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  • I bevitori

    Ne ho visto di decalitri, di recipienti umani, di bevitori assidui di oggi e di domani, cioè, di tutti i giorni; la sera, la mattina ed a qualunque orario star sempre alla cantina, ma come questa squadra... Non basta la fontana! Non bevon col bicchiere, ma non la damigiana. E chi è poi tra questi il capo bevitore? Non so se è Giandomenico o quel che chiaman Tore. Edmondo è l'altro, questo avrà in corpo una botte... dice: se non è pieno non può dormir la notte. C'è anche Sozio e Monaco che bevono a casaccio, cioè, senza misura; ma prima vien Petraccio. Però, sempre inferiore è, questo buontempone, sia dello Scarpariello e, credo, di Cianone. Se fan la passatella e Poldo la comanda, vedranno la travasa di tutta la bevanda. Ma il più gran bevitore, il più palato fine, che sa dove s'inganna con l'acqua, alle cantine, e sa bene il segreto, il quale ad altri impara, si chiama Raffaele detto della 'Ammara. L'altro che non perdona, se sa d'acqua o d'aceto, è quel bottazzo enorme che chiamano Anacleto. Se fan scommessa e premiano chi ha gola più ghiotta, credo che, certamente, vince Giulio di Totta. Vince però se manca quel vaso colossale che, quando lo pesarono, passò molto il quintale! Per ben saper se tutto è pieno nella pancia non ammettendo scrupoli, usano la bilancia... Si abbracciano e si pesano tra commozioni e pianto, poi dan la stura ai brindisi e... ragliano col canto. Meglio, però, sarebbe, dopo l'ultima goccia, se tutti si pesassero la testa e la... saccoccia! (1948) Nicola D'Andrea Fonte: N. D'Andrea, Le poesie di Nicola D'Andrea , Il Richiamo, Milano 1971.

  • Morir dentro il cimitero di Capracotta

    Quando facevo visita a mia zia Lucia Di Luozzo, spesso prendeva a raccontarmi della guerra, della distruzione, dello sfollamento ma soprattutto di quel maledetto novembre '43 e di quando, incendiati e minati i due terzi di Capracotta, buona parte della popolazione che non aveva più un tetto fu costretta a trovarsi un giaciglio più che temporaneo. I primi scelsero la Chiesa Madre ma quando questa si riempì molti si diressero verso il cimitero comunale. Mia zia fece parte di questo secondo gruppo e raccontava come le persone fossero letteralmente ammassate sia sul prato centrale sia nelle varie cappelle funerarie, coi loculi vuoti che erano diventati letti di fortuna. In quei terribili giorni di prostrazione civile il cimitero divenne luogo di vita, di speranza, luogo di ripartenza per coloro che aspettavano trepidanti l'arrivo degli Angloamericani e la definitiva liberazione di Capracotta. Ma, come ogni insediamento umano che si rispetti, il cimitero divenne anche luogo di morte. È il caso della moglie dell'avv. Pasquale Mosca, Alessandra Franzoni (1896-1943), che spirò proprio nel cimitero di Capracotta durante i giorni del forzato soggiorno, forse perché il suo cuore non resse a tanta disgrazia. Mia nonna Rosa disse che «quando andai al cimitero portavano anche la moglie di Pasqualino Mosca che era gravemente ammalata: la cacciarono dalla casa perché c'era l'ordine di distruzione di tutte le case». Chi conobbe Sandra sostiene che in vita ella fu «donna di vasto e profondo sapere, diplomata negli studî classici, conoscitrice oltre che delle lingue antiche, dell'inglese, del francese e dello spagnolo, e delle relative letterature e storie; ed ebbe congiunte le doti di una rettitudine ammirevole nella vita domestica e di sentimenti elevati nella vita civile, che le fecero presagire, inascoltata Cassandra, sin dall'inizio del funesto regime dittatoriale, la sciagura in cui il fascismo ci avrebbe fatto piombare». Prima di quel periodo così funesto, infatti, quando Alessandra Franzoni visitava il cimitero di Capracotta, si dice che andasse declamando la "Elegia scritta in un cimitero campestre" del poeta inglese Thomas Gray, soprattutto i versi più profondi e annunciatori: Anco la via d'onor guida a la fossa. Forse in questo negletto angolo alberga spirto già pieno d'un ardor celeste. Anche dalla tomba grida la voce della Natura. Anche nelle nostre ceneri vivono le loro consuete fiamme. I Franzoni provenivano da Roma e proprio lì, nel 1921, si erano fidanzati Sandra e Pasquale, al tempo in cui quest'ultimo era avvocato presso il foro della Capitale. Oltre che valente giurista, il Mosca - figlio del cancelliere Vincenzo - era infatti uno studioso di storia, nonché un fattivo collaboratore della rivista "I Rostri", allora diretta dal grande Teocrito Masini. Sta di fatto che nonostante la tomba della famiglia Franzoni fosse al Verano di Roma, Alessandra «volle che il suo corpo giacesse dov'è sepolto il popolo capracottese, e là dove esalò tragicamente l'ultimo respiro». Sulla sua tomba, oggi non più presente, si leggeva la seguente epigrafe: È sepolta in questo sito da lei stessa prescelto Alessandra Mosca Franzoni di profonda coltura, di nobili sentimenti e di leggiadre fattezze amata e stimata da quanti ne apprezzarono le doti non comuni. Nacque a Buenos Aires il 2 gennaio 1896 e dopo ventidue anni di esemplare vita coniugale morì tragicamente il 10 novembre 1943 tra le braccia del marito in questo cimitero dove sofferente era da alcuni giorni rifugiata mentre il paese veniva distrutto da quella ferocia bellica originata da cause che lei aveva sempre con tenacia diprecate. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: G. Cerchia e G. Pardini, L'Italia spezzata. Guerra e linea Gustav in Molise , in «Meridione», VIII:1, Napoli 2008; C. De Biase, Antonio Salandra , Signorelli, Roma 1919; M. Di Ianni, 1943-1993: per non dimenticare , vol. I, Artemide, Isernia 1993; Matrimoni e fidanzamenti , in «La Donna», XVII:348, Roma-Torino, 20 aprile 1921; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. II, Youcanprint, Tricase 2017; P. Mosca, Albori di libertà nel verno della barbarie , in «I Rostri», VI:3, Roma, marzo 1935; T. Mosca, Parole pronunciate al Consiglio provinciale di Campobasso nella seduta del 26 novembre 1917 dal consigliere Tommaso Mosca in memoria del sen. Nicola Falconi , Colitti, Campobasso 1917.

