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  • Devozione alla Madonna: verità e leggenda

    La Madonna di Loreto (foto: A. Mendozzi). Tra noi Cattolici la devozione alla Madonna è talmente diffusa che non c'è paesino o contrada che non abbia toponimi mariani. Anche Capracotta in questo ha dato il suo contributo. Abbiamo due Chiese intitolate a Maria: la Chiesa Madre e la Madonna; due vie: S. Maria di Loreto e S. Maria delle Grazie e, una volta, c'erano gli "alberi" della Madonna. I titoli coi quali invochiamo la Madre di Dio sono ugualmente numerosi al punto da suscitare meraviglia per la fantasia che hanno avuto i fedeli nell'invocare Maria. Il titolo più grande, che riassume tutti gli altri, è "Maria Madre di Dio". Esso ci introduce nel mistero principale della nostra fede: Dio uno nella sua sostanza divina in tre Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Maria, la piena di Grazia, è chiamata alla relazione unica di Figlia, di Madre e di Sposa. Tutte le verità di fede che riguardano Maria sono le conseguenze logiche di questo titolo. Lei viene al mondo immacolata, diventa Madre nella pienezza della Grazia dando alla luce la Fonte della santità. Coopera con il Figlio alla Redenzione dell'uomo, diventa il prototipo della Chiesa ed è assunta in cielo nella gloria degli Angeli e dei Santi. Questo spiega la devozione del popolo cristiano a Maria e nei 2000 anni di Cristianesimo c'è stata sempre una lodevole gara nel venerare la Madre di Dio con Chiese, Santuari e istituzioni in suo onore. La nostra Gente, attraverso le vicissitudini di venti secoli di storia, sotto la guida della Chiesa, ha conservato il culto a Maria ma spesse volte ha mischiato "Fede" e "religiosità". Ora la fede è la virtù teologale attraverso la quale noi aderiamo profondamente a quanto Dio ci propone di credere tramite il magistero della Chiesa. La religiosità è il bisogno che ogni essere umano sperimenta davanti a fatti e realtà che non sa spiegarsi ed allora ricorre al numen al quale attribuisce poteri speciali che non sono fatti oggettivi ma prodotti della sua fantasia. La fede di noi Cattolici non è un prodotto che viene dal basso ma dall'alto, cioè da un preciso irrompere di Dio nella storia dell'uomo. Nel caso della devozione a Maria Santissima è chiaro che procede dalla fede nella Madre di Dio così come ci viene insegnata dalla Chiesa. Molte volte nella purezza della fede si sono inserite pratiche di culto non corrette in cui l'elemento scaturente dalla "religiosità" ha avuto un certo rilievo su quello proveniente dalla "Fede". Circa la venerazione della Madonna in Capracotta bisogna affermare che essa deriva dalla fede autentica dei nostri avi, rettamente tramandata, tuttavia si deve ammettere che alcuni elementi di "religiosità", starei per dire, quasi fisiologici, sono rintracciabili. Ed allora ecco la mitizzazione e la leggenda che mia nonna Filomena mi narrava con tanta convinzione. Si sarebbe trattato di un suo antenato al quale, mentre pascolava le pecore in quel di Valle Sorda, apparve la Madonna nelle sembianze della statua che si venera ancora oggi. Informate le autorità, si decise di portare in processione la statua nella Chiesa Madre. Ma la Madonna, nottetempo, ritornò nel bosco. Apparve ancora ad altri pastori, si fecero altre processioni, ma la statua immancabilmente ritornò nel bosco, fino a quando le autorità decisero di fare una dimora momentanea sul Colle dove fino a pochi anni or sono c'era l'asilo, il che spiega perché quell'edificio si chiamasse "Casa della Madonna". Dunque la Madonna, apparsa ai pastori, accettò di risiedere momentaneamente nella cappella della Madonna delle Grazie, fino alla costruzione dell'attuale Chiesa. Fin qui la leggenda e, come tutte le leggende, ognuno la racconta a modo suo. Niente di strano che qualche compaesano, di fine memoria, possa offrire altri elementi... Certamente le apparizioni a Valle Sorda sono un tipico esempio di "religiosità" che è sconfinata nella fantasia e nel mito. Con ogni probabilità i Monaci Benedettini di Montecassino (la cui presenza nelle nostre zone si evince anche dai toponimi squisitamente benedettini) avranno esortato il popolo di Dio alla devozione alla vergine Santissima offrendo alla venerazione un simulacro già diffuso in altri luoghi d'Abruzzo e ponendolo nella piccola cappella che si trovava nei pressi dell'attuale chiesa. Forse il rifiuto della Madonna, apparsa ai pastori che, portata in paese, tornava nel luogo dove era stata vista dalla gente semplice, avrà voluto indicare i dissapori tra l'autorità dell'arcipretura di Capracotta e i monaci-contadini che vivevano lungo i tratturi. Questa ipotesi potrebbe essere suffragata dal conflitto al quale il Papa Gregorio XV volle porre fine abolendo le scomuniche scambiatesi tra il Vescovo ed altri non ben identificati ecclesiastici e laici cui fa riferimento una bolla del 1628. Il grande teologo e martire Dietrich Bonhoeffer, vittima illustre del nazismo, davanti al dilagare della secolarizzazione sosteneva che bisogna riportare il Cristianesimo alla purezza delle origini, eliminando tutte le incrostazioni della storia. Il primo passo da fare è istruirsi con impegno ed oggettività. Noi onoriamo Maria nella purezza della fede cercando di togliere tutto ciò che sa di "religiosità" e di mito. Mario Di Ianni Fonte: M. Di Ianni, Devozione alla Madonna: verità e leggenda , in «Voria», II:4, Capracotta, settembre 2008.

  • Fonde Vrecciara

    La Fonte Brecciaia (foto: F. Mendozzi). Nascòŝta tra le ròcchie e re cantùne ce ŝta na fundanèlla d'acca chiara, da tutte è canusciùta, a tutte è cara ru sòle s'arrespècchia 'nghe la lune. O funtanèlle mé, F ó nde Vrecciàra tu vita sié pe mé, amica vèra, a 'ssacqua frésca e pure tu dié restòre, passa 'nziéme a l'arsùra ògne ranc ó re. Se passe e véve 'ssacqua fresca e pura come nu viécchie amìche m'arcanùsce, me dié 'na voce mèntre scùrre sfrùsce e me fié luce quande è notte scure. Le sacce ca la vita è tante amara, le sacce ca la via è l ó nga e storta, chi sò, d ó vàije spiérte, add ó me porta tu sulamènte 'acc ó ntale a ru mare. Osman Antonio Di Lorenzo Fonte: O. A. Di Lorenzo, Prete oggi: viaggio della conoscenza. Da Capracotta al cuore della gente con memorie e speranza , Volturnia, Isernia 2024.

  • Viteliù - E venne il tempo

    Roma, idi di Majus dell'anno 68V Il vecchio si svegliò di soprassalto. Sudato e in preda all'agitazione, come ogni volta che quel sogno tornava. Accadeva sempre più spesso, ultimamente. Quella scena lo perseguitava. – Signore... Sentì la voce del servo vicina e preoccupata. Durante il sonno aveva gridato e Kaeso era entrato nella stanza per vedere cosa fosse accaduto. – Sto bene, era solo quel sogno. Il solito incubo; ma è sempre più vivo e... sempre più doloroso. – Succede quasi ogni notte ormai, signore – disse il servo. – Non riposate più. – Si direbbe che... – Cosa? L'anziano cieco tese la mano per farsi aiutare e sedette sul letto. Il servo gli infilò i calzari. – ...si direbbe che il passato torni con insistenza per annunciarmi qualcosa. Forse vuole invitarmi a rompere gli indugi. Orinò nel pitale di stagno che Kaeso gli aveva avvicinato, poi chiese acqua per lavarsi. Quella mattina - l'alba era appena spuntata - si lavò il viso con particolare cura. – Salvare la memoria e l'onore – mormorò, come se dovesse ricordare a se stesso un dovere. – Salvare la vita di chi è rimasto – , aggiunse. Si asciugò il volto con un panno di lino grezzo e subito dopo ordinò con risolutezza: – Prepara un bagno caldo – e si tolse i calzari da solo. – Padrone – , disse il servo, – oggi... con tutto il rispetto... non è nessuna delle ricorrenze che voi solitamente celebrate... Non si spiegava, Kaeso, quella richiesta inconsueta. – Fai come ti dico – fu l'unica risposta, dal tono piuttosto deciso. Il vecchio attese che l'acqua si scaldasse nel caldaio di rame appeso sul focolare, poi si fece aiutare per spogliarsi ed entrare nella tinozza di legno. Kaeso non l'aveva mai visto completamente nudo, in tutti quegli anni. Un fisico solido, nonostante l'età, pensò il servo, e ancora capace di una qualche agilità. Notò la spalla e il braccio destro più muscolosi rispetto all'altra parte del corpo, come accadeva per gli uomini atti alle armi, segni lievi di antiche ferite e uno strano tatuaggio al centro del petto. Un toro che incornava un cane o qualcosa del genere. Ciò che lo colpì di più era un segno sotto il ginocchio sinistro. Il sangue gli si raggelò nelle vene: era l'inconfondibile callo lasciato dallo schiniere indossato dai più feroci tra i guerrieri italici. Il servo deglutì, ma non ebbe il coraggio di proferir parola. Il bagno durò poco. Quella stanza povera non aveva visto che poche volte una tale scena, almeno dal tempo in cui i due vi abitavano. – Non pensare che io sia impazzito – disse l'anziano rialzandosi per asciugarsi, – o incanutito al punto da non ricordare il calendario del mio popolo e le ricorrenze. Ho ancora bene a mente tutte le feste sacre dell'anno, i templi e tutti gli dèi della Tavola. S'interruppe. Pensò al sogno e alle ultime, terribili, immagini che i suoi occhi avevano visto. – La Tavola... – si riprese e alzò la testa come per guardare lontano – ...è tempo che riveda la luce e che torni al suo posto. Il tesoro... Viene un tempo per tutte le cose – disse rivolto a Kaeso – e anche questa volta il giorno è arrivato. Fece una pausa, restò assorto nei suoi pensieri. – Ieri mi hai detto dei falchi – riprese, – volteggiavano con in-sistenza su questa casa. Non è vero? – Sì, è così, erano tanti, tutti insieme. I piccioni di Roma fuggivano terrorizzati. – Un segno... un altro. E l'incubo che si fa insistente... Ancora una pausa. Poi alzò il capo come per guardare lontano. – Sì, accadrà oggi" disse con risolutezza e trasse un profondo respiro. – Signore... – provò a prendere la parola il servo. – E non chiedermi più nulla! – L'anziano lo interruppe bruscamente. – Piuttosto prendi le forbici e il rasoio. Questo non era davvero mai accaduto. Da quando lo conosceva - ed erano passati ormai quasi otto anni - il vecchio non si era mai tagliato i capelli né la barba che insieme formavano un'unica foresta bianca e selvaggia, a tratti ingiallita, intorno al viso scavato dalle rughe. Kaeso aveva imparato ad avere rispetto di quel vecchio che Lucio Cornelio Silla, il Dictator in persona, gli aveva ordinato di servire. – Dovrà vivere il più a lungo possibile sino a che io sarò in vita – gli aveva detto, – ma non dovrà lasciare Roma, pena la tua morte – . E Silla non era uomo da non mantenere certe promesse. Da quel momento lo schiavo di origine umbra si era preso cura di quel vecchio e un funzionario aveva sempre badato a versare quanto bastava per sostenere entrambi. Non era molto, ma sempre meglio della vita che Kaeso avrebbe condotto restando nel fondaco della fullonica tra le vasche dei colori per i tessuti dove aveva lavorato fino a quell'incontro; lì gli acidi lo avrebbero ucciso o mutilato molto presto. Perciò lo schiavo aveva imparato a vedere nell'anziano la sua rendita vitalizia e gli era rimasto accanto nonostante la morte di Silla, perché, per ordine espresso del senatore Gaio Licinio Verre, il denaro continuava a essere versato regolarmente. Molti a Roma credevano che il suo assistito fosse un notabile di una qualche tribù non latina, forse un sacerdote, che aveva reso dei servigi a Silla tanto da guadagnarsi il vitalizio dello stato romano, ma nessuno sapeva davvero la verità. Pochi avevano udito la sua voce. Kaeso, pur non conoscendo chi fosse veramente quell'uomo, aveva capito che nel passato doveva essere stato importante fra la sua gente. Italici, certamente, e la lingua osca che entrambi parlavano lo testimoniava, ma quale delle genti delle montagne? Quel vecchio aveva i tratti e il parlar colto e autorevole di un capo, o di un sacerdote, senza particolari inflessioni. Ora, la certezza di trovarsi di fronte un guerriero, sannita forse, aveva provocato nel servo fremiti di paura. Temette per più di un attimo che fosse un Pentro, sopravvissuto chissà come alle stragi ordinate da Silla. I Pentri, la razza più temuta e odiata dai Romani da due secoli e oltre. Il popolo che Silla aveva condannato alla damnatio memori æ . Era forse, il vecchio, un capo sopravvissuto alla battaglia di Porta Collina? Un traditore passato in segreto dalla parte dei Romani? Chi fosse dunque l'anziano e perché Silla lo avesse lasciato in vita, in pratica prigioniero a Roma, Kaeso lo ignorava. Ma, fin dall'inizio di quella storia, aveva avuto l'impressione netta che per lui fosse meglio così. Una sola volta lo schiavo aveva provato a chiedere spiegazioni, ricevendo una risposta tale da non lasciar dubbi. Non avrebbe saputo la verità e soprattutto non doveva chiederla. Quella mattina stavano succedendo cose nuove. Qualcosa si preparava. La stranezza del bagno, il taglio dei capelli e della barba. Un fremito di paura attraversò di nuovo la schiena del servo cui dolevano le viscere per la tensione che vi si andava accumulando. Di natura non era un coraggioso e una vita quieta e riparata dai guai era stata sempre il massimo delle sue aspirazioni. Terminò l'operazione seguendo le istruzioni dell'anziano che chiamava "signore" o "padrone" ignorandone del tutto il nome. Il casco dei capelli bianchi ora era ordinato e la barba bianca, lunga pochi centimetri, incorniciava il viso che sembrava ringiovanito di almeno dieci anni. Il vecchio chiese al servo di trarre da una cassa, fino a quel momento mai aperta, una tunica e il bastone che vi erano contenuti. Terminata la vestizione l'uomo si alzò: davanti a Kaeso apparve una figura diversa, solenne e dritta, dentro quella tunica chiara di lana grezza bordata di rosso, il vestito di un capo. Il volto autorevole, nella mano destra l'alto bastone di legno chiaro che alla sommità portava una piccola scultura di bronzo raffigurante la testa di un toro. Lo schiavo stentò a riconoscere nella persona che stava osservando il vecchio silenzioso e burbero che aveva servito per quegli otto lunghi anni. – È ora di andare – disse il cieco e porse il braccio per farsi accompagnare all'uscita. Kaeso fece appena in tempo a prendere la bisaccia e il mantello leggero. Uscirono. La temperatura era ancora fresca a Roma in quel mattino di mezza primavera. Una rossa aurora annunciava il sole che non era ancora spuntato all'orizzonte. Nelle strade la vita aveva cominciato a correre in quello che era uno dei quartieri commerciali della città. Nel giorno che divideva in due il mese di Majus , cadeva la festività dedicata a Mercurio, il dio alato figlio di Giove e di Maja. Arbitro di tutti gli dèi, era venerato dai commercianti come loro protettore. Proprio questi ultimi, quella mattina, erano stati i primi a scendere in strada. Il vecchio e il suo servo ne incontrarono diversi con rami di alloro nelle mani mentre si dirigevano verso la fonte sacra di Porta Capena. Qui avrebbero bagnato le fronde e, con queste, il proprio capo. Tornati a casa, avrebbero provveduto ad aspergere con la stessa acqua le loro mercanzie; era infatti antica credenza che il rito, accompagnato da preghiere e invocazioni a Mercurio, servisse a cancellare le colpe del passato legate alla disonestà e, nel futuro, a favorire gli affari. Svoltarono nella via dei pellai, una strada larga, in leggera discesa, con marciapiedi su entrambi i lati e passaggi pedonali fatti di blocchi di pietra allineati, più alti di quasi due piedi rispetto al fondo, pavimentato con grandi lastre calcaree. I primi carri già la percorrevano. Non erano poche le botteghe già aperte; sui banconi all'esterno gli artigiani e i loro schiavi sistemavano le merci in bella evidenza; qualcuno era già al lavoro, chino a tagliare pelli o a cucire suole. Profumo di cuoio, colle e pelli appena conciate accompagnarono la coppia in tutto il percorso fino a metà della via. Di qui i due svoltarono a destra, imboccando una strada più stretta e ancor più brulicante di vita. Era la strada dei lanaioli impegnati dal periodo di lavoro più intenso di tutto l'anno. La prima lana, tosata nei giorni precedenti, era stesa ad asciugare dopo il lavaggio. Alcuni pastori, riconoscibili dalle vesti di pelli o di lana grezza e dagli strani calzari a punta tenuti fermi da stringhe di cuoio al polpaccio, accompagnavano i proprietari delle greggi impegnati a contrattare il prezzo della preziosa materia prima con i bottegai e gli artigiani. Le grida e il rumore dei carri carichi di lana che entravano in città si confondevano con i canti delle donne già intente a cardare decine di velli. Migliaia di pecore senza più la pesante protezione invernale sostavano, strette l'una all'altra per ripararsi dal freddo, poco fuori delle mura della città, tappa obbligata del loro imminente viaggio verso i monti della Sabina e dei Marsi. L'anziano conosceva bene l'odore dolciastro della lana grezza e a un certo punto si fermò. Alzò un poco il capo e dilatò le narici inspirando profondamente. Catturò con un leggero senso di piacere quel profumo a lui tanto familiare. Era il quartiere che negli anni del soggiorno forzato a Roma egli era solito frequentare soprattutto nei mesi di Majus e Junius . L'unica strada in cui ritrovava, nella città nemica e straniera, qualcosa della sua terra. Si fermava volentieri ad ascoltare i diversi dialetti della sua lingua madre divertendosi a indovinare le provenienze di pastori e proprietari. Con qualcuno intrattenendosi più a lungo. Erano le uniche occasioni nelle quali Kaeso vedeva barlumi di serenità nel vecchio che accudiva. Quella mattina l'anziano restò fermo solo per pochi attimi, assorto. Il grido di un nibbio che volava basso sui tetti di Roma alla ricerca della prima preda della giornata lo distolse. Volse la testa in alto come per vederne il volo, dunque riprese la marcia, nuovamente concentrato sulla missione che da troppi anni attendeva di compiere. Nicola Mastronardi Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà , Itaca, Castel Bolognese 2012.

  • L'arma chimica

    L'effigie di Gennaro Carnevale sulla moneta del Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma. Finalmente! Quando, durante la Grande Guerra si sentì per la prima volta parlare di un nuovo mezzo di offesa di cui i Tedeschi si erano serviti - i gas asfissianti -, un senso di orrore e di riprovazione si diffuse in tutte le Nazioni civili. Il sentimento umano insorse, e da tutte le parti fu biasimata severamente questa insidia distruggitrice di vite umane. Non si pensò in quel primo momento di sorpresa, che non meno terribili e medicinali erano gli altri mezzi bellici ritenuti leciti dalla Convenzione dell'Aja, che i tedeschi così violavano apertamente. Cessato lo stupore, si passò subito alla rappresaglia, e gli alleati si servirono anch'essi dei gas asfissianti. Oggi si parla, più o meno insistentemente, dell'Arma Batterica. Pare però che le apprensioni che si nutrivano per quest'altra micidialissima Arma, che il dott. Flick ritiene capace di produrre effetti spaventosi e terribili, non siano giustificabili: così almeno sostiene il tenente generale medico Arcangelo Mennella. Son trascorsi quattordici anni dal giorno in cui i tedeschi effettuarono, nel settore di Ypres, fra Langermarck e Bixschoote, il primo attacco con gas asfissianti, e durante tutto questo tempo l'Arma Chimica è stata sempre considerata inumana e barbara. Anche recentemente il Mazzini Beduschi, trattando dell'ossigeno elettrolitico - argomento questo in cui egli è indubbiamente ben ferrato - ha riferito che, avendo interpellato un clinico sull'uso dell'ossigeno nella cura dei gassati, gli fu risposto che, quanto alla cura, va bene, ma che la Guerra Chimica è inumana. Inumana? Ma perché? Basta guardare un po' spassionatamente in faccia la realtà, senza che più o meno ammissibili ideologie facciano deviare il ragionamento dalla logica conclusione, per convincersi del contrario. È stata forse l'Arma Chimica quella che ha procurato le mutilazioni più orribili, le sofferenze più atroci, le invalidità permanenti più penose? Assolutamente no. E se noi consideriamo l'Artiglieria come una nobile Arma, non chiamata né barbara né inumana, perché dobbiamo designare con tali appellativi l'Arma Chimica? Son forse "umani" i torrenti di fuoco rovesciati sulle linee e sulle retrovie nemiche? Si parla d'insidia: ma soltanto l'Arma Chimica è insidiosa? E le navi colate a picco dai sottomarini in agguato? D'altronde, pretendere certe esclusioni di colpi in una guerra che doveva decidere i destini di parecchi popoli, significa voler pretendere troppo. La guerra moderna non si può più combattere così come i «Cavalieri antiqui» combattevano le loro battaglie, e ogni Esercito, per difendersi, si serve di tutti i mezzi che ha a propria disposizione. L'Arma Chimica è un'Arma uguale alle altre: non è né più inumana né più insidiosa di altre sue consorelle. È stata biasimata troppo, e ingiustamente. È necessario convincersi ch'essa sarà quella che avrà parte decisiva nelle Guerre future. Senza dirne più male, va considerata pur quello che è. L'hanno capito anche a Ginevra, dove, dopo tutti gli ostracismi, è stata - finalmente - riconosciuta lecita la Guerra Chimica. Era tempo! Gennaro Carnevale Fonte: G. Carnevale, L'arma chimica , in «L'Officina», III:1, Roma, gennaio-febbraio 1930.

  • Lo spazzaneve dello Zio d’America

    Il problema degli spazzaneve non era mai stato d'attualità come quest'anno nei comuni del Sud. In passato ci si limitava a spalare le strade, qualche volte si costruivano spazzaneve rudimentali; ma nella maggior parte dei casi, ci si rassegnava all'isolamento. Ora invece, nessun comune fa a meno della macchina che apre le strade. L'Anas è ossessionata dalle richieste telegrafiche. Quest'anno qualche agricoltore ricco ha avuto una trovata. Dopo aver adattato a spazzaneve i trattori che gli servono normalmente per l'aratura e per la mietitura, li ha messi a disposizione dei comuni, domandando compensi che qualche volta arrivano fino a 20.000 lire al giorno. È difficile dire quanti telegrammi sono stati inviati ai ministeri e quanti ne sono stati inviati invece ai parenti americani. In Abruzzo, per esempio, l'eccezionale nevicata di questo anno ha fatto nascere negli abitanti di molti comuni di montagna la speranza di un nuovo miracolo di Capracotta. Ecco di che si tratta: due anni fa, Capracotta rimase sepolta sotto la neve. La notizia non commosse gran che gli italiani, ma i molisani d'America, quando lo vennero a sapere attraverso le lettere dei parenti, decisero di mettere termine alle insufficienze dell'Anas. Fecero una sottoscrizione e comprarono uno spazzaneve GM, fornito di un apparecchio ricevente e trasmittente, di un lettino, di una cassetta di medicinali e di liquori. Oggi il GM di Capracotta è un mito, anche se avendo le ruote di gomma non serve molto in un comune di montagna, per non parlare dell'alto costo della manutenzione. Brucia infatti tre litri di benzina a chilometro. In tutto il Sud la dotazione degli spazzaneve è risultata insufficiente. L'Anas (Azienda Nazionale Autonoma Strade) con quelli che ha a disposizione si è preoccupata soltanto di tenere sgombri i valichi dell'Appennino che portano a Napoli e a Roma. Nel Molise per sgomberare 533 chilometri di strade statali ci sono due lancianeve a turbina e sette spartineve, oltre a qualche camion "tre assi", adattato a spazzaneve con una lamiera ricurva fissata davanti alle ruote. Ogni compartimento dell'Anas infine ha l'abitudine di aprire solo i tratti di strade della sua zona. L'autonomia provinciale gli consente cioè di non coordinare il proprio lavoro coi comportamenti vicini. Così molto spesso le strade sono state aperte solo a metà e la neve le ha riempite di nuovo prima che il lavoro potesse essere terminato. Sabato 11, alle nove del mattino, uno spazzaneve fu fatto partire da Alfedena con cinque cantonieri a bordo per aprire il passo di San Francesco che conduce a Colle a Volturno, collegandola provincia dell'Aquila con quella di Campobasso, via Isernia. Lo spazzaneve percorse circa otto chilometri e dopo dodici ore di lavoro arrivò al confine della provincia. Non l'oltrepassò neppure di un metro. Se avesse fatto altri tre chilometri in più avrebbe incontrato una strada già sgombra e il valico sarebbe stato più transitabile. Se il servizio degli spazzaneve è apparso insufficiente in Abruzzo e Molise, in un'annata eccezionalmente nevosa come quest'anno, in Lucania spesso questa macchina che apre le strade è stata soltanto un mito. Nella provincia di Matera, che comprende 29 comuni e che ha una superficie di 3.442 chilometri quadrati, normalmente non esiste alcun trattore. Grossi comuni come Migliorico, Montescaglioso, Ginosa, Laterza, Pisticci e lo stesso capoluogo che si trova a 401 metri di altezza, tutti gli anni devono affrontare il problema delle strade chiuse dalla neve, che nel 1949 raggiunse e superò il metro d'altezza. La mitezza del clima però ristabiliva presto la normalità. Quest'anno invece i muri di neve resistono, si solidificano. E l'isolamento dei paesi non dura più pochi giorni, come nelle annate normali, ma rischierebbe di durare settimane se non arrivassero i soccorsi dell'Anas e dei carabinieri e se il clima si mantenesse sotto zero. Ora siamo a metà febbraio. In questa parte della Lucania (nel Molise e in Abruzzo accade lo stesso) cominciò a nevicare il 3 febbraio. La tormenta sradicò i pali della luce e del telefono. I sedici guardafili della zona provvisti di un solo automezzo senza catene, cercarono di ristabilire i contatti ma non ci riuscirono. Mancò la luce. I molini e i pastifici si fermarono, le botteghe artigiane e le poche officine chiusero. Eppure, a Matera, dove l'amministrazione provinciale è deficitaria, il comune ha saputo trovare dieci milioni per la squadra di calcio. Uno spazzaneve non costa di più. Luigi Locatelli Fonte: G. Corbi, L. Locatelli e S. Morriconi, Tragedia e commedia del freddo , in «L’Espresso», Milano, 19 febbraio 1956.

  • «E che scié uarduate 'Ndò, re cuazze che te freca?»

    Questa è la storia di una vedova di Capracotta, una donna umile ma ferrigna, come buona parte delle donne capracottesi d'un tempo. Suo marito Antonio era sepolto da tempo al cimitero comunale, in una cappella che affacciava sui pascoli a sud del paese. La vedova andava tutti i pomeriggi a trovare il coniuge defunto, al quale non mancava di dedicare un eterno riposo. A ben vedere, al cimitero ci andava anche per conversarci un po' col marito. Un giorno, infatti, gli raccomandò di badare ai buoi che la sera prima aveva lasciato al pascolo, affinché, incustoditi, non andassero a mangiarsi le lenticchie ammucchiate nel terreno che costeggiava il muro del camposanto. Il mattino successivo, però, la vedova trovò l'intera piantagione di mìccole divorata dai bovini. Così, tornata nel pomeriggio sulla tomba del marito, sbottò: – E che scié uarduàte 'Ndò, re cuàzze che te frèca? Francesco Mendozzi (su idea di Gregorio Giuliano)

  • Symbolum Nativitatis #1

    Il presepe francescano è un fermoimmagine. È l'infinitesimale istante in cui una insolita storia familiare si trasforma in una prospettiva universale, in un emblema di speranza e riscatto, di gloria e vita eterna. Il presepe è la povertà che trascende il suo aspetto materiale per tramutarsi nella ricchezza del Verbo. La scena è quella di una grotta sulla collina di Beit Lehem, al cui interno sta una coppia apparentemente mal composta tra un anziano falegname e una virtuosa Giovinetta, tra di essi una mangiatoia utilizzata a mo' di cuna e, in cielo, una meteora particolarmente luminosa che ravviva gli oliveti e i deserti. È in quel frangente che Dio riscrive la Storia. La realtà severa e ammonitrice del vecchio testamento si converte nella bimillenaria avventura di amore e redenzione nella quale siamo immersi come liquido amniotico. Come può un momento - che per definizione svanisce non appena lo si nomina - protrarre un'eredità tanto travolgente per gli uomini del pianeta? Il mistero del presepe è proprio questo: nel suo batter d'occhio sta il messaggio cristiano perpetuo. E nel cristianesimo vi sono tutti i valori che stanno alla base della nostra quotidianità. Manca lo spazio per un solo sentimento, la di- sperazione, ovvero l'assenza di speranza. «Il Regno dei Cieli non avrà fine»: per quale motivo dovremmo disperare? Il presepe rudimentale che ho pensato per la prima edizione di "Presepi e quartieri", dunque, intende esaltare il momento infrangibile della natività capovolgendone le sue peculiarità: da baleno effimero, da istante fuggevole, si fa natura (apparentemente) morta. Sul pavimento le briofite del Monte di San Giovanni, tessuti vascolari che assorbono e spurgano acqua in continuazione. Le volte della grotta emulate da cimaglie del Monte di San Luca, sterpaglie per definizione sterili. A figurare i santi personali di Maria e Giuseppe, due chianconi del Monte delle Cornacchie, ché la Fede è saxo durior , più dura del sasso. Attorno alla scena della natività, la neve: acqua che muta il suo stato al mutare della temperatura. Il Bambino verrà posizionato il 25 dicembre, nel giorno del sole invitto. L'unico elemento ahimé artificiale del presepe è l'impianto a led: per motivi di sicurezza, purtroppo, non è possibile utilizzare le fiamme vive, le quali avrebbero rappresentato l'elemento naturale ideale per chiudere il cerchio di questo primo symbolum nativitatis . Il sito scelto per il presepe è la scalinata del sagrato della Chiesa di San Vincenzo e della Madonna Incoronata. Quella scalinata, infatti, può in qualche modo richiamare il colle di Betlemme su cui sorge la Basilica della Natività, dove nel 2013 toccai con mano la stella d'argento sotto la quale nacque il Figlio di Dio e dell'uomo. Guglielmo di Ockham sosteneva che Dio differisce dalla pietra perché questa è finita. La teologia ci invita, anzi ci impone, di immaginare una pietra infinita. Buon Natale a tutti. Francesco Mendozzi

  • La chiamata

    Senza accorgercene, passiamo la vita ad essere chiamati, da quando nasciamo fino alla fine. La chiamata può essere vocale o su carta, in qualche caso persino spirituale. Al giorno d'oggi tramite un telefonino, in passato tramite i fischi degli amici. Da piccoli venivamo chiamati dalla mamma, anche se non ancora parlavamo, e lei ci ha insegnato a farlo. Si passa alla chiamata della maestra, a scuola, per essere interrogati, fino a quella del professore, sempre per lo stesso motivo. Non si contavano i richiami per le marachelle fatte. Ad alcune chiamate puoi anche rispondere di no o far finta di non sentire, ma non tutte le chiamate andavano perse. Quando giungeva la chiamata/cartolina alle armi dovevi partire per forza e, passata la prima visita generale, ti vaccinavano sul petto senza che comparissero, nella maggior parte dei casi, reazioni di alcun genere. Per i renitenti che non rispondevano alla chiamata dello Stato, l'alternativa era quella di espatriare, altrimenti se erano guai. Per fortuna, il servizio militare è stato abolito. Alcuni, nati poveri in luoghi caldi, mettevano per la prima volta le scarpe proprio durante il servizio militare. Si partiva di solito per gli Alpini ma erano gettonati anche altri corpi come l'Aeronautica o l'Esercito. Su richiesta, si poteva andare anche nei Carabinieri, Guardia di finanza, Forestale, Vigili del fuoco o Guardie carcerarie. A proposito, ecco un breve aneddoto sui secondini e Capracotta... Correva l'inverno 1957-58 ed è noto che allora cadesse molta più neve di oggi e si poteva praticare un solo sport: lo sci. I capracottesi hanno sciato in tutta Italia, compresa la Sicilia! Partì per la Trinacria una bella squadra composta da Luigi Angelaccio, Adriano Comegna e Mario Fiadino, accompagnati da Pasquale Sozio, detto " Cecélla ", per andare a fare una gara alle Madonie. Di neve, però, non ce n'era, come non c'erano i telefoni cellulari! Visto che gli organizzatori siciliani avrebbero rimborsato viaggio ed albergo solo se la gara si fosse effettivamente svolta, mandarano un telegramma allo Sci Club Capracotta per avvertirli del problema, ma i nostri atleti erano già partiti, anzi avevano già preso il treno per Napoli e pure il traghetto... ci fu un disguido! Una volta arrivati in Sicilia, rimasti senza soldi per tornare a casa, Adriano ricordò che un nostro paesano, Angelo Di Bucci, faceva il secondino in un noto carcere di Palermo, il famigerato "Ucciardone". Il paesano, avendo saputo del problema, non esitò ad ospitare tutti gli atleti. Qui le versioni divergono e non tutti i pareri concordano sull'accaduto. C'è chi dice che dormirono all'Ucciardone e chi afferma che, avuti i soldi da Angelo, ripartirono col treno la sera stessa o la mattina dopo. Ora torniamo alla "chiamata"... Altri rispondevano alla chiamata spirituale del Signore facendosi preti: lì imparavano a leggere, a scrivere e a far di conto, poi imparavano il latino, il greco e l'italiano. Vi erano persino chiamate/vocazioni multiple! Si pensi che nella famiglia Carnevale ben 4 fratelli sono diventati preti. Altre chiamate, tramite fischi, arrivano dai tanti amici per giocare a carte o per bere insieme e divertirsi. Chi si è sposato e ha avuto la fortuna di avere i figli, ha ricevuto chiamate da loro per qualsiasi tipo di richiesta, di aiuto o per semplici consigli. A 94 anni, un mio zio chiamava la mamma perché gli venisse ad alleviare i forti dolori che accusava e diceva in continuazione: «Mamma mia! Mamma mia! Mamma mia!». L'ultima chiamata da cui non ti puoi esimere - almeno per chi crede - è quella del Padreterno. Si sa che la morte non è lontana dalla vita e tutte e due vanno a braccetto. Anzi, a ben vedere, la morte fa parte della vita. Temere la morte significa morire due volte: si nasce soli e l'ultima chiamata, infatti, è privata. Lucio Carnevale

  • Poesia

    Cosa sei tu poesia che fai piangere il cuore? Sei dolcezza di una mano di fata, emozione di un'alba nascente, fredda durezza della mente crudele, pianto, sospiro, paura e sorriso! In te solamente discopro le intime cose; nel tuo verso io stampo la polvere che ricopre il mio passato: tu mi tenti ed io non resisto al tuo richiamo! Ugo D'Onofrio

  • Luciano Sammarone: «Conoscenza e consapevolezza sono la via»

    Sulmona, 25 novembre. Al tempo e alla strada capita di attribuire ruoli più prossimi all'allontanamento che alla condivisione e alla conoscenza. Non è andata così il giorno in cui Luciano Sammarone, direttore del Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise, mi ha ricevuto a Pescasseroli, presso la sede dell'Ente Parco. Tutto si è svolto in un tipico pomeriggio novembrino, in cui una pioggerella indecisa, un freschetto da cappotto, si lasciavano attraversare da una nebbiolina timida. La strada che mi ha condotto nella sede dell'Ente Parco, sita in via Lucia n° 2 in Pescasseroli, è la Marsicana SS83. Per chi non la conosce, la si consideri al pari di una donna sinuosa e piena di curve, tutte al punto giusto e tutte a preannunciare scorci di natura esilaranti. La sensualità di questa strada porta alla visione del lago di Barrea, annuncia l'ingresso alla Camosciara, corteggia, appassionatamente, tratti di bosco fitto in vestizione di un egregio e damascato foliage. Mostra orgogliosa qualche capo di bestiame che, si gode le ultime giornate di libertà, prima dell'arrivo degli attesi fiocchi di neve. A questo tempo scientificamente meteorologico, umanamente figlio di madre natura e a questa strada che attrae e seduce, ha fatto da corona e da palinsesto il tempo e la perizia del colonello dei Carabinieri Luciano Sammarone. Un'intervista di quasi sessanta minuti, quella consumatasi intorno al tavolo di vetro della sala riunioni del parco, insieme al neo-rieletto direttore Sammarone. A capotavola io e i miei appunti, alla mia destra il Direttore con il suo telefono silenziato, per meglio accogliere e soddisfare ogni mia domanda. Domanda: – Dal 2022 la tutela dell'ambiente entra in Costituzione. Si è detto nell'interesse delle future generazioni. È davvero una cosa nuova, ne avevamo davvero bisogno, o era già tutto disciplinato e si era, semplicemente disatteso? Risposta: – No, cento anni di Parco hanno significato tanto. Il Parco nasce per tutelare le silvane bellezze e i tesori della natura. Questo l'intendimento iniziale che si conserva intatto ancora oggi, la conservazione non è un punto di arrivo e le sfide, perché ciò sia concretizzabile sono sempre nuove e sempre più numerose. Il mutare delle società richiede nuove azioni, per certi versi è stato più facile convincere i nostri nonni a rinunciare ad un pezzo di pascolo a favore dell’introduzione di riserve integrali che, far capire ad "orde" di turisti di frequentate il Parco con il cane al guinzaglio, oppure di evitare l'uso delle biciclette in alcune aree. Questi sono paradossi rilevanti, in passato con i frutti della montagna ci si "cacciava" il pane, ci si viveva. Oggi in montagna ci si va quasi sempre per diletto. Necessario quindi codificare nuovamente e implementare l'esistente legislativo, soprattutto perché nel frattempo sono subentrate tante scoperte, seppur resta molto da risolvere. In tutti questi anni il Parco ha affrontato e vinto molte battaglie, si pensi alla storia della Cicerana, oppure la battaglia degli anni Settanta per scongiurare un impianto scioviario sopra al Monte Marsicano, si pensi, altresì, alla realizzazione di un impianto sciistico, secondo alcuni mai tramontato, che da Passo Godi dovrebbe raggiungere l'Aremogna. Il tempo comporta ed importa cambiamenti e sfide, che necessitano di una pronuncia legislativa adeguata. Queste sono battaglie iconiche, se ne potrebbero elencare di minori e di quotidiane. In un'ottica più ridimensionata, possiamo affermare che la conservazione ha raggiunto buoni obbiettivi, si pensi al lupo, al camoscio. La narrazione, riferita al  lupo, è cambiata molto, seppur si sta assistendo ad un'inversione di tendenza. Purtroppo, le criticità persistono! Riferendoci agli orsi possiamo sostenere che vi è qualche unità in più, siamo lontani dalla mattanza degli anni Ottanta, che si caratterizzò per innumerevoli episodi di bracconaggio. Per l'anno venturo, infatti, con l'ausilio di una stima su base genetica, verosimilmente possiamo aspettarci un incremento positivo delle unità. Tutto sulla scorta di un progetto scientifico e di ricerca. Questo richiede nuove misurazioni e incessanti confronti, in questo contesto non è concepibile l'immobilismo di azione e di studio. D: – Il Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise è, tra le altre cose, risorsa turistica, pertanto generatore di flussi economici. Neppure questo aspetto contribuisce ad una totale accettazione di esso, improntando tutti ad una coesistenza collaborativa e laboriosa? R: – Non siamo davanti ad un vero rifiuto, ci si trova ad affrontare una mancata consapevolezza, cosa ben diversa. Lo spettro « arriva il Parco e mi mette i vincoli » persiste ed è ancora sbandierato. La sfida "Abruzzo Regione verde d'Europa", la rete delle aree protette ha fatto e fa la differenza. L'orso si sta allargando verso nuove aree protette, si veda la riserva Regionale del Genzana, il Parco Sirente-Velino e il Parco Nazionale della Maiella, tutte sinergie su cui si deve investire e lavorare senza sosta. Non si può asserire che manchi una coscienza in tal senso, bensì si è carenti di consapevolezza. Spesso sfugge la reale comprensione dei contenuti, degli aspetti e delle finalità di un'area protetta. Non si abbia a tralasciare che i famosi e tanto celebrati servizi ecosistemici, realmente masticati da pochi contribuiscono al mantenimento del tutto. Nel mio piccolo, per fornire risposte concrete a chi taccia il Parco di questa o quella colpa, ho voluto rispondere con un approfondimento di analisi improntato sulla realtà di Pescasseroli e quella di Roccaraso. La prima realtà vive di Parco, la seconda prevalentemente di turismo invernale. L'andamento demografico delle due, dal 1981 al 2021, è stato quasi omogeneo, questo attesta che non è il Parco a decretare lo spopolamento di un territorio rispetto ad un altro. Quando 100 anni fa nasceva il Parco non vi erano strutture ricettive o di accoglienza, vi erano attività connesse ai greggi e alla pastorizia. Oggi la presenza di strutture alberghiere e affini si fa rilevare. Questo denota l'avvenimento di una scelta fatta negli anni. Si è quasi smesso di allevare pecore, perché oggettivamente più impegnativo: « con la pecora ci devi uscire la mattina e ci devi stare fino a quando rientri la sera » . L'allevamento su Alpi e Appennini, negli anni Ottanta, era pressoché tramontato, la ripresa successiva è imputabile esclusivamente alla politica agricola comunitaria. D: – Qual è un'area del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise meno nota che meriterebbe di essere più conosciuta? R: – Sicuramente la parte molisana e non lo sostengo perché nato a Capracotta. Da un punto di vista naturalistico la parte del Molise è maggiormente conservata in termini di integrità naturalistica e nulla ha da invidiare al resto del territorio del Parco. Mentre in Abruzzo ben sette paesi si svegliano al mattino e vedono il Parco, in Molise e in Lazio, il Parco si sviluppa in montagna. In queste realtà per toccare il Parco con mano, bisogna fare prima chilometri in macchina, si pensi a Valle Fiorita in Molise e a Val Canneto in Lazio. La distanza dai nuclei abitativi decreta la maggiore o minore frequentazione e quindi la conoscenza e l'integrità degli stessi. Molto fa anche l'investire o meno. Nei versanti abruzzesi si è investito di più, si è creduto di più. Il Parco stesso, dal turismo e dalle frequentazioni non incamera nulla, incassa solo il ricavato dei centri visita, pur garantendo la tenuta della rete sentieristica. I servizi di gestione dei percorsi a numeri chiusi sono affidati a società terze. D: – Che tipo di visitatore ha oggi il Parco? R: – Di tutto. Chi va in montagna oggi ha caratteristiche abbastanza trasversali, anche perché sono differenti le aree turistiche del Parco stesso, si passa da quelle a portata di mano per famiglie, tipo Campitelli, Camosciara, lago di Barrea e via dicendo, a quelle ad identificazione più impegnativa, per esempio, dalla statale si può salire sul Marsicano cimentandosi in ore e ore di escursione. Capita, persino, di imbattersi in turisti in ciabatte lungo i sentieri. Continuo il nostro spendersi per far comprendere la necessità di un approccio adeguato alla montagna. L'altra faccia della medaglia è il mancato apprezzamento di chi frequenta, perché non ben edotto su luogo, aspetti e contenuti. D: – Il direttore del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, nel suo operare, si sente più responsabile nei confronti del bene naturalistico da tutelare o nei confronti di chi vive o è prossimo al Parco e alle sue pertinenze? R: – Il Parco, in quanto patrimonio naturale, è difficile da scorporare da tutto il resto. Ci si sente più responsabile per i cristiani, perché un orso senza i cristiani la sua strada la farebbe comunque, le persone in qualche modo vanno informate e acculturate. I cittadini vanno indirizzati a forme di utilizzo più responsabili, cambiamenti questi, in cui il Parco ha creduto e ha fatto. Gli orsi confidenti sono lo scotto, se vogliamo, della maggiore consapevolezza. I nostri nonni non davano ad un orso che, si avvicinava in paese, il tempo di divenire confidente, lo ammazzavano. L'orso diviene confidente a seguito dell'accettazione da parte di tutti. Gli orsi non arrivano nei paesi perché hanno fame, arrivano perché hanno trovato un modo più facile per superare la concorrenza con animali più forti, il cassonetto e i tanti rifiuti che oggi si trovano nei centri abitati sono mezzo e strumento più facile per placare la fame. L'orso Carrito non era uno scapestrato, era un ragazzo di 15 anni con gli ormoni a palla, che faceva scemenze. Già l'anno successivo si era dato un contegno! La responsabilità di un direttore è a 360° e per tutti, la tutela e la conservazione sono i principi cardine di un Parco e io li sento tutti. Condivido, altresì, il pensiero di molti cittadini che dicono: « Il Parco lo abbiamo fatto noi » . Tutto vero nella misura in cui i cittadini sono stati capaci e atti a rispettare una legge dello Stato. La legge 157 stabilisce che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato e quindi di tutti, pertanto tutti obbligati alla tutela della stessa. Si pensi alle associazioni venatorie e al loro cambiamento. Premesso che non ritengo la caccia uno sport e non posso pensare di ridurre tutto al semplicistico dibattito caccia sì, caccia no. Le questioni e i comportamenti sono mutati! Oggi gli ATC (ambiti territoriali di caccia), spesso, collaborano con il Parco, per  le tempistiche di apertura della caccia. Per salvare i cuccioli di Amarena si collaborò rinviando l'apertura della caccia nelle zone d'interesse. D: – La carriera nell'Arma dei Carabinieri l'ha distinta per operazioni contro il bracconaggio e il consumo di suolo, oggi a che punto siamo a tal riguardo? R: – Il bracconaggio, per quanto vedo io, può coincidere con l'uso di esche e bocconi avvelenati. Si fa persino difficoltà a definirlo bracconaggio tanto è vile. Similare allo sparare sui civili indifesi durante una guerra. Si distingua lo sparare ad un animale cacciabile seppur a caccia chiusa, dallo sparare ad un orso. Quest'ultimo è un atto di bracconaggio assolutamente gratuito, nel primo caso trattasi di caccia illegale. Fermo restando che le pronunce di sentenza fanno capo alla magistratura. Il consumo di uso del suolo interno al Parco è abbastanza monitorato, in una scala generale, forse, contribuiscono le aree protette ad  attenuare i numeri della media matematica. D: – Che ruolo ha il Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise nelle scuole? R: – Un ruolo fondamentale. Noi abbiamo convenzioni con 13 istituti comprensivi di tutta l'area attorno al Parco. La presenza nelle scuole è l'azione quotidiana che serve a tenere viva l'attenzione sulle nuove generazioni, soprattutto perché siamo noi adulti, spesso, a dare fregature ai giovani. Ci occupiamo male di tanti aspetti. Ogni anno proponiamo e riversiamo nelle scuole progettualità importanti, accolte dal ministero sia con linee Unesco che con le ZEA (zone economiche ambientali). L'innovazione di quest'anno è stato il progetto con la scuola "Gesuè" di S. Felice al Cancello che, ci ha permesso di raggiungere e coinvolgere realtà difficili attraverso la vicenda dell'orsa Amarena. D: – Se Il Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise fosse un libro a cui aggiungere capitoli, che capitolo aggiungerebbe e che titolo gli darebbe? R: – Non saprei, una domanda difficile! È chiaro che l'obbiettivo resta sempre quello della conservazione. Chi come me ha vissuto e ha avuto la fortuna di lavorare sui temi della conservazione sente di più questa chiamata. Sovente mi accusano di avere l' orsessione ! L' orsessione può sembrare una forma negativa del termine, in realtà quando vivi situazioni come quella di Juan Carrito... – a questo punto il direttore, prende in mano il suo telefono e mi mostra la foto della schermata di apertura e mi dice: « Io il mio amico me lo porto dietro, non so se sia diventato un angelo custode o cosa »... Stiamo entrambi guardando la famosa foto, dove il cucciolo sta col muso nella neve. Rifletto su quel legame che, a distanza di due anni dalla morte dell'orso, è rimasto indissolubile e mi sento più serena, siamo in buone mani, il Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise non poteva essere in mani migliori! – Questi accadimenti ti fanno capire quanto questa specie sia fragile, quanto si deve ancora fare. Si devono mettere in sicurezza tanti tratti si strada. Fui nominato, per la prima volta, direttore del Parco il 24 settembre 2019. Il 24 dicembre 2019, poco prima dell'inizio della messa della notte di Natale, mi trovavo ad assistere al pianto del cucciolo dell'orsa che era morta nei pressi di Castel di Sangro. Juan Carrito è morto poco distante da quella zona che, si era messa in sicurezza per mezzo di un sottopassaggio. Il titolo di un capitolo, pertanto, coincide con tutto quello che vorrei fare per creare sicurezza ed incolumità. Purtroppo è un libro dei sogni, mancano le risorse. Solo l'anno scorso abbiamo richiesto, mediante schede FSC, alla Regione un finanziamento per mettere in sicurezza quel tratto di strada nei pressi di Castel di Sangro dove sono morti tre orsi in poco tempo. È chiaro che, sulla conoscenza e sulla consapevolezza si può lavorare senza tante esigenze monetarie e lo si deve fare continuamente, responsabilizzando chi vive il territorio. D'altro canto, seppur impopolare, quello che sto per dire va considerato, che tutti pensano di conoscere tradizioni ed usanze delle aree parco. Purtroppo non è così: questi luoghi non sono mai stati per mandrie di cavalli o di mucche, bensì di greggi. Oggi avere un gregge implica costi più alti e questo richiederebbe risorse che il Parco, in sé, non ha. È chiaro che non si può vivere solo di turismo, le scelte e gli investimenti della politica dettano le linee, a loro decretare funzionalità e orientamenti. Il pastore da sempre ha avuto un rapporto di affetto e convivenza con la sua montagna. I vecchi pastori giravano con le "accettelle" per mantenere custodito il prato. I vaccari e i cavallari si dichiarano custodi della montagna, pur non avendo comportamenti di attenzione e "manutenzione" verso di essa. Su questo si deve investire, investimento che non può sostenere il Parco. Va rimessa in moto un'economia locale, soprattutto in virtù dei cambiamenti climatici in atto. Il rispetto del nostro patrimonio naturalistico richiede sforzi e sinergie. Noi compriamo tutto dai paesi asiatici perché meno costoso.  Tanto risparmio è imputabile a processi di produzione meno rispettosi dell'ambiente e delle risorse umane. Certificando il tutto è possibile attivare filiere locali, creare lavoro e interesse nei giovani, tutto questo non si improvvisa, richiede sostegno e dedizione. Questo non ci renderebbe schiavi solo del turismo. Comprendo le inimicizie che mi attirerò, ma il turismo in essere non permette più ai giovani che intendono vivere in queste zone, di trovare case libere e a prezzi ragionevoli, perché tutto improntato alla chiamata dei turisti. Chi decide di restare o di venire a vivere in montagna ha bisogno di case, di servizi, di prospettive. Le linee di indirizzo in un piano socio-economico le può delineare il Parco, ma la differenza la possono fare solo i comuni, le regioni, lo Stato. Questa è la vera sfida, la conservazione fine a se stessa non ha senso, basti pensare che abbiamo pochissime aziende che allevano, producono trasformano prodotti a livello locale. Ho proposto l'acquisto di un mattatoio mobile, a spese del Parco. Nessuno ha manifestato interesse perché gli allevatori di vitelli preferiscono la grande distribuzione. Inteso che né io né il Parco possiamo decidere per i privati cittadini. Ben fanno sperare i giovani che stanno sperimentando le nuove semine; si deve lavorare alla ricerca di attività economiche che, siano veramente sostenibili o quantomeno compatibili. D: – Sei rientrato da poco da un convegno svoltosi in Emilia-Romagna. Di cosa si è parlato e da chi è stato promosso? R: – Rientro da un format organizzato da Oltreterra (nuova economia per la montagna), con la collaborazione di Legambiente, Slow Food, Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e Fondazione Alberi Italia. Un incontro durato più giorni e giunto all'undicesima edizione. Si è parlato di come fare impresa, di come fare attività sociale, di come fare gestione forestale, di come migliorare la convivenza, di come fare turismo. Si è rilevata la necessità di riportare la geografia nelle scuole, non solo sotto il punto di vista fisico, anche dal punto di vista di appartenenza e di conoscenza. Si è lavorato allo studio e alla promozione di azioni economiche sostenibili e replicabili per la montagna italiana. Un pensatoio diviso in più tavoli di discussione, divisi per competenze, per formazione orientati all’animazione forestale. Varcare la soglia del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise è stato bello! Beneficiare della conoscenza, dell'esperienza e della competenza del direttore Luciano Sammarone   è stata una incoraggiante lente di ingrandimento sul futuro dei nostri giovani. L'oggi e il domani hanno a patrimonio comune la conoscenza di ciò che è stato ieri. Si dispone di giovani, si aiutino a restare perché in questa congiuntura temporale si dispone alla direzione del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise di un uomo capace, lungimirante e volenteroso. Cesira Donatelli Fonte: https://www.corrierepeligno.it/ , 25 novembre 2024.

  • I lupi di Capracotta indietreggiarono dinanzi ad una zampogna

    Un vecchio pastore di Capracotta - tanti e tanti anni fa - troppo vecchio per intraprendere un lungo viaggio verso la città, decise di andare a suonare con la sua zampogna nei paesi vicini. Allontanandosi di casa egli disse ai suoi figli e ai suoi nipoti che sarebbe tornato la notte di Natale. Abbracciò, un po’ invidioso, due dei suoi ragazzi più grandi i quali, con lo strumento a tracolla, sarebbero invece andati a Roma. Il vecchio zampognaro compì il suo giro e quando venne la mattina del 24 dicembre prese la strada del ritorno. Per raggiungere la sua capanna avrebbe dovuto attraversare, sulle montagne, un gran canalone. Un’abbondante nevicata caduta proprio in quei giorni aveva ricoperto tutto di un candido manto e il povero vecchio, arrancando nella neve fresca, s’avvicinava sempre più alla sua casetta. Aveva la bisaccia ricolma di doni per i nipotini, e il suo cuore era pieno di gioia perché anche quell’anno aveva potuto portare il lieto suono della sua zampogna in alcuni paesi dove era conosciuto e stimato per le sue qualità di musico. Affaticato egli raggiunse il canalone: una gola lunga e stretta che si rinchiudeva in uno stretto imbuto. D’un tratto lo zampognaro udì l’ululato dei lupi e ne scorse in lontananza un branco che si dirigeva proprio verso di lui. Rimase inchiodato dalla paura. Le gambe ricoperte dei pellicciotti di agnello si rifiutavano di camminaree intanto le belve s’avvicinavano sempre più. Con un supremo sforzo il vecchio corse verso un albero distante pochi metri. Riuscì ad arrampicarsi fino al primo ramo, proprio in tempo per sfuggire alle zanne dei lupi. Badando bene a dove metteva i piedi lo zampognaro si mise al sicuro sui rami più alti e cominciò a valutare la sua tremenda situazione. I lupi erano cinque, tutti magrissimi, i peli irti, le lingue penzolanti e le gole rosse; s’erano accampati sotto l’albero e di tanto in tanto lanciavano i loro laceranti ululati, ingigantiti dall’eco che rimbalzava sulle pareti del canalone. Cosa fare? Al calar della notte il vecchio sarebbe morto di freddo. Egli si mise a pregare. Poi ebbe un’idea. Posò le labbra sulle canne della sua zampogna e cominciò a suonare la “Leggenda di Natale”. Le note pareva che non fossero quelle solite: risuonarono con la stessa eco che aveva resto tanto potenti i latrati dei lupi e sembrò che non fosse una sola zampogna a suonare ma cento, mille. I lupi non ulularono più. Infilarono la coda fra le gambe e indietreggiarono, guardando in alto da dove veniva quella musica assordante. Così le belve fuggirono, nel fondo della gola donde erano venute. Lo zampognaro scese dall’albero e s’incamminò verso casa suonando continuamente. Arrivò davanti alla sua capanna all’imbrunire e la porta s’aprì prima che lui giungesse: avevano sentito gli squilli del suo piffero. Era pallido. Sua moglie, i familiari e i nipotini non vi fecero caso e lui non disse niente. Dopo essersi asciugato un po’ egli sedette accanto al fuoco, imbracciò ancora la zampogna e suonò la leggenda di Natale. La sua vecchia gli si fece vicino e disse che mai lo aveva sentito suonare tanto bene. La leggenda dello zampognaro di Capracotta finisce qui e riprendo il discorso sui pifferai che scendono di valle in valle, di paese in paese, nel percorrere il loro cammino verso le metropoli. Essi vanno a gruppetti di due o tre. Portano degli altri strumenti agresti d’accompagnamento: il “triangolo” e le “nacchere” e lo “scacciapensieri”. Hanno due tipi di repertorio: le sacre novene  e le nenie d’augurio  che eseguono nei paesi di campagna. Per le sacre novene (che comprendono la “Leggenda di Natale”, il “Viaggio doloroso a Betlemme”, il “Dolce e biondo Bambino”, preghiere musicate ecc.) ricevono l’obolo in danaro: la moneta serve loro per sostentarsi durante il viaggio. Con le nenie d’augurio invece è d’uso che si facciano loro doni in natura da portare alle loro case: ciambelle, torroni di Montevergine fatti con il miele di montagna e le mandorle di bosco, grandi pagnotte, salami ecc. E in queste stornellate augurali gli zampognari rivelano tutta una poesia semplice e buona: «Sei sincero come il nostro vino e avrai la benedizione del Santo Bambino», «Bella la mamma, bella la figlia, buon Natale a tutta la famiglia», «Cresci sana e cresci bella e Gesù non ti farà restar zitella». Bruno Barbicinti Fonte: B. Barbicinti, I lupi indietreggiarono dinanzi ad una zampogna , in «Orizzonti», IV:1, Roma, 1° gennaio 1952.

  • Canti popolari di Capracotta (VII)

    Spesso, il matrimonio, a causa dell'opposizione de' genitori, ha un fine tragico, e l'epitalamio si cambia in epicedio. Ecco un canto di questo genere, bellissimo. 132 L'aria scurisce e r' ciéle ze cunturba, ècche l'Amante mié, m ó ze ne vène, e ze ne vè pe chéla strétta via, iètta nu vuoàce miés'alla cumpagnia. Ru mi' fratello, pe forza d' un ó re, ména nu colpe senza far rumore. La zita s' arevòlta 'nt ó rne 'nt ó rne, – Che è se sanghe che te cola attorne? – Ah, nen è sanghe che me c ó la att ó rne, è r' mie cavàglie che butta sudore. Licenzia che licenzia a tutte quante, facéteme passà nu poche avante, ca vu ó gl'i' ddice a mamma che cucina, èsse la nòra téia, m ó z' avvecina, O mamma, mamma, ieàpreme le pòrte, èsse la nòra téia, mà i sò mmu ó rte. – Ma che me n'àia fa de la mia nòra, s'haie perdute a te, giglie d'amore ? Gli sposi si trovano al colmo delle loro illusioni, il matrimonio, alfine, si realizza; il sospirato giorno arriva: si invitano i parenti, gli amici, si distribuiscono dolci, si tiene il rituale banchetto e non mancano i brindisi. 133 Vi' quanta gente stieàne a chésta fèsta! Chi ride e chi responne a qualche cosa, tu, sposa, te ne stai, dimmi a che piénze, dimmi pecché scié tanta cuntegnosa. Nen me te fa vedé chiù cuscì mèsta: oggi è vigilia e chésta notte è fèsta. 134 Che fieà tu qua, becchiére sénza vine, vàttene ciénte miglia da luntane, e se returne e nen pu ó rte le vine, e se n' l'arrépurtà n' l'arpu ó rte bu ó ne, da me, bicchiére, sèntirai ru tu ó ne. 135 E la zita, quande sp ó sa, tutta pumposa ze ne va: la mattina ze métte le c ós e, e la sera n' ze vò levà. Ru marite, viziiuse, la calzétta ze fa tirieà; pu ó la ména 'ngòppa rru liétte, e la cumènza a cianceieà. 136 I' te le diche tal'e quale: piglià moglie, è sèmpre male, ca la moglie, quand'è brutta, te le siénte dì da tutte; se davère è bòna e bèlla c'iéra fa la séntinèlla. Se te piglie nu vétturine chieàmpe còme e na meschina; tè nu cavaglie ciu ó ppe e sciancate, pover'a te che c'ié 'ngappàte! Se te piglie nu zappat ó re chieàmpe còme e nu caf ó ne: quand'arriva n'ora de nòtte te re vide 'rrèta alla pòrta: «Bona sera, mia muglièra, viént'a piglia le strangunère» e te siénte re guagliune: «Curre, tata, stiénghe a diiune, ècche ciacivite e lampasciune». Se te piglie nu past ór e chieàmpe còme è nu sign ó re. Né inferiore agli altri generi di poesia è quello concernente l'amore materno. Ci si sente in ogni verso l'anima appassionata, la tenerezza della madre popolana, che se ha ruvida la scorza, non ha rozzo il sentimento. Il bimbo non sa ancora articolar parola, non può ancora corrispondere con la madre, e questa parla per lui, per lui recita cantando le orazioni, e non cessa, se non quando, a quel canto, e al cadenzato oscillar della cuna, il bimbo non si sia addormentato. Allora, essa lo guarda, lo considera, nel suo pensiero augurandogli un avvenire radioso. Ma, se i vagiti si fanno sentire, la madre, che veglia, inquieta, torna a fare oscillare la cuna e a riprendere il canto col fervore di una preghiera. 137 Ru figlie mié è cchiù biégli de r' sòle, quanda re chieàme la vacca me dòle; quanda re chieàme me dòle la canna: fatte la sciònna, o figlie de la mamma; fatte la sciònna e nu lunghe repuse a nu giardine de giglie e de ròse; fatte la sciònna tante vòlte mille, pe quanta 'n ciéle stieàne ièstre e scintille; fatte la sciònna tante vòlte, figlie, pe quante la premavèra caccia giglie, pe quanta giglie caccia e caccia viòle: addu ó rmet'allègramènte, o mi' figliu ó le. 138 Fatte la sci ò nna ca r' su ó nne è menute e re piglia alla mamma che r'à perdute, repigliare repigliare ru su ó nne, l' u ó cchie so biéglie e n'ieàne de besuvgne. De su ó nne ieàne besu ó gne l'u ó cchie tié, còre de mamma beneditte scié, scié beneditte e beneditte tante, pe quanta t' ne desidera la mamma. 139 Fatte la sciònna, ca me l'hiè prumèssa 'n sin'a duman' a l'ora de la méssa: – Sante Nicòla mié, sante Nicòla, fa tu a stu figlie mié la greàzia vòna? Sante Nicòla mié che vieà facènne? – I grande e peccenìnne vai addurmènne, e re vai addurmènne a une a une. – Allòca r' figlie miè e 'n chiù nesciune. 140 Vié su ó nne 'ngòppa a nu cavaglie rusce, la sèlla è d'òre, la briglia è de camusce: vié su ó nne 'ngòppa a nu cavaglie ghieànche, la sèlla è d'òre, la briglia è di diamante. 141 – Tu, nennerèlla, add ó nda fieà la p ó sa? – Arrète a San Giuvieànne fra le ròse. – Tu nennerèlla, add ó nda fieà ru nide? – Arrète alla Madònna de Lurìte. Fatte la sciònna che bène te viénga, chigne e l'acca surgiva de ru Cimiènte. Fatte la sciònna che bène t'arriva chigna e l'acca surgènte de Vèrrine. 142 Quanda nasciste tu, sci ó re de bellézza, màmeta parturì senza dul ó re, e le campane sunavane sòle; e la Madonna, che t' avètte 'mbracce, te vattieàtte a na fonte de viòle. E la Madonna te dunatte l' trécce, santa Lucìa re biégl'u ó cchi d'òre. Sci ó re de premavèra, quanda nasciste, ru munne de buntade sazijaste, la campagna de sciur' arrevéstìste. 143 Quanda nasciste tu, murètte mamma, tata murètte ru iuorne seguènte; la gammàra murètte pure 'n tanne, te iérn'a vattéià: nesciune ce vénne. Quanda nasciste tu fu iu ó rne amare, sèmpe contra de te la sorte gira; quanda t' arraccugliètte la gammàra, scappà nu punte pe farte murire: e re pariénte tié i' re cecara, fann'all' invidia a chi chiù pò tradire, miés' a ru sciume te iérn'a iettare, ma l'acca nen te vòlse arrécuvrire. 144 Ru lupe z'ha magnieàta l'ainella. O ainèlla méia, come faciste, quanda 'mm óc ca a ru lupe te truvieàste? Ze l'à magnieàta, e nen ze l'ha fenuta, e miés'a ru vall ó ne l'ha lassata. 145 I l'haie veduta tèssere l'anguilla, la ranucchiélla la séta felava, la tupanara menava la striglia, la zucculétta re fili cuntava; ru sorce re facéva re camulille, ru gu ó mber'aggiungéva arru télare. Fatte la sciònna 'n sin'a che te sviglie, 'n sin'a che vè màmeta e te piglia; éssa te piglia, dalla sciònna te lèva, o chiù bel sciore che premavèra ména. 146 Fatte la sciònna m ó déntr'a ru liétte, ca la Madonna t'ammanta r' curpiétte, e ru curpiétte e ru ghieànche cuscine, fatte la sciònna tu, biéglie bambine. Quanda t'ha fatte bi ó gli la Madonna! T'ha fatte u ó cchi nire e faccia tunne. Questi sono i nostri canti popolari. Forse, qualcuno fra quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi sin qui, dirà: – Non credevo che il popolo fosse capace di tanto! – Ed io non me ne meraviglio, perché da noi la parola "popolo", lungi dall'essere considerata romanamente, «non risveglia che pensieri di forza brutale, di deficienze intellettive e morali, di degenerazione e di brutalità», quando essa dovrebbe destarci nugoli di poesia e di gentilezza ed essere simbolo di eroismo e di modestia, di devozione e di sacrifizio, di lavoro e d'idealità. Ed io vorrei che il nostro popolo, anche per riverenza al natio loco, facesse risuonare le nostre campagne, non delle immorali canzoni napolitane, ma de' nostri canti, così schietti, così naturali, così semplici, così appassionati; che «de' nostri canti accompagnasse le sue opere al chiuso e all'aperto, celebrasse la vita e la morte, che questo nostro canto trasmettesse di generazione in generazione come una eredità interiore, inerente alla sostanza corporea, sì che ciascuno, svegliandosi alla vita, lo udisse risuonare in sé medesimo come un linguaggio innato, a cui la voce dia le forme sensibili, perchè al pari delle montagne, delle valli, de' fiumi, al pari degli usi, dei vizï, delle virtù e credenze, essi fan parte nella struttura del nostro paese e della nostra gente». Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese , Pierro, Napoli 1911.

  • La statua della Madonna dei Miracoli di Capracotta

    Il gruppo scultoreo della Madonna dei Miracoli, oggi custodito nella Chiesa di S. Giovanni di Capracotta, stava in origine nella Chiesa Madre. La Madonna è raffigurata seduta su di un tronco d'albero con attorno quattro cherubini (uno dei quali sparito) e di lato, a destra, un pastore inginocchiato. In basso a sinistra una casetta (anch'essa scomparsa) ed un cappello: nella piccola casa venivano riposti gli ex voto per grazie ricevute. L'opera presenta un panneggio sommario e poco curato, riconducibile ad un modesto intagliatore, con probabilità locale, del secolo XVIII. Iconograficamente è vicina alla Madonna Incoronata di Foggia ma, in realtà, il suo culto è strettamente legato a quello della Madonna dei Miracoli di Casalbordino (CH), che si festeggia l'11 giugno, giorno di pellegrinaggio per molti capracottesi. Si narra infatti che in tempi remotissimi l'immagine di Maria attendesse sul sagrato della chiesetta di Casalbordino senza che nessuno si offrisse di portarla in processione, date le pessime condizioni meteorologiche. Il parroco interpellò quattro donne di Capracotta - che erano lì in pellegrinaggio - che subito si dissero onorate di portarla a spalla. Terminata la processione, la lasciarono nuovamente sul sagrato. Da allora, quella tradizione si è consolidata nei decenni, tanto che nell'attuale statuto della festa della Madonna dei Miracoli è scritto che i capracottesi possono avvalersi di tale privilegio. Francesco Mendozzi

  • Quando la terra s'intiepidisce al sole...

    Quando la terra s'intiepidisce al sole, scioglie le sue rigidità, è un lacrimare che viene dalla cima del Monte San Nicola, un sommesso singhiozzo di primavera che anima la Fonte di San Giovanni con la sua acqua pura; quando intorno le macchie di neve si riducono e qualche fiore si schiude ad adornare le umide nudità dei fianchi, un rivolo affiora tra le pietre quasi nascosto e in un moto diamantino si fa strada nel pendio. Qui l'opera discreta della natura ha conosciuto uomini e animali semplici, storie lontane e sconosciute, ma certamente di timida sacralità com'è nell'essenza di una fonte che sorge e poi sparisce, risucchiata dal bosco che assetato se ne appropria. Flora Di Rienzo

  • La musica natalizia nel tempo e nello spazio

    ...Che lo spirito che sta dentro di lui debba, camminando in mezzo agli uomini suoi simili, andare lontano... [C. Dickens, "Canto di Natale", 1843] Già in precedenza ci siamo dedicati alle melodie natalizie con la descrizione dell' oratorio di Natale di Capracotta e andando alla scoperta di " Stille Nacht ". Tuttavia, per una migliore comprensione e per passare qualche attimo insieme, magari davanti ad un camino scoppiettante, fermiamoci ad osservare come sono nate le musiche del tempo di Natale e come sacro e profano, strumentale e vocale, si siano fusi insieme emergendo dalla nebbia del tempo. Che vi aspettavate da un organista? Ufficialmente, la musica del Tempus Nativitatis nasce nel IV secolo d.C. con l'inno "Veni redemptor gentium", scritto da sant'Ambrogio, vescovo di Milano. Dedicato quindi ad un uso prettamente liturgico. Ma già esistono tracce di un inno voluto da un vescovo di Roma nel 129 d.C. da cantare durante le funzioni per il Santo Natale, mentre nel 760 d.C., a Gerusalemme, viene composto un canto natalizio dedicato alla chiesa ortodossa. Purtroppo, il latino, il canto gregoriano e l'esclusivo appannaggio della musica, attribuito al clero e alle scholæ , allontanarono l'interesse dei fedeli dalle celebrazioni e fu solo a partire dal XIII secolo, con le rappresentazioni francescane sul Natale (il presepio di Greccio del 1223) convertenti le laudi dal latino in cantici nella lingua volgare, che la tradizione partì estendendosi a tutta Europa. A tale proposito, grande importanza riveste il "Laudario di Cortona", risalente alla seconda metà del XIII secolo, scritto in caratteri gotici, notazione quadrata ma rigorosamente in lingua volgare. Un assaggio di questo bellissimo ed importantissimo volume lo avemmo a Capracotta con Riccardo Marasco in concerto con i Musicanti del Piccolo Borgo in Chiesa Madre. Gli autori, appartenenti alle confraternite laiche tra Umbria e Toscana, prendono infiorescenze della cultura araba con versificazione romanza in alcuni brani a carattere di ballata ed in altri con lo Spirito francescano, mediatore di spunti nordeuropei. La scrittura è quasi sempre priva di carattere ritmico e tende a fondere il canto popolare con il gregoriano al fine di promuovere il canto dei fedeli. Il canto natalizio esce così dal ristretto e principale ambito liturgico e diventa tradizione popolare: una umanità che si scopre bambina e corre festosa presso la culla di un neonato. Ogni etnia, ogni nazione recepì questo impulso sviluppandolo con il filtro delle proprie usanze e costumi, dando origine ad una produzione peculiare e immensamente prolifica. Nelle isole britanniche, la musica di Natale si fuse con le "carole": ballate popolari per ogni occasione festiva ed in particolare con quelle dedicate al solstizio d'inverno. Nascono così le melodie per le celebrazioni sulla nascita del Cristo, così intensamente partecipate che il termine "carola" divenne poi esclusivo di tale repertorio. Al 1410 risale la prima carola di cui abbiamo traccia, dedicata a Gesù e Maria a Betlemme. Di raro uso liturgico, le carole erano prevalentemente impiegate nelle celebrazioni domestiche (carole elisabettiane). L'avvento del dominio di Oliver Cromwell nel 1647 fece decadere tali usanze, contemporaneamente alla distruzione degli organi a canne perché ritenuti oggetti di superstizione. Le famiglie, però, nel segreto, mantennero la tradizione fino alla completa rinascita in epoca vittoriana, quando vide la luce una prima raccolta fatta di villaggio in villaggio da William Sandys e Davies Gilbert. Nel 1744, sir Francis J. Wade aveva raccolto e trascritto un canto popolare irlandese dando il via alla tradizione di "Adeste fideles", dedicandolo ai cattolici britannici perseguitati ed in esilio in Francia. Samuel Webbe, nel 1782, ne verticalizzò e solennizzò l'armonia come noi oggi la conosciamo, nel frattempo il tempo di esecuzione era passato dai 3/4 ai 4/4 e con strofe in aggiunta anche per l'Epifania. Appartiene a quel periodo anche la comparsa dei waits : gruppi di cantanti pubblici a pagamento per il periodo delle feste. Tutte queste usanze le ritroviamo successivamente trasportate a piè pari nelle colonie nordamericane. Le distruzioni di Cromwell determinarono purtroppo un difficoltoso, parziale e tardivo recupero della musica organistica e dell'arte organaria. L'area cattolica si espresse nelle tradizioni italiana, francese e spagnola. In Italia, oltre alla trasposizione all'organo delle melodie liturgiche vocali per le intonazioni e interludi delle scholæ , compare un genere di musica d'organo ispirata all'agiografico canto dei pastori accorsi alla grotta di Betlemme dopo l'annuncio angelico: la pastorale. Brani strumentali a mo' di "siciliana" con tempo ternario di 12/8. Ne abbiamo un primo esempio dalla penna di Girolamo Frescobaldi. Dapprima diffuse nel Bergamasco, poi in tutto lo Stivale, con acme nel XVII secolo e consacrate da "Tu scendi dalle stelle" di sant'Alfonso Maria de' Liguori, trasposizione in lingua dal dialetto di "Quando nascette Ninno" dello stesso autore. La melodia portante, già abbozzata da autori precedenti, fu chiamata "Tema di S. Alfonso" e divenne base fondante di molte pastorali strumentali e vocali successivi, ivi compresa la capracottese "Ninna nanna al Bambino Gesù", risalente al XIX secolo. Gli organi italiani si dotarono di registri ed accessori per il tempo natalizio: regali o bordoni fissi (la scopina del nostro "Principalone"), cornamuse, ciaramelle e cornette. Si cercava di imitare il suono degli zampognari, gli allora come oggi musicisti di strada: l'equivalente italiano dei waits inglesi. In terra di Francia, le numerosissime e regionali nenie e canti popolari vennero ripresi dagli organisti francesi ed inseriti nell'ambito liturgico e sacro: nacquero i noëls . L'organo francese classique fu il protagonista di questi brani da Nicolas Lebègue fino a Claude Balbastre, il vanto della tradizione natalizia d'Oltralpe, eseguiti con innumerevoli variazioni e virtuosismi a partire da un tema principale. Strumento prevalentemente ad effetto con più tastiere e moltissime sonorità peculiari, ma con pedaliere dotate di pochissimi registri e, a volte, con pedali "a bottone", se non del tutto assenti negli strumenti più antichi, veniva impiegato in alternatim col coro e spessissimo su improvvisazione. Bolle vescovili attestano spesso il divieto alla esecuzione di tali brani durante la notte di Natale, a causa di "giovinastri" che ubriachi, ascoltata la melodia popolare, si mettevano a ballare in chiesa durante la funzione. Jean-François Dandrieu e Louis-Claude Daquin furono altri celebri compositori di noëls , il cui sapore risalta quasi esclusivamente su questi grandiosi organi richiedendo registri appositi come il "Cromorne" e la "Bombarde" e tipiche combinazioni come il "Grand jeu" o il "Cornet séparé". La sequenza dei suoni, la leggerezza e le cadenze di tali brani sono così tipici e particolari da dare la sensazione che la lingua francese si sia tramutata in note e frasi musicali. Ascoltiamo allora: "Ou s'en vont ces gais Bergers", "Noël pour l'amour de Marie", "A minuit fu fait réveil" o "Joseph est ben marie". Alcuni noëls furono anche presi come struttura portante di intere messe natalizie come fece Marc-Antoine Charpentier. La Penisola iberica fu terra anch'essa ricca di musiche dedicate al Natale. Di particolare interesse l'area della Galizia ed il Portogallo, dove ai villancicos , brani ad uso liturgico pur se di origine popolare, si affianca la panxoliña , tipico canto delle festività popolari a carattere dolce e delicato: una ninna nanna. La panxoliña , termine derivato da "pange lingua", venne elaborata in varie forme: nadais per il Natale, i canti del Capodanno e gli aguinaldos per l'Epifania. Anche questi canti si esprimevano in strada o a casa, accanto al presepe. La panxoliña veniva tramandata oralmente e fu solo nel XX secolo che si ebbero le prime raccolte scritte. Da menzionare ancora i cantigos , poesie musicate a carattere monodico, appannaggio dei trovatori e dei menestrelli. Del tutto diversa la tradizione nordica. In Germania, intorno al XIV secolo, troviamo un canto legato al Natale: "Sei uns wilkommen, Herre Christ": composto per coro e ad andamento in forma di canone a più voci (tipo "Fra' Martino"). L'avvento della Riforma e la alta concezione di Lutero della musica e del canto dell'assemblea come liturgia della Parola, portò alla nascita del corale che l'assemblea canta insieme al coro. Ogni giorno dell'anno viene ad avere un suo corale e così i giorni del Natale. I corali, semplici ma espressivi e sillabici a differenza dei neumi gregoriani, vengono facilmente appresi e memorizzati dai fedeli e gli organisti per suggerire all'assemblea cosa cantare improvvisavano gli intonazioni e preludi sulla melodia del corale del giorno: nascono i Choralvorspiele , i corali per organo. I canti del Natale ( Weinachtslieder ) e i corali per organo del Natale ( Wienachtschoralvorspiele ) sono un altissimo esempio di preghiera, spiritualità e simbolismo. Contemporaneamente i corali del Natale si fusero con i canti popolari ( Wiegenlied ) e poi con i canti dell'inverno ( Winterlied ). La conoscenza di queste fusioni ed influssi risulta fondamentale per una corretta interpretazione di molti brani anche di musica "colta", che solo così ci appare nella sua reale freschezza e vitalità gioiosa uscendo dall'ambito severo e pesante spesso erroneamente attribuitole. Tutto questo discorrere non ha alcuna pretesa didattica ma è un semplice momento divulgativo e relativo ai periodi più antichi della musica pro tempore Nativitatis : dal Medioevo al barocco. I tempi moderni hanno omogeneizzato e globalizzato queste forme musicali e, in ultima analisi, stravolto brani e melodie che, insieme allo Spirito natalizio, troppo spesso finiscono inscatolati con dolci, giochi o intimo di color rosso. La commistione di sacro e profano, un tempo fonte di bellezza e di ricerca, diventa una presunta (sotto)cultura, arrivando fino alla degradante e sterile mistificazione di canzoni per il 25 dicembre dedicate al "Cuccù". Per questo ne va operata una riscoperta, ricordandone il loro aspetto fondamentale e lo Spirito che ne diede origine perché, vi piaccia o meno, ci crediate o no, il tutto è cominciato in un caravanserraglio nel Medio Oriente e durante un censimento del governo imperiale romano con testimoni dei pastori svegliati nel cuore della notte. «Sono figli dell'Uomo – rispose lo Spirito chinando gli occhi a guardarli – E a me s'attaccano, accusando i padri loro. Questo bambino è l'Ignoranza. Questa bambina è la Miseria. Guàrdati da tutti e due, da tutta la loro discendenza, ma soprattutto guardati da questo bambino, perché sulla sua fronte io vedo scritto: "Dannazione", se la parola non è presto cancellata». Vi auguro un sereno, vero, Natale e magari lo festeggeremo insieme « guardando lo Spirito che sale verso l'alto » , ascoltando la "nostra" Pastorale... Francesco Di Nardo

  • Capracotta e il cambiamento climatico invernale

    Per 38,5 anni, o se preferite 14.063 giorni, oppure per 462 mesi... insomma, dal 1° luglio 1951 al 31 dicembre 1989, la famiglia Di Lullo ha ininterrottamente rilevato e riportato su schede cartacee le caratteristiche climatiche di Capracotta quali temperatura, acqua o neve, attraverso un impianto meteorologico ubicato nel terreno soprastante l'attuale Caseificio Pallotta. Le tabelle furono trasferite in formato digitale con opportuni software (prima Lotus e poi Excel) per le analisi tendenziali annuali ed, in special modo, per le analisi bimestrali (dicembre-gennaio), analisi quadrimestrali (novembre-febbraio) e semestrali (ottobre-marzo) dei mesi invernali, sia in forma esponenziale che logaritmica, dell'altezza massima della neve e delle temperature massime, minime e medie, al fine di avere un fattivo riscontro dell'attuale situazione meteorologica di Capracotta. Attualmente, si parla tanto del cambiamento climatico ma negli anni '60 questo fenomeno non esisteva. Nel periodo 1956-62 fu messo in opera uno sbarramento del fiume Sangro con una diga in terra battuta, che diede vita al Lago di Bomba. Si trattava della prima diga di questo tipo in Europa per produrre energia elettrica che, purtroppo, ha prodotto anche tanta nebbia! La presenza e la formazione della nebbia, dovuta al lago, è stata confermata da Domenico " Precu ó rie " Carnevale che, per il suo quarantennale mestiere di fruttivendolo, ha percorso in lungo e in largo il territorio prospiciente il Lago di Bomba, prima e dopo la costruzione della sua diga. A tal proposito, con un software fluidodinamico specifico ho studiato il percorso e l'influenza della nebbia che, in particolari condizioni climatiche, e specialmente nel periodo ottobre-marzo, ha certamente influito e tuttora influisce, seppure in minima parte, nella modificazione della temperatura delle zone interessate dal fenomeno. Analizzando questi dati, ho cercato di far "parlare" i numeri, senza addentrarmi o avventurarmi in disquisizioni relative ai motivi del cambiamento climatico, che alcuni addebitano all'aumento dell'inquinamento atmosferico, altri all'attività solare, altri ancora all'azione dei due fenomeni sopraindicati con la predominanza dell'attività solare, che mi trova pienamente concorde. A Capracotta, nel semestre ottobre-marzo, come si evince dal diagramma, si nota una progressiva diminuzione dell'altezza massima della neve a partire dagli '60. La tendenza esponenziale-logaritmica annoverante il periodo 1951-2024, fa tendere l'altezza massima nevosa dai 30 cm per la prima tendenza ai 75 cm per la seconda tendenza, mentre la temperatura media minima si aggira intorno ai +0,45 °C con un aumento di circa 1 °C dal 1951. È ovvio che, a scanso di equivoci, la meteorologia non può essere espressa con delle equazioni! Si potrebbe interrogare l'IA per confutare o confermare i risultati sopra ottenuti ed, eventualmente, avere conferma circa il fatto che Capracotta, attualmente, si comporta più come un paese da 1.241 m s.l.m. che non come uno da 1.421! Filippo Di Tella

  • La giumenta di z' Baffone

    Gaetano " Paschitte " Carnevale noi bambini di San Giovanni lo chiamavamo Z' Baffóne . Io gli portavo un grande rispetto, anche perché era il cugino carnale di mio nonno Vincenzo, uomo semplice e grande lavoratore, come d'altronde lo era tutta la sua generazione. Oltre ad avere queste doti, ne aveva una molto particolare, quella di saper raccontare storielle, tanto che chi le sentiva, il più delle volte non sapeva dove finiva la verità e cominciasse la burla. Ero affascinato quando lo sentivo raccontare e, nello stesso tempo, prendevo per vero tutto ciò che abilmente raccontava. Ricordo ancora il suo abbigliamento, il cappello nero, il panciotto nero e sotto la classica camicia di panno chiaro, con l'immancabile orologio stile ferroviere, i pantaloni scuri, adornati da una fascia nera che avvolgeva i fianchi e fungeva da cintura, ed i classici scarponi con le suole spesse. Non ricordo bene se anch'egli fumasse il classico toscanello come mio nonno. Da piccolo, quando giungeva il periodo della mietitura, noi ragazzi aspettavamo che passasse con la sua giumenta, che proveniva dalla Pineta carica di manuócchie (covoni) e lui, col viso arso dal sole e dalla fatica, ci diceva: – Uagliù, vuléte métterve a cuavàglie? Allora aspettàteme quand'arpàsse ca ve facce fa' na passiàta... Impazienti, aspettavamo allora che ripassasse. Poi, al suo arrivo, ci avvicinavamo alla mula, e lui, Z' Baffóne , con le sue possenti mani, ruvide e callose, ci sollevava con molta delicatezza, chi sopra la vàrda (basto), chi in groppa e chi davanti alla vàrda . Quella era per noi una gioia infinita, anche se durava pochi minuti. Una volta scesi si aspettava che passasse di nuovo e sono certo che Z' Baffóne , in cuor suo, era quello che si divertiva di più. Nicola Carnevale

  • Fonti e sorgenti di Capracotta: il Lago Spadone

    Lo scorso 1° novembre, nel quadro delle nuove escursioni esplorative targate " Letteratura Capracottese ", siamo andati alla ricerca dell'antico Lago Spadone. Trattasi di uno specchio d'acqua di cui i nostri vecchi parlavano ma di cui pochi - se non nessuno - conoscevano l'esatta posizione. Questo si spiega col fatto che il lago, da almeno mezzo secolo, non esiste più. La sua scomparsa è riconducibile alla rottura di un argine di valle o, più probabilmente, ad un movimento franoso che ha cambiato la morfologia del terreno, facendo sì che l'acqua penetrasse nel sottosuolo o si disperdesse nelle adiacenti campagne. La prima mappa utilizzata dal sottoscritto per tentare di individuare la posizione dello Spadone è il "Disegno del Feudo di S. Nicola di Valle Sorda in pertinenze di Capracotta donato nell'anno 1040 da Gualtiero Figlio di Borrelli al Monastero di S. Pietro Avellana circa tommola 1.000", una bellissima cartografia realizzata nel 1769 dal regio agrimensore Agatangelo Della Croce. In quella mappa, infatti, si notano due laghetti (quello di sud meno esteso di quello di nord) al di sotto dello Jaccio delle Fonticelle, nel punto in cui tuttora vi è il Lago di Mingaccio, conosciuto in passato anche come Lago di Vallesorda. La mappa del Della Croce è forse la responsabile del malinteso secondo cui il piccolo lago meridionale fosse lo Spadone. A ben vedere, infatti, nelle vicinanze del Mingaccio si forma ogni anno uno specchio d'acqua più piccolo, che persiste anche nella prima estate, scomparendo soltanto nei mesi di agosto e settembre. I due «stagni di acqua, in cui vi è la pesca della tencha», segnalati sulla mappa del 1769, dunque, potrebbero essere davvero il Lago di Mingaccio e quello che, per comodità di esposizione, chiameremo Lago di Malcorpo, giacché nasce nei pressi dell'omonima sorgente, ossia lo stagno stagionale di cui parlavo poc'anzi. A dar forza alla mappa settecentesca vi era la convizione di chi credeva che lo Spadone si trovasse a valle del Mingaccio, al di sotto di Colle Rosso, dove effettivamente, fino agli anni '70 del XX secolo, vi era un altro specchio d'acqua, che fu arbitrariamente prosciugato per allargare le coltivazioni. Detto stagno, però, era nato una ventina d'anni prima, cioè quando venne realizzato il troppo pieno della Fonte della Spogna, la maggiore sorgente idrica delle nostre contrade di campagna che getta le acque in eccesso in un vallone a monte del torrente Verrino. Allora, quella che più di tutte poteva aiutarmi a far luce sull'oscura storia del Lago Spadone era una volta ancora la "Pianta degli ex Feudi di Monteforte, Paduli, ed Ospidale, di proprietà della Duchessa di Capracotta, fatta da ordine di S. E. il Sig. D. Biase Zurli, Intendente di Molise, e Commissario del Re, in quest'Anno 1812", una cartografia tante volte menzionata per la dovizia di informazioni che contiene sul territorio capracottese. In questa mappa, dicevo, il Lago Spadone è segnalato alle estreme propaggini del territorio capracottese, al confine con quello agnonese, nell'ex feudo dei Paduli, al di sotto di Monteforte. L'indicazione del 1812, insomma, contraddice in toto l'ipotesi che lo Spadone fosse nelle vicinanze del Mingaccio, un'indicazione che è confermata nei fogli catastali del 1951, sui quali, pur non esistendo più il lago, viene comunque riportata la sua dicitura. L'escursione esplorativa, insomma, mi ha convinto che la probabile posizione del Lago Spadone fosse proprio a ridosso del confine tra Capracotta ed Agnone, in una natura che, a vederla oggi, suggerisce fortemente la reminiscenza di una un ambiente lacustre. Pur non avendo individuato concretamente il lago, ho tentato di elaborare graficamente un possibile scenario in grado di mostrare come potrebbe apparire se fosse rimasto nel suo alveo (foto di copertina). Per quanto riguarda più specificatamente il nome, invece, azzardo un paio di ipotesi: o potrebbe riferirsi alla forma allungata, a spada, delle sue coste, oppure potrebbe risalire al latino spado , che significa "eunuco", a sua volta derivante dal greco spào (strappo). A ben vedere, anche questo secondo significato, rimanderebbe allora ad una forma allungata, sia essa una spada od un pene. Francesco Mendozzi

  • Canti popolari di Capracotta (VI)

    Qualche volta, il più delle volte, il bel sogno vanisce, il giuro d'amore s'infrange, ed allora i due crucciati si scambiano velenose invettive. 106 Come te pòzz'amà, còre cuntiénte, se r' còre r'hai dunate a n'altr'amante? 107 Che t'haie fatte, Amore, che nen me pieàrle? Parlare nen me pu ózz e chiù 'n etèrne! 108 Vi' quanda me ne fieà, me stiénghe zitte. Quanda vié sott'a me, scuntàme tutte. 109 Chess'u ó cchi accennariégli pecché m'accìnne? Vu ó fa l'amore che me, ma nen ce mieànne! 110 Affàcciate alla fenéscia, o scemunìta, ca m ó te ve' ccantà calzune calate: le còsse le te' fatte tutt'a vite, e te' le gambe a pèrtica d'arate, oh, quant'è brutte, Die ru maledica: musse de pu ó rche e cu ó rne de castràte. 111 Arru giardine tié i ce so' state, e molte è ru piacére che c'haie avute: me l'haie còlte du' melagranate, seconde l'appétite ch'àie avute. M ó c'è remasta una muccécata, ze la cugliésse chi tard'è menute: le pòrte e le fenèsce i' l'hai sfasciate: trascésse cuia vo', i ce so' sciute. 112 Nen i' cantanne chiù, guoàlle arrachite, famme canta' a me, ròsa sciurìta: nen i' cantanne chiù, ciéglie de fratta, che gire attorne e nen te pu ó fa r' nide! 113 Nen sèrve a remirieà, ca nen me cu óg lie: alla schiuppétta téia nen ce so' palle. 114 La mamma de Concéttina, tutta gel ó sa, nen vo' mannà la figlia arru muline. – M ó che ce scié menùte na vòlta sòla, te vu ó glie faie la farina fina. – O mulinare, nen parlà de chésse, ca sié fratelli mié t'ammazzeranno. – I n'àie paura di sié e né de sètte, i te re vu ó glie dà nu vuoàce 'n piétte. Tiénghe na pistulétta a palle d'òre; spàrala 'n piètte a me, chi mòra mòra. 115 I' la stév'espettànne chéssa fèsta, te credéve ca nen r'avéva a guste; tu te mieàgne ru fume e i r'arruste, vedéme ru sapore a cui arrèsta; quanda la vigna méia z'è fatta muste, la téia 'nzelvatechìta accuscì rèsta. 116 Se tu vu ó fa l'amore che me, senza camicia te vu ó gli vedé! 117 Tredecarèlla mia, tredecarèlla, nen sèrve a tredécà, ca nen te vu ó glie; nen sèrve ca t'allisce e ca te vusce, s'iva parì bèlla, c'aviva nasce; la dònna, quanda bella è de natura, quanda chiù sciòlta va, chiù bèlla pare. 118 Amore Amore, m ó nen ze pò parlà mieà chiù d'amore: sié sciuta dalla mènte e da ru còre. 119 Oh, che figlia vertuosa! Tèsse e fila, lava e c ó ce; e pe tèsse na camicia, 'mpiéga n'anne e sètte misce, e pe tèsse nu lenzuole, 'mpiéga n'anne e na stagione. Oh, che bèlla e bòna figlia: chieàppe 'n ganna e chi ze la piglia. Pòche véve e pòche magna, pe r' marite assieà sparagna; quand'a tavul'è chiamata, magna còme e n'allupata, quatte tòmula de grane, nen gli'avastan na settemana: oh, che bèlla e bòna figlia! Chieàppe 'n ganna e chi ze la piglia. 120 Ascolta, ascolta, 'ngrata re sènsi miei. Ascolta, 'ngrata, giuraste d'amarmi, tu, giuraste d'amarmi e mia non sei. I' giuratte d'amarte e l'osservai, pecché sincère sèmpre te credéi, ma, 'nvece, Amore, sèmpe m'ingannai. 121 N' gòppa alla muntagna de Maièlla, ce sta la nève che n' 'ze squoàglia maie; là, c'haie dumata na stacca murèlla, ma te, nennélla, nen te dome maie. Dall'ieàltre te fieà métte briglia e sèlla, che te mitte càlece a menàre, ma se t'arrive a métte la mia sèlla, senza sprone te facce cammenare. 122 Che te ne fieà de quisse piglia e lassa? Add ó métte nu pède fa nu fu ó sse: nen re crédere se re vide grasse, chéss'è la fiacchetà che tèn'all'òssa, fémmene còme a te ne tròve mille, u ó mmene còm'a me nen tru ó ve nesciune. 123 Miés'a sta strada c'è state nu lupe e tutte le dònne bèlle z'ha magneàte: ce n'è remasta una ch'è zannuta, pe quant'è brutta nen z'è maretata; e tè ru 'nnammurate ch'è curnute, che te' le còrna còme e nu castrate, e tè ru musse còme e miése pugne; ze fa scappà la vava quanda magna. 124 Quanda re pecurare ze n'iètt'alla Puglia, decètte – Mamma, tròvame na moglie – La mamma ze ne iètte 'n cérca de zita: – Chi te' na bèlla figlia che vo' marite? Ru figlie mié nen te' nesciune defiétte: è n' poche zampacurte e vocca apiérte – 125 Ca r' pecurare è na cosa nulla; tre misce alla muntagna, nòve alla Puglia. 126 Vide vide che cosa curiosa! nen fatiia e re su ó lde ce r'ha: cèrte tène la mane pelosa, o la moglie ze fa lavurà! 127 Quanda la giuvanétta z'ammalàtte, ze iètt'a métte a r' liétte 'n pizza 'n pizza; pu ó la iètt'a truvà la sua cummare: – Cummare, m'è menute ru tremulizze – – Cummare, te vu ó glie accide nu pecci ó ne – – None, cummare, ca nen stiénghe bòna – – Cummare, te vu ó glie accide na gallina – – None, cummare méia, ca m'arruvine – – Cummare, te vu ó glie accide nu castrate – – None, cummara, ca stiéng'ammalata – – Cummara, te vu ó glie dà nu biéglie marite – – Scine, cummara, ca m'ardié la vita. 128 L' amore cumènza che cante e surrise, e pu ó finisce che suspire e chieànte. 129 Iv'a ru 'nfiérne' e me diciérne1: «Canta». – I nen pòzze cantà pe ttené mmènte, i sò na dònna bèlla e bòna tante, ma che cummàtte che le scieàmme ardènte: i sò na schieàva dell'amore sante, e pe l'amore pàte péne e turmènte. 130 Parla, vuccucèia méia, parla nu pòche, e dimme chi t'ha misse a quisse lòche; nen t'haie vaciata prima pe ll'onore, te vace m ó , soltante pe ddul ó re, vuccuccia add ó nda scévane le ròse e m ó iéscene re viérme velenùse. 131 Nel ventre di mia madre incominciava a non averè ben la vita mia, e chéle fasce add ó fui 'nfasciàte fure tessute de malincunia, è a r' prèiete mèntre che leggéva ru libbre dalle mieàne i cascava, e la gammara uscì tutta piangènte. « È nato l'òme sventurate al mondo! ». Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese , Pierro, Napoli 1911.

  • Albert Schweitzer, pastore luterano, medico, missionario e... organista

    Non potrò mai dimenticare l'espressione tra il fiero e l'ammirato che compariva sul viso di mio nonno, Francesco "Cicciotto" Di Nardo quando, raccontandomi del suo grande valore umano, pronunciava il nome di Albert Schweitzer. La mia fantasia di bambino e poi la passione di ragazzo vagavano tra la medicina, la missione e la ricerca di Dio ma non sapevo ancora che più avanti il cerchio si sarebbe chiuso con l'arte organistica! Albert Schweitzer nacque il 14 gennaio 1875 a Kaysersberg, in Alsazia, terra contesa tra Francia e Germania. Il padre, pastore luterano, prestava la sua opera a Gunsbach, la cui chiesa era contemporaneamente attiva anche per la cittadina di Griesbach-au-Val, dedicata sia al credo cattolico che alla confessione protestante, e per le questioni di confine le celebrazioni avvenivano sia in tedesco che in francese. Questo incredibile dualismo di fondo influenzò sicuramente la mente del giovane Albert e il suo pensiero, portandolo al superamento delle differenze confessionali ed alla elaborazione di un diverso concetto di etica e di solidarietà. Che discendesse da una famiglia particolare lo desumiamo anche dal fatto che la cugina, Anne Marie Schweitzer, fu la madre di Jean-Paul Sartre. Non fu un brillante scolaro: di salute cagionevole, lento nell'apprendimento e nella lettura, mostrò però una straordinaria predisposizione per la musica. A sette anni compose un inno e a otto suonava l'organo, mentre a nove sostituì un organista impossibilitato a prestare il servizio richiesto. Contemporaneamente, sviluppava uno spiccato amore per il prossimo e per gli animali, che raccomandava in tutte le sue preghiere quotidiane. Trasferitosi per gli studi liceali a Mulhouse, fu quasi obbligato da sua zia, che lo ospitava (tradizione che abbiamo anche conosciuto alle nostre latitudini), allo studio sistematico del pianoforte e, nel liceo, ebbe come insegnante Ernst Münch, organista della Chiesa di S. Stefano. In occasione di un viaggio a Parigi conobbe Charles-Marie Widor, che ne ammirò lo straordinario talento all'organo, spingendolo, insieme a Münch, allo studio sistematico di questo strumento, cosa che Albert fece con Marie Jaëll . Durante gli studi teologici e filosofici a Strasburgo sviluppò la bruciante passione per la musica di Johann Sebastian Bach. Conseguita la laurea, divenne vicario della Chiesa di S. Nicola e, nel 1902, docente di Teologia a Strasburgo: in quegli anni cominciano le sue pubblicazioni teologiche ma anche su Bach. Tuttavia, il desiderio di portare sollievo ai sofferenti lo spinse a conseguire anche la laurea in Medicina con specializzazione in malattie tropicali nel 1913. Maturò così l'intenzione di partire per l'Africa nella missione di Lambaréné, in Gabon, insieme alla moglie Helene Bresslau, una valente pianista, sposata nel 1912, che aveva conseguito il diploma di infermiera per coadiuvarlo nella sua opera. La battaglia quotidiana si svolse contro la tubercolosi, le malattie tropicali, la chirurgia, mettendo in gioco la sua stessa vita per conquistare la benemerenza delle popolazioni locali e il consenso degli stessi sciamani. Arrivò così, nel 1952, il premio Nobel per la Pace, i cui proventi servirono a fondare Villa Lumière, un lebbrosario. Ma se di giorno era il "Dottore Bianco", di notte tornava ad essere organista studiando su un pianoforte con pedaliera, dono della Società Bachiana, e costruito appositamente per l'occasione per evitare danni da tarli e parassiti. Tedesco in terra coloniale francese, con lo scoppio della Grande Guerra, fu imprigionato nel 1914 e, insieme alla consorte, trasferito in un campo di prigionia in Francia. L'intercessione degli amici e dello stesso Widor fece ottenere per entrambi gli arresti domiciliari. Con la libertà, giunta nel 1918, arrivò anche la ripresa degli studi medici, teologici e della carriera concertistica, tesa alla raccolta di fondi per la Missione di Lambaréné, dove poté tornare nel 1924, rimboccandosi un'altra volta le maniche per ricostruire l'ospedale ormai andato distrutto. Nonostante il carattere timido e schivo, e sofferente per una fama non voluta, Schweitzer era diventato l'ispirazione ed il punto di riferimento di medici e missionari. L'amicizia con Albert Einstein gli valse una migliore conoscenza della fisica delle radiazioni, l'avversione per esperimenti nucleari e il timore di una terza guerra mondiale. Non volle più far ritorno nella sua Alsazia, restando a Lambaréné, dove si spense il 4 settembre 1965. "Oganga" (ossia "Dottore Bianco") Schweitzer fu sepolto nei pressi di un'ansa del fiume accanto al suo ormai celebre ospedale. La sua etica, basata su un assoluto rispetto della vita, si pone sulla convinzione che essa derivi dai sentimenti innati dell'Uomo e non dalla ragione, ricercata da ognuno tramite un atteggiamento introspettivo teso ad un pensiero autonomo, con un amore esteso a tutto il Creato fino al superamento di ogni confessione ed arrivando ad una Chiesa Cristiana Universale. Esattamente come Bach, nella maturità supera nelle melodie sacre la differenza tra il Cattolicesimo e la Riforma. Come in Bach, la maturità non portò a "tirare i remi in barca", così Schweitzer non si rassegna nel tentativo di creare un mondo ed una morale nuovi, derivati dalla conoscenza alimentata dal cuore e dallo studio, da cui scaturiscono pensiero ed azione. Un mondo in cui il colonialismo deve soccombere alla civilizzazione ottenuta tramite il lavoro. Chi ha conosciuto la sofferenza ha l'obbligo di indicare la strada al prossimo, altrimenti sarà solo sofferenza sprecata. Come Bach componeva spingendo alla conoscenza di Dio, così Schweitzer, nell'amore per il creato, trova energia per rispettare e promuovere la vita. Pochi invece conoscono il valore dello Schweitzer organista: grandissimo concertista e tra i massimi conoscitori e studiosi dell'opera di Bach. Nel 1905, con il testo "Bach, il musicista poeta", presente ancor oggi in tutte le case degli organisti e dei musicisti in generale, apre la strada ad un'interpretazione innovativa dell'opera del Maestro di Lipsia. Sua anche un'edizione dell' opera omnia di Bach per organo. Carattere fondamentale è la "scoperta" dei valori simbolici della musica barocca, fino ad allora quasi negletta, specialmente nelle cantate e nei corali per organo di Bach. Schweitzer osserva come nelle armonie di accompagnamento siano presenti figure melodiche ed armoniche, cioè "motivi" tesi ad esaltare ed evidenziare il momento che l'autore sta esprimendo. Ecco allora il "motivo della gioia", il "motivo del terrore" o il "motivo dell'attesa", ed altri ancora nel rispetto dell'armonia e degli schemi compositivi, pur superandoli: l'ascoltatore, come in un risveglio, si accorge di trovarsi in una dimensione nuova pur nello stesso posto di partenza. Alcuni concetti interpretativi verranno superati ma il valore di fondo rimane vivo. Come anche la necessità di un uso o di un ripristino filologico degli strumenti per una corretta esecuzione: lo stesso Schweitzer sostiene che gli organi a lui contemporanei non sono adatti alla freschezza e nitidezza richieste dalla musica di Bach che in essi appare invece «come un disegno tirato a carboncino». Quindi il dualismo che ritorna: musica e simbolo, percepiti insieme ed inconsciamente dall'ascoltatore. Giungiamo così ad "Ascoltare il mistero", parafrasando il titolo di un testo di Timothy Verdon riferito all'arte sacra visiva. Per concludere, in esaltazione del dualismo, base fertile del pensiero dall'antico Egitto fino ai nostri giorni, ricordo come la melodia di un corale festoso, "Nun lob, meine Seel, den Herren" (Loda il Signore, anima mia) è la stessa del corale "Gott, Man lobet dich in der Stille" (Dio, l'uomo ti loda nel silenzio)... Francesco Di Nardo

  • Attenti quando parlate il dialetto capracottese!

    Ho sempre sostenuto quanto Capracotta fosse famosa in molte parti del mondo ma che il nostro dialetto superasse i confini italiani mi ha lasciato perplesso. Vi racconto quello che mi è successo una mattina. Mi stavo recando in ferramenta per acquistare della vernice che, al tempo delle norme anticovid, potevo raggiungere perché distava 50 metri da casa mia. Durante il tragitto sono stato fermato da un cittadino extracomunitario, nire gné la felìma de la ciummenèra , il quale voleva vendermi a tutti i costi un paio di calzini. Educatamente, gli ho detto che non mi interessavano ma lui, con insistenza, ha cercato di vendermele ugualmente. Io continuavo a dirgli che non ero in alcun modo intenzionato a comprarle. Vista la sua ostinazione, ho sbottato in dialetto capracottese: – Zìzì, ma tu me vuó vénne le calzétte e ì nen tiénghe manghe le calòsce: che c'aja fà? Incredibilmente, lui comprese quel che avevo detto e mi rispose: – Amico tu compra calzini le scarpe compri dopo. Sono rimasto un po' sorpreso e, alla fine, per togliermelo di torno acquistai i calzini. Uagliù, quanda parlàte capracuttése n'è ditte ca nesciùne ve capìsce: ŝ téteve accòrte... pe l'amore de Dije! Nicola Carnevale

  • C'è un grande gioiello

    C'è un grande gioiello senza prezzo che si può ammirare, è là da un pezzo! Chi lo scopre così ben incastonato, lo trova assai prezioso perché d'intagli sempre adornato; al sole è radioso, ai bordi di riflessi cangianti è generoso: di topazi, di smeraldi e di diamanti. I suoi 1.576 "carati" sono tanti, perciò se dalla sua natura si è abbagliati, e la si vuole sì nobile e pura, per la gioia degli occhi e del cuore occorre averne cura. Per ognuno quell'ampia radura può essere l'orgoglio di un monile, allora con spirito sempre grato perché rimanga Gentile in cerchio abbracciamo il Prato. Flora Di Rienzo

  • Patria mia!

    Sta Capracotta maestosa e bella tra monte Campo e il Capraro assisa; contempla il fiume, il bosco e la rovina, e par che sfidi il tempo e la bufera. O cara patria sei tu la stella che al ritorno m'inviti allor che avvisa la tenue squilla della "Madonnina", all'anima fidente la preghiera! Quella croce lassù, che nel mattino protende le sue braccia a benedire la fatica degli uomini e la terra, è l'alma tua che dona al mio cammino la speme ardente di un forte avvenire: sogno di pace fra cotanta guerra. Giampietro Venditti Fonte: G. Venditti, Tristia - Dulcia , Tip. Scepi, Lucera 1945.

  • Essere prete al tempo del covid

    Giuseppe Surace ha 35 anni e di Fidene conosce (quasi) ogni angolo. C'è nato e cresciuto e adesso, da sette anni, ci lavora pure. Infatti è il vice parroco di Santa Felicita e Figli Martiri, la chiesa della zona, fino al 2003 poco più di un casotto adibito alle funzioni religiose, poi divenuto l'edificio ampio e accogliente che è oggi. Diplomatosi ragioniere all'istituto "Gaetano Martino" al Tufello (ora non c'è più), don Giuseppe è entrato in seminario a 19 anni e fa parte della congregazione dei Vocazionisti, ai quali è stata affidata la chiesa di Fidene. Ma cosa significa essere un prete (giovane) in questi tempi di pandemia, in una zona contraddittoria e in pieno sviluppo come l'ex borgata Fidene? Glielo abbiamo chiesto. Domanda: – Don Giuseppe, come si riesce a svolgere questo lavoro particolare in un momento di crisi? Risposta: – La base è la conoscenza delle persone, del territorio. Fidene è in continua evoluzione, è vero, ma negli anni ho costruito un rapporto di fiducia con i suoi abitanti, anche perché ne faccio parte. In un contesto d'emergenza come questo, però, è stato fondamentale anche fare rete con altre realtà associative, per poter essere più capillari e far emergere le situazioni di maggiore fragilità, facendo sapere - anche tramite il passaparola - che noi come chiesa eravamo disponibili ad aiutare. Ci sono famiglie che prima stavano bene e con la pandemia hanno perso tutto. Non è facile accettare di aver bisogno di aiuto anche solo per mangiare. D: – Lei ha delle passioni extra-parrocchia? Qualcosa che fa quando non è in servizio pastorale? R: – Sono molto impegnato, quando non sto in parrocchia, con l'insegnamento della religione alle scuola media "Nobel", qui a Fidene. È qualcosa che mi piace molto, quindi cerco di occupare il tempo libero per studiare, formarmi, migliorarmi. Poi se il tempo lo permette, qualche passeggiata. In generale, comunque, cerco di coltivare interessi legati ai temi sociali, ambientali e della legalità, sia tramite il servizio pastorale sia a scuola con i ragazzi. E poi adesso abbiamo messo in piedi un giornalino di zona, sempre con l'aiuto degli studenti di Fidene: non è molto ma ci mettiamo il cuore con l'aiuto di tutta la zona. D: – È mai successo di restare particolarmente turbato da una confessione da parte di un fedele? Si è mai trovato nella condizione di dover decidere tra il segreto imposto dal sacramento e il dover denunciare una situazione grave? R: – La confessione è un momento delicato del rapporto con i fedeli, perché le persone si aprono completamente condividendo questioni personali. Turbato mai, però è successo di dover mettere particolare attenzione ad alcuni casi, nei quali ho cercato di aiutare, consigliare, indirizzare verso soluzioni. In ogni caso, qualsiasi cosa venga detta in confessionale, non può assolutamente uscire da lì. D: – Viene ancora molta gente in chiesa? O le cose sono cambiate? R: – Le cose sono cambiate molto: quand'ero ragazzino la parrocchia era molto più centrale, c'era un senso d'appartenenza differente nella vita quotidiana, almeno per me. È anche questo che mi ha motivato nella scelta vocazionale. Adesso, sia per il cambiamento del quartiere sia per il venir meno di molti riferimenti, diciamo che la parrocchia ha cambiato questo ruolo. Adesso punta molto più ad aprirsi al territorio, non solo a chi la frequenta. La frequentazione è calata e anche il Covid non ha aiutato. Pensi che dobbiamo confessare all'aperto, ovviamente con tutte le accortezze del caso anche per la privacy dei fedeli, ma molti sono rimasti un po' disorientati. Noi però restiamo in ascolto del territorio, ci apriamo a tutte le realtà, perché viviamo un "cambiamento d'epoca", come ha detto papa Francesco, e cerchiamo di stare al passo. D: – Don Giuseppe, è stato difficile per un ragazzo così giovane decidere di entrare in seminario? È mai stato innamorato? R: – Facendo parte della specie umana, lo può immaginare. Però nella mia vita si andava formando questa consapevolezza della vocazione già da una giovane età, addirittura alle scuole medie. Quando poi ho capito quale fosse davvero il mio percorso, non nego di aver avuto momenti di crisi, di smarrimento, incertezza. Ma non è stato poi così difficile, per me, lasciare la vita di prima e diventare prete. Sono molto contento della scelta che ho fatto. Valerio Valeri Fonte: https://romah24.com/ , 5 aprile 2021.

  • Canti popolari di Capracotta (IV)

    E gli umili pastori, che vivono nella purezza, nella bontà, nel bene, sognano l'Amore che han lasciato ai patrii monti carichi di neve, e del loro canto fan risuonare le solitarie pianure del Tavoliere. E tutti i giorni, volgono lo sguardo all'orizzonte lontano, dove sono le loro adoratrici, e mai sanno distaccarsi da quella contemplazione, così triste e a un tempo così piena di gaudio. E ripensano al loro alpestre borgo, dove il vento della Maiella taglia la faccia come una scudisciata, e vedono cielo e terra di un sol colore, e le ragazze riunite intorno al fuoco a novellare; e allora tornano, col core, al bel tempo trascorso, alle conversazioni, ai convegni così pieni di dolcezze, che li lasciavano col sorriso negli occhi e la festa nel cuore. 64 Ru munne è tutte quant'arrevéstite... Che bèlla cosa è m ó sta ŝ rreterieàte, da nu bicchiére, a na guagli ó na unite, da na sciammàta viva arrallegràte. O véveta de vine sapurìte, pe na mès'ora famme tu biiàte, stùzzecame la séte e l'appetite, beneditte Gesù che t'ha creiàte. 65 Ména ru viénte che me fa murì; me re manna r'Amore, r'aia suffrì, me re manna r'Amore e r' manna fòrte, e chiù me fa suffrì, chiù Amore ie pòrte. 66 E nu luntane ŝ téme, oh! che dul ó re; tu chieàgne, i suspire e séme eguale tu iérdi e i pur' arde de r' tu' ard ó re. De venirm'a truvà ora nen puoi, e de venire i, tu ben lo sai: famme menì na léttera se puoi, famme sapé del tutto còme stai. 67 Au ó ie, guagliona méia, mentre scrivéva, l'alma da r' piétte mié se destaccava: iettàva na pennàta, e pu ó chiagnéva, la carta de le lacrime bagnava; oh! che suspire, che gran péna aveva: pénzanne add ó nda ŝ tieà i' lacrémava. 68 Tutte re cu ó lle re vu ó gli 'acchianà, pe i 'ttruvà l'Amore add ó va sta; e re vu ó gli 'acchianà a une a une, pe i ttruvà l'Amore e n' chiù nesciùne. D'estate, quando i nostri monti ergentisi verso l'infinito del cielo, sono rivestiti di verde, i pastori tornano ai patrii lari, e, nel loro tenero trasporto di gioia, col viso illuminato, cantano, al lume della luna, l'inno dell'amore, che sfiora ogni casa addormentata siccome l'ala di un notturno uccello. 69 Povera Puglia, desulata rèsta, m ó che ze ne vieàne r'abbruzzise nu óŝ tre. 70 Amante bèlla, e chi t' ha pusseduta pe chiste quattre misce che c'haie mancàte; i nen haie rilagnieàte, né vevùte, sèmp'alle tuie bellézze àie pensàte. Aveva ménì prima, n' z ó putùte, sò state alle caténe 'ncaténate. Eccheme, bèlla mia, ca so' menùte, e re suspire tié m'iéne chiamàte. 71 Aria di Capracatta, aria gentile; viieàte a chi ce te' la 'nnammurata! 72 Miés'a sta strada c'è nu bèll'add ó re, chi ce l'ha méssa, tanta maiurana? Vlarria che z'affacciasse la padr ó na, e na ramétta me vulésse dare: méttere la vlarria al mi' balc ó ne, pe gentilézza n' ze seccàsse mai. 73 Miés'a ru piétte tié stan duie fontane; viieàte a chi ce véve alla diiùna, ce véve r'ammalate e z'arresana, s'arsùscitane re mu ó rte 'n sepultùra: scié benedétta, o pàlema d'argiénte, o nata mmiése a quattreciénte amànte. 74 L'Amore mié ze n'è iuta a Tuléta, m ó me re pòrta nu lu ó cce de séta; l'Amore mié arretorna da Foggia, m ó me la pòrta na ròsa de magge. 75 O pàlema d'ulive ben carnata, culònna che t'acquiste alla mia vita, na secarèlla vérde tié cumprata, te la scié méssa tu ghiénche vestita, te la scié méssa tanta addilicata, che tutte l'u ó cchi attir'a calamita. 76 Sott'a te, bèlla, n'hai cantate mai, se me ce métte, n' te facce durmire, e da ru liétte me te facce alzare, te facce cunsumuoà re mie suspire, a la fenèscia te facce affacciare, te facce dice: «Amore, n' te ne partire ». 77 Vlarrìa saglie ar ciéle, se putésse, che na scalétta de treciénte passe, vlarrìa che la scala ze rumpésse e che 'mbracci'a l' amore m' arreparàsse. 78 Vlarrìa che menésse e può passàsse, còme alla dònna quanda ze cunfèssa. 79 O nennerèlla, còre de diamànte, quanda te vu ó levà dalla mia mènte? Chisse vicine che ti stieàne accante te re vlarrìiane fa re trademiénte. Tu Die adora e ru Spirite Sante, che te pòzzane fa sèmpe cuntiénte: da r' ciéle po' meni qualche mancanza; e allora, bèlla mia, c'avéme paziénza. 80 Na vite a tiémpe a tiémpe in ogni lòche, na vite che ru chiumme e ru cumpasse, facce le cose méie tutt'a mesùra, e nen me mòve da ru prime passe; quande na bèlla cosa arraffegùre; nen facce arrobba còre e pu ó la lasse. 81 Palazze fabbrécate a piétre sécche, d'ogni furtézza a grande catenàcce, qua déntre sta na fonte de bellézza, ma pe peglieà sta nénna come facce? Appéna arrive, le caténe spèzze, tròve la nènna méia e me l'abbracce: vu ó glie murì che na gran cuntentézza, e vedé chéla nènna éntr'a ste vraccia. Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese , Pierro, Napoli 1911.

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