LETTERATURA CAPRACOTTESE
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
VIRGILIO JUAN
CASTIGLIONE
Le arie popolari musicate da artisti capracottesi
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
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- Il giornalista livornese e l'eroe di Taranto
Nel febbraio del 1978, ossia trent'anni fa, in un tragico incidente stradale, moriva Erasmo Iacovone mito e centravanti del Taranto di quegli anni. Era amato da tutta la città e soprattutto dai tifosi, sia per il suo carattere mite che per i suoi gol. Era infatti in testa (fino al giorno della sua scomparsa) alla classifica dei cannonieri nel campionato di Serie B edizione 1977-78. La figura leggendaria di Iacovone è stata ricordata l'altra sera, nei locali del Bar Cubana, da sempre ritrovo dei tifosi, con una mostra fotografica e una conferenza alla quale hanno preso parte, tra gli altri, giornalisti, calciatori e dirigenti del Taranto di ieri e di oggi. A guidare il filo dei ricordi è stato il giornalista, livornese di nascita e tarantino di adozione, Clemente Salvaggio, ex direttore del quotidiano cittadino Corriere del Giorno di Puglia e Lucania. «Iacovone – ha esordito Selvaggio, – ancora oggi è ricordato con affetto e amore dalla città perché oltre alle sue doti atletiche e di grande umanità, è stato un calciatore che ha saputo scuotere l'animo dei tifosi, facendogli sognare la serie A. Erasmo – ha proseguito, – era di una semplicitá disarmante e sul campo sapeva rendere facili anche le cose più difficili». Iacovone era molisano di Capracotta. Aveva esordito come tutti i grandi campioni partendo dalle squadre di categoria inferiore per giungere, in poco tempo, a compagini come Triestina, Carpi e Mantova. Vestì (due volte) anche la maglia della Nazionale di Serie C, insieme a Gori, Selvaggi e Ciappi suoi futuri compagni in rossoblù. Giunse a Taranto nell'ottobre 1976 e il Corriere del Giorno fu il primo giornale cittadino a scrivere di lui. In quello scampolo di campionato realizzo 4 goal in sei partite e 3 in coppa Italia. Nel campionato successivo, come detto in apertura, Iacovone era partito a spron battuto nel seminare il panico nelle difese avversarie. Di piede, ma soprattutto di testa, i suoi goal sono rimasti nella memoria di quanti lo hanno visto ed applaudito. Le sue quotazioni salirono vertiginosamente. Fiorentina e Roma chiesero di acquistarlo ma l'allora presidente del Taranto decise di rimandare la cessione alla fine del campionato, d'altronde la Serie A sembrava un traguardo a portata di mano ed i goal di "Iaco" potevano essere decisivi. E dei suoi goal racconta ancora Salvaggio. «La prima rete in rossoblu – ha ricordato, – la realizzò di testa. Saltò, in cielo, dove gli altri non potevano arrivare e da lì colpì la palla. Aveva un'elevazione straordinaria. Tuttavia – prosegue l'ex direttore del Corriere del Giorno, – il gol che non dimenticherò mai è quello che realizzò contro il Bari. Fu un gesto atletico fulmineo e vidi un pallone volare in porta». Poi i ricordi di Salvaggio tornano ad essere cronaca, sono quelli di un giornalista svegliato nel cuore di una tragica notte di febbraio che riceve la notizia dell'incidente che ha spezzato la vita di "Iaco" e fermato il cuore di un'intera città. Una Taranto scioccata, sbigottita e scippata (come da tante altre cose) del suo campione dello sport. Fu quella una città senza sole, che si fermò per due giorni interi e che quando si svolsero i funerali, un interminabile corteo, composto da tifosi, giornalisti, calciatori e presidenti di tante squadre (di tutte le categorie calcistiche), volti e nomi famosi giunti da tutta Italia, e da tanta gente comune, si strinse intorno ad Erasmo. La salma fu portata dalla Chiesa di San Roberto Bellarmino allo stadio. Il campo non aveva ancora il suo nome, si chiamava ancora Salinella (dal nome della contrada) ma lui, in quello stadio gremito già dal mattino, fece il suo ultimo giro. Lì il campione di Taranto ha lasciato il posto alla leggenda e per tutti i tarantini (poi anche ufficialmente) quello è diventato lo stadio Erasmo Iacovone. «Nel mio articolo – ha concluso tra le altre cose Clemente Selvaggio, – chiesi simbolicamente a Iacovone di accompagnarlo nel suo ultimo giro di campo». La manifestazione in ricordo di questo campione, a trent'anni da quei tragici eventi, è stata organizzata dall'associazione "Tifo è amicizia 1991" e ha contato, tra gli altri, sulla collaborazione di Franco Valdevies (che ha curato la mostra fotografica) e del giornalista e commentatore televisivo Gianni Fabrizio. Questo è, in sintesi, il ricordo di quel micidiale attaccante che in ogni click fotografico rimasto a sua memoria si fa trovare sempre disteso e sorridente, magari col pallone tra le mani o in una bella azione di gioco. Era un atleta vero Erasmo, uno che merita di essere ricordato in tutta Italia. Giuseppe Mele Fonte: https://www.amaranta.it/, 17 febbraio 2008.
- Povero Capracotta
Povero Capracotta, di acqua privo. Nemmeno l'acqua! povero assetato. In tutte le fontane c'è il mercato di conche che s'infilano all'arrivo... È vergognoso quel formicolaio, che, se non si provvede, è un vero guaio. O a periodi, o pronta cassa, s'imponga al popolo quest'altra tassa; sebbene è carico che Dio lo sa, ma questo lo ordina necessità. Fortuna vuol che l'acqua non occorre soltanto al popolin, che anzi è il meno; se così fosse basterebbe il freno col dir che del problema si discorre... Ma col discorrer, d'acqua non ne viene. Ne abbiam le teste ingombre, ed anzi piene. Siamo nel secolo del gran progresso, far troppo l'umile non è lo stesso... Ci vuol la madre di pulizia, se no ci seguita la malattia. Più volte si parlò di serbatoi, e poi di tubatura, del Verrino, così, passando il tempo, pian pianino, si aspetta ancora quel famoso... «poi», ma noi crediam che la cosa più certa è quella di restare a bocca aperta! Tutti speravano più attività. Ed ora, il Sindaco, che è il Podestà, dal cuore nobile che mostra in volto, l'intero popolo ci spera molto. Nell'imbarazzo c'è, quest'è assodato, come in tutte le cariche di onore... Ma questo inestimabile favore non è diretto a questo o quel privato; e se di dirlo chiaro mi è permesso, è pure un gran favor che fa a se stesso. Si cambi il tavolo dell'adunanza; e, se è possibile, anche la stanza!... Là, dove al solito si discuteva, e terminavano quando pioveva... Questo sì bel paese di cui parlo, ricco di erbaggi, boschi, ed aria pura, essendo situato a troppo altura, l'acqua non potrà mai bene innaffiarlo se per la soluzione del gran problema non gli si offre un polso che non trema! Al nuovo Sindaco, diamo un saluto reverentissimo di benvenuto. Bene augurandoci, a breve andare, studiar per l'opera, e cominciare! (1930) Nicola D'Andrea Fonte: N. D'Andrea, Le poesie di Nicola D'Andrea, Il Richiamo, Milano 1971.
- Stranezze italiane
«Altolà (MO) dove pensi di andare?» disse il Giovinazzo (BA). Un tempo nei vicoli di Bari potevi sentirti dire queste parole dai veri bari! Uscendo dalle mura medievali, avresti potuto vedere un verde prato senza essere a Prato e trovare riparo sotto l'ombra di un Alberobello accanto ad una Acquaviva delle Fonti (BA). Ma se lo spavento fosse stato ancora troppo, avresti potuto prendere una Medicina (BO). Dopo uno spavento del genere, sarebbe perfetto un pranzetto a base di Capracotta (IS) o di Cavallino (LE) e con un Campodimele (LT) per finire in dolcezza. Jacopo Minervini Fonte: https://sites.google.com/a/scuolaimbriani.net/.
