolo umorismo come se chi sorride e riporti questi eventi ne venga distratto o non abbia la capacità di scegliere brani coerenti e consoni alla liturgia del giorno. Potrei ritenermi offeso e con me tutti i colleghi che hanno partecipato, ma ammetto i miei limiti e ne farò ammenda. Tuttavia al Venerabile Jorge di turno, in ogni caso, preferirò sempre la dedizione serena di un Guglielmo da Baskerville. Ad ogni "gemma" si affiancano le iniziali di chi ha partecipato al dialogo online sul post o che ha inviato il racconto privatamente: ho preferito questa soluzione a simboleggiare una unica entità costituita da persone che si cimentano con amore nel servizio organistico. A loro dedico queste righe. Alcune postille risuoneranno agli addetti ai lavori come un pedante pleonasmo ma anche qui, come ho fatto in altre occasioni, vorrei fare un pochino di divulgazione fornendo strumenti interpretativi ai profani. Permettetemi, infine, una piccola nota semi-polemica: a chi sostiene che la musica "animi" la liturgia rispondo che la musica "completa" la liturgia. L'anima della funzione, a mio modesto parere, è data dalla presenza del Divino che incontra il suo popolo. Piuttosto bisognerebbe rianimare il senso della liturgia in parecchi fedeli, sacerdoti e prelati che vorrebbero ridurre le funzioni a semplici e brevi dosi "intramuscolari" od "omeopatiche" di preghiera. Il « popolo in cammino » cerca la Guida e non un "compagno di merende". La storpiatura dei nomi e musiche immaginarie « Mi suona l'Ave Maria di Bach? » (FDN). È in realtà la meditazione di Charles Gounod sul primo preludio dal "Clavicembalo ben temperato" di Johann Sebastian Bach. Tale denominazione nasce da un'esibizione pianistica da parte di una co-presentatrice durante un festival di Sanremo. Senza contare che Bach, fervente luterano, non avrebbe mai scritto una tale preghiera che è appannaggio esclusivo della Chiesa cattolica. Da qui anche: « Mi suona l'Ave Maria di Gun ó ? » (web). « Vorrei ascoltare l'aria sulla quinta corda » (SO). In questo caso trattasi di una superfetazione strumentale: generalmente chiamato "Aria sulla quarta corda", è il secondo movimento della terza "Suite in re maggiore" di Bach. Le cronache narrano che il violinista August Wilhelmy, trasponendo dal re al do maggiore la partitura, potesse suonare lo spunto melodico con una sola corda del suo strumento perché il violino ha quattro corde e non cinque! Una variante riguarda l'autore: «P iero Quark » (FDN), mischiando il nome del celebre giornalista Piero Angela con quello del suo più famoso programma, di cui il brano era la sigla. In realtà tutti i programmi scientifici del noto giornalista ebbero questa sigla a partire fin dagli anni '60. A completamento va citata pure: « Mi suona Superquark? » (JAM). Recentemente, ho scoperto un brano di lontano parente, amante dei jeans, del tedesco Richard Wagner: la « Marcia nuziale di Wrangler » (web), affiancata dalla « Marcia di Madison » (web) e quella di  « Mendison » (FDN), celebri autori statunitensi. Tornando in Italia scopriamo una trasposizione umbro-culinaria del "Panis Angelicus" di César Franck: il « Pane Sangemini » (SSP). Spesso l'organista viene rimproverato perché non conosce la « Anna Maria » (AD), poiché probabilmente ignora il suo compositore: tale « Schiubert » (web). Ci spostiamo verso la jeanseria con la « Giaccona » di Johann Pachelbel (AN), autore molto scapestrato in gioventù quando scrisse anche il famoso « Cannone in re maggiore » (FDN). Ma andiamo al tripudio quando il "Gazzettino" definì il M.° Sergio De Pieri un « pianista d'organo » o quando una trasmissione televisiva parlò di tale « John » Sebastian Bach (FDN) o allorché un testo scolastico (mayday-mayday) descrisse la « Toccata e fuga in Rem » coinvolgendo forse la neurologia ( rapid eyes movement ?), la radiobiologia ( Röntgen equivalent for men ?) o la musica leggera (il celebre gruppo rock?), e celebrandola come appendice finale dell'Arte della Fuga (web). Logopedia organistica Tale attività si esplica quando l'avventore ( o/et al. ) espone la richiesta riproducendo il brano mediante suoni o fonemi tipo "la" (lallazione) o "ta" (tattazione), talvolta inframezzati da "ra" (no, non è un canto egizio!). Abbiamo allora « ta-ta-taaa » (autori vari) o « quel Bach che fa la-la-laaa » (EG). Spesso non se ne viene fuori nonostante immani e assidui sforzi: « La sposa voleva la-la-la-la-laaa... » . Ma, a tutt'oggi non sappiamo cosa intendesse (NB). Sarebbe tutto molto più semplice se, cosa rara, l'interlocutore di turno azzeccasse almeno buona parte delle note che va sillabando. Sacro & profano L'erronea convinzione che la musica sacra non sia una estensione della preghiera, se non essa stessa preghiera, ma una banale e semplice colonna sonora della funzione sacra, spesso ridotta a mera kermesse , porta il "Wurlitzer" di turno (pardon: l'organista) a subire richieste assurde intra ed extra-liturgiche. A questa entità nosologica, si associa anche la convinzione che l'organo, il pianoforte, il clavicembalo, la fisarmonica e l'armonium siano tutti uguali e suonabili alla stessa maniera per il semplice fatto di possedere una tastiera. « Mi fa ascoltare "Al chiaro di luna"? » (PB). « Voglio ascoltare "Per Elisa" con il forte generale » (FDN). « Lo sposo vuole entrare in chiesa con Dragon Ball » (autori vari). « Metti la sigla della Barilla » (SOC). « Faccia qualche bel brano dai film di Fellini o di Morricone » (PB). Momenti di sconforto parossistico si concretizzano quando, dopo averle spiegato in tutti i modi le caratteristiche di un meraviglioso strumento italiano del XVIII secolo e i brani più adatti ad esso ed alla Liturgia, la sposa ci pensa su, ti telefona e ti chiede « la Califfa » come ingresso e « C'era una volta il West » al Communio, meravigliandosi quando riceve un diniego (poi si scopre che da tale farneticante richiesta si era chiamato fuori pure assuocugino , specialmente dopo aver visto l'organo) (autori vari). C'è stato anche chi, dopo aver suggerito brani più consoni allo strumento e all'occasione, piuttosto che "Summertime", è stato apostrofato come hippie dalla saccente madre "esperta" di uno sposo (FDN). Ammiocugino e le sue sottocategorie: il Professore, l'Esperto e il Critico Signori: qui si esce dalla storia per entrare nella leggenda! Questa entità nosologica interessa indiscriminatamente individui di ogni categoria: religiosa e laica, con sintomi variopinti e proteiformi, comprendendo anche portatori sani di domande stravaganti o affermazioni al limite dell'offesa personale. « Perché ci sono tre tastiere se ha due mani? » (DF). « Ma la pedaliera suona? Pensavo che fosse per poggiare i piedi! » (ER). « Tanto il basso non serve! » (era la Passacaglia di Bach!) (FDN). « Come fai a suonare con i piedi? Le dita non sono troppo piccole? » (PA). « Ma come mai questo basso? Non serve a niente, fa solo rumore e non si sente la canzone! » (CT). « Dov'è la manopola del volume? » (era uno strumento meccanico!) (CP). Lo spiritosone di turno, vedendo la consolle: « Che è, un'astronave? » (CP). « Ma mentre suoni guardi mani e piedi? » (CP). La risposta: « Guardo lo spartito! » potrebbe sconvolgere l'interlocutore, quindi usatela con cautela. « Ma quei bottoni li conosce tutti? » (CMO)... i registri a placchetta. Sacerdote organologo: « Le migliori canne sono fatte d'argento » (FDN). Ricordo ai non addetti ai lavori che generalmente la lega organaria è costituita da miscele di stagno e piombo. Si usa anche il legno. « Abbassa il pianoforte, altrimenti le vibrazioni fanno cadere le stecche di ferro e ti vengono in testa! » (RPR). Il dietologo e bodyshamer subclinico: « Attento quando sali la scala altrimenti resti incastrato! » (RPR). Mamma al bambino: « Vedi? Quello suona il pianoforte con i tubi! » (RPR). « Ma suonano tutte e 25? » (MB), in riferimento alle canne di facciata, dette "di mostra". Ricaduta del medesimo con ingravescenza: « 2.000? Ma io ne vedo solo 25! Non mi dica balle! » (MB), a conferma di quanto sosteneva Carneade che « l'idiota considera falso tutto ciò che non riesce a comprendere » . « Ma dove sono i martelletti che picchiano i tubi? » (MB)... senza pietà. Negli organi è presente un sistema che crea delle oscillazioni nel flusso del vento per ottenere, qualora richiesto, un effetto di vibrato. Tale registro viene chiamato tremolo ma... « Quello è il vibratore? » (DF). Tre Pater, Ave e Gloria. A questo punto non dovrebbe più stupirci nulla ma ecco la pugnalata alle spalle: « Che bel pianoforte! » (PB). « Ma perché suoni sempre brani sconosciuti? » (PB). Ancora quello che vuol far credere di essere un grande esperto di diteggiatura: « Ma quel mignolino non va bene! » (FDN), salvo poi scoprire che lo dice a tutti. « L’organo suona troppo forte, meglio la pianola! » (SD). Altra perla tecnica: « Guarda! Quello è il tubo dell'aria! » (GMV), in riferimento al grosso cavo di collegamento tra la consolle ed il corpo dell'organo a trasmissione elettrica. Andiamo sul raffinato quando: « Questo è un clavicembalo o una spinetta? » (GMV), ed era un organo a baule. L'ipotesi che l'organista abbia un döppelganger sorge con: « Ma se lei sta qui come fa a suonare lì? » (AB), sempre in presenza di un organo a trasmissione elettrica. Gran finale: « Sei tu che suoni il piano in chiesa? » (FP). Pedagogia e tutela dell'infanzia « Suona brani dolci! Ci sono i bambini della prima comunione! » (AP)... metti che si dovessero spaventare... Interrompere, poi, l'organista che sta suonando piano perché c'è un battesimo con: « Suona piano! C'è un battesimo! » (FDN), ha fatto finire il musico davanti al giudice. Miscellanea... e quelli che: dovrebbe saperne ma non sa! Parroco di un importante santuario: « Che bisogno c’è di provare lo strumento prima del servizio? Tanto è un organo! » (FDN). E io che pensavo fosse una fisarmonica! Direttore di auditorium: « Abbassi il volume dell'organo! » (AC). Organista titolare al collega di passaggio per un servizio funebre: « Tranquillo! È tutto a posto! » (FDN), il che significava: espressivo e pedaliera fuori uso con grandorgano asfittico e funzionante stile blockwerk medievale, cioè due sonorità: solo principale (piano) o tutti (forte). Corollario: brani preparati gettati al cassonetto e vai di improvvisazione (nel senso che all'improvviso qualcosa poteva funzionare). « Non si sente come il suono di un vero organo » (LF). Direttore di coro: « Leva 'sti pifferi [principale e ottava] e accompagna il coro con una bella "voce celeste"! » (FDN). Si va anche al sabotaggio quando il sacerdote per prevenire un offertorio troppo lungo ordinò di togliere l'energia elettrica allo strumento mentre l'organista suonava (FDN). Va da sé che l'organista chiuse l'organo e andò a farsi un aperitivo al bar con il coro, mentre il prevosto, poi scusatosi, dovette cantare "a secco" la restante parte della funzione. Anziana che stacca letteralmente le mani dell'esecutore dalla tastiera: « Dov’è il bancomat? » e, non avendo ottenuto risposta soddisfacente dall'organista poiché non del posto, replicò: « Vi dovete vergognare! » (CB). Della musica o del bancomat? Fotografi durante matrimonio: « La smette di suonare? Stiamo lavorando! » (FDN). Di loro non si è più avuta notizia, ma si narra anche di fotografi che tolgono l'alimentazione dello strumento per privilegiare i flash (AC) o di fiorai che interrompono le esecuzioni per chieder dove mettere le composizioni (AC). Segnalati anche sequestri di panca per alloggiare vasi o far sedere ritardatari (autori vari). « Perché mancano i tasti? » (FDN), detto da esecutore navigato su organo con prima ottava corta: apprendimento immediato con post-it incollati ai tasti. Per i profani: negli organi barocchi è quasi la regola trovare la prima ottava della tastiera "corta" e con i tasti risuonanti su note non proprie. Una ricerca può spiegare meglio con tanto di immagini ( qui ). Karaokara di turno in riferimento al più bello strumento barocco della diocesi: « Con quello strumento non si può cantare! » (FDN). Karaokara recidiva: « Non sono io che devo andare a tempo, sei tu che mi devi capire al volo! » (NB). Vescovo: « Quella dossologia è troppo alta! » . Risposta: « Eccellenza, se non si sa cantare è meglio recitare! » (PR). 92 minuti di applausi (LV). « Smetta di suonare e mi dica dov'è il bagno! » (FDN). « Abbassa quell'armonium! » (GD). « Mica ho capito dov'è il bagno! » (FDN). « La smette di suonare? Non riusciamo a chiacchierare! » (FDN & DM). « Scusi, dov'è il famoso quadro? » (GC)... anzi che ha detto "scusi". « Come si leggono tutti quei segni? » (PB): le note. « Scusi è lei l’organista? » (PB). Ovviamente chiesto al figuro seduto alla consolle. Ancora: « Ma insomma! Dov'è il bagno! » (FDN). Se poi le eventuali risposte non vengono gradite: « In questa chiesa nulla è come sembra! » (MG). Le fedeli oranti: « Abbassa il canto o ci affoghiamo! » (RPR). « Mi abbassi i canti? Oggi sono senza voce! » (GC), detto dalla animatrice del culto. Alcuni sono talmente preda della sindrome di Stendhal da avere stati allucinatori: « Con l'organo non si sentono le voci! » … non stava cantando nessuno (FL). All’organista vengono attribuite facoltà di onniscienza e monitoraggio: « Dov'è il confessore? Io ho bisogno di confessarmi e qui non si vede nessuno! » (MB). Molti confessori sfruttano l’organista in funzione di deception penitenziale: « Tu suona altrimenti mentre confesso si sente tutto e non c'è nessuno che recita il rosario » (RPR). « Suona ancora! Si confessa la Gxxxxx e si sente tutto! » (MG). « Scusi, dov' e il confessore? » . « Non so, Signora, solo l'organista » . « Allora chiederò a qualcuno o più alto in grado, magari il sacrestano! » (FDN)... e vai di autostima! In una chiesa famosa per evitare che lo strumento suonasse troppo forte, peraltro un magnifico strumento barocco italiano, il prevosto aveva fatto chiudere i pomello dei registri del ripieno in una scatola di legno sigillata da un robusto lucchetto e per buona misura erano state anche inchiodate le relative stecche del somiere (FDN). Liberi dal giogo solo principale, ottava e ottava di flauto. Riportati e fotografati anche casi di "bipedi musicali" che, per vedere meglio l'altare, si ergono in piedi sfruttando la pedaliera come pedana (autori vari), rischiando di danneggiarla. « L'è propî brutta a me non pis brisu » (è proprio brutta, non mi piace per niente) (AD), un alternatim per organo e coro della "Messa degli Angeli" (senza minimamente considerare la fatica per preparare e dirigere il tutto e ringraziare Iddio che c'è chi si piglia la bega di farlo). Appendice dedicata agli sposi, ovverossia: « Come la folgore viene da Oriente e brilla a Occidente » (Mt 24,27). Sposi richiedenti un programma assurdo: « Ma se dovete provare vuol dire che non siete capaci! » (NB). Un caso di accorciamento di arti superiori: « Pensavo che 25 € fossero sufficienti! » (per organo, violino e soprano) (NB). La sposa: « Decido io! Lui [lo sposo] non capisce nulla! » (NB)... cominciano bene! Ma qualche volta lo spiritosone lo fa l'organista: « Scusi, è lei il Signore dell'Organo? » . « Si, Signora! Sono Gandalf il Musico! » (FDN). « Non sanza fatiga si giunge al fine » (G. Frescobaldi). « Ma siamo proprio sicuri che sia la fine? » (FDN). Francesco Di Nardo

  • Le quattro società di mutuo soccorso di Capracotta

    Le società di mutuo soccorso hanno rivestito un ruolo importante nella storia nazionale, soprattutto a cavallo del processo unitario. Esse, infatti, cominciarono a veder riconosciuto il proprio status soltanto nella seconda metà del XIX secolo, quando la libertà di riunione venne finalmente riconosciuta dallo Statuto Albertino nel 1848, favorendo lo sviluppo dell'associazionismo. Si trattava, per usare le parole dell'epoca, di «una forma di associazione volta al bene», nata quindi dalla fratellanza tra i lavoratori, senza che questo rapporto avesse necessariamente i caratteri di una lotta politica. Il mutualismo, insomma, fu la risposta civica alle carenze di un Welfare State che proprio in quegli anni si andava delineando in Europa, un continente alle prese col fenomeno dell'industrializzazione e della relativa urbanizzazione. Le società di mutuo soccorso, dunque, aiutarono i lavoratori a munirsi di un primo, rudimentale, apparato di difesa nei confronti di eventi negativi quali incidenti sul lavoro, malattie, lutti o perdita del posto di lavoro. Lo scopo principale, elevatissimo, del mutuo soccorso era quello della fratellanza operaia: a differenza della tradizionale beneficienza, con cui i ceti abbienti si occupavano di tanto in tanto dei più poveri, il principio mutualistico prevedeva di «organizzarsi da soli per eventuali problemi famigliari». E, a differenza di quella attuale, la Capracotta dell'Ottocento era davvero all'avanguardia in termini sociali, economici e culturali, attenta a che tutte le classi sociali potessero usufruire dei vantaggi dello stato sociale. Fu così che nacque qui la prima società molisana di mutuo soccorso: quella dei Pastori, venuta alla luce l'8 settembre 1874 e riconosciuta giuridicamente il 2 novembre 1891. Tre anni dopo, il 20 luglio 1877, sorse la Società di Mutuo soccorso degli Artigiani, riconosciuta il 28 marzo 1896 (a cui ho dedicato un articolo ) ed infine fu la volta della Società di Mutuo soccorso dei Vetturali, nata per ultima, nel 1881, ma riconosciuta giuridicamente per prima, con decreto reale del 12 maggio 1891. Quella dei vetturini rimarrà nell'immaginario comune quale Società Operaia. Tuttavia, imbeccato dall'ing. Giuseppe Sammarone, è venuta alla ribalta una quarta, misconosciuta, associazione mutualistica, nata a Capracotta nel 1886: quella dei Domestici. Si pensi che, al 1° gennaio 1895, questa contava 57 iscritti, 15 in più della Società dei Vetturali e circa la metà degli Artigiani. Tra gli scopi sociali, aveva quello di erogare «pensioni o sussidi continuativi ai soci vecchi, inabili al lavoro, affetti da malattia cronica, alle vedove ed orfani dei soci»; inoltre assicurava l'associato «per spese funerarie» e consentiva pure il prestito ai soci. Le spese funerarie, ad esempio, non erano inizialmente previste dallo statuto della Società dei Pastori, così come non lo era la pensione di reversibilità in quella dei Vetturali. A scorrere gli elenchi delle società mutualistiche italiane, si scoprono così due cose. Innanzitutto che, unica in Italia, soltanto Capracotta ebbe una Società dei Pastori; poi, che soltanto tre grandi città (Milano, Mantova e Udine) ed una cittadina (Borgo a Mozzano, in provincia di Lucca) poterono contare su una società dei domestici, il che lascia intuire come l'ambiente socio-economico di Capracotta dovesse essere particolarmente vivace. La Società di Mutuo soccorso dei Domestici, insomma, fu un'istituzione moderna ed illuminata, anche se godette di vita relativamente breve, giacché l'ultima apparizione è del 1908, quando Giambattista Magrini la menzionò nel suo dizionario su "La nuova Italia". La sua storia ufficiale, insomma, è racchiusa tra il 1886 e il 1908: poco più di vent'anni in cui i domestici dei notabili e dei primi hotel di Capracotta decisero di associarsi per difendere la categoria dagli eventi avversi. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: P. Maestri, L'Italia economica del 1868 , Firenze, Civelli 1868; G. B. Magrini et al. , La nuova Italia. Dizionario amministrativo, statistico, industriale, commerciale dei comuni del Regno e dei principali paesi d'Italia oltre confine e colonie, illustrati nei ricordi storici e nelle bellezze naturali ed artistiche , vol. I, Vallardi, Milano 1908; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Elenco delle società di mutuo soccorso , Ed. Italiana, Roma 1898; E. Morpurgo, Il proletariato e le società di mutuo soccorso , Bianchi, Padova 1859.

  • Tramandare la memoria del suo paese: l'impegno dell'avvocato Paglione

    L'avvocato Giovanni Paglione, da tutti conosciuto come «Giannino», se n'è andato all'età di 98 anni, al termine di una vita spesa tra il lavoro, l'amore per la famiglia e il rispetto per le proprie radici. La sua carriera professionale si è svolta a Torino, dove è arrivato dopo la laurea in Giurisprudenza ottenuta a Napoli. Qui, sin dal 1955, ha lavorato per la Banca Nazionale del Lavoro, prestando servizio presso il settore contenzioso-legale. Si è fatto apprezzare come raffinato giurista ma anche come uomo garbato e cortese. Parallelamente, Giannino si è dedicato alla conservazione della memoria storica del suo paese di origine, Capracotta, centro con meno di mille abitanti sull'Appennino molisano. La storia di questo piccolo borgo affonda le proprie radici nel Paleolitico. Il centro è stato poi praticamente raso al suolo durante la Seconda guerra mondiale, quando le milizie tedesche distrussero edifici e abitazioni. Ma la popolazione di Capracotta ha saputo ricostruire il paese. L'altitudine di 1.421 metri sul livello del mare ha permesso di puntare sulla vocazione sciistica del territorio, e sono stati costruiti impianti di risalita per sci alpino e piste di sci di fondo che hanno reso Capracotta, per usare una citazione di Alberto Sordi, la «piccola Cortina d'Ampezzo degli Abruzzi». Giovanni ha dedicato molte energie a tramandare il passato di questo paese che, pur così piccolo, ha saputo risorgere dalle proprie ceneri. Con impegno e passione, l'avvocato ha riordinato il patrimonio archivistico del nonno, il cavalier Giovanni Paglione, insegnante appassionato di storia che creò una biblioteca con oltre 7.000 volumi, molti dei quali dedicati al territorio. Così, Giannino ha reso possibile la riscoperta e la valorizzazione di tante vicende di Capracotta. Nel 2014 ha fortemente sostenuto la realizzazione del volume "Capracotta 1888-1937: cinquant’anni di storia cittadina nelle foto del Cav. Giovanni Paglione". Un'opera che rappresenta una straordinaria testimonianza per le future generazioni. Gianluca Sartori Fonte: G. Sartori, Tramandare la memoria del suo paese: l'impegno dell'avvocato Paglione , in «Corriere Torino», Torino, 6 febbraio 2025.

  • Incontro: poesie degli alunni di Capracotta

    Presentazione Siamo alle soglie del Duemila e con il progresso/benessere delle società industriali, la vita media umana si è notevolmente allungata. Mentre l'indice di natalità è quasi zero, si assiste ad una progressiva crescita della popolazione appartenente alla fascia della "terza età", con tutti i problemi. di natura sociale, assistenziale e previdenziale, psicologica e di convivenza umana. C'è, però, la tendenza all'esclusione delle persone anziane dalla partecipazione alla vita sociale-produttiva. All'anziano spesso viene negato il riconoscimento del prezioso contributo che la sua esperienza e le sue capacità potrebbero offrire per affrontare le molteplici esigenze della società. La seconda classe della Scuola media di Capracotta, affrontando, nell'ambito delle tematiche didattiche previste dalla programmazione, l'argomento relativo alla terza età, si è mostrata particolarmente sensibile al discorso sugli anziani, tanto da cimentarsi nella composizione di brevi poesie, che sono degne di essere prese in considerazione. Le liriche si rivelano semplici ma altamente significative e mettono in risalto il problema della solitudine che angoscia tanto gli anziani, con il bisogno indispensabile di affetto e considerazione. A corredo e supporto, sono state inserite fotografie che sono la testimonianza diretta e, attraverso immagini reali, concretizzano i sentimenti sottilmente espressi in termini poetici. La realtà della "terza età" è vissuta in prima persona dagli alunni di Capracotta, perché quotidianamente sono a contatto con i nonni e parenti avanzati negli anni e con loro scambiano i momenti lieti e tristi della vicenda umana. Le loro esperienze si arricchiscono della saggezza degli anziani e della testimonianza storica della loro esistenza. Non a caso il titolo della piccola raccolta è "Incontro", connubio felice tra due generazioni. E chi dì noi non ha un congiunto di una "certa età"? Senz'altro tutti, per cui è un problema che ci riguarda indistintamente, da non rinviare come soluzione nel tempo. Ben accettato, dunque, deve essere il lavoro che gli alunni hanno prodotto, con la collaborazione della prof.ssa De Rosa Silvana, docente di lettere, che ha saputo offrire i giusti stimoli e coordinare tutto l'operato. Viene dato alla stampa questo opuscolo per lanciare un messaggio di solidarietà verso il mondo degli anziani e diffondere il senso di rispetto per le persone, che, non essendo più giovani e vigorose, hanno bisogno di assistenza, di affetto e di tanto amore da parte di ognuno di noi. L'esperienza delle persone, infatti, rappresenta un valore essenziale non solo per l'equilibrio familiare, ma anche per quello sociale. In un mondo sempre più meccanizzato e dal futuro incerto, l'anziano diviene simbolo e depositario stabile dì una ricca tradizione umana che deve essere validamente difesa. La disponibilità di strutture adatte e l'esatta comprensione dei bisogni degli anziani da parte dei giovani potrebbero permettere agli stessi di godere pienamente la vita e di rendersi utili alla comunità sociale. In questo modo sì potrà evitare anche l'abbandono e l'emarginazione. Angelomaria Di Tullio La vita è un sogno Un anno, un mese, un giorno... Come trascorre il tempo e non ce ne accorgiamo! Ieri eravamo ragazzi allegri e spensierati oggi siamo grandi tristi e sconsolati. Domani un'altra età ci attende che ci separa dalla conclusione, ma che può essere piena di soddisfazione. Cerchiamo di trascorrere quest'altro pezzo nel migliore dei modi senza tanti pensieri ed inutili preoccupazioni. Come fugge veloce la vita; si nasce, si cresce, si muore allo stesso modo di quando apriamo e chiudiamo gli occhi nostri abbagliati dalla luce forte del sole. Che ci affanniamo affatto per ottenere ogni cosa facendo sempre tanto male invece di pensare che tutto finisce ed è sempre l'amore a poter vincere ogni dolore. Perciò teniamoci vicini a cuore a cuore e vogliamoci bene intensamente perché tanto solo quello resta e tutto il resto muore! Angelomaria Di Tullio I vecchi I vecchi sono come pacchi rotti e rovinati parcheggiati in ospizi e ospedali con la scusa della malattia. Questi vecchi privi di amore e affetto che si devono ammalare per forza. Molti, abbandonati come cani randagi, in vecchie case, un gatto, un cane per amico per far sì che non piangano, lacrime di amarezza. Felice Amicone Ricordi Una vecchietta seduta su una panchina pensa ai momenti felici trascorsi con i suoi figli; ora ognuno è sposato e lei, poverina, vien lasciata in un ospizio e aspetta dì rivederli. Pensa ai momenti trascorsi con suo marito, che non c'è più. Vorrebbe trascorrere i suoi ultimi giorni con i figli e i nipoti e poi morire felice. Tiziana Del Papa La foglia caduta I vecchi sulle panchine dei giardini, assorti nei loro pensieri confusi scoppiano in lacrime come fanciulli. La loro solitudine viene rattristata da un forte dolore che li colpisce nel profondo del cuore. Guardano una foglia che, spinta dal vento, cade svolazzando da un albero e pensano al momento in cui anche la loro anima si dovrà staccare dal grande albero della vita. Il sorriso di un ragazzo capitato li per caso gli fa capire che non sono soli, ma che devono avere la forza di reagire e di vivere felicemente fino al giorno del loro tramonto. Giancarlo Ciolfi Solitudine Sguardi tristi, visi bagnati dalle lacrime e mani rugose che hanno lavorato per una vita. Sono i nostri vecchi! Parlano da soli per sconfiggere la solitudine non c'è per loro un sorriso, una carezza, un affetto, che li renda felici. Vincenzo Zarlenga Soffrono Piangono, soffrono, pensano! Perché i figli li hanno lasciati? Perché li hanno abbandonati? Sono inutili? Sono un peso da mantenere? Questo lo sanno, perciò si disperano e invocano la morte. Vogliono andare via, non vogliono più soffrire, si domandano perché Dio li fa restare ancora sulla terra. Vogliono scappare. Questo mondo li spaventa! Daniela Di Nucci Sogno Una vecchia in una stanza illuminata da una lucerna, racconta ai nipotini una bella fiaba, mentre fuori nevica. Cullati da quella cantilena s'addormentano e nel sonno vagano con la fantasia nella fiaba. S'addormenta anche la nonna e sogna il pane custodito per il domani. Nunzia Beniamino Lacrime silenziose I vecchi sono come oggetti posati in un angolo e dimenticati. Abbandonati alla loro sorte in un angolo dove nessuno può vederli scoppiano in lacrime senza motivo. Ormai si sentono inutili e non vedono l'ora che la morte li prenda, e ogni sera si preparano perché non sanno se il domani lo vedranno. Laura Di Nucci Anime solitarie I vecchi. Povere anime solitarie! Li sbattono qua e là per non averli di peso quando sono malati. Li sbattono qua e là negli ospizi, e li umiliano perchè non fanno mai nulla. I vecchi. I vecchi hanno un pianto amaro, per qualcosa che li colpisce e questo pianto a volte scoppia per un litigio, forse anche con un gatto. I vecchi. Povere anime solitarie che vengono sbattute qua e là. Erika Comegna La vecchiaia La vecchiaia è una delle cose più brutte che un uomo possa avere. A volte i vecchi sono emarginati anche dai propri figli. Sembra che tutti ce l'hanno con loro. Non possono far niente, non possono far niente per la morte che incombe su di loro. Ivano Di Nucci Momenti I vecchi in un angolo della casa vuota, ripensano ai momenti più belli trascorsi quando c'erano i figli a far confusione nella casa. Solo rivivere questi momenti si può! Che peccato, questi figli che non vengono mai! Questi figli che si sono dimenticati della loro casa, la loro grande casa: vuota! Grazia Pallotta Fonte: Scuola Media "T. Mosca" Capracotta, Incontro: poesie degli alunni della II media , Tip. Terenzi, Venafro 1991.

  • È nata l'Associazione "Letteratura Capracottese"

    Cultura, comunità, collaborazione per Capracotta 29 dicembre 2024 - Nasce l'Associazione "Letteratura Capracottese" Dopo 10 anni di attività, il 29 dicembre scorso è ufficialmente nata l'Associazione "Letteratura Capracottese", così da poter proseguire tutte le nostre attività in una veste organizzativa più vicina alle esigenze operative e maggiormente indirizzata ai rapporti istituzionali. Le nostre finalità, dunque, sono quelle che già avete avuto modo di saggiare con mano nell'ultimo decennio e che verranno opportunamente integrate. Al momento, come sapete, "Letteratura Capracottese" si occupa di: pubblicare e presentare libri su Capracotta (13 editi finora); coadiuvare i nuovi autori capracottesi nella redazione delle loro opere e tradurre opere inedite in italiano; organizzare periodicamente gli incontri della "merenda letteraria" e del "pic-nic letterario"; organizzare escursioni esplorativo-culturali sul territorio capracottese; organizzare viaggi culturali in Italia; valorizzare gli archivi fotografici familiari e organizzare mostre fotografiche; gestire il sito ufficiale con la relativa biblioteca digitale (116 opere disponibili). Contiamo di aggiungere presto nuove attività culturali, quali: istituire il festival "LetterAlture - Sagra della letteratura d'Appennino"; organizzare convegni di storia; istituire la cosiddetta "banca del tempo"; valorizzare la biblioteca parrocchiale; supportare le attività ricreative per i più piccoli. Le fila della nostra Associazione sono costituite da capracottesi veraci, nati e cresciuti a Capracotta. Ci siamo scelti per la stima che abbiamo l'uno dell'altro e perché ognuno potrà dare il suo contributo professionale alla causa capracottese: Achille Conti per la parte storica, Gabriella Paglione per quella naturalistica, Lucia Giuliano per l'ambito linguistico, Lucia Paglione per l'area scientifica, Maria Assunta Ianiro per la didattica, Sebastiano Conti per la sfera cartografica e Francesco Mendozzi in qualità di rappresentante. Insomma, tutto cambia ma resta tutto uguale: "Letteratura Capracottese" continuerà a riempire di contenuti la parola che più amiamo: Capracotta. Crediamo infatti che sia fondamentale operare direttamente da qui, da dentro il paese, poiché la nostra comunità va valorizzata 365 giorni l'anno e la cultura, d'altronde, necessita di un impegno continuo, prolungato nel tempo, quanto più vicino ai suoi fruitori. Oltre agli appuntamenti culturali che conoscete, infatti, abbiamo già programmato per l'estate la presentazione del romanzo "Oltre l'alba delle nebbie" del magistrato Ugo D'Onofrio, pubblicato un mese fa dalla Fondazione Mario Luzi. Altri due libri (uno su Capracotta, l'altro di poesie) sono in fase di ultimazione e speriamo che possano vedere la luce entro il 2025. Inoltre, organizzeremo in primavera nuove escursioni, visto che ora possiamo contare anche su 2 guide ambientali escursionistiche facenti parte del nostro Direttivo: stiamo infatti definendo i dettagli di escursioni commemorative e/o legate alla valorizzazione delle sorgive di campagna. Inoltre, tra qualche settimana verrà svelata la destinazione e i dettagli del prossimo viaggio culturale. Le iscrizioni alla nostra Associazione per l'anno in corso sono aperte. La tessera sociale ha un costo di 10 euro, denaro che verrà esclusivamente utilizzato per portare avanti le nostre iniziative, di cui sarete sempre informati e protagonisti. A chi si iscrive verrà regalata una copia anastatica de "Il territorio di Capracotta" di Luigi Campanelli. Resta inteso che siamo aperti ad ogni tipo di collaborazione in ambito culturale, naturalistico, didattico, scientifico, finanche religioso, con le altre associazioni del territorio nonché con le istituzioni pubbliche. Il Consiglio direttivo dell'Associazione "Letteratura Capracottese"

  • E arriva il tempo

    La cascata ghiacciata del Pisciariello. E arriva il tempo che ammutolisce le note ridenti: nei salti prima schiume gioiose, poi gocce pungenti. Il freddo s'insinua negli intimi anfratti e imbianca pareti di strani merletti. Così la voce d'innumerevoli getti per giorni resta sospesa; col sole si sa sarà musica estesa. Flora Di Rienzo

  • Il romanzo "Oltre l'alba delle nebbie" di Ugo D'Onofrio

    Mattia Leombruno, presidente della Fondazione Mario Luzi , scrive che «vi è nella scrittura di Ugo D'Onofrio [...] una parola che sa ancora intonare la voce cagionevole e umana della vita nella vita, della vita che cerca e trova se stessa, che si battezza ai crocevia dell'esistenza». Letto in anteprima oltre due anni fa, "Oltre l'alba delle nebbie", finalista al premio "Mario Luzi", è stato pubblicato in versione definitiva il 23 dicembre 2024. A mio avviso, è un romanzo di formazione, in cui l'Autore, capracottese doc, ha riversato la sua vita e quella di un'intera generazione che, dall'occupazione nazista in poi, ha dato vita alla seconda diaspora capracottese, scagliando i figli di questa terra ai quattro angoli del pianeta. Nel romanzo c'è il bambino e c'è l'adulto, ci sono la paura e la consapevolezza, il mondo che si trasforma attorno al protagonista così come nel suo intimo. Senza scomodare i grandi scrittori meridionali, di cui pure si sente un influsso cristallino - Francesco Jovine su tutti - la prosa di Ugo D'Onofrio è intensa, quasi avesse il timore di non dire abbastanza, di tralasciare qualcosa di ciò che è stato. Continua Leombruno: «Assai lieto è ritrovare in questo romanzo una cornice che, per cerchi concentrici, restituisce gradatamente il volto privato e poi domestico, e ancora sociale dei piccoli borghi di provincia, allargando l'orizzonte in una progressione focale sul Sud Italia al tempo del secolo scorso». Il premio "Mario Luzi" e l'autore Ugo D'Onofrio. Ugo D'Onofrio, classe 1940, è un magistrato ed avvocato nativo di Capracotta, trasferitosi giovanissimo in Agnone, quindi a Campobasso in qualità di pretore. Come tutti, egli è molto legato al paese natio, che ha tratteggiato con garbo commovente, in diverse poesie - edite ed inedite - già pubblicate sul sito di Letteratura Capracottese . Ed è proprio assieme a noi (diventati associazione il 29 dicembre scorso) che D'Onofrio intende presentare il suo romanzo d'esordio alla comunità capracottese ad agosto 2025. Nel frattempo, potete acquistare il libro sui maggori siti ( Libreria Universitaria , Mondadori Store , Feltrinelli , Libraccio , Libroco , Unilibro ecc.) oppure comunicando al vostro libraio di fiducia il suo codice ISBN: 978-88-67483-52-5. Francesco Mendozzi

  • Cristalli di gelo

    Panorama di Capracotta ghiacciata (foto: C. Ciolfi). Cristalli di gelo io ammiro, occhi aperti a riflessi zaffiro: la luce diffusa che è specchio alla neve serena ingioiella la scena e veste le balze di un manto celeste. Flora Di Rienzo

  • Tre secoli dopo, il vicegerente di Roma è ancora un Baccari

    Renato Tarantelli Baccari, nuovo vicegerente della diocesi di Roma. Il vicegerente della diocesi di Roma è il vescovo ausiliare che coadiuva il vicario generale per la diocesi di Roma nelle sue funzioni di governo; poiché quest'ultimo esercita  de facto  le funzioni di vescovo di Roma, il ruolo del vicegerente è analogo a quello che nelle diocesi è svolto dal vicario generale e dal moderatore della curia. La Chiesa di S. Giuseppe alla Lungara. Dopo che Vincenzo Maria Orsini, nel 1724, venne eletto al soglio pontificio col nome di Benedetto XIII, nominò subito vicegerente di Roma il capracottese Nunzio Baccari (1666-1738), un presule che inaugurò tante chiese nell'Urbe e che si contraddistinse soprattutto per le grandi opere di carità, come l'erezione del Conservatorio di S. Pasquale Baylon, in cui troveranno rifugio tante ragazze sbandate della Roma settecentesca. Negli anni, ho raccontato diversi aspetti della storia del vescovo Baccari, dalla sua presentazione fatta nel 1710 al cardinal Francesco Barberini ( qui ) alla posa della prima pietra delle chiese di S. Giuseppe alla Lungara e del SS. Sacramento ( qui ), dall'epigrafe interna a Palazzo Conti-d'Alena di Capracotta ( qui ) fino all'eccezionale rinvenimento di un apoftegma dell'abate Angelo Cancellieri in cui questi, nel 1734, aveva predetto l'elezione a papa del nostro Monsignore ( qui ). Il 21 novembre 2024, esattamente a tre secoli di distanza, la vicegerenza della diocesi di Roma è stata nuovamente affidata ad un Baccari, ovvero al vescovo Renato Tarantelli Baccari, classe 1976, romano di nascita ma originario di Bonefro, il paese molisano in cui i nostri Baccari, nel Cinquecento, avevano dato vita ad un secondo ramo della loro stirpe. La sua elezione, quindi, pare riannodare i fili della storia, unendo in un sol colpo Capracotta con Bonefro, Roma col Molise, sotto le chiavi di un papa argentino, e nel trecentesimo anniversario della nostra Chiesa Madre, nella quale mons. Francesco Baccari, fratello minore di Nunzio, ne aveva consacrato l'altare maggiore. Francesco Mendozzi

  • Il velo del giorno

    Il velo del giorno sottrae alla notte silenziosa il vicolo avvolto di sonno nella coltre che pesa. Non stella che brilla, ma lampada accesa sul passo e sull'orma nella neve già arresa. L'azzurro intanto prende un timido rosa e del prossimo tepore rimane in attesa. Flora Di Rienzo

  • Chi è la mia mamma?

    Annina Di Rienzo (1927-2017) con parenti. Io, Annina, sono nata l'11 maggio 1927 in una casa di intelligenti e onesti lavoratori, ma la mia nascita fu triste: in quella casa entrò una culla ed uscì una bara. Andavo a scuola dove frequentavo la terza elementare. Ogni mattina passavo da una mia compagna di scuola di nome Colomba. Una mattina la chiamai e sua nonna mi disse: – Vieni di sopra che non è ancora pronta. Salii di sopra e la nonna le stava mettendo i carboni nelle scarpe per asciugarle e per tenerle caldi i piedi. Mi guardò e disse: – Tu non hai i piedi freddi? – poi aggiunse – E chi te lo dovrebbe fare? Tu non hai la mamma! A quelle parole non diedi tanto ascolto, ma un altro giorno mi chiese se mamma Concetta mi volesse bene e io, fra me e me, dissi: «Ma che si è impazzita questa Colomba?». Eppure ripensai a quelle parole e incominciai a cercare qualcuno che mi dicesse qualcosa, cioè la verità. Andavo sempre da mamma Cristina, che era la sorella di mia madre, ma non capivo perché tutte le zie le chiamavo così: mamma. Andavo da lei per aiutarla, perché aveva molto da fare, visto che aveva cinque figli, aveva gli animali e tesseva la tela. Io le andavo a fare i cannegliùcce , ovvero i fili che si mettevano nella crùva per fare le stoffe; a me piaceva molto farli, mi divertivano i frariéglie e la cruvétta (così si chiamavano). Solitamente ero allegra e cantavo mentre mamma Cristina tesseva e mi ascoltava. Ma erano due-tre giorni che ero triste e silenziosa, che non facevo nulla e non cantavo. Mamma Cristina allora mi chiese: – Non stai bene? Io le risposi che stavo bene ma aggiunsi: – Tu mi devi dire la verità. Io chiamo mamma Cristina, mamma Coletta e mamma Concetta: chi è la mia mamma? chi di voi tre è la mia mamma? – Nessuna. La tua mamma sta in cielo, gli angeli l'hanno portata lontano da te e da tuo fratello. Rivolsi gli occhi al cielo e dissi: – Com'è alto il cielo... la mia mamma non l'ho vista e non la vedrò più... Poi cominciai a piangere e a battere i piedi e a dire: «Cattivi bugiardi!». Mamma Cristina mi abbracciò e, piangendo anche lei, mi disse: – Ci siamo noi che ti vogliamo bene e ti aiuteremo in ogni cosa. A me piaceva andare a scuola ma non avevo nemmeno un quaderno su cui scrivere. Avevo una brava maestra di Napoli che, per non far destar sospetti nei genitori dei miei compagni, strappava un foglio dal mezzo dei loro quaderni, e con quello scrivevo per diversi giorni. Poi si rivolgeva a me: – Di Rienzo, domani porta il quaderno e il pennino! – ma tutti i giorni era la stessa storia. Una mattina, mentre andavo a scuola, cominciò a piovere. Mi riparai sotto quell'arco che chiamano tomba , vicino a dove abitava la comare di battesimo, la quale, nel vedermi lì, chiese: – Annarella, perché non vai a scuola? – Io le risposi che non avevo i quaderni e lei disse: – Non piangere. Scese giù e mi diede dei soldi. Non aveva figli ma era così buona con me e i miei fratelli... Con quei soldi comprai due quaderni e un pennino: arrivai a scuola tutta contenta, tanto che la maestra chiese cosa avessi combinato e io dissi che la comare mi aveva dato i quaderni. Ogni giorno si facevano dei piccoli compiti e quel giorno che avevo il quaderno nuovo, il compito era: "Parlate della vostra mamma". Mentre i compagni cominciarono a scrivere, io rimasi col quaderno aperto davanti, la maestra mi bacchettò: – E tu, Di Rienzo, perché non scrivi? Io le risposi che la mamma non l'avevo mai vista né conosciuta, e allora la brava maestra, rivolgendosi a Dio, implorò: «Cosa hai fatto?», poi aggiunse: – Su, scrivimi un'altra cosa. Da quel giorno a casa sua mi volevano bene, ché la mamma non ce l'aveva nemmeno lei. Mio papà, invece, giovane carabiniere, era stato richiamato per la guerra del '37 e mandato in Spagna. Questa è stata la mia infanzia. Annina Di Rienzo (a cura di Francesco Mendozzi)

  • A Capracotta c'è una buona zootecnia

    Allevatori capracottesi (foto: Lefra). Chiariamolo subito: a Capracotta c'è una buona zootecnia, senza trascurare la ricerca di nuove opportunità di miglioramento e di esprimere solidarietà a favore di coloro che esercitano, a cielo aperto, uno dei lavori più duri. Queste sono le motivazioni che mi spingono a scrivere le seguenti riflessioni. Partendo da lontano, mettiamo in fila i fatti. Il Censimento Generale dell'agricoltura dell'anno 1961 registrò la seguente superficie agricola: Nel periodo compreso tra l'anno 1945 - fine della Seconda guerra mondiale ed inizio della ricostruzione del paese - e l'anno 1963, la consistenza del bestiame fu la seguente: La media aritmetica dei valori sopra esposti, per il periodo considerato 1945-1959, dà la seguente consistenza di animali: 191 capre; 60 buoi; 308 vacche; 57 manze; 88 cavalle; 65 cavalli; 57 muli; 103 asini; 1.578 pecore. La popolazione anagrafica dell'anno 1961 fu di 3.201 persone. I numeri sopra esposti mettono in evidenza una zootecnia piuttosto ricca di animali sia per la produzione del latte e della carne che per il lavoro agricolo e boschivo. Pur tuttavia la stessa aveva dei grossi limiti e punti di debolezza: bassi profitti e ritmi di lavoro elevati; bassa produttività degli animali; elevata intensità umana sul territorio agricolo; scarse disponibilità finanziarie; strutture aziendali non adeguate e condizioni igienico-sanitarie scadenti; elevato frazionamento della proprietà terriera, con pezzi di terreni coltivati, l'uno distante dagli altri e sparsi in tutto il territorio comunale; poche prospettive di crescita economica e di miglioramento di vita per i giovani. Per ultimo, la voce delle donne, tenue ma costante, per uscire dalla sottomissione della suocera, che spesso governava tutta la famiglia. Dal mese di gennaio dell'anno 1953 a quello di dicembre del 1963, 1.294 persone abbandonarono il paese. Di esse migrarono in Germania 273 persone. Il censimento della popolazione dell'anno 1971 registrò 2.163 persone, meno del 32,4%; quello dell'anno 1981, 1.612, meno del 25,5%. Queste riduzioni significarono che metà della popolazione abbandonò il paese in un periodo di anni venti. Le stalle si svuotarono e l'agricoltura di sussistenza smise di esistere. Gli addetti alla povera agricoltura di montagna, per l'impossibilità di trovare altri sbocchi in loco, trovarono aperta la strada dell'emigrazione. I redditi della popolazione di montagna erano divenuti così distanti da quelli conseguibili altrove e gli sforzi per un loro incremento sul posto, con qualunque mezzo si fosse impiegato, davano così modesti risultati, da non costituire un limite allo stesso esodo. Le produzioni foraggere delle aziende poste nel territorio montano sono organizzate su due livelli: il primo è quello dei prati e prato-pascoli artificiali e falciati per la produzione delle scorte alimentari da utilizzare durante il periodo invernale; il secondo è quello dei pascoli naturali utilizzati nel periodo estivo. A essi vanno associati gli ex seminativi, ormai abbandonati e privi di qualsiasi cura agronomica che stanno evolvendosi, con lentezza, verso una vegetazione erbacea spontanea e naturale, spesso non di buona qualità zootecnica. Se e quanto siano integrati e razionalmente raccordati i due sistemi fra di loro, non è possibile affermarlo con la dovuta attendibilità; ma una pianificazione realistica delle utilizzazione della produzione foraggera montana deve necessariamente tener conto di queste due realtà, delle difficoltà e delle possibilità che esse creano. È anche evidente che il rapporto fra terreni meccanizzabili e quelli pascolabili dà la misura del grado di intensità produttiva dell'allevamento. Nell'ambito dei su esposti limiti, il problema principale, quindi, consiste nel trovare il punto di incontro fra le caratteristiche (quantità e qualità) della produzione foraggera e le esigenze alimentari degli animali. Il sistema pascolo-animali è alquanto complesso nella sua gestione e non va affatto banalizzato. Cambiamenti climatici permettendo, l'analisi dell'andamento della crescita-produzione dell'erba presenta: una fase iniziale di massima capacità (maggio-giugno ); una fase intermedia con capacità relativamente costante, ma ad un livello di produzione molto più basso (luglio-agosto); una fase finale con piccola ripresa (settembre) e con capacità decrescente (ottobre e novembre) sino ad annullarsi. Le esigenze alimentari degli animali invece sono piuttosto costanti o addirittura rettilinee. Inoltre la ricerca dell'equilibrio fra gli animali che si alimentano e la vegetazione che cresce non può limitarsi soltanto agli aspetti quantitativi. Vi è infatti un equilibrio ancora più difficile da valutare e raggiungere, di natura qualitativa, che riguarda i rapporti fra la fisiologia degli animali e quella della vegetazione, dalla quale dipende la durata e l'efficienza del manto erboso. I fattori in gioco sono molti e agiscono in modo complesso. La vegetazione reagisce in modo diverso al pascolo continuo; quest'ultimo, se praticato con gli ovini all'inizio della primavera, può causare una defogliazione pericolosa per la vegetazione in via di sviluppo, che si ripercuote dannosamente sulla produttività dell'intera annata. Vi sono poi influenze dovute alla specie, alla razza, e alla condizione fisiologica dell'animale; riguardano la mole, la vivacità, l'abilità nel prendere il cibo del pascolo, la maggiore o minore tendenza a preferire l'una o l'altra essenza o famiglia vegetale; caratteristiche che si ripercuotono sulla efficienza della produzione vegetale e animale. L'alimentazione, con il solo foraggio verde, utilizzato al pascolo da un allevamento con esigenze costanti, per numero o per necessità individuali, trova quindi dei limiti insuperabili nell'azienda di montagna. Sono limiti intrinseci alle caratteristiche della produzione foraggera e che possono essere superati soltanto con una adeguata integrazione di alimenti di scorta rappresentati da mangimi concentrati. Se questa integrazione non viene data nella necessaria misura, gli animali riducono o annullano la produttività, esauriscono le loro riserve energetiche e, con il pascolamento, esercitano sulla vegetazione una pressione eccessiva con il maggior calpestio, con l'estirpazione delle piante su una cotica vegetale che è incapace di reagire. Tale squilibrio danneggia gli animali e l'ambiente naturale nelle sue capacità produttive e anche di difesa e protezione del suolo. Il miglioramento della distribuzione delle disponibilità alimentari mediante l'uso di scorte foraggere aggiuntive o di mangimi concentrati, non è detto che soddisfi e migliori la convenienza dell'allevamento di montagna. La ricerca e la scelta del migliore equilibrio fra la produzione vegetale e l'allevamento risulta quindi complicata da motivi di convenienza economica. Arriviamo all'attualità e alla nuova generazione di allevatori e ragionando con i numeri che derivano sempre dall'ultimo censimento dell'agricoltura dell'anno 2010, la situazione agroforestale zootecnica è la seguente: La popolazione anagrafica dell'ultimo censimento è di 959 persone e la situazione zootecnica attuale è diversa da quella rappresentata per il periodo 1945-1963. Le differenze sono notevoli: sono scomparsi gli animali da lavoro agricolo e boschivo (muli, cavalli, cavalle, asini e buoi) e le capre, ma sono aumentati i bovini e gli ovini per la produzione del latte e dei prodotti derivati; il miglioramento genetico ed ambientale ha incrementato notevolmente la produttività degli animali; è aumentata la consistenza degli allevamenti e le piccole aziende sono scomparse; la presenza delle macchine agricole ha ridotto il lavoro degli addetti e ha velocizzato le operazioni, soprattutto quelle inerenti alla fienagione; c'è una adeguata e innovativa professionalità degli imprenditori, fra l'altro ben radicati sul territorio. Paradossalmente dalle debolezze del passato è derivata la forza della nuova zootecnia, perché è aumentato lo spazio alimentare per gli animali allevati. Anche il paesaggio agrario è cambiato: il color oro delle messi mature è scomparso, niente più biche di covoni e operazioni di mietitura e trebbiatura. Per vaste zone del territorio,riappare il paesaggio del saltus, sempre più pastorale per la prevalente estensione dei terreni incolti. Nell'anno 1972, in piena crisi della zootecnia locale, nacque, con le stalle ubicate nella località Fonte del Pezzente, la Cooperativa Agricola "S. Nicola" per l'allevamento 700-800 ovini. Una "atipica" cooperativa, ma, con tutto il male che le si può dire, è stata una grossa novità zootecnica. Tutto ciò scritto e per restare nell'obiettivo sopra esposto, è opportuno ragionare se esistono le disponibilità foraggere, e ancora, se le stesse siano adeguate ai fabbisogni alimentari del bestiame nel periodo di pascolo e quali i margini di miglioramento presentano, perché il fatto più importante come è stato sopra rappresentato non è solo l'estensione delle zone comunque pascolabili ma anche la qualità e le quantità alimentari prodotte dalle stesse. I pascoli storici comunali sono: Guardata-Difesa, Monte Campo-Val Rapina, Iaccio della Vorraina e Monteforte, per una estensione di circa 600-700 ettari. Ad essi poi, se si supera la definizione classico-scientifica secondo la quale sono da ritenersi pascoli le formazioni erbacee di specie naturali e permanenti, possono essere sommati, per effetto dell'abbandono e perché pascolabili, gli i incolti produttivi dei privati (gli ex seminativi) si ha una superficie pascolabile di oltre 2.000 ettari. Guardata: tra i pascoli naturali, è stato di gran lunga il migliore per la qualità della sua composizione floristica e per la vicinanza al paese. È stato utilizzato dai bovini, dagli equini da lavoro e a volte anche dagli ovini. Attualmente il suo potere vegetativo, a causa della sottoutilizzazione, per la mancanza di animali, si è ridotto notevolmente e si sta trasformando in altre tipologie vegetali non adatte al pascolo. Definire la Guardata pascolo cespugliato forse è un eufemismo, perché l'eccessivo sviluppo di arbusti (rosa canina, biancospino, uva spina), cardi, carline, ononide spinosa (cessabue) e tra le graminacee il Brachypodium pinnatum (falasco), la rendono quasi impraticabile. Monte Campo-Val Rapina: la superficie a pascolo è quasi inesistente per la presenza di un esteso imboschimento, effettuato sulla "piana" del monte tra gli anni 1960-1970 con il pino nero, che generò anche un forte impatto psicologico sulla popolazione che dubitava sul l'esito positivo dell'intervento. Iaccio della Vorraina: la superficie a pascolo è esposta sul versante est di Monte Capraro su un substrato di natura eminentemente calcareo e su un suolo poco profondo. Nel tempo non ha subito modifiche nella continuità della copertura vegetale e composizione floristica. La produzione della cotica erbosa risente l'aridità del periodo estivo. Monteforte: la cotica erbosa è quella che ha conservato, più di ogni altra, la propria configurazione botanica ed agronomica. ll piccolo bacino carsico continua ad essere falciato e poi pascolato. Invece sulle sponde,su un substrato di natura calcarea, la cotica erbosa è soltanto pascolata. Che proporre? Che fare? Uno degli obiettivi è quello di incrementare la produttività dei terreni pascolabili e che la stessa sia la più costante possibile per il periodo di pascolamento. Non si può nascondere né tacere che vi sono delle difficoltà oggettive determinate da condizioni ambientali che non possono essere eliminate ma solo attenuate. È opportuno porre in evidenza che l'erba dei pascoli è un prodotto intermedio e non finito e assume un significato economico solo quando è utilizzato. Se ciò non accade, tutto il suo valore si degrada e va perduto, non potendo, come il bosco, aumentare la provvigione. È quanto si verifica in primavera che l'offerta dell'erba abbonda e supera i fabbisogni alimentari degli animali, mentre succede l'inverso nella stagione estiva. Sono queste situazioni che non permettono di avere il giusto equilibrio e costanza della produttività dei pascoli che dovrebbero essere corretti o provare a correggere con adeguate tecniche agronomiche, fra le quali le concimazioni e la letamazione sono gli unici mezzi proponibili per il miglioramento dei terreni con buone qualità pedologiche. La superficie degli incolti produttivi attualmente a "disponibilità abusiva" è la più estesa del territorio comunale e alla quale non è possibile rinunciare, perché senza il suo uso ci sarebbero delle difficoltà nell'esercizio del pascolo soprattutto per gli allevamenti ovini. Per essa, però, si dovrebbe studiare, con la collaborazione e consenso dei proprietari, una forma di conferimento solidale (gratuito?) a favore degli allevatori che permetta la relativa utilizzazione, senza vincoli e discontinuità sul territorio e con la possibilità: di organizzare il territorio secondo le esigenze fisiologiche degli animali; di attuare interventi di miglioramento per il ritorno a prati e prato-pascoli, dei i terreni per i quali ciò è tecnicamente possibile. Gli altri, quelli meno idonei a qualsiasi miglioramento, andrebbero lasciati alla loro naturale evoluzione, ma con una funzione molto importante nell'ambito dell'azienda: l'uso come pascolo di recupero durante i periodi di inizio e riposo della vegetazione (inizio primavera, inizio autunno). La maggiore superficie produttiva "a verde" avrebbe anche una azione di notevole effetto ambientale sul tutto il paesaggio con la ricaduta positiva sul turismo. Vagheggio. Utopia. È vero che non è un obiettivo di rapida soluzione, ma serve comunque a dare la direzione verso la quale bisogna andare e come dice un antico adagio "ogni percorso, lungo o breve che sia, comincia sempre con il primo passo". Con il trascorrere del tempo, senza la presenza degli animali e lo sfalcio, i terreni abbandonati incolti saranno come la Guardata, luogo infestato da rovi e cespugli. Possiamo mettere l'iniziativa nelle mani dell'Autorità Comunale? Io ci provo. Comunque discutiamone. Senza pregiudizi. Anche i pascoli naturali di antica formazione richiedono cure particolari ed adatti accorgimenti agronomici per favorire (cosa non facile) l'accumulo di sostanza organica esaurita nel tempo e dare maggiore consistenza e resistenza alla cotica erbosa. L'Associazione Provinciale Allevatori di Campobasso (direttore Maurizio De Renzis) in collaborazione con l'Assessorato Regionale Agricoltura e Foreste, ha promosso nell'anno 1990 la realizzazione di un programma di studio e valorizzazione delle aree a pascolo della Regione Molise che non ha avuto però alcuna applicazione, ma che invece potrebbe essere un riferimento essenziale per la scelta degli interventi migliorativi dei pascoli. Ma è stata data risposta al quesito posto all'inizio di questo scritto? È riscontrabile, in queste condizioni di allevamento, l'equilibrio tra le risorse alimentari che il territorio offre e i fabbisogni degli animali? Non è certa la risposta affermativa, in mancanza di elementi conoscitivi degli alimenti e delle necessità per ogni singolo animale. Pur tuttavia è possibile rispondere positivamente sulla base di parametri empirici, citando il benessere generale degli animali e le produzioni quantitative e qualitative del latte degli allevamenti, senza eliminare o ridurre le azioni per migliorare la produttività dei prati e dei pascoli, necessarie per aumentare le disponibilità alimentari sia per periodo estivo che per quello invernale. Ancora, perché più pascolo migliora lo stato del benessere degli animali, la qualità delle produzioni, riduce l'uso dei mangimi e il costo dell'unità foraggera. Tutte le azioni di miglioramento agronomico dei prati e dei pascoli potrebbero essere comprese in un programma pluriennale da finanziare, in mancanza di risorse pubbliche specifiche, con i proventi derivanti dai tagli del boschi gravati da usi civici, come sembra più legittimo l'uso degli stessi fondi. Lorenzo Potena (a cura di Sebastiano Conti) Fonte: http://www.altosannio.it/ , 27 gennaio 2018.

  • Nel buio

    Angoli di gelo (foto: F. Mendozzi). Nel buio il silenzio parla di angoli al gelo, di muri spenti fino ai tagli di luce più bassa e quasi pudica a guardare la neve sgualcita, a ricordare la via già percorsa perché il sonno si spera sia promessa di altra vita e rinnovato chiarore. Flora Di Rienzo

  • Capracotta e le profezie autoavveranti

    Bambini di Capracotta al tempo della Grande Guerra. Chi ha studiato i rudimenti dell'economia politica sa che esiste un particolare fenomeno, detto self-fulfilling prophecies , che sta alla base di alcune crisi finanziarie, anche piuttosto recenti. Semplificando al massimo, si può fare il seguente esempio: supporre che il tasso d'interesse aumenterà nei prossimi 6 mesi avrà come risultato l'innalzamento effettivo del tasso d'interesse, aumento che probabilmente avverrà prima dei 6 mesi profetizzati. Questo perché una profezia autoavverante attiva dei meccanismi che convincono il mercato che quel dato pericolo sia reale, per cui il mercato stesso metterà in atto dei meccanismi di autodifesa. Ora facciamo invece un salto all'indietro nel tempo fino agli anni della Grande Guerra. Solitamente, tra le voci più comuni che si diffondono in caso di eventi bellici, ci sono quelle legate alla penuria e al rincaro dei generi alimentari che, di fatto, non sono che esempi di profezie autoavveranti. Infatti, è dopo il disastro di Caporetto che le agitazioni popolari contro la guerra si fecero massicce, tanto che da lì cominciò anche a spargersi la voce - forse un adattamento italiota di voci francesi sull'inoculazione di germi di malattie contagiose nei bambini da parte degli invasori tedeschi - che lo Stato volesse sottoporre tutti i bambini a delle iniezioni avvelenate per debilitarli, farli morire ed avere così un minor consumo di derrate alimentari. Stando alla lettera n. 464 del 17 aprile 1918 del prefetto di Campobasso al Ministero dell'Interno e recante per oggetto "Propagazione di notizie false e allarmanti" (in ACS, Prima guerra mondiale , b. 66, fasc. 128), quella voce, dopo aver fatto il giro d'Italia, il 26 marzo aveva investito pure Capracotta, dove si disse che «dovevano venire vaccinati tutti i ragazzi, e che tale operazione doveva essere eseguita colà da tre medici militari i quali però anziché il siero vaccinico avrebbero fatto uso di veleno per sopprimere i bambini per ordine del governo, allo scopo di non pagare più sussidi». Tale notizia allarmante ebbe diffusione immediata, al punto che i bambini che si erano recati a scuola furono ripresi dalle madri e molti di essi si astennero dal tornarci. Verso la metà di aprile, la voce passò in Abruzzo, ad esempio a Castiglione Messer Marino, dove si vociferò che «sarebbero colà giunti alcuni sudditi nemici incaricati dal nostro Governo di procedere alla vaccinazione degli scolari, causando la morte dei bambini per non pagare i sussidi alle mogli dei militari». Anche qui diverse madri si recarono a scuola a ritirare i propri figli. Col passare dei mesi, tuttavia, la voce si riassorbì da sé, ma è pur sempre interessante evidenziare come determinati meccanismi psicologici perversi diventino reali in un baleno. Un esempio che tutti ricordiamo è avvenuto nei primi mesi dell'emergenza sanitaria da covid-19 quando dai banchi dei supermercati sparirono improvvisamente farine e lieviti, in virtù del fatto che si era sparsa la voce che la pandemia ci avrebbe costretti a chiuderci in casa a tempo indeterminato, scatenando l'acquisto in massa di quei beni alimentari, causando inflazione e psicosi ad un tempo. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: C. Bermani, Spegni la luce che passa Pippo. Voci, leggende e miti della storia contemporanea , Odradek, Roma 1996; M. Lieberman e R. Hall, Principi di economia , trad. di E. Di Benedetto, Apogeo, Milano 2004; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; D. Salvatore, Economia internazionale. Teorie e politiche del commercio internazionale , Rizzoli, Milano 2022.

  • Capracotta nella letteratura del 2024

    È stato un anno obiettivamente deludente il 2024, se guardato dal punto di vista dei volumi che menzionano Capracotta. Ho riscontrato molti libri pubblicati localmente, saggi scientifici o di letteratura per l'infanzia. Ma, ahimé, nessun gran romanzo. Tuttavia, passiamo ad una veloce disamina. Il libro più importante è stato probabilmente quello di Nancy Furstinger, autrice di quasi 100 libri, che ha dato alle stampe « L'incredibile libro di fatti esorbitanti per bambini ». A proposito degli agenti atmosferici, l'autrice ha realizzato una vignetta riguardante l'«extreme snowfall in Capracotta, Italy, buried the village with 100.8 inches of snow in roughly eihteen hours». Tuttavia, a livello italiano, la massima menzione è stata quella di Andrea Covotta, importante giornalista nonché responsabile della struttura Rai Quirinale, il quale però commette un imperdonabile errore nel parlare una volta ancora del delitto Montesi, poiché tira in ballo Capracotta al posto di Capocotta. Va decisamente meglio con Manuel Sarno, che nel suo "Il marchese di Popogna" fa una battuta sul fantasioso «Tribunale di Capracotta». Nel novero della piccola letteratura, abbiamo il romanzo d'esordio di Luigi Alberto Cutrone, "L'aquila di Aquilonia", in cui viene descritta la Tavola Osca di Capracotta. La stessa lamina, in termini decisamente più scientifici, è invece oggetto di studio nel gran bel saggio di Olivia Menozzi sull'ibridazione culturale avvenuta al tempo della penetrazione romana nel Sannio. Sempre in termini di studi, abbiamo l'ottimo lavoro di Matteo Nucci su Ernest Hemingway, nel quale l'autore, a proposito dell'ormai celebre dialogo tra il prete di Capracotta e Frederic Henry, pone l'accento su «come il cappellano che odia la guerra [...] lo confida al protagonista ferito e infine gli confessa di desiderare soltanto la sua terra. Ossia il ritorno a casa». Altri due romanzi chiudono la carrellata letteraria del 2024. Il primo è firmato dalla giovane Maria Teresa Montuori, che nel gradevole " Quattro vite " racconta diverse scene ambientate a Capracotta, tra le sue nevi, oppure nelle immediate vicinanze, come l'osservatorio astronomico "Leopoldo Del Re" di San Pietro Avellana. L'altro è "Gustavo" di Renzo Ardiccioni, italiano trapiantato in Francia, che in questa riedizione del romanzo "Ippocampo", una volta ancora cita Capracotta per via del suo nome buffo e altisonante. Con un 2024 tanto avaro, speriamo in un 2025 ricco di menzioni di grande letteratura... Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: R. Ardiccioni, Gustavo , L'Écharpe d'Iris, Franqueville-Saint-Pierre 2024; A. Covotta, Politica e pensiero. Storie e personaggi dei partiti del Novecento , Marcianum Press, Venezia 2024 ; L. A. Cutrone, L'aquila di Aquilonia , Vertigo, Roma 2024; N. Furstinger, The Incredible Book of Outrageous Facts for Kids , Simon & Schuster, New York 2024; R. M. Longo, Itinerari Italiani: a Visual Information Campaign to Reclaim Italian Regionalisms and Remap US-Italian Economic Interdependence under the Marshall Plan , in L. Česálková et al. (a cura di), Non-Fiction Cinema in Postwar Europe. Visual Culture and the Reconstruction of Public Space , Amsterdam Univiersity Press, Amsterdam 2024; O. Menozzi, From Safin to Roman. Cultural Change and Hybridization in Central Adriatic Italy , Archaeopress, Oxford 2024; M. T. Montuori, Quattro vite , Albatros, Roma 2024; M. Nucci, Sognava i leoni. L'eroismo fragile di Ernest Hemingway , HarperCollins, Milano 2024; M. Sarno, Il marchese di Popogna e altre storie , Le Lucerne, Milano 2024.