  • Amore e gelosia (II)

    II Chi erano i due personaggi della nostra storia d'amore? Lui, un uomo di 45 anni: poeta, canzonettista, come si usava dire a quei tempi, già giornalista, mestiere che aveva abbandonato e ora bibliotecario emerito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, con l'incarico specifico di direttore della sezione Lucchesi Palli. Ma c'era molto più di questo: era uno degli uomini più amati di Napoli, con assidue frequentazioni negli ambienti culturali e compositore di canzoni bellissime che tutta la città ammirava e cantava: era Salvatore di Giacomo! La grande festa di Piedigrotta si nutriva delle sue canzoni da oltre trent'anni e sembrava non ci fossero limiti al suo genio. A 45 anni aveva avuto già molti amori, ma il colpo di frusta che ti segna a vita niente... O almeno non ancora... Elisa Avigliano era una bella ragazza di un paese della provincia di Salerno, Nocera Inferiore. La sua era una famiglia borghese, benestante: il padre era un magistrato, consigliere di corte d'appello, la madre era di Capracotta, appartenente ad una famiglia benestante di quel paese. La giovinetta era cresciuta dunque in una famiglia agiata: studi umanistici e infine iscrizione al Magistero per conseguire un titolo di studio. Sullo sfondo, tanto romanticismo e tanti sogni d'amore che non avevano ancora individuato su chi convergere. A chiusura degli studi, la giovinetta dovette decidere l'argomento per la tesi: scelse di scrivere di Salvatore Di Giacomo, poeta ancora vivente che con le sue canzoni e le sue poesie faceva palpitare tutti i cuori della gioventù napoletana e italiana. Volle conoscerlo e così si recò alla biblioteca nazionale. Al primo incontro ne seguirono altri, per dare corso alla tesi; poi altri ancora che poco avevano ormai a che fare con lo studio: era nato un sentimento , in tutti e due i protagonisti. Ma non fu una storia facile... no, non lo fu per niente. Francesco Caso

  • Origini della famiglia Di Nucci

    Il mio paese di origine è Capracotta e sono legato sempre ai ricordi del mio paese, che torno spesso a visitare. Studio la genealogia e la storia della mia famiglia Di Nucci, detta di soprannome de re Scialpe , e le mie ricerche sono state fatte negli archivi ecclesiastici (parrocchiali e diocesani), istituiti nel 1545-1563 in seguito al Concilio di Trento, certificanti i battesimi, le cresime, i matrimoni, i defunti e lo stato delle anime; l'anagrafe dello stato civile, istituita nel 1861 con l'Unità d'Italia, certificante le nascite, i matrimoni, le morti e la composizione del nucleo familiare; gli archivi di Stato che trattengono documenti relativi a censimenti, catasti, atti notarili, atti giudiziari, liste di leva e ruoli matricolari; il catasto dei beni immobili. Scoprendo le origini dei Di Nucci mi misi alla ricerca in vari archivi e librerie antiche e scoprii la provenienza del cognome, che era Nuccii , come si legge in uno stralcio trovato nella "Historia Francorum" dell'anno 745, dove si legge: Multi ibidem de exercitu Chilperici et ipsis Pictavensibus sunt gladio trucidati. Taloardus et Nuccii duces Langobardorum per ostiola in Sidonense territorium cum exercitu sunt ingressi, ad monasterium sanctorum Agaunensium nimiam facientes stragem. Esempi di questa cognomizzazione si hanno a Pisa nel 1300 dove in un atto si legge: «frater Thomas de Paule, filius ser Nuccii». Negli anni 1000-1200 era presente a Napoli sotto il cognome Nuccii , poi verso il 1200 divenne Di Nucci, registrato nei seggi di Napoli, ed anche come famiglia nobile nel Concilio di Trento. Capracotta era legata storicamente a Napoli e i Di Nucci sono presenti a Capracotta dalla fine del 1600. Mario Di Nucci Fonte: http://dinuccimario.altervista.org/ .