- Ricordo della transumanza
La transumanza delle greggi è ormai solo un ricordo: è terminata, subito dopo l'ultimo conflitto, con lo sviluppo della civiltà industriale e il declino della civiltà agropastorale. Ho avuto il raro privilegio di compierla insieme con i pastori in circostanze eccezionali. Di quel remoto viaggio attraverso il tratturo, fatto nella lontana primavera del 1944, mi sono rimaste poche schegge di ricordi e tanta nostalgia. C'era ancora la guerra. Sui nostri monti il fronte, dopo la stasi invernale, finalmente si era mosso e le forze alleate avevano oltrepassato la linea del Sangro, spingendosi a Nord. Tutti i paesi al di qua e al di là della linea, o, meglio, ciò che di essi restava dopo la distruzione, era stato evacuato dai contendenti. Le greggi così potevano lasciare il Tavoliere di Puglia e tornare in montagna. Ai primi di giugno io, che ero alle armi, ebbi una licenza e da Lecce, ove allora mi trovavo, mi misi in viaggio per far ritorno al mio paese, Capracotta. Giunsi con mezzi di fortuna a San Severo, ove m'imbattei in alcuni miei compaesani, sfollati a seguito delle operazioni belliche. Da essi appresi, con indicibile commozione, la terribile vicenda della distruzione del paese e l'angosciosa odissea della popolazione rimasta senza un tetto, costretta ad evacuare. Seppi da loro che la mattina seguente sarebbero partiti da Lucera i nostri pastori per la transumanza di ritorno. Mi dissero che avrei fatto bene ad unirmi a loro per tornare a casa, stante la estrema precarietà delle comunicazioni viarie e la mancanza assoluta di mezzi di trasporto. La mattina dopo raggiunsi Lucera e mi unii ai pastori per intraprendere con loro il lungo viaggio attraverso il tratturo. Le greggi appartenevano a due proprietari: erano state unite per affrontare meglio il difficile viaggio di ritorno in quella disastrosa primavera di guerra. La conduzione della transumanza era nelle mani dei massari, che avevano autorità su tutti e su tutto. I pastori, i butteri, i cacieri dipendevano ovviamente da loro, ma nessuno faceva pesare sugli altri la propria autorità. Il lavoro veniva svolto nel segno dell'affiatamento e della cooperazione più stretti ed efficienti: era questo l'aspetto che più colpiva della complessa attività della transumanza, a cui erano interessate due greggi, come detto, per circa seimila capi complessivi. Levammo le tende e iniziammo il viaggio lungo il tratturo, che correva ampio, aperto, a tratti sinuoso, come un grande fiume verde, in mezzo alla vasta ed assolata pianura pugliese. Era, se ricordo bene, l'11 giugno del '44. Le greggi con i pastori e i cani procedevano distaccate, per conto loro, seguendo antichi ritmi di riposo e di pastura. Noi altri, che facevamo parte, per così dire, della sussistenza, andavamo con i muli e le giumente, carichi di provviste e di tutta la grossa attrezzatura della pastorizia in fase di transumanza. Dopo il fresco gradevole delle prime ore mattutine, sopravvenne, quasi all'improvviso, la canicola, densa e afosa, del Tavoliere. Il tratturo si snodava fra campi di grano già mietuti, gialli di stoppie, e rade boscaglie. Eravamo finalmente in vista dei monti della Daunia. Il terreno cominciò a farsi ondulato e l'aria più chiara. Il capo massaro, che procedeva in testa alla carovana, cavalcando, solo fra tutti noi appiedati, la giumenta baia, ordinò di fare sosta per la colazione. Ci sistemammo all'ombra di una quercia. Furono tratte fuori le provviste. Un giovane massaro affettò il pane (c'era nei sacchi pane per tutto il percorso, cotto nei forni di Lucera, di lunga conservazione); il capo carovana affettò il formaggio, fresco, fragrante, con poco sale, formaggio che strideva lievemente sotto i denti per una punta di gommosità, tenue e gradevole, della pasta, e, come se celebrasse un rito, lo distribuì così affettato, insieme col pane, a tutta la comitiva, cominciando dai più anziani. Il capo massaro faceva venire in mente un antico personaggio biblico nell'esercizio delle sue funzioni domestiche. A giusti intervalli, e sempre quando il capo riteneva giunto il momento, girava in tondo fra i commensali, il barilotto del vino, vino di Lucera, con la cannella applicata all'apertura per chi volesse bere a garganella. Uno spettacolo vedere i butteri, che bevevano tutti così, mentre dal barilotto sollevato facevano scendere direttamente nella gola il forte liquido. Ci rimettemmo in viaggio. Il tratturo, con ampie volute, si inerpicava dolcemente su per le pendici delle alture. Ci lasciammo sulla destra, arroccata su un poggio, Castelnuovo della Daunia, e ci fermammo per l'addiaccio all'imbocco di uno spazioso avvallamento. Il sole declinava in uno sfarzo di luce calda, rosso-dorata, dietro una catena di monti lontani degradanti dolcemente. Lo spettacolo era radicalmente mutato: invece della piatta ed uniforme pianura pugliese, un paesaggio collinoso, dalle linee distese e pacate. Il tappeto erboso del tratturo aveva assunto toni più verdi e più freschi. Innumerevoli tracce di vecchi sentieri lo percorrevano in tutte le direzioni, fra cespugli e rovi. Coi suoi larghi margini, il tratturo lambiva la campagna punteggiata di vecchi casolari, dove faceva spicco il verde degli olivi fra il giallo bruno del frumento ormai maturo e pronto per la mietitura. Furono scaricate le vetture e cominciò il lavoro di apprestamento del bivacco. Tutti indaffarati, anche noi aggiunti (si erano uniti alla carovana alcuni compaesani che, come me, intendevano raggiungere il paese), per quel poco di manovalanza che potevamo dare. Infissi i pali nel terreno per delimitare gli stazzi, fu fatta subito la recinzione con robuste reti di canapa. Furono approntati i focolari per la cottura delle vivande e la lavorazione del latte. Fu data sistemazione a tutto il materiale. Prima del crepuscolo arrivarono i pastori con le greggi. Le pecore furono avviate agli stazzi. È l'ora della mungitura. Attraverso appositi varchi aperti negli ovili le pecore vengono spinte nei mungitoi. Qui pervenute, i pastori addetti alla mungitura, coi guardamacchia addosso e le strangunère allacciate alle gambe (indumenti di pelle di pecora: i primi per coprirsi il busto; i secondi, le gambe), seduti sugli sgabelli, calano sul collo delle pecore una forcella di legno, legata con uno spago ad un paletto, per tenerle ferme, e con gesti rapidi e misurati, le mungono, facendo sprizzare il latte nei secchi posti a terra. Dopo la mungitura, le pecore vengono risospinte negli stazzi, dalla parte opposta a quella dei mungitoi. Comincia il lavoro dei cacieri, i pastori esperti nella lavorazione del latte. Versano il latte nei grandi caldai, i caccavi, pronti all'uso sulle pietre dei focolari. Al tempo giusto mettono il caglio. Lentamente comincia la coagulazione. I cacieri scremano, quando è ora, la tenera ricotta e il cagliato, un delicato latticinio semiliquido, non ancora formaggio; poi, quando il latte è ben rappreso, estraggono a mano la pasta per il formaggio da consumare fresco e per quello da salare per la stagionatura, e la depongono nelle formelle di vimini. I cani, intorno, ansano bramosi in attesa del dolce siero. Quella prima sera di bivacco il pasto serale consistette in grosse fette di pane "cotto" nell'acqua salata, condita con olio e aromatizzata con prezzemolo ed altre erbe. Chi voleva, cospargeva le fette di formaggio pecorino grattugiato. Per companatico, formaggio e ricotta, freschi o salati, a scelta. La fiasca del vino indugiava più del necessario presso i commensali prima di compiere un giro completo. I pastori, i massari e i butteri, mentre si mangiava, parlavano gravi, come era loro abitudine, calcando le parole: raccontavano vecchie vicende di pastorizia, ma si capiva che lo facevano non tanto e non solo per l'antico gusto fabulatorio della gente contadina e pastora, quanto per distogliere il pensiero dal tema della guerra e delle sue funeste conseguenze, che su tutti pesava così duramente. Poi ognuno pensò a prepararsi un giaciglio per la notte. Ciascuno stese a terra, in un punto più soffice, un telo di canapa, e vi posò sopra una coperta militare o un vecchio cappotto; per guanciale, un basto rovesciato, coperto con una pezza di tela o un asciugamano. Dormire all'addiaccio, sotto la cappa incombente del cielo trapunto di stelle, nella vastità silenziosa della campagna addormentata, incuteva un inesprimibile senso di soggezione e di stupore: per i misteri profondi che la natura pareva racchiudere nel suo seno. Il mattino seguente, partite le greggi e ricaricato il materiale sui muli e le giumente, c'incamminammo diretti alla seconda tappa, sita a monte della valle del Fortore. La carovana andava silenziosa per il tratturo, che procedeva più aspro e irregolare, a saliscendi. Se ne scorgevano lunghi tratti profilarsi in lontananza, come grandi pennellate verdi in mezzo alla campagna coltivata, dai colori variegati. Nella lontananza sfumata scorgemmo, dietro serie di alture e di avvallamenti, la meta da raggiungere. Sbigottivi a considerare quanta strada dovevi ancora percorrere a piedi prima del bivacco! Sostammo, come al solito, per la colazione, col cerimoniale d'uso. Riprendemmo il cammino mentre il sole picchiava forte. Incrociammo le greggi giù al Fortore, un fiume a carattere torrentizio, che d'estate era pressoché all'asciutto, ma che allora portava parecchia acqua. I ponti erano saltati, motivo per cui lo si passava a guado, seguendo, per l'appoggio, una traccia di grossi sassi che andava da una sponda all'altra. I pastori, i massari e i butteri si sfiancarono ad aiutare le pecore, specie le più deboli, a passare il fiume; gli agnelli venivano portati a braccio sull'altra riva. Un belare continuo, lamentoso si effondeva nella valle. Una faticaccia per tutti. Parecchie pecore si azzopparono. Proseguimmo, staccandoci nuovamente dai pastori. Il tratturo risaliva dolcemente i rilievi della valle, che si accentuavano a grado a grado. Sul tardo pomeriggio, col sole ancora alto, ci fermammo per il bivacco a Santa Croce di Magliano. Avevamo appena finito di alzare gli stazzi, quando le greggi comparvero sulle alture. Scesero lentamente, tra l'abbaio dei cani che avevano fiutato l'aria del pasto e del riposo. Non passava giorno senza che si azzoppasse qualche pecora, giù per i valloni scoscesi e al passaggio dei fiumi. C'era dunque sempre carne disponibile. A cominciare da questa sera, il pasto serale sarà costituito dalla pezzata, la pietanza più caratteristica e più squisita dei pastori, a base di carne di pecora. La pecora viene depezzata, da ciò il nome di "pezzata", e messa a cuocere in un enorme pentolone. La carne si cuoce a fuoco lento, nel proprio brodo, perché il caldaio viene chiuso con un coperchio a tenuta, in modo che l'evaporazione venga, per così dire, riciclata e nulla dei sapori vada disperso. La cottura richiede tempi lunghi, una giusta salatura, aggiunta di speciali erbe aromatiche, note forse solo ai pastori ma la pietanza che ne vien fuori è di una squisitezza eccezionale, meritatamente famosa. Al momento del pranzo, o cena se così si vuole chiamare, appena l'imbrunire, facemmo cerchio intorno al focolare, sul quale troneggiava il caccavo della pezzata, seduti per terra o su un basto, ciascuno con una grossa scodella di legno, con le posate dentro, pure di legno, sulle ginocchia. Furono distribuite grosse fette di pane; il capomassaro prese il mestolo, lo affondò nel caldaio, rimestò per amalgamare bene tutto; e cominciò a distribuire mestolate di pezzata: due mestoli colmi in ogni scodella, il che voleva dire un buon mezzo chilo di grossi tocchi di carne con brodo per tutti; se volevi, intingevi il pane nel brodo. Un pasto sostanzioso, abbondante, saporito come pochi altri. Il barilotto ora, a compiere un giro completo, sì che metteva tempo. Sorse il terzo giorno della transumanza. Un altro splendido mattino: l'aria della valle, leggera e fresca riempiva i polmoni. Si doveva far tappa a Ripabottoni. C'incamminammo nella purezza delle ore mattutine. Nella campagna, dalle linee sempre più ondulate e distese, dai toni caldi e dorati, fervevano i lavori della mietitura. La guerra non sembrava che avesse inciso molto sulle tradizionali attività della gente contadina. Ad un tratto, superato un dosso, scorgemmo la statale per Termoli ingombra da un'autocolonna militare alleata. La strada tagliava il tratturo. Le greggi attendono che la strada si liberi per passare; altrettanto facciamo noi addetti ai servizi. La colonna, che sembra non debba mai finire, procede rombando. Ad un tratto due uomini della polizia militare, col casco bianco, scendono da una camionetta, si piantano in mezzo alla strada e arrestano momentaneamente la coda dell'autocolonna, di cui non si scorgeva la fine. Ma ci fanno segno di affrettarci. I pastori e i cani incitano le pecore. Proseguiamo. Ripa alle viste! Si scorge il borgo, con le case brune, tutte con i tetti rossi, dietro un poggio, di cui il tratturo lambisce le pendici. Ci accampiamo sul declivio. Si alzano gli stazzi, si preparano i focolari, si fanno tutti gli altri lavori inerenti al bivacco. I pastori mungono le pecore. I cacieri, come tutte le sere, lavorano il latte nei grandi caccavi e fanno la ricotta e il formaggio. I cani lappano con avidità il siero fresco. Accorrono dal paese donne e bambini per farsi dare dai pastori un po' di ricotta in cambio di qualche uovo o di un po' di tabacco. I bambini portano con sé la scodella per una zuppa di latte. I pastori accontentano tutti: non rimandano nessuno a bocca asciutta. Coi bambini, poi, sono di manica assai larga: riempiono le loro scodelle fino all'orlo, scherzando con tutti. O vecchi pastori e massari del mio paese! Vecchi butteri! Quanta simpatia ispiravate nelle genti di Puglia e del Molise, lungo le vie della transumanza, con la vostra schietta semplicità, con la vostra generosità! Vi siamo ancora oggi grati per aver così tanto onorato il vostro paese! Si deve anche a voi se la nostra gente è ovunque nota per le sue tradizioni di ospitalità e di umanità, e dunque di civiltà. Dopo la tappa di Ripabottoni, il tratturo deviò verso nord-est, ma ora c'è un vuoto nella mia memoria: non ricordo con esattezza dove facemmo sosta per l'addiaccio al termine della giornata, forse a Civitacampomarano, forse a Trivento, forse altrove. Se lo chiedessi a qualche vecchio pastore, ancora in vita, me lo saprebbe certamente dire perché le stazioni di riposo erano sempre quelle, da tempo immemorabile. Quel giorno attraversammo il Biferno su un ponte, non ricordo dove: non era fiume da passare a guado, quello. E tuttavia qualcuno ci si prova, ma l'acqua gli arriva alla cintola ed è costretto a desistere. La tappa seguente è Salcito, nella valle del Trigno. Mentre ci avviciniamo, vediamo profilarsi all'orizzonte, lontani, sfumati, i monti dell'Alto Molise, i nostri monti. Si distinguono Monte Campo e il Capraro. La visione risveglia in noi sentimenti nostalgici di affetto e di trepidazione anche, per l'incertezza in cui si vive: sentimenti che parevano sopiti nelle cure della transumanza. Attraversiamo il Trigno, guadandolo. Il tratturo comincia ad inerpicarsi su per i monti. Ecco il Verrino, l'affluente del Trigno, che scaturisce dalle propaggini di Monte Capraro. Ci accampiamo per l'ultima notte nella campagna sotto a Pietrabbondante. La sera era fresca. Il cielo, dopo tante giornate limpide e calde, cominciava ad offuscarsi. Da occidente il vento sospingeva grossi nuvoloni bigi, sospetti. Ci preparammo il giaciglio all'addiaccio e ci addormentammo. Nel sonno si sentiva, cupo, rotolante, il fragore del tuono. Improvvisamente ci si rovesciò addosso un violento scroscio di pioggia, che ci svegliò di soprassalto. Balzammo in piedi e corremmo verso un casolare, ai bordi del tratturo, e ci mettemmo al riparo. Cessò la pioggia e tornammo all'addiaccio, ma il sonno non venne più. Aggiornò: un cielo incerto, schiarite che si alternavano a bruschi riannuvolamenti. Ma è tempo di andare. Noi "clandestini" ci congediamo dai pastori, dai massari e dai butteri e li ringraziamo della loro generosa ospitalità. Non li dimenticheremo: non li ho dimenticati neppure dopo quarant'anni. Proseguono le greggi per il tratturo verso il ponte di San Mauro sul Trigno. In quel punto lo abbandoneranno e proseguiranno lungo la rotabile per la stazione finale della transumanza, i pascoli di Monte Capraro, a due passi dal nostro paese. Noi deviamo per Pietrabbondante, poi ci mettiamo sulla provinciale e proseguiamo. Superati i Tre Termini e Staffoli, prendiamo la strada che sale, fra i boschi, verso Capracotta. Che aria fresca! Che trasparenza! Si sente, acuto, l'odore delle erbe e dei fiori bagnati dall'acquata recente. Come è lontano il tavoliere con le sue caligini! Procediamo, ciascuno assorto nei propri pensieri: e sono pensieri di grande trepidazione. Ci attendono la visione del paese distrutto e tante notizie tutt'altro che liete. È durato una settimana il viaggio con i pastori per il tratturo "antico" della transumanza, dal Tavoliere di Puglia alle fresche pasture dei monti dell'Alto Molise, sulla valle del Sangro. Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.
- Amore e gelosia (XL)
XL Chi tene 'a mamma è ricche e nun 'o sape; chi tene 'o bbene è felice e nun ll'apprezza. Pecché ll'ammore 'e mamma è 'na ricchezza, è comme 'o mare ca nun fernesce maje. Pure ll'omme cchiù triste e malamente è ancora bbuon si vo' bbene 'a mamma. 'A mamma tutte te dà Niente te cerca. E si te vede chiagnere senza sape' 'o pecché, t'abbraccia e te dice: «Figlio!» E chiagne 'nsieme a te. Sulla banchina del primo binario della stazione di Nocera Inferiore, don Salvatore passeggiava avanti e indietro, in attesa del treno diretto che portava un ritardo di circa 20 minuti. Il tempo era mutato: da bello e solatio si era fatto cupo e grigio, e insieme ad esso erano mutati anche i pensieri dell'uomo. All'esaltazione iniziale che l'aveva colto alla magnifica reazione di Elisa nella sagrestia, che gli aveva fatto capire fino in fondo che bella persona fosse, ricca di dignità e di carattere, era subentrata ora una uggiosa apatia: in fin dei conti si trattava di iniziare una schermaglia d'amore, cosa in se stessa affascinante, ma... La conclusione era ovvia, l'aveva già chiara davanti agli occhi: lui amava la sua Elisa, ma adorava anche sua madre, con tutto il trasporto di cui è capace un figlio napoletano. E purtroppo, come spesso accade in questa parte del mondo, le due cose apparivano inconciliabili! "Mia madre mi tiene stretto stretto a sé, non mi lascerà mai, finché vivrò non mi spartirà mai con un'altra donna!". Così pensava un po' lugubremente il poeta, mentre solcava avanti e indietro la banchina, senza rendersi conto che aveva un po' gli occhi di tutti addosso. Uno di quelli che guardavano con più insistenza, prese infine il coraggio a due mani, gli si accostò: – Don Salvatore Di Giacomo, vero? Perdonate, sono un vostro fervido ammiratore... Posso avere l'onore di offrirvi un caffè? Qui al buffet della stazione lo fanno davvero buono, 'a famiglia Trapanese songhe gente onesta e usano vero caffè! E nun ve diche poi la sfogliatella! Ci sono napoletani che scendono apposta dal treno, approfittano della sosta per mettere la spinta dietro al convoglio, per farsi il pacchetto per casa! Don Salvatore guardò l'uomo che gli era dinnanzi: non lo conosceva, questo era certo, e stava per rifiutare, ma l'altro se ne accorse e con un gentile gesto della mano sul suo braccio gli fece: – Non rifiutate, ve ne prego! Non ci conosciamo, ma le vostre canzoni vi rendono a me più caro di un vero amico... Sono il professore Califano, insegno qui a Nocera alle scuole avviamento... e adoro la canzone napoletana! Vi fu qualcosa nel tono delle parole dell'uomo che colpì il poeta: non accettare voleva dire deluderlo per davvero... e poi una bella tazza di caffè era proprio quel che vi voleva... – E allora vada per il caffè... e pruvamme pure sta sfugliatella! Me l'avete decantata meglio di come avrei saputo fare io! La gioia si diffuse sul volto dell'altro uomo: insieme si avviarono verso il buffet e vi entrarono, proprio nell'istante in cui la bella figura di Elisa si affacciava all'interno della stazione, affannata per la corsa fatta, e i suoi occhi che cercavano ansiosamente la figura conosciuta di don Salvatore... Francesco Caso
- Le Madonne di Capracotta
Mia cugina Nietta mi ha ricordato il racconto che zia Pina, morta in odore di santità, spesso ripeteva a noi nipoti. Zia Pina raccontava che subito dopo la distruzione di Capracotta, una vecchietta le disse: – Giuseppì, stanotte ho sognato la Madonna Addolorata e le ho detto: "Madonna mia come hai potuto far succedere tutto questo? Un paese distrutto, dolore e sofferenza e noi Ti abbiamo sempre venerato e pregato". Sai cosa mi ha risposto? "Non sono stata io, è stata la Madonna del Carmine!". Franco Valente
- Serenata a Capracotta
A Capracotte ijelate è lu Verrine. Ssi 'mbumbalizze so' fiure culurate, maggie de ijennare. – A 'ssa fenestre affacciate amore me. Tu calore sije, prime ch'esce lu sole pe' lu corpe e lu core. Marisa Gallo
- Canzone dello Spazzaneve
Chemmuó ŝtà feŝta, ŝte rumóre: è arrevieàte re Spazzanève. Madonna méa quànda feraŝtiére e ru signór Ambasciatóre. Vola canzóne mea, vola lundàne, miés'a stù ciéle sènza fìne. Vàcia chi à fàtte ŝtù rieàle, vàciale tu séra e matìna. Cóm'è biéglie re Spazzanève, tùtte lucènde e re motóre che re vòmere a tùtte l'óre scàscia e sfónna tèrra e nève. Vola canzóne mea, vola lundàne, miés'a stù ciéle sènza fìne. Vàcia chi à fàtte ŝtù rieàle, vàciale tu séra e matìna. Sciòcca, svuréja, jéle 'l mieàne, nù nen tenéme chiù paura che scié bendìtte a tùtte l'óre re paisieàne e r'amerchieàne. Vola canzóne mea, vola lundàne, miés'a stù ciéle sènza fìne. Vàcia chi à fàtte ŝtù rieàle, vàciale tu séra e matìna. (1950) Gennaro Di Nucci
- Preghiera di Mamma Stella
Accànd'a re liétte mié ce ŝta la Madonna e re Signor Iddìe, da cuóŝte e da cànde ce ŝta re Spìrite Sànde, miézz'e lòche ce ŝta l'àngele che jòca, miézz'a la via ce ŝta la Vergine Maria. Vergine Maria bella, ŝta veŝtùta da munachèlla, àngele de Ddìe, che sié re cumbàgne mìe, accumbàgname ŝtanòtte, no che faccia mala morte, accumbàgname ŝtamatina, no che faccia mala fìna. Vèrb'ingàre Noŝtre Signore, chi sa re vèrbe ingàre pecché ner dìce? Chi re sa e chi ner sa 'n pùnde de mòrte se r'éra mbarà. Chi re dice tre vòlde la sera nen ze mòre senza cannéle. Chi re dice tre vòlde la matìna nen ze mòre de mala fìna. Chi re dice tre vòlde la notte nen ze mòre de mala morte. (1860 ca.) Stella Di Tanna
- Il battesimo della libertà
Come spiegare alla gente quello che mi viene in mente sotto una doccia bollente! Quando scopri l'acqua, quando scopri la natura. Acqua, fredda come gli errori. Acqua che si trasforma in ghiaccio e diventa un brivido d'amore quando c'è un po' di cuore. (2013) Elisabetta Sozio
- A san Nicola di Bari
Mente e cuore sempre fan, con grande amore, in silenzio o con parola, la preghiera a san Nicola. Delle lor passioni, è quella la più bella. San Nicola. Dolce nome che consola chi ti adora, chi ti chiama. Chi continuamente ti ama. Chi ti elegge a protettore del suo cuore. Chi si affida alla tua paterna guida, sprezza ogni dolor terreno. Fammi degno del tuo seno, che diffonde lo splendore dell'amore. Qualche cosa d'un'immensità preziosa, ho nel cuore e nel pensiero. È un potente amor sincero, stabilito da una fede che non cede. Nome caro e gran luminoso faro. Tu perdoni, tu proteggi, l'alma mia, prego, correggi, se un indegno sarò stato nel passato. Avvilito m'inginocchio assai pentito. D'ogni fallo la cagione fu, per me, la tentazione, che mi segue e m'è d'intorno ogni giorno. Con l'aiuto tuo, sarò più risoluto a combattere con sano sentimento di cristiano le manovre corruttrici dei nemici, e soffrire, con pazienza a non finire, santamente rassegnato, quel che il Ciel mi ha destinato, nella vita passeggera, fino a sera. Con la vera viva fede più sincera: come i falli miei non nego, Santo Vescovo, ti prego, d'insegnarmi la via retta, benedetta, che conduce nel gran regno della Luce, bella, santa, vera e sola, che ristora, che consola. Che trasforma il pianto e noia in pace e gioia. Benedici dal tuo regno dei felici questa vita di sospiri; di chiassate e di raggiri. E proteggi chi non vede che la fede. Sarò forte, nel passar da vita a morte, pur che non mi lasci solo, specie quando spicco il volo, e l'ignudo spirto mio corre a Dio. O gran Santo, correrò sotto il tuo manto, quando innanzi alla gran legge non avrò chi mi protegge. Quando il fallo mio si spiega, per me prega. Benedetto sii da quando fosti eletto, o Santissimo avvocato. Spero in te, pel mio peccato, sia meno aspra, in tua presenza la sentenza. (1929) Nicola D'Andrea Fonte: N. D'Andrea, Le poesie di Nicola D'Andrea, Il Richiamo, Milano 1971.
- Sul fiume Verrino... e non solo
Sulle opposte rive del fiume stavano le donne un tempo, col loro lavoro fra le mani stanche: lenzuola e indumenti prima tessuti al telaio, adornati forse di merletti, e ora... sporchi di fatica. Scarsa l'acqua in casa... Ma il fiume benevolo e fresco offriva acqua e pietre naturali e dure. Le donne d'Abruzzo e Molise allor con braccia forti e antiche, fra canti e sudore, ridonavano candore a quelle tele, certo anche testimoni di scene d'amore e di tenerezza. Marisa Gallo
- Il pensiero di una mamma sola
Nevica e soffia la tramontana. Il mio pensiero va vicino e va lontano a quel pover'uomo che lavora sempre solo. Il mio pensiero fa sentire una stretta al cuore, si ferma a Franco e Lucio a Roma. Il mio pensiero va sempre in fretta, a Castel di Sangro, da Nicoletta. Il mio pensiero gira come un nuvolone aspettando Fernando con la corriera da Agnone. Il mio pensiero si ferma per la via per ascoltare la voce di Loreto e di Maria. O mamma sola che tormento! Ho sparso una famiglia come le foglie sparge il vento. Annina Di Rienzo (a cura di Flora Delli Quadri) Fonte: https://www.altosannio.it/, 26 ottobre 2017.
- Santilli, il grande scienziato capracottese ignorato dalla scienza ufficiale
Esiste una tenzone fra Einstein e uno scienziato naturalizzato americano di origini molisane, Ruggero Maria Santilli, nato a Capracotta l'8 settembre del 1935. Einstein, per ovvie naturali ragioni, ignora che Santilli ponga in discussione le sue teorie, o meglio, le considera di gran lunga superate. Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire chi è Ruggero Maria Santilli, personaggio abbastanza controverso - acclamato da studiosi di mezzo mondo che lo hanno proposto candidato al Premio Nobel per la Fisica - tenacemente aborrito da un altrettanto buon numero di scienziati che albergano nell'altra metà del mondo. Brillante studente all'Università di Napolim si laurea in Fisica ottenendo il dottorato di ricerca in Fisica teorica presso l'Università di Torino. Nel 1968, accogliendo l'invito dell'Università di Miami a svolgere attività di ricerca con i fondi della N.A.S.A., si trasferisce in America. Insegna Fisica all'Università di Boston per poi passare al M.I.T., una delle più importanti università di ricerca del mondo con sede a Cambridge, nel Massachussetts, e raggiunge l'apice della carriera come fisico teorico al Dipartimento di Matematica dell'Università di Harvard. Lo scorso settembre ha organizzato, attraverso la Ruggero Maria Santilli Foundation, associazione di cui è presidente e fondatore, la conferenza internazionale su Astrofisica e Cosmologia della materia e dell'antimateria presso la Repubblica di San Marino, che gli ha conferito la più alta onorificenza: la nomina di Commendatore di Gran croce dell'Ordine equestre di Sant'Agata. Al convegno sono stati trattati molti argomenti: l'espansione accelerata dell'universo, il Big Bang, la materia oscura, l'energia oscura e i buchi neri. Ma cosa ancora più importante sono state presentate le verifiche sperimentali, effettuate da scienziati europei e degli Stati Uniti, di un'ipotesi teorica "inventata" proprio da Santilli che, basandosi sugli innovativi concetti di isoredshift ed isoblueshift, prevede deviazioni all'interno dei mezzi materiali della celeberrima teoria della relatività speciale di Einstein. Il prof. Santilli è noto nel mondo della scienza per aver proposto nel 1978, quand'era all'Università di Harvard, una generalizzazione strutturale della meccanica quantistica e della relatività ristretta ai cosiddetti sistemi interni (particelle che si muovono una a contatto con o dentro l'altra, come nella struttura degli androni, nuclei o stelle, piuttosto che particelle muoventesi nel vuoto, come nella struttura atomica descritta nella meccanica quantistica e relatività di Einstein). Per tale formulazione Santilli dovette inventare matematiche completamente nuove, oggi note come "matematiche santilliane" e, nel frattempo, ha ricevuto consensi da tutto il mondo. Ad esempio Karl Popper, il grande filosofo inglese della scienza, in uno dei suoi ultimi libri, ha espresso grande approvazione per i suoi studi, come anche il fisico americano Micho Kaku; mentre la scienza ufficiale continua ad ignorarlo, anche se ha scoperto una nuova specie chimica, chiamata "magnecolare", diversa da quella molecolare, adatta ad una combusione completa che rimuoverebbe l'idrogeno dall'atmosfera e, quindi, di grande interesse ecologico. Ma perché noi molisani di tale genio della Fisica non ne abbiamo quasi mai sentito parlare? Nel 1995 Santilli organizzò un convegno internazionale, proprio nel Molise, nel Castello Pignatelli di Monteroduni, una settimana di congressi scientifici che videro la partecipazione di oltre 150 fra scienziati, membri dei comitati Nobel, direttori di laboratori di fisica, presidenti delle accademie scientifiche, proprio per discutere e divulgare le invenzioni venute dopo quella di Einstein, incluse quelle di matematica pura, fisica, chimica ed ingegneria. Il rapporto con la classe politica di allora (tranne qualche eccezione) fu pessimo tanto che Santilli se ne andò sbattendosi dietro le porte e giurando che non avrebbe mai più rimesso piede in Molise. Ma ciò che è più grave è che la stampa nazionale non si accorse o, come Santilli sostiene, non volle accorgersi di quello che era accaduto a Monteroduni: sei volumi di atti di quel convegno e tre monografie per 3.000 pagine di nuove ricerche. Già, perché Santilli, senza mezzi termini, denuncia l'ostracismo della stampa, definendola assoldata e politicizzata, cieca e sorda di fronte all'invenzione di quel nuovo carburante pulito, a struttura non molecolare, oggi chiamato Santilli MagneGas. Se un giorno gli si dovesse dar ragione si potrebbe definirlo: ecologista per eccellenza, tanto ci tiene a far comprendere che il Pianeta va salvato e che lui da anni è impegnato in questo senso al punto che, tra le tante cose, ha studiato un sistema per il disinquinamento delle acque reflue a seguito della molatura delle olive; problema che interessa il Molise come tutti i paesi del Mediterraneo produttori di olio. Ma perché Santilli ce l'ha con Einstein? In effetti Santilli nega di avercela con lo scienziato tedesco anzi, ammise in una intervista: «L'ho sempre lodato, chiamando la consistenza assiomatica della relatività ristretta majestic». E aggiunge: «Tutti i problemi etici e scientifici contemporanei non sono causati da Einstein, ma dai suoi seguaci che si appoggiano al suo nome per avere credibilità. Gli articoli di Einstein sono seri perché identificano con chiarezza le condizioni di applicabilità che sono quelle particelle di onde elettromagnetiche muoventesi nel vuoto. Da questo i seguaci di Einstein hanno esteso l'applicazione delle sue teorie a tutto l'universo in una maniera non scientifica perché fatta senza esprimere le limitazioni ed approssimazioni consequenziali». Non siamo in grado di esprimere un giudizio sul valore scientifico di questo illustre studioso, ci siamo limitati a tracciarne il profilo per renderlo meglio noto ai molisani. Vittoria Todisco Fonte: V. Todisco, Santilli, il grande scienziato "capracottese" ignorato dalla scienza ufficiale, in «Il Quotidiano del Molise», Campobasso, 19 gennaio 2012.
- Capracotta e le cascate del Verrino
Risveglio in una bella giornata di sole, notte tranquillissima, ci troviamo nel centro montano di Capracotta a più di 1.400 metri d'altezza, il più alto comune del centro-sud Italia. Anche la vegetazione qui è quella di alta montagna ed è possibile vedere un raro bosco di abeti bianchi, sono presenti impianti sia per lo sci alpino che per lo sci di fondo. Anche se la gente del posto ci ha detto che le piste per lo sci da discesa sono ormai in disuso da anni, mentre i quindici chilometri di piste per lo sci di fondo che attraversano un bel bosco di faggi ed abeti sono scelte spesso per ospitare gare nazionali ed internazionali. Questa mattina vogliamo andare alla ricerca delle cascate del Verrino, dopo alcune ore perse lungo una strada stretta e dissestata, una persona del posto ci informa che è meglio fare retromarcia in quanto la strada più avanti si sarebbe fatta impraticabile per mezzi delle nostre dimensioni, indicandoci un modo più agevole per giungere alla meta. Finalmente in tarda mattinata giungiamo al cospetto dell'agognata cascata, immersa in un ambiente alquanto suggestivo e bucolico. Alla base della stessa un bel laghetto dalle sfumature color smeraldo invita a bagnarsi nelle sue acque. Nel pomeriggio saliamo fino alla zona di Prato Gentile dove sono presenti gli impianti sciistici. Ignote le origini dell'originale nome del paese, si ritiene che sia dovuto all'usanza longobarda di sacrificare una capra prima di insediarsi in un luogo. Tra i monumenti del centro storico spiccano il Palazzo baronale, la chiesa di Santa Maria Assunta e quella di Santa Maria di Loreto. Lungo la strada che dal paese sale verso lo splendido scenario naturale di Prato Gentile, meta di passeggiate durante la bella stagione ed apprezzata meta sciistica per gli amanti degli sport invernali, ad oltre 1.500 metri di altezza è ubicato il Giardino della flora appenninica che, con i suoi 10 ettari, ospita un raro esempio di orto botanico la cui vegetazione è totalmente legata alla spontaneità ed alla creatività della natura fino ai margini di un bosco di abete bianco. E per finire in bellezza la serata ci facciamo attrarre dal menù del ristorante "L'Elfo". Ristorante molto caldo ed accogliente, ambiente caratteristico, ricavato dalle cantine di un vecchio palazzo signorile. La cucina molisana è specializzata in piatti a base di tartufo e selvaggina. Per smaltire la lauta cena (ottimo il rapporto qualità/prezzo) passeggiamo in solitudine nella fresca aria della notte. Al risveglio bella giornata di sole ma aria frizzante da alta montagna, salutiamo Capracotta per dirigerci a Pescopennataro, un piccolo borgo di 150 anime arroccato su di uno sperone di roccia dal quale si domina tutta la vallata del Sangro... Rapa Nui Fonte: https://iviaggidellavergine.com/, ottobre 2020.
- Capracotta, il tetto di Altosannio
Capracotta segna lo spartiacque tra Molise e Abruzzo. Da un lato i monti severi e imponenti dell'Aquilano e del Chetino, dall'altra le dolci colline del Molise. All'interno di questo maestoso anfiteatro si adagiano paesi e contrade che di notte mandano luci e sembrano riflettere mille bagliori. Se si guarda a nord, nella valle scorre, non visto dall'alto, il fiume Sangro, in prossimità del quale si adagia Castel del Giudice, l'ultimo comune molisano al confine tra le due regioni. Al di là del fiume si scorge l'Abruzzo aquilano con una serie di paesi e borgate: Ateleta, Carceri Basse e Carceri Alte, poi Pietransieri. Entrando con l'occhio nel Chietino, sempre nelle adiacenze delle località prima citate, appaiono Pizzoferrato, Gamberale e la Valle del Sole, località sciistica situata alla stessa altitudine di Capracotta, un tempo alpeggio estivo delle mandrie provenienti dalle Puglie. L'intero orizzonte visivo è coronato dai bastioni e contrafforti della Maiella e, più a ovest, dalle Mainarde. Sul profilo orientale della Maiella, come ultima sua propaggine, si leva, nitido, il Monte Porrara e il "guado" o "passo di Coccia" sul quale d'inverno l'addensamento delle nebbie e delle nuvole è, spesso, indice premonitore del sopraggiungere di correnti gelide da nord. Alle pendici del Monte Porrara si adagia l'abitato di Palena (non visibile da Capracotta); più in là, digradando verso est, troviamo, tra gli altri, i comuni di Lama dei Peligni, visibile da Monte Campo, di Fara San Martino (dove si produce la pasta) e di Torricella Peligna e Taranta Peligna. Se aspro è il panorama dell'Abruzzo, morbido e sinuoso è quello del Molise a sud: Pietrabbondante con le sue inconfondibili rocce, Poggio Sannita, Bagnoli del Trigno, Salcito, Duronia, Torella. Poi giù verso la valle del Verrino, Fontesambuco e le masserie di Ortovecchio. Il fiume non si vede ma lo si intuisce che scorre gagliardo nella valle. L'occhio risale lungo i crinali ed ecco apparire in lontananza paesi come Campolieto, Montecilfone, Montagano. Poi su tutti, come un transatlantico adagiato sul mare, appare Campobasso con l'inseparabile Ferrazzano e il Castello Monforte. Una visione incantevole che riconcilia con la vita. Perfino il parco eolico di Monteforte si adegua allo scenario e sembra volersi mimetizzare col paesaggio superbo che lo circonda. D'estate i colori sono vivi, variegati in tutte le tonalità, varianti dal verde intenso al giallo dei prati falciati, dal bruno dei boschi al nudo della roccia esposta al sole. D'inverno tutto è bianco e, se c'è il sole, la neve manda riverberi luminosi. Lo spettacolo non è tuttavia sempre così idilliaco: spesso le nebbie dense e fitte avvolgono il mondo a me caro e mi impediscono di spaziare nell'infinito. Tutto diventa ovattato, le cose spariscono e un bozzolo denso ricopre case, uomini e paesaggi. In compenso, alla mezzanotte del 31 dicembre, quando il tempo è galantuomo, è possibile vedere le luminarie e i fuochi d'artificio che rimbalzano da un lato all'altro dell'anfiteatro: luci intermittenti, stelle filanti, botti, più vicini, più lontani. È un'apoteosi di colori, una festa degli occhi che non sanno dove prima guardare. L'anno nuovo si annuncia così. Dalle finestre di casa, ben coperta, mi affaccio sul palcoscenico di questo magnifico teatro e dentro di me, in assoluta solitudine, mi rivolgo gli auguri di buona salute. E di serenità. Maria Delli Quadri Fonte: M. Delli Quadri, Il mondo di Maria, a cura di E. C. Delli Quadri, Youcanprint, Lecce 2021.
- Il mulino del Duca di Capracotta
Prima dell'arrivo dei Francesi l'intera zona di Guastra apparteneva al Duca di Capracotta, nella persona di Giacomo Capece Piscicelli (1727-1777) e poi di suo figlio Carlo (1758-1799), ed in quel luogo esisteva, sin dal 1754, un mulino ad acqua che alimentava una qualche fabbrica. Nella seconda metà dell'Ottocento, dopo l'eversione feudale napoleonica, quell'opificio divenne una ramiera per mano dell'isernino Basilio Antonelli, che si trasferì ad Agnone per lavorare come forgiatore. Nel 1880 la ramiera passò definitivamente sotto la proprietà della sua famiglia e, nel 1890, le cronache la dicevano attivissima. Ubicata a destra del fiume Verrino, in località San Quirico Alto, la ramiera fu smantellata nel 1950 e sostituita da un'altra ad energia elettrica. L'edificio originario, oggi in territorio di Agnone, si componeva di due corpi aventi una pianta ad "L" ad altezze differenti, mentre la struttura portante era in pietra squadrata. Il corpo in basso era il laboratorio della ramiera ed oggi credo sia adibito a ricovero per gli animali. Il soffitto del primo piano era poi costituito da capriate in legno e la facciata principale presentava un cornicione con semplici mensole in pietra. Tra i due corpi vi era un porticato con un solo pilastro in pietra con copertura in tegole. I portali e gli stipiti delle finestre erano anch'essi in pietra lavorata. Per essere una cascina di campagna, insomma, presentava delle caratteristiche davvero nobili! Francesco Mendozzi
- Le intellettuali di piazza Vittorio
Augusto Fornari ci propone un liberissimo, «quasi spalancato», per citare un'altra commedia, adattamento da "Le intellettuali" di Molière con la drammaturgia di Chiara Becchimanzi, padrona di casa italo-iraniana con posizioni ultra-moderniste, luminosa apparizione del gruppo, assieme a Giorgia Conteduca, la sorella minore filo-tradizionalista Monika Fabrizi, l'irresistibile cameriera Tina, Giulia Vanni, la fantastica zia figlia dei fiori, Teo Guarini il principe del deserto conteso fra le due sorelle e Claudio Vanni, regista tiktokkaro divoratore di ciambelline al vino e taralli. Il nucleo originale della trama rimane: due sorelle, un matrimonio dell'una con l'ex dell'altra, che pare disprezzare uomini e convenzioni, «femmina saccente» direbbe Molière, che parodizza i "finti" intellettualismi del suo tempo, ma poi pure un po' del nostro. Qui però cambia il contesto, siamo appunto ai giorni nostri e a scontrarsi in una famiglia mista fra Iran e Italia sono sempre due sorelle: una "super-illuminata" che ospita in casa le più audaci performance ed espressioni artistiche della Roma bene, pedissequamente seguita da un regista imbecille che riprende in analogico ma pubblica in digitale e la minore innamorata nientemeno che del partito rifiutato dalla sorella, con cui vorrebbe convolare a giuste nozze. Nel mezzo una storia famigliare di fughe e rinascite fra paesi d'origine. La sorella illuminata vuole negare il matrimonio alla sorella tradizionalista, col timore, dice lei, che lo sposo la conduca nel vortice dell'integralismo, ma in realtà pentita di aver perso la sua chance con lui per troppo orgoglio "femminista". Fanno da cornice i personaggi della cameriera e della zia, i due veri pilastri comici della scena. Che dire oltre? Un adattamento brillante e divertente, anche se forzato in alcuni punti: ad esempio le manifestazioni eteree dei genitori, interpretati da Cinzia Leone e Vittorio Hamarz Vasfi, naturalmente eccellenti, ma con dei personaggi che sembrano incastrati a forza in una trama che non li richiederebbe. Per il resto un testo ritmato, accompagnato dal disegno luci e da una scenografia che ci porta dritti dentro la casa di questa famiglia complicata, un po' come quella di tutti. Indimenticabili le performance live di Stefano Fresi, terzo fratello "trapper" in giro per tournée fra Capracotta e Campo di Carne, così come le manifestazioni di autostima estrema della zia fulminata e l'ingenua popolarità della cameriera. Una commedia che funziona, tiene il pubblico e ci porta dentro la leggerezza del racconto. Ottima la regia di Augusto Fornari, così come in generale la coralità degli attori, unica nota stonata appunto le video-proiezioni con i fantasmi della coppia progenitrice, che in fondo non aggiungono nulla alla freschezza del racconto, anzi forse lo appesantiscono un po', anche perché l'accenno del fascinoso Vittorio al viaggio dall'Iran, dobbiamo dirlo con mestizia, passa rapido in cavalleria. In scena al Teatro Tor Bella Monaca a Roma per sole due date, anche la commedia soffre evidentemente di questi tempi (post?)pandemici, ma ne consiglio una visione in altri palchi, se non altro davvero per la bravura degli attori. Fabiana Dantinelli Fonte: https://www.fermataspettacolo.it/, 29 dicembre 2021.
- Amore e gelosia (XXXIX)
XXXIX Finalmente era giunta a casa! Camminando sveltamente, quasi correndo per le strade di Nocera, Elisa si era diretta attraverso stradine e stradette verso la sua abitazione: voleva rifugiarsi nella sua stanza, al buio, buttarsi sul letto e scaricare tutta la tensione accumulata con un pianto liberatorio! Il suo Salvatore, l'uomo che lei amava profondamente, l'aveva delusa! Che meschineria! Ricorrere a don Alessandro per rivederla, strapparle un gesto d'amore e di riconciliazione profittando del suo essere donna innamorata, e accantonare ancora una volta i motivi di frizione che incrinavano il loro rapporto senza spiegazione alcuna! NO! A costo di rompere tutto, NO! Come poteva accettare ancora che la madre lo dominasse in quel modo? Ormai aveva 51 anni, era ben più che un uomo maturo, doveva decidere che cosa voleva fare della sua vita e con chi! Quella donna infernale non gli dava spazio oltre quello che lei riteneva sufficiente per tenerlo legato a sé, e lui ci godeva, ci pascolava in quella situazione, con un egoismo addirittura bambinesco! Ma così facendo, lasciava lei in quel limbo, in quell'oblio infernale degli anni che passavano e niente si decideva! Entrò in casa e salì le scale: finalmente, la sua cameretta la accolse coi caldi tendaggi alle finestre e i puff e i cuscini del suo letto. Ma non appena si lasciò andare distesa, scattò come una molla: un pensiero la colse e l'avvolse come una coltre: "Sono stata troppo rude, l'avrò fatto soffrire? Salvatore è un poeta, un uomo con una sensibilità esasperata, per lui anche la cosa più lieve si trasforma in dramma! Sì... ho esagerato, nessuna altra donna avrebbe fatto e detto ciò che fatto io!". Ormai si torceva le mani per l'angoscia... "Come posso rimediare, come posso fargli capire che anche io sto soffrendo?". Ormai la sua mente era in ebollizione, non poteva più fermare i pensieri che galoppavano: "Ed ora dove sarà? Con chi sarà? Si tratterrà a Nocera e verrà a trovarmi oppure se ne tornerà a Napoli? Se riparte non lo vedrò mai più, mai più!". Infine decise: "Devo vederlo, magari senza che lui mi veda, ma devo vederlo! Se riparte va alla stazione, ci vado anch'io e...". Lasciò in sospeso che cosa avrebbe fatto: in un baleno uscì dalla stanza e dalla casa, montò sul birroccino del giudice suo padre e con uno schiocco di frusta e un «Aaah!» rivolto al cavallino parti, diretta alla stazione. Dalla finestra al primo piano si affacciò proprio lui, il giudice: aveva sentito il trapestio e alla vista del suo calesse che si involava, pensò ad un furto: ma riconobbe un lembo del vestito verde di Elisa e scuotendo la testa se ne tornò dentro, alle sue letture: "Il mondo sta cambiando troppo velocemente" pensò... "Qui le donne ormai la fanno da padrone. Poveri noi, dove andremo a finire?". Francesco Caso
- Gli ultimi giorni di mio padre
Sono tornata nel mio paese natale, a San Severo, dopo aver cercato inutilmente lavoro a Roma per cinque anni. Tornai a casa lo scorso agosto. Mio padre decise che dovevano essere delle belle vacanze. Nella nostra utilitaria alle 9:00 eravamo pronti per partire: mio padre, mia madre, Alessandra (mia sorella minore) ed io. – Dunque dove andiamo? E mio padre ci portò nei posti della nostra infanzia, nei luoghi in cui siamo cresciute. Ad esempio a Capracotta, dove andammo in vacanza da bambine per tre anni di seguito. E anche a Castelnuovo, dove c'è "La Fonte": una vecchia fontana dove ci fermavamo da piccole a bere l'acqua "buona". O dove mia mamma si recava durante la sua prima gravidanza, quando aspettava me, si trattava del suo primo incarico nella scuola. A San Marco in Lamis. Ci siamo fermate nei boschi presso chioschetti dove si serviva solo birra e caffè orrido. Ci ha portato a Marina di Lesina e sul lago di Lesina, in un posto speciale solo per noi. Nel senso che ci portava mia mamma e mia sorella Alessandra per svagarle. Nei bar, nei ristoranti e nelle pizzerie ero molto tesa perché sono molto timida e non mi piace quando la gente mi fissa e mio padre mi disse più di una volta: – Rilassati! Sei troppo tesa! Mangia con le mani la pizza! Ne vuoi un po' della mia? E ci rideva su. Con la musica a tutto volume in macchina con il mio papà che batteva le mani sul volante a tempo. La prossima estate mio padre non ci sarà. Valeria Luisa Manna Fonte: https://diociama.org/, 24 aprile 2018.
- Conferenze napoleoniche
Ieri, 8, alle ore 21:30, il signor Oreste Conti per invito dei soci, disse, in una sala del Circolo d'Unione, la prima delle sue conferenze napoleoniche: "Napoleone e le sue guerre". Intervenne l'élite del paese e tutta la numerosa eletta colonia di villeggianti. Notata la presenza dell'onorevole senatore Falconi. La dotta e geniale conferenza, in cui la figura del grande Guerriero è tratteggiata da un punto di vista affatto nuovo, detta con entusiasmo e con parole forbite, rivelò nel Conti, oltre che un cultore di studi napoleonici, anche un elegante dicitore, onde il pubblico gli fu largo di sinceri e calorosi applausi. Al venti corrente, il Conti parlò sul tema: "Napoleone e l'Italia". Entrambe le conferenze, poi, saranno dall'Autore ripetute a Roma e a Napoli, nel corso dell'anno. Al valoroso giovane auguri di lieto avvenire! Verso le ore 2:45 del giorno 16 settembre 1911, due sconosciuti, mediante scasso della porta d'ingresso, penetrarono nella farmacia di Castiglione Costantino, fu Giuseppe, d'anni 55, del luogo, e da un cassetto, che pure scassarono, involarono a danno dello stesso lire 60 circa in biglietti da 5 e 10 lire. I ladri sorpresi dal figlio del derubato, a nome Ciro, alla vista del giovane fuggirono. L'arma del C. R. indaga con tutto zelo, per assicurare alla Giustizia i due malfattori. Stefano Amicone Fonte: S. Amicone, Echi molisani, in «Eco del Sannio», XVIII:15-16, Agnone, 30 settembre 1911.
- Capracotta, dalle origini ai giorni nostri: situazione preistorica locale
Cosa è successo sul nostro territorio? Ognuno, se ha delle basi concrete, può sviluppare sue ipotesi, perché l'arco di tempo che passa dall'insediamento di Isernia al sito della civiltà del ferro de La Macchia e le tombe dello stesso periodo de Le Guastre è per noi umani inquantificabile: passano cioè ben 727.000 anni! Assisteremo all'estinzione dell'Erectus, all'origine del Neanderthaliensis, alla sua scomparsa ed alla venuta del Sapiens, ma nessuna testimonianza è rimasta sul territorio, o forse non è mai stato abitato. Sappiamo, da tracce lasciate sul terreno dell'Appennino centrale, che 36.000 anni fa c'è stato un grande incendio, ma rimase isolato, senza nessun progetto pianificatore: sarà stato realmente naturale, un'autocombustione. Diversamente avverrà dopo la rivoluzione agricola, o neolitica, con nuova pietra riferita alla manifattura più levigata della stessa e alla comparsa della ceramica, iniziata nel 7.000 a.C. nella Mezzaluna Fertile. Quando l'uomo inizia ad addomesticare le piante e gli animali e ad incendiare grandi territori per ricavarne sia campi coltivabili che pascoli, se ne trovano tracce dal 5.000. al 400 a.C., come avviene al giorno d'oggi in Amazzonia. Se questi siano stati accesi dall'uomo del posto che si acculturava o da una cultura civilizzata invasiva, dominatrice della natura ed autoregolamentata, nessuno può dirlo, o forse la genetica, secondo la culturalizzazione dei popoli contermini l'uno con l'altro e il progresso delle tecniche agricole, dovrebbe essere avvenuta la prima ipotesi: se è così si è trattato di una rivoluzione culturale. Ci vorranno 2.000 anni perché arrivi sull'Appennino e, non a caso, i suoi tempi coincidono con le tracce degli incendi, molto frequenti da questo periodo. Fernando Comegna Fonte: F. Comegna, Capracotta, dalle origini ai giorni nostri, Kaos, Tivoli 2013.
- Il posto più bello ed economico dove andare sulla neve in Italia
Andare sulla neve, fare la cosiddetta "settimana bianca", è considerato spesso un lusso. Ma non è affatto vero. Dipende tutto da dove si va. Ci sono infatti luoghi di montagna economici ed altri effettivamente carissimi. E c'è un posto di montagna dove andare sulla neve che costa pochissimo ed è anche bellissimo. E si trova in Italia. Dove? In Molise! Quando si dice "Molise" i più simpatici rispondono «ma non esiste», riprendendo un tormentone del web. In realtà il Molise esiste eccome ed ha tantissimo da offrire, solo che in pochi lo frequentano. Invece vale la pena andarci per ammirare una natura rigogliosa, visitare borghi incantevoli e spendere poco. Già perché in Molise tutto costa meno rispetto ad altre regioni più blasonate d'Italia. E non ha nulla da invidiare. Anzi qui non sono ancora arrivate - e speriamo non arrivino mai - le speculazioni edilizie, qui il paesaggio è ancora semplice e rurale come una volta. Se quindi volete andare qualche giorno sulla neve e cercate una località in cui non spendere tanto, che possa offrire piste da sci, servizi e una natura spettacolare allora la meta che fa per voi è Campitello Matese o la più piccola Capracotta. Campitello Matese e Capracotta sono le due località di montagna più famose del Molise e di tutto il Centro-Sud. Sono stazioni sciistiche piuttosto rinomate e località apprezzate anche in estate. Insomma, la montagna perfetta. Sull'Appennino molisano ci sono tre massici, uno di questi, il più antico e con vette oltre i 2 mila metri è il Matese. Famoso non solo per le sue cime, ma anche per le sue grotte, fra le più importanti d'Italia. In questo paradiso naturale si trova Capitello Matese a 1.490 metri di altitudine. Lungo Monte Miletto, la vetta più alta del Molise, si snodano le oltre 40 km. di piste da sci raggiungibili con 5 sciovie e 2 seggiovie. Dalla cima di Monte Miletto si gode di uno spettacolo straordinario che arriva fino alla Majella e al Vesuvio, al Gargano e i Monti dell'Irpina. Numerose le passeggiate per lo sci di fondo e tra i tanti sentieri da fare con le ciaspole o a piedi se non c'è neve ci sono le Gole del Quirino e le cascate di San Nicola. Ci spostiamo in provincia di Isernia, dove a pochi passi - in linea d'aria - dall'Abruzzo si trova un'altra importante stazione sciistica, uno dei posti di montagna più belli ed economici d'Italia, Capracotta. È uno dei comuni più alti dell'Appennino: si trova a 1.421 metri ed è circondato da importanti vette. La più imponente è il Monte Campo che raggiunge i 1.746 metri. Oltre al grazioso borgo dove soggiornare e che offre spettacolari panorami sui monti e valli circostanti, Capracotta è un riferimento per gli appassionati di sci, seppur di dimensioni ridotte. Ha due piste, una da sci alpino servita da una seggiovia sul Monte Capraro e un'altra per lo sci di fondo in località Prato Gentile. Ma quanto costa una giornata sulla neve a Campitello Matese o a Capracotta? Uno skipass giornaliero a Capracotta si aggira sui 20 euro a persona, a Capracotta in mezzo alla settimana perfino solo 15 euro. E per dormire a Campitello una notte in alta stagione invernale si aggira sui 100 euro a notte, mentre a Capracotta si trovano soluzioni anche a 80 euro. Insomma, il Molise esiste ed offre soluzioni economiche per passare una giornata o un weekend sulla neve. Cinzia Zadro Fonte: https://www.viagginews.com/, 18 gennaio 2022.
- Ut sit Deus omnia in omnibus, Capracottæ etiam
Uno dei temi più affascinanti della storia delle religioni, che accende il dibattito attuale tra i monoteismi abramitici, consiste nella possibilità o - meglio - nella opportunità di raffigurare ciò che non può essere rappresentato: Dio. Oltre la polemica iconoclasta dell'VIII-IX secolo, il cristianesimo ha sempre creduto possibile dipingere il Signore, come superbamente dimostrato dall'affresco michelangiolesco della "Creazione di Adamo", presente su una volta della Cappella Sistina di Roma, probabilmente la più celebre tra le rappresentazioni dell'Onnipotente. Addentrandoci nel Molise, segnalo che in un articolo del 30 marzo 2014 Franco Valente sosteneva che sopra alcuni altari antichi delle nostre chiese, nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII fu realizzata una finestrella apparentemente avulsa dal contesto; una finestrella, chiamata cimasa, la cui esistenza andrebbe ricondotta a una questione teologica, quella della janua Cœli, la "porta del Cielo". Per Valente, infatti, il termine janua Cœli è da intendersi come «porta che immette nella sfera celeste e dalla quale si affaccia il Padreterno atteggiato a giudicare con la mano destra. Con la sinistra si appoggia a un globo sul quale è impiantata una croce [globo crucigero, N.d.A.]». A Capracotta l'unica raffigurazione di Dio proviene originariamente dalla Chiesa Madre ma la potete ammirare nel Santuario di S. Maria di Loreto, precisamente al di sopra dell'altare che sostiene l'antichissima statua lignea della Vergine. L'Altissimo dell'altissima Capracotta è bello ed austero, severo ma benevolo, un anziano Signore di nero vestito che s'affaccia alla porta del Cielo per offrire un ritaglio di paradiso per mezzo della Vergine Maria, la testimone più attendibile di come si possa raggiungere la pienezza attraverso l'incontro con Lui. A che Dio sia ogni cosa in tutto, anche a Capracotta. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: B. Forte, S. Nono e V. Vitiello, Dipingere Dio, Albo Versorio, Milano 2008; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; F. Valente, Luoghi antichi della provincia di Isernia, Enne, Ferrazzano 2003.
- Il porco e l'Albergo Vittoria di Capracotta
Mi raccontava mia madre che il proprietario di un maiale a Capracotta ebbe l'urgente necessità di partire per Roma per problemi familiari. Perciò si rivolse a un suo conoscente, anch'egli possessore di un maiale, per chiedergli il favore di tenergli il porco per una settimana. Per scrupolo gli domandò pure quanto gli sarebbe costato quello "scomodo". Alla richiesta di una cifra che gli sembrò esorbitante gli rispose: – Allora lo lascio all'Albergo Vittoria... almeno magna colla salvietta! Franco Valente
