  • Modernità

    Lo sento, sì! Lo sento ancora il tuono dei cannon e il pianto dei bambini, lo vedo ancora lo scoppio delle mine, il crollo dei palazzi ed il silenzio della Morte, altero, sui paesi devastati! Ma che fanno gli uomini? Ci sono le alluvioni, le frane, i terremoti, c'è tanta fame ed una folla sterminata di drogati che implora carità. Ma perché non soffrono tenendosi per mano? A cosa serve ucciderci se siam tutti fratelli? Già le fabbriche riempiono di morti i cimiteri ed il cancro reclama il suo pasto di vite quotidiane: regalaci il progresso, regalaci la pace... Modernità! Regalaci la pace. Non più le bombe di Roma, Milano e Catanzaro ma un atto di coraggio, un vero atto di coraggio, e, dai cieli sereni, una bianca colomba, leggera volando sui raggi di sole, si poserà, infine, sui tetti del mondo. Ugo D'Onofrio

  • Suggestioni del bosco: inverno

    In un cielo lattiginoso che confonde il tempo, gli alberi si vestono di bianco, si adornano a poco a poco di mantelli ricamati, chiusi intorno a candide vesti come in un abbraccio. Passarvi attraverso è perdersi in un trionfo di gioielli di cristallo che rapisce lo sguardo: dai rami protesi brillano leggere frange iridescenti, pendono fragili orli a lambire cuscini di ovatta opalescente. Tra le radici contorte uno specchio di ghiaccio riflette la trama aerea che lo sovrasta. Una coltre delicata si stende ovunque, accarezza ogni forma, smussa ogni grandezza, nasconde ogni minaccia per compiere un nuovo paesaggio che solo il vuoto di un'orma, il peso di un corpo riescono a violare per naturale sacrilegio rivelando la precarietà della suggestione. Nel silenzio sorprende il colpo prodotto da un ramo caduto, arreso al carico, così le gocce che scendono da un ricamo di vetro e svaniscono. Rari fiocchi si staccano mollemente dalle cime e si poggiano lievi, altri più fitti si aggiungono per un alito di vento che li scompiglia e scuote l'anima sognante. Flora Di Rienzo

  • Le più belle parole del dialetto di Capracotta

    Prima de 'ngumenzà... Quanto può risultare noioso l'ennesimo vocabolario dialettale capracottese? Non posso darvi torto! Tuttavia, questo settimo lavoro per la collana degli "Argomenti di Letteratura Capracottese" era necessario, forse addirittura obbligatorio, in quanto naturale conseguenza del calendario dialettale che, con tanto successo, realizzo e diffondo dal 2021, e che saluta le giornate dei cittadini capracottesi (e non solo). Aver condiviso in tutti questi anni e con tante persone i vocaboli, i modi di dire, i proverbi e gli usi di Capracotta, ha affinato la selezione lessicale al punto che in questo nuovo libretto è raccolta buona parte della nostra parlata più antica ed autentica. Persistono, tuttavia, delle zone d'ombra. Non potrebbe essere altrimenti in una comunità che è (stata) tanto viva e dinamica. Vocaboli che consentono o prevedono doppie, se non triple, dizioni, parole desuete immigrate ed emigrate in paesi convicini, forestierismi e neologismi i più disparati, accezioni apparentemente lontane dal significato principale, inflessioni che cambiano radicalmente tra il centro abitato e le sue contrade e che, per forza di cose, si riflettono in diverse pronunce, tutte egualmente ammesse perché figlie della stessa madre: Capracotta. In questo primo volume ho composto una prima selezione di 400 termini del nostro dialetto: ho scelto i vocaboli più singolari, i più insoliti, quelli più distanti dalla lingua italiana, sperando che provochino nel lettore l'emozione della parlata avita o la sorpresa di un insperato apprendimento. Voglio però anticiparvi che non è un classico dizionarietto in cui le parole vengono crudamente esposte in ordine alfabetico. Ho cercato di approfondire ogni parola dialettale a partire dal suo etimo e nelle sue derivazioni e declinazioni possibili, cercando di legarla alla società ed alla cultura di Capracotta di ieri e di oggi. Questo, quindi, non è un vocabolario da consultare quando si va alla ricerca d'una parola e del relativo significato, ma un libro che si può leggere al pari d'un piccolo saggio, poiché ogni parola porta con sé un racconto che potrà schiudere un immaginario familiare o popolare, in ogni caso un universo culturale. L'urgenza di pubblicare "Le più belle parole del dialetto di Capracotta" nasce anche da una ulteriore riflessione. Tutti i dizionari locali che ho avuto modo di consultare, infatti, pur possedendo la buonafede dei migliori propositi, presentavano a volte degli errori di battitura, con accenti sbagliati o parole scritte con un'ortografia non corretta o quantomeno dubbia. Nel mio lavoro, ad esempio, non troverete traccia dello schwa , quel feticcio grafico che appartiene all'alfabeto fonetico e che alcuni continuano ad inserire nelle parole capracottesi, contravvenendo alla funzione primaria del dialetto, quella di essere la forma di comunicazione più diretta ed immediata del popolo. Per quel che mi riguarda, nel trasformare in grafia la complessità del dialetto, ho utilizzato soltanto tre convenzioni. La prima è quella della cosiddetta "e" muta. Questa vocale la si pronuncia solo se accentata; se invece non presenta alcun accento, dà vita ad un suono gutturale che, nei fatti, è l'ottava vocale del dialetto centromeridionale. La seconda convenzione riguarda l'accento circonflesso sulla "s". Per dar vita al suono sh- seguito da "c", "d" o "t", qualcuno ha difatti pensato di renderlo col digramma sc- – ad esempio sctùbbete  (= stupido) –, mentre trovo più apprezzabile la presenza d'un segno grafico italiano, seppur arcaico, con la funzione di addolcire la "s" impura, per cui si avrà ŝtùbbete . L'ultimo criterio – chiamatelo vezzo – è quello della "i" consonantica, resa con la desueta "j" lunga, la quale facilita la lettura di quelle parole che presentano particolari combinazioni vocaliche (si pensi alla parola ràja , = rabbia). Le regole che seguirò nella compilazione, dunque, non renderanno perfetta la trascrizione del dialetto ma aiuteranno il lettore ad interpretarlo meglio. Quest'opera, d'altronde, non pretende di essere scientifica, per cui ho scelto di limitarmi agli accenti gravi ed acuti, alla "e" muta ed al circonflesso. Azzardare una pubblicazione dialettale, insomma, è sempre una sfida che viene lanciata alla propria gente, poiché fissare su carta il dialetto significa attentare alla tradizione orale, che solitamente è più libera nei costrutti ed aperta alle diverse pronunce. Per questo motivo spero che i lettori scusino alcune dimenticanze, sorvolino su eventuali sbadataggini o tacciano su madornali errori. Rimane inteso che non sono un linguista né un glottologo. Sono però convinto che per scrivere degnamente il capracottese, sia propedeutico saperlo parlare... Partendo dai miei genitori e dai miei nonni, da cui ho appreso i rudimenti della parlata capracottese, voglio ringraziare mia moglie Lucia ed i fidati consulenti linguistici che giornalmente mi hanno corretto: Michele Beniamino, Giovanni Di Luozzo ed i fratelli Antonio e Filippo Di Rienzo. Un merito ce l'hanno pure i compaesani che, a vario titolo, mi hanno aiutato. Ringrazio, ovviamente, anche chi si è cimentato, prima di me, in un'opera simile: su tutti don Osman Antonio Di Lorenzo, il dott. Felice Dell'Armi e il prof. Domenico Di Nucci (1942-2021). Da ognuno di loro ho attinto qualcosa. Un grazie, infine, all'insuperato folclorista capracottese Oreste Conti (1877-1919), il quale, pur non parlando correntemente il dialetto in casa, ebbe la lungimiranza di fissare su alcuni libri – su tutti le "Locuzioni e modi di dire del popolo capracottese" e la "Folklorica pastorale capracottese" –, i lemmi ed i motti più particolari della nostra gente. Francesco Mendozzi Fonte: F. Mendozzi, Le più belle parole del dialetto di Capracotta , Youcanprint, Lecce 2024.

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