  • Perché da un forlivese un canto per Capracotta?

    Dedico queste semplici parole di un folcloristico canto gergale allo Jancocampo , paese sannitico, impiantato pressappoco sull'attuale sito, dall'originario, valoroso e più potente ed orgoglioso competitore per la nascente e democratica unificazione nazionale, contro il predominio della "Lupa Giallorossa", su i popoli dell'antico stivale. Questo montuoso erbivoro sito capracottese a causa del voluto e forzato diboscamento, avvenuto per la necessaria coltura dei cereali, espande dal magnifico e calcareo poggiato, tutta la sua immensa e idilliaca maestria, sfiorando e carezzando amabilmente sulla bellissima e storica sommità dello spartiacque sangro-verrinico-trignino, che basandosi fortemente sulla parte più torreggiante della "matassa" appenninico-molisana, la bella Capracotta ne svetta solennemente, come una penna d'alpino, tutta la sua magica magnificenza! Anche se io, forlivese, su questa meravigliosa altura ci sono stato solo qualche volta, per me non ha importanza, perché questa terra è stata fissata nella mia memoria come se ci fossi nato, poiché fin dall'infanzia, nei borghi, sulla piazza, nelle strade, nei campi ed ovunque io ero con i capracottesi, numerosissimi in terra di Forli, prestavo attenzione ad originali e commoventi loro storie, allora transumante e profugo popolo, dopo la totale scomposizione avvenuta durante la ritirata tedesca sui bastioni trasversali appenninici del Sangro, del Volturno e del Garigliano. Che tormento la vita ed il mondo... io ascolto sempre ed ovunque, adesso come allora, quando da parte dei figli della Tabula Osca , c'era da esporre il patimento, io udivo e comprendevo con tantissima malinconia, ancora le notizie degli sfollati, dei profughi, che uniti ai tribolati di San Pietro Avellana, attraverso il guado di Montedimezzo e Falascuso, e camminando ai chiarori silenziosi della luna e delle stelle, evitando magistralmente il panico delle armi invasive, scesero lungo la mulattiera Pennataro-Castelcanonico ed in molti si riversarono su Forli, terra di nessuno, dove le palle infuocate, continuamente, sorvolando e fischiando sulle case, andavano ad esplodere in direzione di Castel di Sangro e della galleria di Sant'Ilario, mentre nella direzione opposta, si riversavano sul Macerone e dintorni. Ormai sorpassati i primi ed ancora insignificanti traguardi di difesa - La Barbara e la Viktor - le linee ritardatarie tedesche, che a causa del lungo e cattivo tempo che in quel lontano mese di novembre del 1943, senza fine... imperversava sulla nostra già tormentata zona, il Generale Kesselring non riuscì a completarle e così, con l'arrivo dell'esercito americano-anglo-coloniale-internazionale, nel territorio, il fronte si spostò, qualche chilometro più a nord-ovest del torrente Vandrella, come ribadiva sempre anche mia madre, allora appena ventenne, sulla "Death Valley", così, e con tanta paura, chiamavano la Bocca di Forli ed oltre, i consolidati soldati inglesi del Generale Montgomery, vale a dire: la "Valle della Morte". Ancora oggi ci tengo a richiamare alla mente, le memorie di mio padre Carlo, classe 1924, che ha sempre esposto con tanta benevolenza e nostalgia e continua con tanto affetto ancora ha rievocarla l'intrepida amicizia, avuta col suo commilitone di prigionia, il capracottese Carlo Giuliano, avvenuta appena dopo l'arrivo degli Americani al campo di concentramento di Fallingbostel, a nord dell'ex Germania Occidentale o Federale, ed evidenzia, tutta la sua felicità ed entusiasmo, che vibrò nei loro petti, fin dall'istante dell'avvenuta liberazione, dopo la lunga, sofferta ed interminabile subordinazione. