LETTERATURA CAPRACOTTESE
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
VIRGILIO JUAN
CASTIGLIONE
Le arie popolari musicate da artisti capracottesi
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
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- Amici dello Sci Club
Lo Sci Club Capracotta (foto: Fernando Di Rienzo). Il passato non torna, ma i ricordi rimangono ancora vivi nella memoria di chi vuole condividerli con chi ha la pazienza di leggere queste righe. Forse non c'è un'età per sentirsi giovani, perché il segreto, nella vita, è conservare quel giusto spirito che resiste, nonostante il trascorrere degli anni. Beh, è passato un po' di tempo da quando, in compagnia degli amici, ci si ritrovava nei locali dello Sci Club a scrivere qualche dedica sul diario di scuola, parlare del più e del meno e sognare ad occhi aperti un futuro da favola. Era un po' come ritrovarsi in un piccolo circolo ricreativo e, senza essere tesserati, poter assistere a qualche simpatica improvvisazione teatrale, messa in scena dall'attore di turno. A distanza di anni, vorrei ringraziare chi ci ha regalato questi momenti in compagnia e conservarli nell'album dei ricordi. Marinella Sammarone
- Il monumento all'Emigrante di Capracotta
È stata una festa meravigliosa. Tutto il paese s'è stretto attorno ai sessanta emigranti giunti dagli Stati Uniti, dal Canada e da altri paesi europei per partecipare alla inaugurazione del monumento e salutare con un applauso caloroso ed interminabile i bronzi dedicati agli emigranti capracottesi sistemati in un angolo della pinetina di fronte al Santuario della Madonna di Loreto. Il tutto s'è concretizzato intorno alle ore 13:00 alla presenza delle massime autorità politiche, militari e religiose: il cardinale degli Stati Uniti Bernard Francis Law, il vescovo della Diocesi di Trivento Domenico Scotti, il sindaco di Burlington (U.S.A.) Darlene Scocca Comegno, il viceconsole americano, il presidente della Regione Molise Michele Iorio, l'assessore regionale Angelo Iapaolo, naturalmente il sindaco di Capracotta Antonio Monaco, tutti gli amministratori locali e il parroco don Elio Venditti. Subito dopo l'inaugurazione e la benedizione del manufatto ci sono stati gli interventi del sindaco Antonio Monaco, del sindaco di Burlington Darlene Scocca Comegno, del viceconsole americano, di Joseph Paglione, promotore di questo monumento a Capracotta, e del presidente della Regione Molise Michele Iorio. In particolare il sindaco ha rivolto parole di ringraziamento ai capracottesi d'America precisando così la sua gratitudine: «Intendo ringraziare i nostri emigranti, i nostri concittadini che vivono e lavorano con prosperità in ogni parte del mondo. Essi hanno contribuito alla crescita economica e sociale dei paesi che li hanno accolti e, sempre loro, con il ricordo sempre vivo che portano nei loro cuori della terra natia, oggi hanno voluto questa cerimonia che ha portato all'inaugurazione del monumento all'emigrante. L'iniziativa partita dal comitato "capracottesi nel mondo" oggi raggiunge il proprio obiettivo e tutta la comunità capracottese ne è fiera». Molto commovente anche l'intervento di Joseph Paglione che ha comunicato sia in lingua inglese sia in lingua italiana il significato di questo monumento e la gioia di vivere questo momento di festa con tutta la comunità di Capracotta. Ha chiuso gli interventi Gabriele Mosca con la declamazione di una sua poesia in dialetto capracottese intitolata "Annieànde alla Madonna". Come previsto dal programma sono seguite altre due cerimonie dedicate entrambe alla intitolazione di due strade cittadine. La prima, e cioè quel tratto di strada che va dalla Madonna di Loreto all'ingresso del paese, è stata chiamata viale dell'Emigrante. La seconda, e cioè quella strada che fiancheggia l'ex area Pioppi e gira intorno alle villette di recente costruzione, è stata dedicata a Giovanni Paolo II. La festa è proseguita in serata con l'esibizione musicale nella Chiesa Madre del concerto bandistico Città di Lanciano che ha allietato la serata con la Traviata e la Norma. Queste tre manifestazioni, va ricordato, sono state solo l'epilogo di un nutrito programma di festeggiamenti e di onoranze riservate ai nostri compaesani d'America. Infatti dopo la suggestiva accoglienza, nella mattinata di venerdì 7, del pullman degli emigranti, provenienti dall'aeroporto di Roma, in prossimità del paese in zona Fonticelle con lo spazzaneve, in serata, nella palestra comunale c'è stata la festa di benvenuto all'Emigrante. È stata una serata eccezionale con centinaia di capracottesi in festa ad applaudire e ad abbracciare i cari americani. Particolarmente commossa Darlene Scocca Comegno che, prima del suo intervento, non ha nascosto l'emozione, lasciandosi cadere alcune lacrime sul suo gioioso viso. Dopo gli interventi del sindaco Antonio Monaco, del sindaco Darlene Scocca Comegno e di Joseph Paglione si è dato il via al buffet. Un ricco menù a base di antipasto, primi piatti e dolci, tutti pietanze preparate nel rispetto delle ricette paesane e con materia prima locale. Come da tradizione non poteva mancare la musica. S'è iniziato con alcuni canti capracottesi. Un improvvisato gruppo canoro composto da compaesani e accompagnati dalla fisarmonica di don Ninotto Di Lorenzo ha cantato "Ru spazzaneve", il famoso brano composto da don Gennaro Di Nucci in onore del Clipper inviato dagli americani nel 1950, mentre il canadese Armando Bonfiglio ha cantato due suoi brani uno dedicato alla Madonna di Loreto ("Festa a Capracotta") e l'altro all'emigrante ("Noi emigranti"). Subito dopo la bacchetta è passata al gruppo musicale "Ballando sotto le stelle" che, coinvolgendo tutti i presenti con danze popolari, ha allietato la serata sino a tarda notte. La notte è passata tranquilla. Sabato 8 mattina ancora un incontro con gli emigranti. Questa volta, però, l'appuntamento è stato nei locali del Comune. I compaesani alla spicciolata sono arrivati in piazza Falconi. Verso le nove e trenta è arrivato il Vescovo di Trivento Domenico Scotti. Verso le dieci è arrivato il cardinale americano Bernard Francis Law. A fare gli onori di casa il parroco don Elio Venditti e il sindaco Antonio Monaco. Dopo pochi minuti è iniziata la cerimonia vera e propria. Schierati di fronte alle lapidi poste all'ingresso del Municipio, si è proceduto alla commemorazione dei caduti in guerra dei capracottesi con l'Inno Nazionale e quello de "Il Piave", eseguiti dal concerto bandistico Città di Lanciano. Con in testa il sindaco, il corteo, poi, ha raggiunto la sala consiliare del Comune per l'incontro ufficiale tra i rappresentanti delle istituzioni e gli emigrati. In ricordo di questo straordinario evento il sindaco Monaco ha donato al cardinale Law, al vescovo Scotti e al viceconsole americano un bassorilievo raffigurante lo stemma di Capracotta e a Joseph Paglione e alla Darlene Scocca Comegno un attestato di stima e di ringraziamento. Dal canto loro i graditi ospiti hanno ricambiato l'offerta con affettuose dediche riportate sul "Libro delle memorie" depositato in Comune. Joseph Paglione ha scritto: «È un giorno grandissimo e indimenticabile per tutti i cittadini capracottesi e tutti noi nel mondo per l'occasione del monumento che, oggi, ci ha riuniti e, contemporaneamente, ci ha ricollegati. Facendo questo noi lo facciamo anche per le future generazioni». Degno di nota anche il gesto di don Carmelo Sciullo che ha voluto donare al Comune la bandiera argentina che gli fu donata per meriti religiosi dalle autorità argentine a fine della missione svolta in quel paese. Dopo le foto ricordo ci si è incamminati verso la Madonnina per la celebrazione della Santa Messa. Il corteo accompagnato dal concerto bandistico di Lanciano ha percorso a piedi l'intero tragitto. La bella giornata, anche se fresca, ha consentito la passeggiata senza difficoltà. Alle ore 11:00 è stata celebrata la Santa Messa dal cardinale Francis Bernard Law assistito dal vescovo Scotti e dal parroco don Elio Venditti. Presenti sull'altare anche i sacerdoti don Carmelo Sciullo, don Alberto Conti, don Nicola Perrella, don Michele e don Ninotto Di Lorenzo. Ha accompagnato la celebrazione il coro "Il Principalone" che, in chiusura della cerimonia religiosa, ha intonato due brani dedicati alla Madonna di Loreto e musicati dal bravo compaesano prof. Vincenzo Sanità. Dopo la Santa Messa le autorità e tutti i cittadini poi hanno raggiunto il monumento per l'inaugurazione dei bronzi. Il monumento, già nelle prime ore del pomeriggio del giorno dell'inaugurazione, è stato meta turistica dei primi curiosi accorsi per ammirare ed apprezzare il manufatto. Tutti positivi i commenti sul valore artistico dell'opera e sulla simbologia adottata dallo scultore Di Campli per rappresentare il fenomeno migratorio registratosi nei primi anni del 1900 e continuato nella seconda metà del secolo scorso a Capracotta e nel resto d'Italia: «Quel monumento è il simbolo di tutti capracottesi, hanno dichiarato in molti, che volenti o nolenti hanno dovuto abbandonare Capracotta per cercare fortuna in altri nazioni e in altri paesi». Questo, probabilmente, è il suo valore intrinseco che ha emozionato e fatto riflettere tutti, americani e non. Per questo motivo diciamo ai compaesani americani grazie per la vostra iniziativa. Ci avete ricordato che siamo in tanti ad avere emigrato ma ci avete ricordato anche che le nostre radici sono sempre lì a Capracotta. Nessuno le ha dimenticate e le dimenticherà. Ci auguriamo che questa "capracottesità" produca la linfa necessaria per il futuro di Capracotta. Matteo Di Rienzo Fonte: http://www.capracotta.com/ , 2007.
- A Capracotta, dove lo sci di fondo è di casa
Lo stadio del fondo di Prato Gentile. Capracotta, provincia di Isernia, piccolo comune appenninico del Molise, è una delle località invernali che vale la pena esplorare per finalità sportive e non solo. I motivi sono diversi e tutti molto validi. Innanzitutto qui lo sci di fondo è di casa, e ne sono una chiara testimonianza i 102 anni di storia del locale Sci Club. Si tratta insomma di una vera e propria stazione sciistica dotata di una delle più importanti piste di sci nordico del Centro-Sud. Gode poi di una posizione strategica rispetto alle grandi città, come Roma, Napoli, Bari e Pescara, tutte ricomprese in un raggio di circa 200 km. Nonostante tutto rimane comunque ancora lontana dai grandi flussi turistici delle grandi località invernali. Si presenta come una località di nicchia, dove il rapporto tra i costi e i benefici è assolutamente vantaggioso. La pista Di Nucci si trova a Prato Gentile, a quota 1.575 metri, pochi chilometri a monte del centro abitato di Capracotta. La neve qui non manca mai. È una zona incontaminata e suggestiva - frequentata anche in estate - ricoperta da boschi di faggi e abeti attraverso cui si snodano i 3 anelli di varia lunghezza che confluiscono nello stadio del fondo. C'è un anello turistico di 4 km., utilizzato dai professionisti per il riscaldamento o dagli amatori per passeggiate prive di particolari asperità, e due anelli agonistici di 5 km. ciascuno. L'anello di valle, sul versante occidentale di Prato Gentile, con molti tornanti e uno strappo finale molto impegnativo prima della discesa finale nel pianoro. E l'anello di monte, posto sul versante settentrionale - che per l'esposizione resta innevato anche fino ad aprile - che offre pendenze più o meno varie nella zona più alta e suggestiva del comprensorio. La pista Di Nucci - intitolata ad uno dei pochi atleti di levatura nazionali nativo del posto - è stata sede del Campionato italiano di sci di fondo nel 1997 a testimonianza di un livello tecnico di livello assoluto. Il costo di utilizzo della pista di fondo è piuttosto accessibile, di 4 € a persona per l'intera giornata. Sul pianoro di Prato Gentile è possibile noleggiare l'attrezzatura presso il Nolo Sci Capracotta, che funziona anche come scuola per lo sci di fondo ed è organizzata anche per la somministrazione di corsi a disabili e non vendenti. Scarponi, sci e racchette si possono noleggiare a 10 € al giorno. Assolutamente in linea anche i prezzi delle 3 strutture ricettive - due hotel e un b&b - oltre che dei 4 ristoranti del posto, dove tra le altre cose è possibile degustare i rinomati latticini prodotti dai caseifici locali. Vincenzo Russo Spena Fonte: https://piuturismo.it/ , 22 gennaio 2017.
- Gabriele Di Tella e l'ipercorrettismo di Chieti
Il fratello del mio bisnonno Sebastiano si chiamava Gabriele Di Tella ed era un uomo istruito ma affatto particolare. Lavorava per conto di don Federico Falconi, un ricco proprietario, nel bellissimo palazzo ducale di piazza Mercato, che il padre Stanislao aveva acquistato dal Duca di Capracotta e che alcuni anni dopo rivendette al Comune per farne la sede del municipio. I fratelli Gabriele e Sebastiano avevano sposato due sorelle, Filomena e Carmela. Gabriele e Filomena non ebbero prole ma aiutarono Sebastiano e Carmela a crescere i loro figli, che raggiunsero il numero di 11. Era risaputo che Gabriele parlava 'mbizze , come si dice a Capracotta per intendere un linguaggio falsamente ricercato, posticcio, ridicolmente snob. Aveva, infatti, il vizio di terminare tutte le parole con -ti , per cui tata , il nome con cui si designava il proprio papà, nel personalissimo idioma di Gabriele diventava tati . La moglie di Gabriele, Filomena, era una "maestrina", colei che insegnava le norme del galateo e della buona educazione alle ragazzine capracottesi più abbienti. Un giorno, trovandosi a male parole con un avventore del suo ufficio, Gabriele subì una grave offesa pubblica, di quelle che ai vecchi tempi si rivolgevano a uomini e donne sterili: – Zìtte tu, ca siè chiùppe! Gabriele, con saggezza ed ironia fuori dal comune, rispose: – Che son chiuppo non lo nego, ma a te chi te lo dice che ti chiami tati ? – intendendo che la paternità biologica non è cosa certa, colpendo così nell'orgoglio virile l'interlocutore. Tuttavia, qualcuno dovette far notare a Gabriele il suo modo strampalato di scombinare la lingua italiana, ed egli decise di correggersi. Mai più -ti , che è plurale, ma sempre -to e -ta , a seconda che fosse maschile o femminile. Non appena gli si presentò l'occasione di mettere in pratica la correzione che aveva elaborato, Gabriele non ci pensò troppo su. Dovendo inviare una corrispondenza nella bella cittadina abruzzese di Chieti, dettò al cancelliere: «...a Chieta»! Insomma, aveva effettivamente corretto il suo italiano ma la pezza era peggiore del buco. Ironia della sorte fu che Gabriele - che mia nonna chiamava Tatajèle - prima di morire, perse l'uso della parola. Ma la morte è morta per definizione e non la si può correggere. Francesco Mendozzi
- Cosa tiene in mano la donna in costume di Capracotta?
Donna di Capracotta. Qualche giorno fa ho pubblicato un bell'acquerello del costume di Capracotta d'inizio XIX secolo che si conserva in Inghilterra nel Fitzwilliam Musem in Trumpington Street a Cambridge. Ritorno sull'immagine della donna non tanto per il costume che è sicuramente interessante, quanto piuttosto per cercare di capire cosa abbia in mano. Che si tratti di una piccola gabbia con un uccello si capisce facilmente. Cosa stia facendo è un po' più complicato, ma con una serie di ragionamenti possiamo anche arrivare a immaginarlo. Credo si tratti della preparazione di una gabbia per il trasporto di uno o più piccioni viaggiatori. Lasciate perdere «isciacquìo, calpestìo, dolci romori» di Gabriele D'Annunzio, che scriveva in pantofole... Intorno al 1789 il conte svizzero Ulisse de Salis Marschlins fece un viaggio da Napoli a Sulmona, passando per la Marsica, per tornare a Napoli dopo aver attraversato Isernia e Venafro. Tra le altre cose descrisse l'inumana condizione dei pastori che seguivano le greggi dall'Abruzzo al Tavoliere delle Puglie, rimanendone sconvolto. Tutti gli uomini di questa regione si dedicano alla speculazione ed alla cura del gregge, senza distinzione, si può dire, di qualunque ceto e di qualunque ordine: il ricco ed il povero, il prete ed il laico, il monaco e le monache, non vi parlano d'altro se non del loro gregge; ed i regolamenti in vigore da tempi remotissimi, vengono tuttora religiosamente rispettati. Una così detta morra di pecore, viene formata da 350 capi, posti sotto la cura di un pastore, di un bùttaro che manifattura il formaggio, e di un capolattaio che vien chiamato buttaracchio [...] Gli abitanti di questi borghi vivono in uno stato direi quasi selvaggio, non avendo nessuna comunicazione con i vicini, ed avendo ciascuno un modo di vestire speciale, da parecchi secoli, ed assolutamente differente l'un villaggio dall'altro [...] Per la cura degli armenti di ovini, tutti gli uomini di questa zona vivono sei mesi dell’anno in Puglia, separati dalle mogli, le quali in loro assenza hanno cura del poco grano e dei vegetali necessarii alla propria esistenza. Sappiamo poco o nulla di come avvenissero le comunicazioni tra i pastori e le proprie mogli rimaste a Capracotta. Forse solo ai massari, che avevano qualche privilegio in più dei pastori, era consentito sfruttare un sistema antichissimo per inviare messaggi su lunghe distanze: quello dei piccioni viaggiatori. Messaggi scritti su piccoli rotoli legati a una zampa e trasportati anche da luoghi distanti centinaia di chilometri. Si trattava di colombi allevati in una colombaia di Capracotta. Messi in una piccola gabbia portatile, sarebbero stati trasportati in Puglia da dove, una volta liberati, sarebbero tornati al luogo di provenienza. Possiamo ragionevolmente immaginare che la scena dell'acquerello si riferisse al momento della partenza verso il Tavoliere. Nel mese di settembre. La donna potrebbe essere la moglie di un massaro. Franco Valente
- Amore e gelosia (XXVI)
XXVI – Figlia mia, ma 'o ssaie che songhe già quatte anne che stai appriesse a chist'omme? Te vo bbene, te vo bene, ma 'e te spusà ccà nun se ne parla propete! In una bella mattinata di primavera, sedute al tavolo della cucina, madre e figlia facevano colazione con latte e biscotti, mentre il caffè cominciava a salire nella macchinetta napoletana sul focolare. – Mammà, ti prego, non cominciamo un'altra volta! E tu fai une rallaralla! dici sempe chelle! 'O sacce pure io che sono passati quattro anni, ma Salvatore non è un uomo come gli altri: è un artista famoso, tiene sempre impegni, la musica, il giornalismo, la biblioteca che deve rimettere a posto, e ora poi il teatro... La ragazza assunse un'aria sognante sotto gli occhi della madre che sembrava compatirla, poi riprese: – Ma lo sai che ha scritto un dramma, anzi no, una tragedia bellissima, "Assunta Spina", e già tutta Napoli ne parla? Mi ha fatto leggere qualcosa, mi ha detto che il personaggio gli è stato ispirato anche da me, dalla mia forza, dalla mia decisione e dal mio amore! – Figlia mia – un sospiro attraversò la voce un po' roca della mamma mentre pensava "Ce vo pazienza cu sta uagliottola, chesta fa 'a romantica e chille se la porta a spasso in campana! 'O figlie 'e mappine! se vo tenere 'a bella femmena vicino, ma non se la sposa!". – Figlia mia – riprese, – stamme a sentire; io sono contenta di questo tuo fidanzamento, ma a Nucera, 'ndò paese, sai come dicono? dicono che don Salvatore Di Giacomo alla paesanotta nun se la piglia! Magari se la spassa, ma non se la piglia! Le mie amiche non hanno il coraggio di dirmelo in faccia, ma io li vedo i risolini, le gomitate che si danno... e quanne po' me raccontano delle loro figlie che si sposano, che hanno trovato il partito buono, doppe fanne: "Ah, ma a proposito, e Elisa? quanne se spose? eeeh, ma chille don Salvatore è un artista, al matrimonio non ci pensa!". Un groppo alla gola si era formato alla vecchia signora, che dovette deglutire prima di continuare con voce che si era fatta lacrimevole. – Elisa, figlia mia, tu mi devi dare questa gioia, io ti devo vedere in abito bianco primme 'e chiudere l'uocchie! Falle pure pe tuo padre: non se lo merita tutto questo! – Mammà, ma che pozze fa? io glielo dico continuamente, lui una volta mi dice sì, una volta fa finta di non sentire! Chille 'o prublema è tutto quella strega della madre! nun me pò vede', ma nun pò vede' nisciuna femmena, se vo tenere 'o figlio attaccate alla gonnella! – E allora figlia mia stamme a sentì: tu lo devi mettere a scegliere, a decidere tra te e la madre, altrimenti te lo puoi scordare, meglio che lo lasci! – C'aggia fa', mammà... io gli voglio bene, e anche lui me ne vuole... – Lo devi lasciare! No, aspetta ie fa abberé che lo vuoi lasciare, che tieni un altro che ti vuole... insomma lo devi far soffrire, asinò chiste non si decide mai! Stamme a sentire... Francesco Caso
- Un'altra pandemia sta colpendo l'Italia
Il desertico altopiano di Monteforte (foto: A. Mendozzi). «L'Italia sta scomparendo» diceva il presidente Draghi nella recente conferenza degli "Stati generali della natalità", alla presenza di papa Francesco . Ha affrontato il grave problema della denatalità, Giulio Meotti, sul Foglio del 26 maggio scorso. Il giornalista fa riferimento a un piccolo comune del Molise, Capracotta, ma si potrebbe fare anche con tanti altri centri abitati, soprattutto collinari o montani del nostro Paese. Meotti prende la notizia dal New York Times. In pratica in questo comune la scuola materna è stata trasformata in una casa di cura. «C'erano tante famiglie, tanti bambini, – dice Concetta D'Andrea, 93 anni, che è stata allieva e insegnante della scuola e ora è residente dell’ospizio. – Ora non c'è più nessuno». La popolazione di Capracotta è drammaticamente invecchiata e si è contratta, da 5.000 persone a 800. A circa mezz'ora di distanza, nella città di Agnone, il reparto maternità ha chiuso una decina di anni fa perché aveva meno di cinquecento nascite all'anno, il minimo nazionale per rimanere aperto. Quest'anno, sei bambini sono nati ad Agnone. «Una volta si poteva sentire il pianto dei bambini nella nursery , ed era come una musica – ha detto Enrica Sciullo, un'infermiera che aiutava nelle nascite e che ora si occupa dei pazienti più anziani. – Ora c'è silenzio e una sensazione di vuoto». Sostanzialmente a Capracotta è successo quello che io andavo ripetendo qualche decennio fa agli amici. Forse provocatoriamente dicevo che in questi centri collinari spopolati, non serve più "accendere" amministrazioni comunali, non serve il Comune , occorrono centri geriatrici per le persone anziane rimaste talvolta senza guardia medica . Meotti nel suo interessante servizio, cita un libro di una giornalista, Cal Flyn, "Islands of Abandonment". Sottotitolo: " La vita in un paesaggio postumano". Flyn ha girato mezzo mondo per vedere cosa accade a una società quando la vita umana si ritira e si contrae. Tutto il contrario di quello che sostenevano nel 1968 i biologi Stanford Paul e Anne Ehrlich, paladini della sovrappopolazione e della crisi incombente della nostra epoca. Gente che «prevedeva in maniera infame che milioni di persone sarebbero presto morte di fame nel loro libro bestseller "The Population Bomb" e da allora i brontolii neo malthusiani di imminenti disastri sono stati un continuo ritornello in alcune sezioni del movimento ambientalista, paure che di recente hanno trovato voce nel documentario di David Attenborough "A Life on Our Planet"», spiega Flyn al Foglio. Tutte previsioni rivelatesi false. E dopo Mario Draghi, sul problema denatalità è intervenuto il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, annunciando che «nei prossimi dieci anni avremo un milione e 400 mila ragazzi in meno». Vuol dire che una città come Milano, ma abitata solo da under trenta, svanirà nel nulla. Se mettiamo assieme Roma, Torino, Palermo e Napoli troviamo quello che perderemo entro il 2065 secondo l'Istat: sei milioni di italiani. Se vogliamo sbizzarrirci con i numeri, basta leggere la rivista medica "Lancet" per apprendere come l'Italia si trasformerà in un Paese disabitato. Nel 2100, 30 milioni in meno. La rivista poi fa esempi di altri Paesi nel mondo che dimezzeranno i propri abitanti, anche la Cina. Interessante leggere come descrive il futuro del mondo il libro di Flyn, in particolare quello del Giappone. «Ci sono già troppo poche persone per riempire tutte le case: una casa su otto in Giappone ora è vuota. Chiamano questi edifici vuoti akiya : case fantasma». In Europa, sarà la Spagna a perdere più della metà della popolazione entro il 2100. «Già tre quarti dei comuni spagnoli sono in declino. La pittoresca Galizia e Castilla e León sono tra le regioni più colpite, poiché interi insediamenti si sono gradualmente svuotati dei loro residenti. Più di tremila villaggi fantasma infestano ora le colline, in vari stati di abbandono» . Nel 2016 un rapporto di Legambiente rivelò che anche un terzo dei villaggi e borghi italiani scomparirà a causa del cambiamento demografico. Sembra che la natura si stia riprendendo lo spazio che l'uomo aveva conquistato. Secondo il professore Josè Benayas, professore di Ecologia presso l'Università di Alcalá di Madrid, «le foreste spagnole sono triplicate in superficie dal 1900, espandendosi dall'8 al 25 per cento del territorio man mano che il terreno non viene lavorato. Un orso bruno è stato avvistato in Galizia lo scorso anno per la prima volta in 150 anni». Sostanzialmente la Flyn constata che la popolazione rurale sta invecchiando e quei pochi giovani rimasti si stanno trasferendo nelle città. «È triste, ma ha anche dei vantaggi ecologici. Linci e orsi bruni hanno registrato un aumento della popolazione in tutta l'Europa continentale. In Italia, l'abbandono dei terreni agricoli ha portato a un rapido rimboschimento in alcune regioni: il Molise ha visto aumentare la copertura boschiva del 17 per cento dal 2005; la Sicilia, del 16 e la Basilicata dell'11. Questa trasformazione può essere sorprendentemente rapida». Il libro della Flyn indica il caso dell'Estonia, il Paese baltico, dopo il crollo dell'Urss, è diventato il Paese più boscoso dell'Europa, il 90 per cento della sua foresta si è "rigenerata naturalmente". Ci sono stati almeno dieci milioni di ettari di ricrescita forestale solo nell'Europa orientale e nella Russia europea. Per quanto riguarda il Giappone, «si prevede che un terzo di tutto il patrimonio abitativo sarà vacante entro il 2033 e molte scuole stanno già chiudendo a causa della mancanza di bambini. Nel 1958 c'erano 13,4 milioni di bambini giapponesi nelle scuole elementari, scesi a 6,77 milioni nel 2011, e continua a diminuire. Esistono programmi che offrono gratuitamente case sfitte alle famiglie se sono disposte a trasferirsi in campagna». L'ex Ddr, la Germania dell'Est, sta letteralmente "scomparendo". «Sì, si prevede che molte regioni della Germania orientale perderanno tra il 10 e il 25 per cento della popolazione entro il 2035». Il caso della citta di Hoyerswerda , è emblematico, «a due ore da Dresda, vicino al confine con la Polonia, ha perso la metà della sua popolazione negli ultimi vent'anni. Si tratta di una città fantasma invecchiata. I giovani se ne sono andati. La popolazione da 70 mila è passata a 32 mila. Dei 22 mila appartamenti, settemila sono stati distrutti» . Secondo la Flyn, «Hoyerswerda sembra una città senza scopo, in un angolo di Europa senza futuro» . In questa città si sta avverando quello che prevede la classica piramide della popolazione rovesciata e che assomiglia a un fungo atomico. Che il sogno dei neo malthusiani si sia avverato? Domenico Bonvegna Fonte: https://www.imgpress.it/ , 8 giugno 2021.
- Don Placido Carnevale di Capracotta ed Ernest Hemingway: il sentiero dei destini incrociati
Ernest Hemingway nel letto d'ospedale durante la Grande Guerra. La voce della chiamata alle armi arrivava incontrastata nei più reconditi angoli della penisola italiana. Giunse anche a Capracotta (Isernia). Piccola cittadina posta lungo uno sperone di roccia prospiciente i crinali della Maiella. I fanti capracottesi o, meglio, i «prodi montanari sanniti» (come inscritto sulla lapide murata) che non riabbracciarono più la propria terra furono 65, due in più rispetto all'elenco posto sulla lapide commemorativa: Nicola Colacelli e Francesco Paglione. Rispettivamente: l'uno, deceduto per malattia a Roma il 16-12-1915 all'età di ventisei anni; l'altro, di anni venticinque, sempre per malattia, ad Agnone il 31-5-1917. Entrambi non godettero della "futura memoria". Probabilmente, perché non lasciarono la loro esistenza su un campo di battaglia. Non rientrando nella retorica del tempo, fu un'esclusione imperdonabile. Nessuno però negli anni ha rimediato all'affronto, come se i due fanti non fossero degni di essere ricordati. Eroi silenziosamente entrati nella Storia, loro malgrado, travolti dallo spietato fuoco nemico cui andarono incontro dietro l'impietoso ordine dei comandanti dopo essersi fatti il segno di croce, rivolto il pensiero ai cari lasciati nell'ansia, sollevato poi lo sguardo al cielo, ultimo conforto prima d’imboccare il destino, di perdere ogni pensiero e svanire tra i densi fumi della polvere da sparo e della nebbia. Con tutta ragionevolezza le altisonanti parole di gloria, patria , coraggio , onore , viltà , vittoria riempirono soltanto le bocche di chi programmò gli assurdi assalti alla baionetta o di chi fu chiamato a celebrare i riti commemorativi su palchi imbandierati dal tricolore al vento, tra fanfare di bersaglieri o bande ad eseguire l'inno di quella sciagurata guerra: la "Canzone del Piave". Parole che nel personale dizionario dei montanari e pastori e contadini capracottesi, come della stragrande maggioranza dei combattenti che poterono ascoltarle, suonavano quanto moneta falsa. Il critico letterario americano, Leslie A. Fiedler, scrisse: «I concetti di gloria, onore e coraggio, perdono ogni significato quando l'uomo occidentale, nominalmente ancora cristiano, giunge alla conclusione che la cosa peggiore che possa capitargli è morire». E, aggiungiamo noi, morire in guerra. Paure, dolori, speranze di sopravvivenza, malinconie attraversavano le menti e i cuori dei fanti. C'era tra loro chi raccoglieva quei moti d'animo, cercando di mitigarli col conforto della parola o dell'ascolto nello spazio di una confessione. Chi meglio di chiunque altro se non un cappellano militare? Tra i tanti a prodigarsi, ce ne fu uno, proprio nativo di Capracotta, che entrò accidentalmente nei ricordi del grande scrittore americano Ernest Hemingway. Vi entrò attraverso la porta del romanzo. Un romanzo sullo «sporco delitto che è la guerra». È un'affermazione di Hemingway. Stiamo parlando di "Addio alle armi" (1929) che lo scrittore volle collocare al tempo della tragedia di Caporetto. Un palcoscenico sulle cui "traballanti" tavole si muoveranno uomini e donne che nulla concedono alla fantasia, bensì personaggi in carne ed ossa che percorreranno l'intricato farsi della vita sul labile confine di goderla fino in fondo o di doverla abbandonare al di qua in un umido giorno rischiarato dai lampi degli shrapnel o su un letto d'ospedale. Tra i personaggi cari a Hemingway, in quella sorta di "Guerra e pace", la figura meglio conservata gelosamente nel tempo è l'esile cappellano, il sacerdote che «era giovane e arrossiva facilmente», quando i militari nei loro modi guasconeschi e irriverenti - bicchiere in mano - gli si rivolgevano tirandolo per la tonaca , ovvero l'uniforme «con una croce di velluto rosso sul taschino del grigioverde», in discussioni che chiamavano in ballo ragazze o che lo stuzzicavano su questioni religiose. Il giovane stava allo scherzo e sorrideva. Mentre Frederick Henry, il protagonista del romanzo, assisteva a quelle scene goliardiche e, guardandolo, pareva che dicesse: «Li perdoni padre, non dia loro retta. Non sanno quel che dicono». Il cappellano, nella realtà padre Placido da Capracotta (dei Frati Minori Cappuccini, al secolo D'Onofrio Rodolfo di Costantino e di Bambina Carnevale, nato a Capracotta il 28 marzo 1882 e morto a Roma il 22 aprile 1938), invitava Frederick a recarsi in visita negli Abruzzi. Sarebbe stato ospite della sua famiglia, dirà: «Le piacerà la gente, e il clima benché freddo è sereno e asciutto... Mio padre è un gran cacciatore». Come del resto lo era Hemingway. Tuttavia il tenente americano F. Henry, aggregato all'esercito italiano della II Armata nei servizi sanitari, sebbene fosse stato in giro per l'Italia in licenza da Milano a Napoli, non farà visita agli Abruzzi. Eppure aveva desiderato andarvi: «Laggiù dove le strade sono gelate e dure come il ferro e il freddo è limpido e secco, la neve asciutta come polvere, e tracce di lepre solcano la neve e i contadini levandosi il cappello vi chiamano Signoria, e la caccia è eccellente». Al termine della licenza, i due s'incontrarono di nuovo. «Quella sera, a mensa, mi sedetti accanto al cappellano, e rimase un po' offeso perché non ero stato negli Abruzzi. Aveva annunciato la mia visita ai genitori». Da altro era stato preso Henry/Hemingway. Dalle sale piene di fumo dei caffè o estraniato nei fumi dell'alcol o con ragazze di "passaggio" a Milano a Firenze a Napoli a Taormina... Proseguirono le conversazioni tra i due. Amabili, pacate, condivise da gusti comuni. Intanto, fuori, la guerra seminava dolore e morte. Le trincee s'intridevano d’acqua e il fango stringeva le caviglie dei soldati quanto l'angoscia i loro cuori. Gli ospedaletti da campo si riempivano di feriti. Giungevano a decine. Lo stesso Henry venne ferito gravemente ad una gamba a causa dello scoppio di un proiettile di mortaio nemico. Padre Placido gli fece visita. Aveva una pesante stanchezza sul viso, lo ricorda Henry. Gli portò dei doni: una bottiglia di vermut e dei giornali inglesi fatti venire da Mestre, tra cui "The News of the World". Il cappellano era davvero stanco. L'"odio della guerra" gravava sul suo animo sensibile. Un'unica speranza gli accomunava, nella triste stanza d'ospedale, e se lo confessarono a vicenda: che quella maledetta guerra finisse al più presto. Così che l'uno riprendesse la via dell'America e l'altro i suoi amati Abruzzi «nell'amore di Dio e al suo servizio». Nel suo paese, aggiunse il sacerdote, inerbendo le parole: «Non trattano la religione, come una commedia». A Capracotta, aveva raccontato il cappellano, il fiume a valle guizzava di trote. Gli aveva riferito anche che là era proibito suonare il flauto «quando i giovani la notte fanno le serenate.» Il flauto era pericoloso per le ragazze. Poi, nel buio della corsia, Henry si era adagiato con la memoria sulle indicazioni del sacerdote che gli aveva descritto la sua terra: «Ci sono gli orsi sul Gran Sasso d'Italia ma è lontano. L'Aquila è molto bella. Le notti sono fresche d'estate, e non c'è primavera più splendida in Italia. Ma ancor più meraviglioso è d'autunno andare a caccia nei boschi di castagni»... Sul ricordo che pian piano svaniva, infine, Henry si addormentò. In certi momenti, non c'era altro cui tendere il pensiero se non verso la speranza. Rappresentava l'unico conforto al pari dell'amore in Dio. Henry però non aveva il dono della fede. Il cappellano non si perdeva d'animo. Fiducioso, una volta gli disse che prima o dopo l’avrebbe trovata e sarebbe stato felice. Si giunse agli infernali giorni del San Gabriele. Il 4 settembre la II Armata italiana, proprio quella cui apparteneva Frederick Henry, iniziava l'attacco intorno alle alture che cingono Gorizia. L'11.ma Divisione del VI Corpo dava quindi la scalata alle pendici del monte San Gabriele, raggiungendo la linea tra le quote 552 e 646, catturando quasi 200 austriaci. La vetta tuttavia fu tenuta dagli italiani per soli due giorni, giacché durante la notte del 6 settembre 1917 si accese la controffensiva del feldmaresciallo austroungarico Svetozar Borojević von Bojna, che spinse gli italiani a ritirarsi. Nei giorni successivi, fino al 10 settembre 1917, il San Gabriele fu teatro di una lotta incessante e sanguinosa. Il Comando della II Armata ritenne di battere la resistenza dei difensori del San Gabriele con un prolungato bombardamento. Furono costretti, però, a rinunciare dopo pochi giorni a causa dell'esorbitante impiego di munizioni. Ma anche perché gli austriaci erano in grado di resistere poiché protetti dalle inespugnabili caverne in cui si erano rifugiati. I giorni continuarono a scorrere tra gli affari di cuore di Henry e la guerra che imperversava tutt'attorno. Il cappellano e il tenente si rividero un'ultima volta sul finire dell'estate 1918, nella penombra della sera. Erano entrambi provati del continuo altalenante ribaltamento dei fronti: ora in mano agli italiani ora agli austroungarici. Sembrava un'interminabile guerra che dovesse concludersi per sfinimento delle parti. Nelle loro conversazioni si annidava un senso di sconfitta, non tanto per le sorti della guerra in sé, piuttosto nell'assenza di futuro, come se i pensieri si fossero arresi al presente incerto: senza luci, senza orizzonte. In quella penombra si salutarono. Si lasciarono quasi avvolti da una bolla di sfiducia col solo bagliore dell'illusione di rivedersi ancora. Il cappellano si accomiatò, appoggiando una mano fraterna sulla spalla di Henry. Alfredo Fiorani Fonte: https://www.altosannio.it/ , 10 novembre 2017.
- Un tasso su Monte Civetta a Capracotta
Lungo la cresta di Monte Civetta, a quota 1.676 m.sl.m., si vedono le foglie giallo-rosse dei faggi. Sparsi altri colori quelli verdi degli aghi dei tassi, che non sono animali, ma piante chiamate "alberi della morte", perché contengono degli alcaloidi velenosi. Nella faggeta di Monte Civetta, in aree rocciose dove le piante rimangono spesso piccole e contorte, emerge un tasso di altezza di circa 8-10 metri. Grazie all'amico Michele abbiamo scoperto questa pianta di grandi dimensioni, forme e portamento. Pur avendo diversi tronchi esso appare unico, con una chioma molto ampia. I sui aghi di colore verde scuro toccano a quasi a terra. Impressionante la sua capacità di "resistenza" nel vivere in un ambiente difficile. Del resto il suo legno è molto duro, usato in passato per costruire gli archi. Gli uccelli fanno il loro lavoro per diffondere questa pianta. Mangiando gli arilli, che non sono proprio dei frutti, rilasciano i semi. Questi semi possono rimanere molto tempo nel terreno prima di germinare, poi la pianta cresce molto lentamente. Come spesso accade le foto non sempre rendono l'idea della sua grandezza. Non sapremo mai la sua età. Andrea Di Girolamo Fonte: https://www.molisealberi.com/ , 31 ottobre 2021.
- I paesi più elevati dell'Appennino
Cartolina di Capracotta (1905). Nelle Alpi l'uomo si arrampica e si insedia, in qualche caso, fin sopra i 2.000 m. Si cita, come il villaggio abitato tutto l'anno, più alto di tutta la zona alpina, quello di Juf nei Grigioni, che spinge le sue case fino a 2.135 m.; ma anche nel versante italiano della catena alpina vi sono piccoli villaggi che si avvicinano assai a quell'altitudine: il più elevato è forse Trepalle, una frazione di Livigno (prov. di Sondrio), che arriva a 2.070 m., lasciando indietro, ma appena di qualche decina di metri, i più alti gruppi di case della Valtournanche e di qualche altra valle laterale della Val di Aosta. Nell'Appennino le abitazioni permanenti sono ben lontane dal raggiungere simili altezze: sono rari i casi di paesi che superino i 1.400 m.; come il paese più elevato di tutta la lunga catena, si ricorda anzi spesso Capracotta nel Molise, che raggiunge 1.420 m. E il grazioso, pittoresco paesetto che si aderge tra il M. Capraro (1.721 m.) e il M. Campo (1.645 m.), le due più alte vette del pianalto di Carovilli, su una collina precipitante a NO verso la valle del Sangro, ha tratto partito di quel primato ed è venuto giustamente in fama come soggiorno estivo: un buon albergo - caso rarissimo nel Molise, più ancora che in Abruzzo - vi ospita i forestieri che non si peritano di salire il fresco pianalto, uno dei più belli del Sannio. Ma di Capracotta e dei suoi dintorni mi propongo di scrivere un'altra volta: il paese ha infatti molteplici attrattive, sì che può rinunziare anche volentieri al primato dell'altitudine. Invero per questo riguardo essa è, o meglio era (i lettori vedranno subito la ragione di questo imperfetto) superata da altri due paesi, Gioia Vecchia nell'Abruzzo vero e proprio, e il Castelluccio di Norcia in un riposto cantone dell'Umbria. Gioia Vecchia sorgeva sul valico che dal bacino del Fùcino mena nell'alta valle del Sangro, a 1.433 m., lungo una strada che fu certo frequentata sin dall'età antica, quando la regione faceva parte del territorio dei Marsi; e questi, che avevano appunto per centro il Fùcino, ebbero probabilmente una qualche fortezza - o forse un santuario - non lontano da Gioia, forse nella regione ora detta Temple; il valico assicurava infatti per loro il dominio dell'alta Val Sangro, che loro apparteneva fino alla gola di Opi, ove, al posto del villaggio attuale di Opi, doveva sorgere pure un castello marso. Certo Gioia Vecchia era abitata nell'alto medio Evo, perché vien ricordata, con la sua chiesa maggiore, Santa Maria, già in documenti del secolo XII. E in quei secoli oscuri ed assai torbidi per l'Italia centrale, il villaggio di Gioia Vecchia aveva probabilmente parecchi compagni in Abruzzo, annidati su cocuzzoli ripidi, in vista alle valli, per ragion di difesa. Più tardi, molti di quei villaggi furono abbandonati e caddero in rovina; Gioia invece rimase in piedi, ma una parte dei suoi abitanti scese al piano e diè origine a Manaforno, poi detta Gioia Nuova o Gioia de' Marsi, all'angolo sud-ovest del Fùcino. Si vuole che occasione alla prima migrazione fosse il saccheggio dato al paese da Marco Sciarra nel 1592. Certo molto più tardi una nuova discesa in massa degli abitanti si ebbe nel 1807 in seguito ad un altro feroce episodio di brigantaggio; e da allora, mentre la Nuova Gioia, al basso, in riva al lago, si faceva sempre più popolosa, la vecchia borgata decadeva ognora più e vedeva diminuire il numero dei suoi abitanti, ridotti ormai a pochi pastori tenacemente avvinti al luogo natio. Negli ultimi decenni tuttavia, dopo il prosciugamento del Fùcino, essendosi la Nuova Gioia arricchita notevolmente per lo sviluppo dell'agricoltura, anche la vecchia si era assai avvantaggiata, avviandosi a divenire quasi un soggiorno estivo per gli abitanti della conca del Fùcino non più ravvivata dalle acque del lago. Le vetuste case di Gioia Vecchia eran state restaurate, anzi intorno alla chiesa madre, elegante nella sua architettura seicentesca, si affollava un gruppo di edifici che potevano quasi dirsi palazzi: il paese appariva bianco, lindo, gaio, nella chiostra severa dei monti brulli, al viaggiatore che faticosamente risaliva dal Fùcino la bella strada sangritana distesa in innumeri risvolti; si restava quasi maravigliati di trovare a tanta altezza una borgata di così bell'aspetto, quasi pretenziosa. Sopravvenne il terremoto marsicano del dicembre 1915 e della povera Gioia Vecchia, come della più recente Gioia de' Marsi sul Fùcino, non rimase che un ammasso quasi irriconoscibile di macerie. Ora la Gioia bassa risorge e vede già allinearsi in lunghe serie parallele le sue casette asismiche; Gioia Vecchia ospita ancora fra le sue rovine qualche famiglia nei mesi estivi, ma d'inverno non è più abitata se non occasionalmente: come villaggio permanente credo non risorgerà più. Il primato per altitudine fra tutti i paesi dell'Italia appenninica spetta oggi al Castelluccio di Norcia, il quale del resto, con le sue case più elevate, superava già di una ventina di metri (e anche venti metri contano in questi record di altezza!) Gioia Vecchia, di oltre trenta Capracotta: la sommità del cocuzzolo ove è appollaiato il Castelluccio raggiunge infatti 1.453 metri. Singolare villaggio questo, perduto nel cuore di uno dei più aspri ed elevati massicci del nostro Appennino, i Sibillini, a tre ore di faticosa strada mulattiera da Norcia, del quale è frazione, a quattro buone ore di cavallo da Arquata del Tronto, il paese più vicino dell'opposto versante adriatico. Chi risalga da Norcia, raggiunta la Madonna delle Grazie, donde lo sguardo spazia sul Piano di Santa Scolastica, brulicante di case e di villaggi, deve superare la dorsale dei M. Velica (1.714 m.) e Ventosola (1.719 m.), che si leva ripida e brulla ad oriente di quel piano. Su di essa serpeggia la magnifica strada rotabile da Norcia ad Arquata, ma la mulattiera pel Castelluccio l'abbandona presto per inerpicarsi verso il Ventosola, ad ovest del quale una selletta permette di scendere al Piano Grande. Il Piano Grande, al quale il Castelluccio deve in sostanza la sua esistenza, uno dei più tipici piani carsici dell'Umbria: lungo, da nord a sud, circa 6 km., largo tre o quattro, alto 1.270-1.300 m., si apre tra la dorsale anzidetta e la principale catena dei Sibillini; interamente chiuso e perciò senza sfogo esterno, in lievissimo declivio da nord a sud, coperto di una coltre alluvionale, smaltisce le acque di pioggia e quelle di fusione delle nevi per mezzo di inghiottitori (sei ne ho visti io due anni or sono) aperti verso l'angolo sud-ovest; nel più grande di essi si perde il fosso detto i Mergari che traversa il piano. Si ritiene - e non è inverosimile - che le acque infiltrantisi nel sottosuolo per mezzo di questi inghiottitori vadano ad alimentare alcune sorgenti sul fianco NE del sottoposto Piano di Santa Scolastica, una delle quali è nota per il suo regime irregolarissimo. Il piano del Castelluccio è in parte messo a fieno, ma sui fianchi, dove comincia il pendìo ospita anche campi di grano e di orzo, che si arrampicano arditamente fino a 1.450 metri! Falciato il fieno al principio dell'estate, serve poi di pascolo a diecine di migliaia di pecore provenienti in gran parte dall'Agro Romano, ed anche a stuoli di cavalli e buoi. Veduto dall'alto il piano è magnifico: il suo fondo livellato, verdissimo, appena interrotto dai punti bianchi di quattro o cinque edifici, e dalle più numerose macchie semoventi delle mandre di pecore, contrasta singolarmente con la dorsale nuda, selvaggia dei Sibillini che si leva ripida, quasi sempre chiazzata di neve anche nell'estate, culminando in fondo nel Vettore arcigno e intollerante, che ha fatto spazzare dal suo inseparabile ospite, il vento, fin la robusta, colossale croce, eretta sulla cima dalla pietà dei fedeli! A nord, un cucuzzolo, alto 150 metri sul Piano Grande divide questo dal più piccolo Piano Perduto, celebre per la feroce mischia combattutavisi nel 1522 fra quei di Norcia e i confinanti di Visso, divisi per divergenze di confini; sul cocuzzolo si aderge il Castelluccio, con le sue case addossate, serrate, come per difendersi tutte insieme dal più temibile nemico: la neve. I tetti fortemente inclinati, a largo spiovente, le finestre altissime dal suolo e inverosimilmente piccole, come tanti buchi nelle mura robuste e spesse, ci attestano la preoccupazione principale degli abitanti. E sono circa cinquecento gli abitatori di questo nido montano, che vanta anche una tradizione storica assai antica, come erede di quel fosco Castel de' Sennari, covo di genti randagie e di briganti, che i Nursini distrussero nel 1528. Ma i tranquilli ed ospitali contadini e pastori d'oggi non ricordano le vecchie storie dei tempi andati, quando i Sibillini, circondati di paurose leggende, tenuti quasi fuori del consorzio umano, vedevano i loro gianchi arrossarsi per stragi fratricide fra gli abitanti dei villaggi posti tutto in giro alle falde. Un tempo il Castelluccio era solo un villaggio estivo: d'inverno gli abitanti scendevano tutti a Norcia, dove occupavano, a quanto si dice, il quartiere più alto, detto Capo la Terra ; ma da oltre un secolo questa abitudine è abbandonata anche negli inverni più rigorosi. Moltissimi emigrano bensì coi loro greggi di pecore nella Campagna Romana, ma i pochi che restano - e tra questi l'elemento femminile predomina - sfidano l'isolamento quasi assoluto che la neve crea tutto intorno a loro. Il Castelluccio ha appena tre o quattro mesi di vita. Non di rado sul tardo agosto o al più ai primi di settembre cominciano le nevicate, e il mantello invernale non lascia il paese per sette, talora otto mesi: la neve si accumula altissima, in modo da precludere ogni accesso; gli abitanti sono obbligati perfino a scavare tra casa e casa dei passaggi coperti per poter comunicare fra di loro. Il Piano Grande, sul quale stagnano anche sovente fitte brume è spesso intransitabile, al punto che in passato e talvolta ancora adesso si facevano suonare continuamente, nei giorni più fosci, le campane dell'unica chiesa, affinché qualche viandante sperduto potesse, dietro la guida del suono, trovare scampo in paese. La posta non arriva da Norcia per più settimane, anche per un mese, ogni comunicazione col resto del mondo è interrotta. Il paese più alto dell'Appennino è un'oasi solitaria in mezzo a un invalicabile deserto bianco. Roberto Almagià Fonte: R. Almagià, I paesi più elevati dell'Appennino , in «Le Vie d'Italia», XXVII:7, Touring Club Italiano, Roma, luglio 1921.
- Jurico e «uno di Capracotta che pasturava al Iacci di Murella»
Cesidio Gentile (1847-1914). Cesidio Gentile è considerato il più noto tra i poeti pastori della storia della transumanza, anche se in realtà non era un semplice pastore, bensì un massaro. Nativo di Pescasseroli, Gentile è anche conosciuto col soprannome di Jurico , che in dialetto pescasserolese significa "cerusico": il nomignolo è infatti legato al fatto che suo nonno, anch'egli pastore, serbava conoscenze rudimentali di medicina, o perlomeno di fitoterapia, come si dice nell'odierna scienza farmacologica. Cesidio Gentile imparò a leggere e scrivere in completa autonomia, senza l'ausilio di alcuna scuola. Il suo italiano era infatti dialettale, tanto nel parlato come nello scritto, era un idioma tratturale, un esperanto comprensibile a tutti coloro che attraversavano gli Abruzzi per le Puglie e viceversa. Tutti i pastori dell'antica società transumante, anche quelli di Capracotta, portavano con sé libri e manuali. Nelle loro capanne mobili leggevano, raccontavano, tramandavano poesie, canzoni e leggende, si istruivano, facevano di conto e memorizzavano il cosiddetto rutìlie , le soluzioni biodinamiche dell'astronomo Rutilio Benincasa (1555-1626) che qualcuno - chissà chi - aveva impresso su carta e che ancor oggi rendono mitica l'aura di tanti pastori e contadini nostrali: uomini-pecora, stregoni chirurghi, gente che aveva compreso a fondo il valore ultimo della vita, quello della naturalità. Il fatto che un pastore come Jurico poetasse non deve quindi stupire. Anche Giacomo Leopardi, nel "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia", aveva riportato gli strali esistenzialisti d'un pecoraio che, sotto una grande luna opalina, diceva: Forse s'avess'io l'ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale. Il mestiere del pastore era certamente duro, durissimo, ma dilatava a dismisura lo spazio ed il tempo. Su prati sconfinati sotto cieli stellati in giornate interminabili il pastore, per definizione solingo di fronte all'affollato bestiame non pensante, s'abbandonava a struggenti riflessioni filosofiche, raggiungeva una trascendenza verticale ch'è possibile toccare solo in uno stato avanzato dell'io. Si pensi al "Canto del servo pastore" di Fabrizio De André, in cui il protagonista, un pecoraio, per di più orfano, che ha ormai preso le sembianze della natura circostante, con dolcezza senza pari, letteralmente, prega: Mio padre un falco, mia madre un pagliaio, stanno sulla collina, i loro occhi senza fondo seguono la mia luna. Notte, notte, notte sola, sola come il mio fuoco, piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco. A Capracotta il più celebre poeta pastore è stato forse Luigi Ianiro, il quale compose tante poesie - la maggior parte oggi introvabili - tra cui la seguente, semplicissima nella struttura e nel tema, ma sicuramente emblematica dell'istruzione raggiunta da un umile conduttore di greggi: Bella è la mia montagna, sacra la mia foresta, dove la mia compagna a sospirarmi resta, dove abita la bimba mia, la sera e la diman prega, innocente e pia, prega per me lontan. Ritornando alla figura di Cesidio Gentile, va detto che egli fu autore di una curiosissima "Leggenda marsicana", stampata «a spese d'un amico mecenate», e di migliaia d'altri versi che nel 2005 Domenico Padalino ha sapientemente raccolto in un volume di poesie "non sperse". Ma Jurico deve la propria fama anche al compaesano Benedetto Croce (1866-1952), che nella "Storia del Regno di Napoli" dedicò un'ampia sezione al poeta pastore di Pescasseroli. Tra le tante opere compendiate dal Padalino, ho rinvenuto la «Seringha pastorala», composta «l'anno 1897 [...] sotto l'ombra del faggio»: si tratta di una raccolta di versi costituita da un'introduzione, un lungo poemetto, due lamenti e una serie «di [rime] ottave, terzine, quartine e sciolte». A noi interessa il poemetto, intitolato "Il corno di Zapponeta", in cui Gentile ha immaginato «un colloquio che fanno tre pastori al ponte di Rivolo vicino a Zapponeta», in Puglia. I tre pecorai si chiamano Gerardo, Giacomino (o Iachitto) e Domenico (o Mingo), e provengono rispettivamente da Scanno, Lecce dei Marsi e Pescasseroli. Ognuno dei tre non fa che decantare il proprio paese natio: l'autore avverte che «l'antagonista è lo scanneso», Giacomino «loda molto il monte Meta dove lui pastorava» e Domenico «si contenta di commattere con l'orso». Nella 33ª strofa de "Il corno di Zapponeta" Jurico fa dire a Giacomo: Ma la comodità di Cavallaro crede che non esiste alla Maiella. Uno di Capracotta ebi a condaro che pasturava al Iacci di Murella. Solo di ghiacci si poteva saziaro e ogni giorno si perdia un agnella. Ce la rapiva uno arpiono fiero e lui doveva staro sembro in pensiero. Il cippo funerario di Jurico. In quest'ottava a parlare è Giacomo, che riporta quanto riferito da un collega di Roccaraso, ossia che il pascolo di Cavallari ( Cavallaro ), oggi frazione di Pizzoli, non è confrontabile con quelli della Maiella, anche se uno di Capracotta ebbe a raccontare ( ebi a condaro ) che pascolava ( pasturava ) allo Iaccio delle Murelle, dove soltanto di ghiacci poteva saziarsi ( saziaro ) e dove perdeva ( si perdia ) ogni giorno un agnello; a rubarglielo era un'aquila reale ( uno arpiono fiero ), per cui stava sempre ( sembro ) in pensiero. Giacomo si chiedeva allora se quel pastore di Roccaraso, che tanto decantava i pascoli della Maiella, non gli avesse detto una bugia. È impossibile dire chi fosse il pastore di Capracotta che pascolava sui nevai dell'Anfiteatro delle Murelle, forse si tratta soltanto di un'invenzione poetica di Cesidio Gentile. Sicuramente i nostri pastori affollavano d'estate i pascoli più alti delle montagne abruzzesi perché quelli "comodi" a valle se li prendevano gli autoctoni. Il 26 ottobre 1914 Jurico morì in Molise, a Civitanova del Sannio, a seguito di una caduta da cavallo. Sul luogo del suo incidente l'amministrazione comunale ha piantato un cippo. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: O. Conti, Folklorica pastorale capracottese , De Gaglia e Nebbia, Campobasso 1910; B. Croce, Storia del Regno di Napoli , Laterza, Bari 1972; C. Gentile, Leggenda marsicana , Tip. Lunense, Sarzana 1904; C. Gentile, Raccolta delle poesie "non sperse" , a cura di D. Padalino, Foggia 2005; M. Gioielli, Cesidio Gentile, il pastore-poeta , in «Molise Extra», XVIII:9, Isernia, 12 marzo 2011; G. Leopardi, Canti , a cura di A. Donati, Laterza, Bari 1917; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , voll. I e II, Youcanprint, Tricase 2016-2017; Officio di Statistica Provinciale, Quale fu, qual'è, quale potrebbe essere la Provincia del 2° Abruzzo Ulteriore , Grossi, L'Aquila 1875; E. Silvestrini, Pastori e scrittura , in «La Ricerca Folklorica», III:5, Brescia, aprile 1982; A. M. Socciarelli, Gli aspetti antropologici nell'opera di "Jurico" , in G. Tarquinio (a cura di), La vita e le opere di Cesidio Gentile detto "Jurico", poeta-pastore di Pescasseroli (1847-1914) , Kirke, Avezzano 2015.
- Capracotta, gli antichi sapori pastorali della pezzata
Nella splendida cornice appenninica di Capracotta, in provincia di Isernia, è possibile gustare gli antichi sapori della tradizione pastorale rimasti immutati nel tempo. Uno dei più rappresentativi è quello della pezzata, una gustosa pietanza a base di carne di pecora legata alla pratica della transumanza delle greggi. Le antiche tradizioni pastorali molisane rivivono in una ricetta dai sapori antichi fortemente legata ai pascoli montani della regione, ed in particolare della zona Capracotta. Si tratta della pezzata, una pietanza a base di carne di pecora bollita tanto sostanziosa quanto semplice. Le sue origini sono legate alla pratica della transumanza e all'usanza di utilizzare la carne degli animali che non sopravvivevano al trasferimento dai pascoli in pianura a quelli in quota, come cena dei pastori che, una volta "depezzata", la cuocevano a lungo con i pochi ingredienti che avevano a disposizione durante il viaggio. I sapori genuini di questa ricetta carica di tradizione rappresentano ancora oggi uno dei simboli della cucina regionale che, non a caso, la celebra con una grande sagra annuale. A testimonianza del forte legame con il territorio e la cultura locali, la Pezzata è stata inserita nell'elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) del Molise. La pezzata è una pietanza a base di carne di pecora cotta a lungo in paioli pieni di acqua nel quale vengono aggiunte delle patate, qualche pomodoro e, talvolta, anche altre verdure ed aromi per arricchire di sapore e di profumo questo piatto nato come pasto "d'emergenza" e trasformatosi in una vera e propria prelibatezza. La Pezzata viene preparata, oggi come un tempo, seguendo la ricetta dei pastori. Il segreto del suo successo è il sapore delizioso della carne conferito dall'alimentazione a base di erbe dei pascoli montani che, pur essendo meno vasti di quelli in pianura, garantiscono un maggiore apporto di nutrienti. Il pascolo in altura apporta benefici anche alla consistenza della carne che, grazie alle lunghe camminate che affrontano le pecore in montagna, risulta più soda. Per celebrare questa ricetta così legata alla tradizione locale, l'Amministrazione Comunale di Capracotta, all'inizio degli anni '60, ha deciso di dedicarle una sagra che, sebbene con qualche sporadica interruzione, ha superato le 40 edizioni. Si celebra ogni anno la prima dimenica di agosto e richiama migliaia di visitatori che hanno l'opportunità di gustare i piatti tipici molisani, tea cui, appunto, la Pezzata e la carne di agnello alla brace, ricevendo per ricordo una forchetta di legno, una ciotola ed un bicchiere di terracotta. Chi desidera preparare la pezzata seguendo l'antica ricetta dei pastori potrà semplicemente arricchirla aggiungendo soltanto delle patate e dei pomodori. Nel corso del tempo, però, la ricetta è stata anche oggetto di alcune piccole reinterpretazioni, mai invasiva, che l'hanno resa ancor più sfiziosa mediante l'aggiunta di ulteriori ingredienti come sedano, carote, cipolle e un pizzico di peperoncino. La carne viene cotta in grandi paioli riempiti d'acqua. La prima operazione da compiere è la "schiumatura", ovvero l'eliminazione del grasso in eccesso venuto a galla a seguito della cottura, dopodiché, oltre al sale, si aggiunge qualche patata (anche con la buccia) che continua ad assorbire il grasso rilasciato durante la lunga cottura (almeno 4 ore) e qualche pomodoro per dare colore al brodo senza renderlo, però, troppo rosso. Eleonora Autilio Fonte: https://www.turismo.it/ , 4 aprile 2019.
- Amore e gelosia (XXV)
XXV Il cavalluccio che tirava la carrozza scalpitava per le strade sconnesse e il vetturino lo incitava facendogli sentire lo schiocco della frusta sulle orecchie. Don Salvatore gli aveva chiesto di fare presto: – Stu cavallucce sape trutta'? E famme vede', puorteme ampresse ampresse abbasce San Giuvanne, po' te regale mezza lira! E alla fine, tra "aaah!!!" per lanciarlo e "iiih!!!" per frenarlo nelle curve, la povera bestia tutta sudata, con la schiuma alla bocca, giunse ai piedi della bella scalinata di San Giovanni in Parco. Ed era quasi ora: un altro poco e l'animale sarebbe stramazzato a terra tanto trafannava! Il poeta, che in quel momento tutto sembrava tranne un poeta, piuttosto un ossesso, scese precipitosamente, letteralmente lanciò una lira intera al vetturino che avrebbe voluto ringraziare per tanta generosità, ma non ebbe il tempo: come un imberbe giovanotto di meno di 20 anni, don Salvatore affrontò il terribile scalone di petto, facendo gli scalini a due e a tre per volta. Una terribile smania lo aveva preso: era sicuro, arcisicuro che la sua bella Elisa non fosse, come aveva detto la madre, a casa della zia. "Quella se n'è uscita c' 'a cugina, chellate che manche ce pare, e cu nu pare e cafuncielle 'e Nucere! E mó chiossà che stanne facenne! Ah, ma si l'acchiappe!". In men che non si dica si trovò davanti alla porta della zia di Elisa, bussò e dovette attendere qualche minuto. Un suono di pianoforte, lento, dolce, si spandeva nell'aria, sembrava provenisse proprio da quella casa... Non ebbe il tempo di approfondire: – Chi è? – Chiese una voce femminile. La voce di Elisa! Allora era a casa, non era uscita! E mó che figura avrebbe fatto, che cosa avrebbe potuto dire? – Sono io, Salvatore... La porta si aprì e la bella figura della sua innamorata si incorniciò sulla soglia, illuminata fiocamente da un lume su un mobile nell’atrio. – Salvatore! Tu qui! Che gioia, come sono contenta, mi hai fatto una sorpresa, grazie! Ma entra, entra... Zia! C'è don Salvatore, il mio fidanzato! Il poeta entrò seguendo Elisa che lo aveva preso per una mano e lo conduceva con lei, e lui la seguiva docilmente. In quel momento era la sua dea, la sua Madonna la sua... Tutto! Un vocio e il suono del pianoforte provenivano dal salotto: i due entrarono e... sul divano sedevano la zia e la figlia; su due poltrone occupavano il posto due giovanotti elegantemente vestiti e al pianoforte la figlia minore, la cuginetta più piccola si esibiva, e all'apparire di Salvatore Di Giacomo pensò bene di cambiare musica e cominciò a strimpellare "Marechiaro", proprio la sua canzone che lui più odiava! La gioia di qualche istante prima si tramutò in astio. – Buonasera – disse freddamente, guardando in tralice la sua Elisa, che capì subito. – Giacomo, ti posso presentare questi due giovanotti? Quello è Alessandro, il fidanzato di Maria mia cugina, e il più piccolo invece è un altro nostro cugino, figlio di una sorella di mammà, Ernesto... La ragazza prese un attimo di pausa e poi con orgoglio disse: – Ragazzi, questo signore è il mio fidanzato, don Salvatore Di Giacomo, il grande... Non riuscì a continuare: i due giovani scattarono dalle poltrone e con ardore e venerazione si accostarono a quell'uomo tanto famoso. – Don Salvatore Di Giacomo! Che onore, e che gioia conoscervi! Parlavano all'unisono, e la loro ammirazione piacque tanto al poeta che si rasserenò. Tutto a posto, il mondo non era crollato e la sua Elisa amava ancora solo lui. Per il momento... Francesco Caso
- Gli antefatti storici dell'inimicizia tra Agnone e Capracotta
Per motivare la ragion d'essere dei documenti che presenteremo di seguito sarà utile, anzi necessario, risalire a quei fatti quotidiani che poi fanno la storia di ogni popolo. Di certo, dobbiamo ricordare che i capracottesi, data la posizione geografica del proprio paese, nel tempo hanno avuto sempre una certa inclinazione a scendere dai propri monti e a trovare una posizione più congrua e dignitosa per il proprio vivere. Tante negli anni passati furono le famiglie quasi al completo che si trasferirono ad Agnone, o che, pur vivendo ancora a Capracotta, ebbero contatti quasi quotidiani con la realtà agnonese per motivi economici, commerciali e lavorativi. Quale fu l'accoglienza degli agnonesi? I documenti e le testimonianze che riportiamo in queste pagine serviranno a dimostrare quali realmente furono le relazioni tra le due comunità. Pur avendo a che fare con due popoli volenterosi e ben preparati nelle proprie attività di lavoro e di iniziativa, spesso si notano delle vere e proprie inimicizie e polemiche tra le varie famiglie e i vari casati. Tutto ciò che abbiamo qui evidenziato o appena accennato viene messo in rilievo nei vari documenti che abbiamo cercato di rilevare nel tempo più o meno lungo in cui le popolazioni agnonese e capracottese hanno avuto modo di frequentarsi, incontrarsi e, perché no, tante volte ritrovarsi a collaborare per cercare insieme un miglior modo per il vivere delle singole famiglie e delle due comunità. Fin dal XVI secolo, la diversa altitudine, le caratteristiche del territorio, obiettive ragioni di viabilità e collegamenti, una differente densità di popolazione, avevano diversamente caratterizzato le due comunità. «Agnone, con le sue scuole e convitti – ci dice Paride Bonavolta, la cui famiglia si trasferì da Capracotta ad Agnone nei primi anni del '700 – era da tempo il naturale centro di attrazione da centri anche lontani, tanto da essere definita l'Atene del Sannio. Ma non furono solo le scuole a caratterizzare la città perché, favoriti dai commerci con le regioni vicine, fiorirono anche l'artigianato e il commercio. Come conseguenza ben presto si consolidò una intraprendente borghesia che tra il XVIII e il XIX secolo generò coraggiose iniziative associative in campo bancario, industriale e associativo, che culminarono ai primi del '900 con la realizzazione di una ferrovia privata e e di una centrale idroelettrica. Era quindi inevitabile che molte famiglie capracottesi, o parte di esse, compresa la mia, lasciassero il paese per Agnone, attratte dalle maggiori opportunità lavorative o per avviarsi ad una professione, contando quest'ultima su un buon numero di medici, farmacisti, notai, insegnanti ed avvocati, essendo anche sede di tribunale». La Rivoluzione francese del 1779 ebbe i suoi effetti anche in Italia, e in modo particolare nel Meridione, al tempo dell'eroica ma sfortunata Rivoluzione napoletana del 1799, già ampiamente trattata in una precedente pubblicazione del nostro Liceo. E anche il Molise fu un territorio dove le idee cardine di detta rivoluzione - liberté, égalité, fraternité - ebbero una grande adesione ed interesse. Nell'Alto Molise le due fazioni - i seguaci dei Borboni e i nuovi liberali (chiamati giacobini) - sia ad Agnone che a Capracotta si trovarono a fronteggiarsi in un modo spesso violento e disarmante, così da procurare disordini e improvvise adesioni da parte di tutta la popolazione, che si schierava, spesso presa dall'improvvisazione, o con l'una o con l'altra parte. È da presupporre che anche tra i nostri due paesi, i due schieramenti si trovarono "l'uno contro l'altro armato", procurando così disordini e spesso danni irreparabili. Come nel caso della reazione sanfedista ai danni dei giacobini agnonesi legati al martire Libero Serafini, quando, racconta ancora il Bonavolta: «il mio avo Venanzio, dai testi postunitari ricordato come "un capracottese" sposato ad una agnonese, fu colui che, insieme ad altri, raccolse prove contro i giacobini agnonesi che in realtà erano espressione della ricca borghesia locale che, come comprovato, manu militari aveva voluto imporre ed esportare le idee repubblicane nel circondario, e quindi a Capracotta, sicuramente più legata per le sue origini contadine ai Borboni». Anche nei fatti legati al periodo risorgimentale, prima alla lotta tra liberali e borbonici e successivamente tra "briganti" e "galantuomini", sia Agnone che Capracotta ebbero un ruolo non indifferente. A Capracotta la popolazione si divise, ci furono dei rivoltosi che si schierarono decisamente contro un gruppo di liberali tra cui c'era anche il sacerdote Filippo Falconi, parroco del paese; uomo molto dotto e deciso difensore della cosa ecclesiastica. Non sbaglio se, come risulta dalle fonti, affermo che accanto a una storia nazionale del Risorgimento, esiste anche una storia "capracottese" di tale movimento, con fatti e illustri personaggi della nostra cittadina. Potremmo a modo di esempio fare i nomi del chirurgo Fortunato Conti e Stanislao Falconi, grande avvocato e procuratore presso la corte di cassazione del Regno delle Due Sicilie, giurista raffinatissimo. O Padre Giuliano da Capracotta, frate cappuccino, che nel 1860 depone il saio di frate e indossa la camicia rossa, partecipando alla Battaglia del Volturno contro l'esercito borbonico. Vincenzo Di Rienzo, garibaldino, presente a Teano all'incontro tra Garibaldi e il re Vittorio Emanuele II. È medaglia d'argento al valor militare per le campagne 1866-1870. La comunità agnonese guardò sempre con attenzione e un senso di rispettosa invidia questi personaggi, i quali si affermavano in più campi, come quelli della politica, della giurisdizione e delle scelte di vita più congeniali alle future generazioni. Anche Agnone tuttavia aveva partecipato agli eventi risorgimentali con numerosi suoi cittadini, come Michele D'Onofrio, amico di Garibaldi - di cui si conserva ancora una lettera autografa - e di Felice Cavallotti, Alessandro Gamberale, Stefano Di Primio, Gelsomino Ferrara, Giuseppe Maria Busico e Vincenzo De Sire. Quest'ultimo si arruolò nell'esercito della Repubblica romana del 1848 e successivamente fu arrestato dalla reazione papalina, passando poi molti anni nelle prigioni borboniche. Per i suoi trascorsi e per la somiglianza fisica con l'eroe dei due mondi, fu soprannominato Garibaldi e con tale nomignolo visse con attestati di stima ed affetto fino alla morte, il 7 febbraio 1890, prima di essere nominato cavaliere del Regno nella ricorrenza del 17 marzo 1890. Ma fu soprattutto nel periodo successivo all'Unità che i due paesi si confrontarono per più di cinquant'anni sul piano politico-istituzionale, come testimoniato puntualmente dal libro "Il Molise. Dall'Unità alla Repubblica" di Antonio Arduino. E così nel 1861, appena costituita l'Unità d'Italia, furono definiti anche i collegi politici elettorali; il Molise fu suddiviso in sette collegi aventi per capoluogo rispettivamente Agnone, Boiano, Campobasso, Isernia, Palata, Riccia, Larino. Capracotta, come gli altri paesi dell'Alto Molise fece parte del collegio di Agnone. Le prime elezioni del 1861 premiarono Ippolito Amicarelli, un sacerdote di Agnone perseguitato dal Borbone. Gli elettori furono pochissimi: basti pensare che a Napoli Silvio Spaventa, nativo di Bomba e successivamente ministro dei Lavori pubblici nel governo Minghetti, fu uno dei primi eletti con soli 100 voti. Nelle successive elezioni venne eletto l'agnonese Francesco Saverio Sabelli, che venne poi riconfermato anche nel 1867, al quale, dopo le sue volontarie dimissioni, succedette il sacerdote Giuseppe Tamburi, anche lui dimissionario nel 1869. Cosicché il collegio si rese vacante e cominciò ad essere meta di candidati forestieri non votati nei loro paesi di appartenenza. Agnone divenne quindi "rifugio" di altre regioni per mancanza di un candidato idoneo presente nel collegio. Questa situazione durò fino al 1876, quando Nicola Falconi di Capracotta si presentò come candidato e fu eletto ottenendo consenso da tutti; consenso che sarà ininterrottamente riconfermato nelle successive candidature. Da alcune fonti postume possiamo dire che Falconi ebbe l'abilità inserirsi al di sopra delle due fazioni agnonesi, il partito di Giovanni Ionata e quello di Francesco Saverio Sabelli, che allora erano in lotta tra di loro, contendendosi il potere amministrativo locale e quello della deputazione provinciale. Tuttavia vi era tra Agnone e Falconi una certa promessa di ritiro di quest'ultimo qualora si fosse reperito un idoneo candidato agnonese. Questo periodo durò, senza alcun turbamento fino al 1900, ma da quell'anno le cose cominciarono a cambiare, in seguito alla riforma mandamentale, anche a causa del fatto che Pietrabbondante fu distaccata dal mandamento di Agnone e San Pietro Avellana da quello di Capracotta. La reazione di Agnone contro Falconi sfociò in una serie di accuse fatte dai tre periodici editi in quel tempo. Capracotta, patria dello stesso deputato, reagì in modo più chiaro ed inequivocabile con le dimissioni in massa della giunta e dal consiglio municipale; ciò non servì a nulla, in quanto la legge fu approvata a scapito di Agnone e Capracotta. Agnone continuò la sua battaglia almeno a livello dei giornali e tra questi si distinse "Il Risveglio Sannitico" di Luigi Gamberale. Fu un periodo duro per il nostro Molise, il Volturno stava per essere venduto ai fautori - a detta del Risveglio - che rispondevano ai nomi di Fazio e Veneziale, i quali si dichiararono innocenti e risposero agli attacchi di Gamberale, il quale nei suoi scritti, incriminò anche il deputato capracottese, definendolo amico della cricca di Veneziale. Si cominciò ad opinare in Agnone la candidatura di un esponente locale. Intanto Falconi era stato nominato senatore del Regno e finalmente Agnone, come era nei patti, riuscì a liberarsi del dominio capracottese. Ma fecero male i calcoli in quanto Falconi aveva già fatto le premesse per la candidatura del nipote, Tommaso Mosca. Il 7 marzo 1909 furono convocati i comizi elettorali e vi fu un'affluenza d'elettori alle urne come non mai, con 1.903.687 votanti su 2.930.437 iscritti. Ad Agnone gli elettori furono 5.810 e fu eletto, al primo scrutinio, Tommaso Mosca, ministeriale, con 1.715 voti contro i 1.336 riportati da Alessandro Marracino, votato dagli agnonesi e dalla sua Vastogirardi. A dimostrazione dell'accesa animosità della campagna elettorale, riportiamo due esempi "letterari" (si fa per dire!) di entrambi gli schieramenti. Il 1 gennaio 1909, un certo Rocco Moauro fu Raimondo di Caccavone, fece pervenire a molte case di notabili di Agnone un foglietto dato alle stampe, dal titolo "Strenna di Capodanno" - il cui originale è conservato presso la Biblioteca "Labanca" di Agnone - frutto, a nostro avviso, della coalizione di tutti i paesi del circondario a favore del candidato capracottese Mosca, contro Agnone. È sentenza risaputa e da tutti è conosciuta: gli agnonesi nulla fanno senza frode, senza inganno. L'anagramma Agnonesi è: si negano - per due tornesi come fosse un gran tesoro si negano tra di loro. Nega il figlio al genitore; il donatario al donatore; come Giuda traditore negò Cristo redentore. Agnonesi ingannatori o venditori o compratori; sono con tutti fraudolenti, con l'amico o col parente, con la povera e ricca gente. È di Agnone il calderaio, l'orefice e l'ottonaio, l'argentiere ed il ramaio, l'avvocato ed il notaio, non escludo il clero tutto. Sono tutti di una pasta: agnonesi? E tanto basta! Sempre in quelle votazioni gli agnonesi risposero boicottando la candidatura Mosca con la seguente canzonetta popolare (di anonimo): Evviva Marracino, il nostro candidato, evviva i risveglisti, evviva il comitato. Cantate pure "Evviva Agnone" il sette marzo, la votazione. Viva la nostr'Agnone, la prima del collegio che della fitta nebbia n'ha fatto pregio. Fuori il duro ghiaccio e la neve ammucchiata, fuori li traditori, fuori la forc'armata, fuori la camorra d'una volta detta che l'immane piovra male fine aspetta. Furon sette i peccati di prima qualità che il falco ci donó, che brutta eredità! Grida fischi abbasso pur si ripeterà: fuori falconi, mosche e capre in quantità. Cantate pure, dite così: Non è per noi don Tommasì... Dunque nel 1912, in occasione della riforma elettorale, la lotta tra Agnone e Mosca si riaccese per sfociare questa volta nella forma più violenta e campanilistica nel 1913, quando Mosca venne implicato nello scandalo del Palazzo della Giustizia a Roma e fu quindi costretto a dimettersi. Agnone prese la palla al balzo, questa volta il candidato doveva essere agnonese e la persona più rappresentativa e prestigiosa era Giovanni Piccoli, un ginecologo ostetrico che accettò la candidatura. Mosca rimise il suo mandato parlamentare agli elettori. Si doveva decidere tra Mosca, deputato dimissionario, Marracino di Vastogirardi e Giovanni Piccoli, nuovo candidato agnonese e sul quale Agnone concentrò tutti i suoi sforzi. Gamberale, per favorire la propaganda del Piccoli, lo fece attraverso due periodici e a sua volta per difendersi dai feroci attacchi della stampa agnonese questi risposero con un periodico edito a Capracotta, con il compito di rispondere alle accuse e a sua volta dì accusare pesantemente. Dunque nessun candidato venne eletto e si dovette ricorrere al ballottaggio che avvenne con Mosca, unico rimasto a causa del ritiro degli avversari. Ma la lotta non era ancora finita, Mosca avrebbe dovuto fare ancora i conti con le elezioni. Marracino sentendosi intruso si ritirò lasciando campo libero. Così gli strascichi elettorali continuarono per altri mesi, ancora dopo le elezioni che continuarono a causa del clima rovente, sia ad Agnone per il tradimento di Ionata in favore di Mosca, sia a Capracotta dove alcuni parenti decisero di non votarlo. Poi venne la guerra e non vi furono più votazioni. Non possiamo non riportare qui alcuni significativi passaggi del discorso tenuto a Capracotta in occasione del 70° anniversario della sua distruzione dallo storico Raffaele Colapietra che in tal modo descrive - con voluto tono provocatorio - i motivi del "superamento" di Capracotta sulla rivale Agnone e della decadenza di entrambi. «Nel secolo passato – afferma il noto meridionalista – si è determinato quindi una sorta di vuoto di una città illustre, come Agnone, che non è stata più messa in grado di esercitare quel ruolo attrattivo, coordinativo, dato anche e soprattutto dagli istituti di istruzione e da una classe intellettuale assolutamente incomparabili con tutto il Molise che le era proprio e che è venuto a mancare, mentre, invece, venuto meno più tardi il ruolo comunitario ed egemonico delle grandi famiglie capracottesi, venuta meno la pastorizia, l'Alto Molise è quel deserto, diciamo, o almeno quel difficilissimo luogo di articolazione politica che è ancora oggi». Nel secondo dopoguerra nel Parlamento italiano furono invece gli agnonesi a prevalere con Remo Sammartino e Bruno Vecchiarelli, che, l'uno senatore e l'altro deputato, furono eletti ininterrottamente dal 1948 al 1992, sostituendosi così al dominio capracottese di Falconi e Mosca, durato dal 1876 al 1912. E veniamo così ai giorni nostri e alle polemiche non ancora del tutto sopite tra i due paesi dell'Alto Molise. Come, ad esempio, quella per la paternità della famosa Tavola Osca, prezioso documento e simbolo dei comuni progenitori Sanniti, tuttora conservata al British Museum di Londra. La vexata quaestio nasce dal fatto che nella bacheca del suddetto museo dove era esposta la tavola, la stessa veniva definita come "Tavola di Agnone", per il semplice fatto che era stata venduta agli inglesi dagli agnonesi e che il primo a farne degli studi specifici era stato il medico e archeologo Francesco Saverio Cremonese di Agnone. E allora, è giusto dire: Tavola di Agnone o Tavola di Capracotta? La storia è questa: nel marzo del 1848, un certo Pietro Tisone, bovaro della masseria di Giangregorio Falcone di Capracotta, per caso, scavando una fossa presso la Fonte del Romito, trovò la preziosa lamina di bronzo e la consegnò al suo padrone. Francesco Saverio Cremonese, attraverso l'orefice agnonese Vincenzo Paolo D'Onofrio, che per commercio faceva raccolta di monete, vasettini, scodelline fittili e di altre reliquie antiche, fece pressante richiesta della lamina al Falcone. A stenti e non prima di quattro o cinque mesi quest'ultimo cedette e la lamina passò nelle mani del richiedente; successivamente finì al commerciante romano Alessandro Castellani, quindi a Napoli ed infine - non si è mai capito bene come - nel 1873 passò al British Museum di Londra, pare venduta per 4.000 lire. Insigni studiosi con obiettività ed alto senso di giustizia hanno denunciato il furto del reperto e del nome, diventato ormai vulgata. Ma una recente notizia, che rende ancor più paradossale l'intera vicenda, apparsa su tutti i giornali locali, ci dice - ironia della sorte! - che, secondo nuove ipotesi di studio, la Tavola è in realtà niente po' po' di meno che di Pietrabbondante! E infatti, in un incontro tenutosi ad Isernia il 22 gennaio di quest'anno, Bruno Paglione e Paolo Nuvoli, autori del libro "Gli enigma. La Tavola Osca e Pietrabbondante", hanno avanzato il sospetto che il mitico reperto non sia stato trovato tra Agnone e Capracotta, ma che in realtà provenga da Pietrabbondante, come, secondo loro, recenti studi confermano. La qual cosa dovrebbe in un certo senso riavvicinare gli eterni contendenti, questa volta coalizzati insieme contro il nuovo inaspettato nemico: Pietrabbondante! Al di là di ogni sterile, e ridicolo, campanilismo, secondo noi la questione si risolve semplicemente così: la tavola è stata trovata nel territorio di Capracotta, è stata studiata per la prima volta da un agnonese, e l’unico nome attribuibile - e universalmente riconosciuto dagli studiosi - è quello di "Tavola Osca". Fine della polemica! Francesco Paolo Tanzj Fonte: F. P. Tanzj, La storia che ci unisce: storia dell'Alto Molise , S. Giorgio, Agnone 2015.
- L'avvocato Ninetta (XXIV)
Scena XIII Giulio, Cesarino, Bettina e detti. Giulio – Che cosa è questo chiasso? Cesarino – È succieso 'o fatto. Ninetta – È la signora Baronessa che ha preso gelosia del marito. Giulio – Ma Gelsomina finiscila, non è questo il luogo di far delle lazzarate. Gelsomina – Se n'è venuto isso, chist'auto spito sicco. Levateve 'a nanze ca le voglio scippà 'a faccia a chella ciucciuvettela. Bettina – Neh guè, neh guè? Tu cu chill'haje grandissima ciantella. Tu 'o saje ca parle cu figliema che tene tanta na laura. Gelsomina – Ebbiva essa! Se n'è asciuta chest'ata cuccuvaja c' 'o lavere e 'o fecatiello. Bettina – Uh! cuccuvaja... a me cuccuvaja!... Ah! vajassona impertinente, te faccio stà a duvere. Ninetta – Mammà, tu scendi troppo basso a venire a competenza cu na stiratrice che porta 'o rasulo ammanecato ( guardando Cesarino ) dint' 'a sacca. Cesarino – Uh! malora chesta ha ntiso tutte cose! Giacinto – Comme, muglierema porta 'o rasule? Gelsomina – Sicuramente, pecché nc'avite che dicere? Avite ragione che facite 'e guappe ccà ncoppa, ma si scennite abbascio... Giulio – Baró, Baró... purtatevella... si no ccà fernesce male... Giacinto – Gesummì, jammuncenne... jammoncenne... Francesco Gabriello Starace Fonte: F. G. Starace, L'avvocato Ninetta , Gennarelli, Napoli 1921.
- Chi conosce la mela zitella?
Nasce da terreni incolti e simboleggia la voglia di rinascita di un'area interna dell'Appennino, quella molisana, il meleto biologico di Castel del Giudice, in provincia di Isernia. Un contesto naturale che trae linfa dall'acqua dei monti di Capracotta e dal fiume Sangro. Cinquanta ettari in stato di abbandono sono stati trasformati nel meleto bio Melise, azienda compartecipata di cui fanno parte investitori, cittadini e amministrazione. Accanto, un rigoglioso Giardino delle Mele Antiche dove si contano circa 50 varietà di mele autoctone. Questa storia di frutti perduti inizia una decina di anni fa grazie all'Associazione Arca Sannita, voluta dall'agronomo Michele Tanno che ne è il presidente: “Castel del Giudice è il paese della mela e vanta un'ottantina di tipologie, alcune comuni al territorio limitrofo abruzzese. La più antica del meleto è la Limoncella, conosciuta già nel Medioevo, dalla buccia gialla, croccante e profumata, che si adatta alle zone con gelate tardive. C'è poi la mela Zitella, gialla con sfumature rosa: matura ad ottobre ed è caratterizzata da una patina che la protegge contro l'umidità. Il nome deriva dall'uso che le donne non maritate ne facevano come cosmetico ma anche dalla tarda maturazione del frutto. Autoctona è anche la mela Gelata, che all'interno presenta zone vetrose, quasi ghiacciate: ha buccia verde e consistenza soda. Più piccola e piatta è la mela Tinella che resta sull'albero fino a quando sono cadute tutte le foglie: si conserva a lungo ed ha un sapore leggermente acidulo”, racconta Tanno. Fra le varietà che colorano l'autunno nei filari di Castel del Giudice spiccano anche la mela Florina, fiammante e nutriente, la mela Dolorina, dalla forma allungata e la Primiera che si raccoglie a settembre ed ha un sapore dolcissimo. A livello economico-commerciale, le antiche mele hanno rilanciato il territorio tanto da permettere la realizzazione di un progetto di albergo diffuso, Borgo Tufi. Complessivamente la produzione annua è di quasi 5 mila quintali di mele, in parte trasformate da un'azienda veneta in succhi di frutta e prodotti per l'infanzia. La distribuzione avviene attraverso gruppi di acquisto equo-solidali in Italia e in Germania e tramite la vendita diretta. Il prezzo medio di un kg di mele è di 1,5 euro. Antonia Matarrese Fonte: https://www.lacucinaitaliana.it/ , 19 novembre 2018.
- La morte di Pasquale Antenucci
L'atto di morte di Pasquale Antenucci. La notte del 23 Febbraio, dopo breve e fatale malattia, l'inesorabile morte rapì all'affetto dei congiunti e degli amici Pasquale Antenucci. Servì degnamente la patria molti anni fa, congedandosi col grado di Furieremaggiore di Cavalleria, ed in paese, datosi operosamente al commercio, seppe crearsi una modesta quanto invidiabile posizione sociale. Fu tetragono alle molteplici avversità che lo colpirono nell'odissea della sua vita, massime per l'immatura morte di due distinte compagne. Onesto negoziante, amico impareggiabile e generoso benefattore, lascia un vuoto incolmabile in coloro che lo conobbero. Le esequie furono imponenti, e col concorso della musica cittadina, tutto il popolo rese con un vero plebiscito di dolore l'ultimo tributo di affetto al caro estinto. Municipio, di cui era Consigliere, Circolo d'unione, Tiro a segno, Sodalizii ed altre istituzioni erano largamente rappresentate. Con la morte di lui, a 50 anni, un vecchio e rispettabile padre rimane nella desolazione, e due cari e piccoli bimbi restano organi al mondo, affidati - per fortuna - alle cure di buoni parenti, ai quali arrechi conforto il pensiero che nel ferale silenzio dell'avello Pasquale non rimarrà solo, ma gli aleggerà costantemente il ricordo mesti ed imperituro degli amici! Ferdinando De Matteis Fonte: Interprete, Corrispondenza da Capracotta , in «Il Grillo», X:8, Isernia, 24 marzo 1895.
- Un architetto abbastanza famoso per un progetto abbastanza sbagliato
L'antica torre angioina. Settanta anni fa l'Istituto Italiano di cultura a Stoccolma, una delle opere architettoniche italiane più significative realizzate all'estero, era stato progettato e arredato dall'architetto Gio Ponti. Era ispirato a una idea, di una decina di anni precedente, dell’ingegnere Carlo Maurilio Lerici. Collaborarono al progetto l'architetto svedese Ture Wennerholm, Ferruccio Rossetti (ampliamento dell'atrio d'ingresso) e Pier Luigi Nervi (ideazione dell'Auditorium - immagine di testa). L'architetto Ferruccio Rossetti da poco aveva redatto, su incarico del Ministro per i Lavori Pubblici, anche il Piano di Ricostruzione di Capracotta notificato al sindaco Carnevale il 31 gennaio 1949. Tra le cose più significative del Piano dell'architetto Rossetti vi era la previsione della demolizione di tutto il cuore del nucleo antico di Capracotta, dal sagrato della chiesa di S. Maria Assunta fino a Piazza Falconi, compresa la storica torre dell'orologio. Le vicende amministrative e i retroscena politici sono stati dettagliatamente ricapitolati e puntualmente analizzati nelle ricostruzioni pubblicate da Francesco Mendozzi e non credo necessario aggiungere altro a una rappresentazione cronachistica che rende bene la sofferenza dell'amministrazione comunale nell'adottare quelle decisioni che avrebbero definitivamente cambiato i connotati del paese. Con il senno di poi siamo capaci tutti di ragionare. Perciò oggi ci rendiamo conto che quelle demolizioni furono un drammatico tentativo di dare una dignità formale a una realtà che appariva in una condizione di degrado spettrale. Ciò non significa che oggi si debba accettare una condizione urbanistica che non esiterei a definire insignificante sul piano architettonico e anonima su quello identitario. Fortunatamente Capracotta, nonostante l'ineluttabilità degli eventi bellici e l'imbecillità dei distributori di morte, conserva una delle chiese più belle della regione e dalla sua consistenza architettonica si deve partire per ricostruire un carattere che restituisca al popolo capracottese il senso della sua storia. Partendo dalla consapevolezza che il popolo capracottese è come l'esercito nomade di Giacomo Caldora. La sua forza stava nella sua mobilità. Capracotta è una entità astratta che ha un polo di attrazione in quel luogo dove ancora sopravvive la definizione di "Terra Vecchia", ma il suo popolo è caratterizzato da una massa puntiforme distribuita in ogni angolo del globo terrestre. Non devo dare consigli, come suggeriva François de La Rochefoucauld a Fabrizio De André «I vecchi amano dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi», però ogni tanto bisogna provarci. Se non altro per certificare la nostra esistenza in vita. Capracotta non è un accidente della storia e per una serie di circostanze che interessano la Nazione di cui fa parte ha l'opportunità di proporsi per un grande progetto di riqualificazione che non sia una banale proposizione dei modelli della civiltà borghese. Capracotta, e non solo l'Amministrazione Comunale su cui grava la responsabilità della tempestività delle scelte, deve rivendicare quel ruolo di avanguardia progettuale che le spetta non solo per una questione altimetrica territoriale, ma anche perché urbanisticamente deve recuperare il terreno perduto. Per colpa di tutti e di nessuno. È un momento molto particolare della sua storia. Il paese ha bisogno di cultura da una parte e di condottieri che indichino una strada da percorrere dall'altra. È la sfida delle future generazioni. "Terra Vecchia" di Capracotta e la sua riqualificazione potrebbe essere una grande occasione (forse l'ultima) per sollecitare un rinnovato interesse dei giovani ai luoghi delle loro radici ma che si traduca anche in un investimento economico capace di produrre reddito. Per dirla con Machiavelli: «Dimenticano gli uomini più facilmente la morte del padre che la perdita del patrimonio»... Il momento è decisivo. Franco Valente
- Il grande Sud
Fra le valli del Trigno e del Sangro, in vista della Maiella che domina l'orizzonte verso ovest, sembrano rivivere il Canada, la Baviera, la Scandinavia... A sud, oltre la Montagna di Frosolone, compaiono le giogaie del Matese. È difficile, nella geografia dell'Italia della neve, pensare a un luogo meno conosciuto di questo. D'inverno come d'estate, però, le alture in provincia di Isernia offrono molto a chi le visita. Per gli appassionati di storia, il fascino di questi altipiani sta nella presenza dei santuari sanniti di Vastogirardi e Pietrabbondante (il tempio di quest'ultimo centro è uno dei monumenti più famosi del Molise), nelle mura di Vignali nei pressi di Pescolanciano, nell'eremo medioevale di San Luca poco distante da Pescopennataro. Ad Agnone, la Atene del Sannio, spiccano per eleganza le chiese di San Francesco e Sant'Emidio, oltre le quali è obbligatorio visitare la Fonderia Marinelli, che ha prodotto campane dal Medioevo ai nostri giorni. Nella fabbrica, tra decine di campane in preparazione, si trova su un piano rialzato un piccolo museo che racconta la storia di questa particolarissima arte. Ma il fascino di queste montagne dall'altezza modesta (il Monte Campo arriva a 1.746 metri, il Monte Capraro a 1.730) sta soprattutto nella natura. A Pescopennataro e in altri centri dei dintorni, gli spuntoni calcarei ai quali si addossa l'abitato danno al paesaggio un aspetto fiabesco. Nei boschi innevati compaiono le tracce del lupo e quelle del capriolo e del cinghiale. In tutte le stagioni è possibile ascoltare il ritmico battere del picchio nero, o fermarsi in silenzio all'alba o al tramonto nella speranza di sentire il richiamo del gufo reale, il più grande rapace notturno italiano. Per i biologi, però, la principale attrattiva di questi monti sono le foreste di abete bianco, un'essenza diffusa in passato sull'intero Appennino, e che sopravvive oggi, oltre che nell'Alto Molise, soltanto nelle foreste dell'Abetone, del Casentino e dei Monti della Laga. D'inverno, la neve abbondante rende ancora più suggestivi questi boschi. Accanto alle strade, e in particolare a quella che sale da Pescopennataro alla montagna, le sagome imbiancate degli abeti formano una spettacolare muraglia. Non appena ci si inoltra nel folto con ai piedi le racchette da neve o gli sci, l'impressione di essere nel grande Nord è completa. Da qualche tempo l'Italia dello sci ha iniziato a scoprire l'angolo più settentrionale del Molise. Tracciate all'inizio degli anni Novanta, le piste da fondo di Capracotta sono diventate famose, e hanno ospitato nel 1997 i campionati italiani assoluti. Ogni fine settimana d’inverno, gli anelli ai piedi del Monte Campo si affollano di appassionati del passo pattinato e dello skating. Nonostante lo scarso impatto ambientale, però, lo sci da fondo sportivo non è il modo migliore per apprezzare le bellezze di queste piccole ma suggestive montagne. Per ammirare i panorami verso la Maiella e il Matese e per cercare le tracce della volpe e del lupo, la soluzione migliore sono le racchette da neve. Ormai diffusissime su buona parte dell'arco alpino, le ciàspole consentono ai visitatori dell'Alto Molise di apprezzare nel modo migliore le suggestioni dei boschi innevati. Nel Bosco degli Abeti Soprani, tra Pescopennataro e Capracotta, le piste da fondo riducono drasticamente il campo d'azione di chi preferisce le racchette. Brevi passeggiate sono possibili con partenza dalla strada che sale da Pescopennataro all'Eremo di San Luca e a Prato Gentile. Chi preferisce un'escursione più lunga deve partire dal camping (chiuso d'inverno) a monte di Pescopennataro, e inoltrarsi in salita nel bosco in direzione delle pareti rocciose del Monte Campo. Un valloncello e un tratto in obliquo a sinistra portano a incrociare le piste da fondo, oltre le quali si può salire al crinale nei pressi del Monte San Nicola. Per salire alla vetta del Monte Campo, "tetto" dell'Alto Molise e splendido belvedere sul Bosco degli Abeti Soprani, occorre invece salire in auto da Capracotta verso Prato Gentile. Una deviazione sulla destra porta all'albergo Monte Campo e alla chiesetta di Santa Lucia. Da qui, un viottolo innevato supera un ripido pendio, e poi continua con minore pendenza attraverso un rimboschimento fino all'orlo dei salti rocciosi che dominano il bosco. Verso sinistra, in breve, si raggiungono i 1.746 metri della cima. Stefano Ardito a Capracotta. A Rosello, dove il Molise lascia il posto all'Abruzzo, un'altra bella passeggiata con le racchette ha per meta il bosco di abete dell'omonima oasi WWF, istituita nel 1992 ed estesa su 211 ettari. Dal paese e dal Centro Visitatori si segue la strada per Pescopennataro, si devia a sinistra seguendo le indicazioni e si posteggia davanti a un albergo. La strada porta in breve all’ingresso del bosco. Dopo aver costeggiato l'area faunistica del capriolo si tocca la Fonte Volpona e si sale a destra verso Colle Zingarolo. A un bivio si torna a sinistra, si raggiunge in discesa il Fosso Turcano e si segue il sentiero-natura dell'oasi che riporta alla Fonte Volpona e al percorso dell'andata, lungo il quale si torna al posteggio. L'ultima bella escursione sulle racchette si svolge nella Riserva Naturale di Colle Meluccio, costeggiata dal tratturo che collegava Celano con Foggia. Esteso su 187 ettari e legato al nome di Desiderata Melucci, una nobildonna che lo acquistò nel 1625, il bosco è stato abbattuto tra il 1915 e il 1918 per fornire legname all'esercito, ed è poi ricresciuto grazie al Corpo Forestale dello Stato. Nonostante la limitata estensione, questa abetina merita senz'altro una visita. Da Pescolanciano si segue la strada per Pietrabbondante fino a una caserma del Corpo Forestale e alla vicina area da picnic. Il viottolo che si addentra nella riserva, indicato da un cartello, inizia 500 metri più a nord, oltre Case Colle Meluccio. Traversato un fosso, si supera una sbarra e ci si addentra nel bosco di abeti secolari per un tracciato stradale ben visibile che porta a un'ampia radura. Prima di tornare indietro conviene proseguire per un tratto verso sinistra, in direzione sud-ovest, addentrandosi nel tratto più spettacolare della foresta. Stefano Ardito Fonte: S. Ardito, Il grande Sud , in «PleinAir», 318, Milano, gennaio 1999.
- Ci si vede a Casamiccio!
Casamicciola è oggi un centro termale d'eccellenza. Adagiata ai piedi del Monte Epomeo, riposa sulla parte settentrionale della splendida isola di Ischia. Lo stemma del Comune rappresenta una donna che immerge le gambe nell'acqua d'un fiumiciattolo, il che si ricollega alla leggenda del suo nome. Si narra infatti che una matrona romana di nome Nizzola, impedita nel camminare, immerse gli arti inferiori nelle calde acque di un ruscelletto che scorreva nei pressi della sua abitazione e prodigiosamente guarì. Da quel momento in poi la notizia si sparse per ogni dove e gli ammalati cominciarono ad affluire presso la «casa di Nizzola», poi divenuta Casamicciola. Per quel che interessa a noi, dirò invece che il grande Lorenzo Giustiniani usava il termine Casamiccio, come se la seconda parte della parola, Miccio, fosse un nome proprio di persona. Inutile dire che Casamicciola ha un nome buffo e simpatico almeno come quello di Capracotta, e da noi esiste un modo di dire piuttosto singolare. Quando parliamo di una località remota, lontanissima, facciamo spesso riferimento a Casamicciola: – Quìre vè da Casamìcce... – Da addó sié menùte, da Casamìcce? – Aje arrevieàte a Casamìcce! Sono questi modi di dire legati alla bella località ischitana ma che in realtà ripropongono in salsa montanara ciò che tanti altri fanno normalmente con Capracotta, prendendola come emblema di luogo isolato dal mondo, quasi leggendario. Ma quando e come sono nati questi modi di dire a Capracotta? Sfogliando le "Locuzioni e modi di dire del popolo capracottese" di Oreste Conti non ve n'è traccia, il che significa che probabilmente si tratta di detti nati dopo il 1909, anno di pubblicazione della prima raccolta di motti nostrani. Tuttavia, spulciando la corrispondenza del sen. Nicola Falconi (1834-1916), ho trovato una lettera particolarmente interessante. Si tratta di una missiva che l'allora ministro della Pubblica Istruzione Leonardo Bianchi (1848-1927) inviò all'illustre politico capracottese. La lettera, spedita proprio da Casamicciola, è datata 28 agosto 1905 e in essa il ministro Bianchi comunicava a Falconi che, nonostante il suo pregiato invito, non avrebbe potuto raggiungerlo a Capracotta per motivi familiari. Riporto la missiva: Carissimo amico, ho ritardato a scriverti sperando indicarti il giorno in cui sarei venuto a visitare codesti simpatici luoghi, e a passare qualche giorno, magari uno solo, ospite tuo, ma pur troppo le vicende delle cose regolano fatalmente il timone della volontà. Non potevo, per molte ragioni, andare in Sardegna, e vi sono stato obbligato da ragioni di indole diversa. Credevo disporre del mio tempo almeno sino al 7 settembre e la ricaduta avveratasi in questi giorni della povera mia signora, da tre anni malata, ha volta la relativa tranquillità del mio animo, ed impedita ogni libertà di movimento che non sia per preciso ed indeclinabile dovere. E così il vivo desiderio di visitare te e De Amicis e codesti monti, che, come stazione estiva, devono essere in tutti i modi incoraggiati, ha dovuto essere per il momento soffocato e rimandato ad altro tempo. Sta sano, mio carissimo amico, ed abbimi sempre tuo aff.mo Bianchi. Nicola Falconi aveva probabilmente invitato Leonardo Bianchi e Mansueto De Amicis (1851-1924) ad assistere alla festa della Madonna di Loreto, ma il primo dei due si vide costretto a trattenersi nella località termale perché sua moglie aveva avuto una brutta ricaduta. Siccome questa lettera venne pubblicata a mezzo stampa dall'Eco del Sannio, è legittimo credere che possa aver dato il via all'adagio su Casamicciola, col popolo capracottese che finalmente poteva burlarsi di una località più stramba di Capracotta stessa! Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: O. Conti, Locuzioni e modi di dire del popolo capracottese , Frattarolo, Lucera 1909; Echi molisani , in «Eco del Sannio», XII:17, Agnone, 13 settembre 1905; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; M. Serao, Dal vero , Perussia e Quadrio, Milano 1879.
- Le figure del cav. Croce Conti e del sig. Agostino Conti
Capracottesi in fermento (foto: G. Paglione). Fra lo schianto di una distinta ed amata famiglia, fra le sincere e spontanee manifestazioni di dolore dell'intero paese, così largamente rappresentato a queste pietose ed imponenti esequie, si è fatalmente schiusa una tomba per raccogliere la preziosa esistenza del Cav. Dott. Croce Conti! Parlare minutamente di lui, di questo impareggiabile padre di famiglia, di questo avveduto e distinto professionista, di questo integerrimo cittadino e pubblico amministratore, sarebbe addirittura opera vana, perché ogni elogio renderebbe sbiadite le diverse epoche della sua vita intemerata. Il paese, senza eccezione, aveva per lui un culto del rispetto; i conoscenti si sentivano avanti la sua simpatica ed affabile persona compresi da un sentimento di profonda venerazione! Nato in Capracotta nel 1823, compì lodevolmente gli studi, e nel 1849 conseguì la laurea in medicina nella R. Università di Napoli. Il suo svegliato ingegno e le vaste cognizioni professionali gli conferivano il dritto di stabilirsi in una città, dove avrebbe potuto affermare il suo valore, ed addivenire una vera illustrazione della scienza. Ma la sua eccessiva modestia gli fece preferire il paese natio, come per mettere a vantaggio di esso i tesori del suo sapere, e pareggiare i savi fratelli per accrescere il lustro della sua cara famiglia. E per la famiglia egli fu simbolo di pace e di attività, imperocché consacrò tutto sé stesso al miglioramento civile ed economico, curandone l'educazione e l'istruzione, massime dell'unico gioiello del suo cuore, del bravo figlio Guglielmo, nel quale con indicibile affetto vedeva rispecchiate le nobili qualità dell'animo suo. Lo abbiamo visto, cedendo alle preghiere degli amici, ed anche delle Superiori Autorità, occupare in diverse volte - senza ombra di ambizione - le più importanti ed onorifiche cariche del paese, quelle di Sindaco, di Conciliatore, di Presidente della Congregazione di Carità e di altre Commissioni, e dovunque egli ha portato la serietà e la rettitudine del suo animo, la lucidezza della sua mente, la moralità della sua coscienza. Lo abbiamo veduto nei tempi difficili della rivoluzione, pieno di patriottismo e di prudenza, contribuire con l'opera e col consiglio al trionfo della libertà. Ed è meritevole di essere ricordata la lunga esposizione scritta che egli fece al Consiglio Comunale nel 1852, assumendo la prima volta le funzioni di Sindaco sotto l'attuale regime costituzionale, la quale esposizione contiene un esatto programma d'amministrazione, le cui norme rivelano i suoi alti proponimenti per dare vita nuova e prospera alla azienda comunale, che molto si avvantaggiò del suo indirizzo. Come medico e come cittadino, inutile affermarlo, è la figura più cara e popolare che esista. Chi non ricorda di essere stato da lui amorevolmente curato e confortato, e quanti non vennero con disinteresse aiutati e consigliati? Nel 1889, quale benemerito della salute pubblica, fu insignito dell'onoreficenza di Cavaliere della Corona d'Italia, ed io che dal rimpianto Sindaco del tempo, cav. Cesare Conti, ebbi il gradito incarico di comunicare al decorato la Sovrana concessione, riportai della sua rara modestia un incancellabile ricordo! Con la scomparsa del Cav. Croce Conti, viene a mancare al paese un altro dei pochi superstiti di una generazione di onesti ed intelligenti che dettero alle famiglie il savio indirizzo del lavoro e del dovere, che ebbero di mira il progresso e la civiltà, e che furono esempio di quell'amore e di quella fratellanza che - fra la marea delle facili discordie - sono l'orgoglio di Capracotta! Le loro invidiabili condizioni economiche ne sono l'adeguato compenso! Forse questi fuggevoli cenni, esposti con parola disadorna pari al vivo dolore dell'animo mio, malamente compendiano il tuo passato sereno e glorioso; ma ti conforta che ad esso saranno costantemente e religiosamente uniti i più sacri e pietosi ricordi della tua riconoscente e desolata famiglia, ed il nostro imperituro rimpianto; il rimpianto della gratitudine più sincera ed affettuosa pel tuo nome onorato e benedetto!... Erano passati appena 7 giorni dalla perdita del rimpianto Dott. Cav. Croce Conti, e non ancora cominciavano a dileguarsi le intense impressioni di angoscia lasciate dalla triste sventura, che la morte inesorabile tornò a visitare quella casa di dolore e di raccoglimento, strappando, la sera del 15 aprile, al più sacro e riconoscente affetto del figlio, Dottor Giovanni e degli afflitti parenti la non meno cara esistenza del signor Agostino Conti, nell'età di 81 anni. Fatalità di destino! Due fratelli che in vita si divisero le gioie ed i disinganni, e di cui nessuna causa mondana poté mai rallentare i saldi legami della loro invidiabile concordia, anche in morte vollero presto ricongiungersi nel bacio del Signore! La famiglia rimase sopraffatta da immane sgomento, il paese rattristato e commosso dall'inaspettato e lugubre evento! Il Sig. Conti ebbe dalla natura il dono eccezionale di un'intelligenza superiore; e, dopo gli studi, si dedicò all'industria armentizia, nella quale il senno e l'attività gli furono fonte di meritate ricchezze. Amò la famiglia quanto se stesso, e potette con ragione essere soddisfatto dei frutti dell'educazione e dell'istruzione, che a preferenza ebbe la diligente premura d'impartirle. Uomo di proverbiale probità e di onestà scrupolosa, fu di carattere fermo e di cuore espansivo e generoso. Temprato ai disagi della vita ed alle domestiche sventure, trionfò su di esse, perché ebbe la costanza nei propositi, la sicurezza nelle azioni, la virtù della rassegnazione. Fece parte di ogni comitato che ebbe di mira l'unità italiana, che caldeggiò non senza serî pericoli. Fu capitano della Guardia Nazionale, e rappresentò nel 1867 il mandamento di Capracotta come Consigliere Provinciale. Fra i molteplici suoi affari, ebbe tempo di occuparsi efficacemente anche delle locali amministrazioni pubbliche, in cui stette quasi sempre ora come Sindaco ed ora come assessore e consigliere. Nell'ultimo sindacato del 1888 e 1889 vanno ricordate due opere igieniche di eminente utilità da lui iniziate e compiute, cioè la sospirata costruzione delle fontane, che dettero al paese acque salubri ed abbondanti, e l'ampliamento del cimitero con zone coverte, rispondenti alle esigenze del nostro clima. Come Presidente della Congregazione di Carità, seppe resistere energicamente alle pretese del Fondo Culto per conservare all'Ente il pingue patrimonio di circa lire trecentomila, e della beneficenza ebbe con gli altri componenti il nobile concetto di istituire nel 1872 un ginnasio, che segnò pel Comune un grande passo nella via del progresso, e del quale la gioventù studiosa, che ancora trova ad avvantaggiarsene, deve essergli assai riconoscente. Nel 1877 l'Amministrazione da lui presieduta approvò la fondazione del nostro fiorente Asilo Infantile, che completa la beneficenza, esplicandola lodevolmente anche nelle forme educative. Capracotta, che sa apprezzare le virtù dei suoi figli, ha reso, il lunedì santo, con imponente concorso di autorità, di associazioni e di persone di ogni condizione, solenni i funerali celebrati al benemerito don Agostino, il cui nome modesto nella storia cittadina avrà dritto al doveroso rispetto di quanti hanno a cuore il lavoro e la rettitudine, la famiglia e la patria! Costantino Castiglione Fonte: C. Castiglione, Sotto i cipressi , in «Il Cittadino Agnonese», I:8, Agnone, 3 maggio 1900.
- Amore e gelosia (XXIV)
XXIV Dalla stazione, don Salvatore si fece condurre direttamente a casa di Elisa abbasce 'a Starza. Il vetturino lo riconobbe e lo salutò cordialmente: – Don Salvatore, che piacere! Per la prossima Piedigrotta ce deliziate cu na bella canzone da vosta? Stamme aspettanne tutti quanti! Tutta Nocera nun parla che ’e vuie! e che onore che tenite ’a fidanzata che è na nocerina! e che bella ragazza, donna Elisa! L'uomo continuò a chiacchierare per tutto il viaggio che non fu breve, considerando che la Starza dista parecchio dalla stazione, e poi la carrozzella dovette inoltrarsi per stradine di campagna. Il poeta lo ascoltava distrattamente e sorrideva, non rispondendo che a monosillabi; e d'altronde, qualunque cosa avesse detto, non è che importasse tanto al vetturino: quello che contava era che di sera, tornando a casa, avrebbe riferito tutto alla famiglia vantandosi di avere avuto come cliente il grande Salvatore Di Giacomo, quello della canzone "Marechiaro"... ah sì, ed anche "'E spingule francese"! Poi, come Dio volle, la vettura giunse a destinazione e don Salvatore scese davanti alla villa di don Antonio Avigliano, il padre di Elisa. Dall'interno lo avevano già avvistato, perché prima che potesse bussare la porta si aperse e la bella faccia di sua suocera emerse dalla penombra della casa. – Don Salvatore! e vuie che facite ccà a chest'ora? Vi aspettavamo per sabato! È successo qualcosa, non mi tenete in apprensione! Il poeta rimase interdetto: e ora che cosa poteva trovare per giustificare la sua levata di capo? Era partito così, d'impulso, e solo ora si rendeva conto che il suo gesto poteva apparire sciocco e infantile. – No, signora, niente, niente... è solo che... Elisa è dentro? Volevo parlarle un momento, una sciocchezza, ma... La donna sorrise e fece un viso comprensivo: "Ah, era l'amore! niente altro che l'amore! Don Salvatore ha completamente perso la testa per la mia figlia bella" pensò. – Entrate, entrate... ma Elisa non è qui! È a casa di sua zia a San Giovanni in Parco! Ora la mandiamo a prendere, state tranquillo! Voleva stare un poco con la cugina, dovete capirla... entrate e accomodatevi. "Dunque non è in casa, come sospettavo! A casa della zia! eh no, ci vado io a vedere se è vero", questi pensieri si aggirarono subito turbinosamente in testa all'uomo. – Non vi scomodate, cara suocera... ho ancora la vettura fuori, ci monto e mi faccio portare a San Giovanni, così faccio una sorpresa alla mia Elisa. E senza attendere risposta, don Salvatore si precipitò fuori, risalì sulla carrozzella e disse al vetturino: – A San Giovanni in Parco, vai, di corsa! Francesco Caso
- Quando, stretta al mio fianco
F. Hayez, "Il bacio", 1859, olio su tela. Quando, stretta al mio fianco, in atto leggiadrissimo d'amore, da qualche Dea appreso, mi prendevi la mano, e al collo bianco tuo l'avvincevi, il core, oh, mi batteva, ai tuoi bei vezzi preso! E mi scendea sugli occhi, mentre ridevi, argentina e vaga, un velo, un abbandono, ch'a te cadere mi faccia ginocchi: e per la immensa plaga l'eco portava dei tuoi visi il suono. I fiorellin del prato, odorosi, dischiusi a l'aura pura, drizzavano lo stelo, madandoci un effluvio profumato insieme a la natura, mentre ci baciavam dinanzi al celo. Dolce, molle stormiva un alito gentil d'infra le fronde; edera tutto incanto al lumeggiare de l'argentea Dora, che, specchiandosi a l'onde, sì c'ispirava de l'amore il canto! Berardino Conti Fonte: B. Conti, Poesia , in «Aquilonia», III:4, Agnone, 10 marzo 1886.
- Alla riscoperta della ferrovia Agnone-Pescolanciano
La vecchia stazione di Vastogirardi-Capracotta, oggi demolita. La sua lunghezza totale era di 37 chilometri e 309 metri, che venivano coperti in circa due ore di viaggio. A parte Pietrabbondante, le località intermedie che avevano una stazione su di essa erano molto piccole. Una fermata era intitolata "Trivento-Bagnoli" e un'altra "Vastogirardi-Capracotta", ma le località interessate erano lontane molti chilometri. Curiosa la situazione di Capracotta, a cui erano intitolate due stazioni: quella dell'Agnone-Pescolanciano e un'altra sulla Sulmona-Carpinone, ma dalla prima distava circa venti chilometri, e poco meno dalla seconda: distanze tali da non invogliare certamente gli abitanti del paese a servirsi della ferrovia; paradossalmente, sulla Sangritana, che correva vicinissima al centro abitato, non vi era alcuna fermata intitolata a Capracotta! Guglielmo Evangelista Fonte: G. Evangelista, Alla riscoperta della ferrovia Agnone-Pescolanciano , in «Molise Economico», X:3, Campobasso, dicembre 1983.
- La reincarnazione di Theodor Mommsen e la storia dei Sanniti pentri
Theodor Mommsen (1817-1903). Theodor Mommsen, storico, numismatico, giurista, epigrafista e filologo tedesco, generalmente considerato il più grande classicista del XIX secolo, premio Nobel per la letteratura nell'anno 1902, morì nell'anno 1903. Ignoravo che lui fosse la causa della diffusione della "sindrome Viteliù", convinto che nell'aldilà, avendo conosciuto e confrontato le conclusioni delle sue ricerche con Giacomo Devoto, morto nell'anno 1975, con Valerio Cianfarani, morto nell'anno 1977, con Edward Togo Salmon, morto nell'anno 1988 e con Sabatino Moscati, morto nell'anno 1997, si fosse ricreduto sull'origine dei popoli che tra il XI ed il IX secolo a.C. occuparono i territori della penisola italica centro meridionale. Anche i premi Nobel hanno la capa tosta ; pertanto, Devoto, Cianfarani, Salmon, Moscati ed i viventi Adriano La Regina, Gianluca Tagliamonte, Gianfranco De Benedittis, Stefania Capini, Angela Di Niro, Roberta Cairoli, Valeria Ceglia e tanti altri storici e studiosi, farebbero bene a cambiare mestiere e dare credito a chi oggi "reincarna" Theodor Mommsen e diffonde la "sindrome Viteliù". Il reincarnato Mommsen è venuto a conoscenza solo nel novembre 2017 della scoperta fatta nel mese di settembre dell'anno 2004 di una necropoli arcaica nel territorio del comune di San Pietro Avellana, località Piana di Sangro, di cui si conoscono 25 sepolture databili tra l'VIII e il VI secolo a.C. e, preso dalla foga della sua scoperta, non solo ha localizzato la «Val Fondillo a Barrea», mentre è nel comune di Opi, ma ha stimato, bontà sua, le tombe tra il «IX-VIII secolo», mentre sono datate, quelle di Barrea, località Baia-Convento, tra il 899 a.C. e il 200 a.C. Il reincarnato Mommsen ignora che la necropoli di Barrea è stata scoperta nella Vallis Regia e risale ad un periodo che va dal VII all'IV secolo a.C. e della necropoli di Alfedena, in località Campo Consolino è stato scritto: «Nel 1882 si rinvenne una necropoli italica unica per la sua imponenza ed importanza, con tombe ad inumazione databili dal VII al III sec. a.C. Ne sono state stimate circa 15.000 e ne sono state esplorate circa 3.000». Per la necropoli di Scontrone, sappiamo: «L'area era già conosciuta come sito di necropoli di epoca italica, tant'è che tornano alla luce sepolture con reperti provenienti da strati relativi a epoche diverse che vanno dalla prima età del ferro (IX secolo a.C.), all'età romana (dal II-I secolo a.C. fino all'età imperiale)». Per la necropoli di Guastra (così scrive il reincarnato Mommsen, o forse è Guastre?) di Capracotta, la datazione dei reperti è compresa tra il 590 ed il 525 a.C.; mentre per il territorio di Pietrabbondante, scrive la Soprintendenza Archeologica del Molise: «Le testimonianze più antiche, risalenti al V secolo a.C., sono quelle dei corredi restituiti dalla necropoli in località Troccola, sulle pendici occidentali del monte Saraceno. La sommità di questo monte verrà fortificata con una cinta muraria in opera poligonale, raccordata ad opere di difesa poste a quote più basse, in un momento in cui il territorio viene dotato di strutture difensive per opporsi alla minaccia romana. In questo momento (seconda metà del IV secolo a.C.) inizia la frequentazione del luogo di culto in località Calcatello». Sulla base di quanto illustrato e, soprattutto, sulla datazione delle necropoli, il reincarnato Mommsen vuole riproporci la sua bufala (non la mozzarella campana) sull'origine dei popoli di stirpe Safina/Sabina/Sabella/Sannita. Partiti dalla Sabina : i giovani migranti, a cui il reincarnato Mommsen non dà alcuna identità, si sarebbero per prima stanziati tra le montagne di Agnone e di Castel di Sangro e solo in seguito, con altre migrazioni avrebbero dato origine ai popoli che si denominarono Pentri, Caudini, Irpini. A rigor di logica, in base alla datazione delle necropoli citate dal reincarnato Mommsen e sulla sua inoppugnabile certezza dell'avvenuto 1° stanziamento degli anonimi giovani Safini/Sabini/Sabelli/Sanniti, dovremmo quanto meno scoprire che i loro discendenti (Pentri, Caudini ed Irpini), emigrando nelle rispettive sedi, fossero stati inumati in necropoli che dovrebbero per forza essere datate molto, ma molto dopo il IX-VIII secolo a.C. Purtroppo per il reincarnato Mommsen, le testimonianze delle necropoli scoperte presso i Pentri, i Caudini e gli Irpini, confermano l'inesistenza del 1° stanziamento tra le montagne di Agnone e di Castel di Sangro degli anonimi giovani Safini/Sabini/Sabelli/Sanniti: la loro inumazione è avvenuta prima dell'VIII secolo a.C., ossia era coeva o addirittura più antica, di quella dei loro presunti progenitori. Moscati scrisse: «l'ampia necropoli tornata alla luce recentemente presso Boiano. […]. La datazione si colloca tra l'VIII e il VII secolo a. C.: siamo dunque dinnanzi a testimonianze tra le più antiche finora conosciute della cultura di area sannitica [area che includeva: Pentri, Carricini, Frentani, n.d.r. ]. Successivamente scendono fino al IV-III secolo alcune tombe maschili, contenenti bacili e cinturoni di bronzo, punte di lancia e di giavellotto, ceramiche varie». Moscati non poteva conoscere ciò che fu scoperto nella pianura di Bojano, negli anni successivi alla sua morte: aree funerarie risalenti cronologicamente, scrive De Benedittis, al periodo compreso tra il IX ed il IV sec. a.C. Un'area, quella di Bojano, scrive De Benedittis, aperta agli scambi culturali sin dall'Età del Ferro probabilmente legata a quella viabilità naturale che attraversa la Piana di Bojano. Nella collezione Del Pinto, spicca il più antico reperto: «Fibula ad arco serpeggiante [...] Questo tipo di arco si sviluppa soprattutto in Italia centrale tra X e IX secolo». Bovaianom/Bojano era la "città madre", la capitale dei Sanniti/Pentri, un popolo già presente ed operante sul territorio ancor prima che una "anonima" popolazione si stanziasse tra le montagne di Agnone e di Castel di Sangro. Anche per il popolo dei Sanniti/Irpini abbiamo ritrovamenti occasionali che permettono una datazione che va dagli inizi del IX sec. a.C. agli inizi dell'VIII. Per il popolo dei Sanniti/Caudini: le sepolture portate in luce a Montesarchio sono più di 3.000, distribuite lungo un arco cronologico compreso tra la prima Età del Ferro e la fine del IV-inizi del III secolo a.C. La storia, più che le necropoli, testimonia il contemporaneo sviluppo economico, sociale e bellico dei popoli di origine Safina/Sabina/Sabella/Sannita: Caricini, Pentri, Caudini ed Irpini, definiti dagli Storici i Sanniti della montagna: alla fine del V secolo a. C. occuparono la città etrusca di Capua (anno 445 a.C.) e la città di Cuma (anno 421-420 a.C.). Probabilmente il reincarnato Mommsen ignora che l'edificazione delle aree sacre e dei templi scoperti nel territorio dei Sanniti/Pentri è così descritta dalla Soprintendenza: Vastogirardi, frequentata dal IV sec. a.C. Pietrabbondante, frequentata dal III sec. a.C. Schiavi d'Abruzzo, fine III ed inizio II sec. a.C. Campochiaro, alcuni reperti trovati nel santuario sono stati datati tra la metà del VII e la metà del VI sec. a.C. Sepino, frequentazione a partire dal IV sec. a.C. San Giovanni in Galdo, frequentato già alla fine del III-inizi del II secolo a.C. Come si può giudicare sacro per eccellenza il santuario di Pietrabbondante? Il reincarnato Mommsen ignora che «solo alla fine del II-inizi del I secolo a.C. verrà realizzato il complesso teatro-tempio con uno schema tipico dell'età ellenistica mediato dall'ambiente campano e latino. Gli ultimi scavi hanno indagato l'area a sud-ovest del complesso monumentale teatro-tempio individuando l'importante domus publica: unicamente alla fine del II-inizi del I secolo a.C. il centro religioso di Pietrabbondante fu considerato il Santuario della Nazione Sannita». Nel periodo precedente, La Regina scrive del santuario di Pietrabbondante: «Il santuario nella sua fase più antica non doveva essere più importante degli altri esistenti nelle zone circostanti: Agnone, Quadri, Schiavi d'Abruzzo, San Giovanni in Galdo, Roccaspromonte, e Macchia Val Fortore. Lo straordinario sviluppo di cui godette in seguito, benché segregato nel cuore di una regione montana, tagliato fuori dalle grandi vie di comunicazione, dimostra che fu potenziato, verso la fine del II sec. a.C., con la partecipazione di una vasta comunità, forse di tutti i Sanniti Pentri». Purtroppo il reincarnato Mommsen continua a divertirsi, manipolando soprattutto la storia dei Sanniti/Pentri. Che riposi in pace. Oreste Gentile Fonte: https://molise2000.wordpress.com/ , 4 novembre 2017.
























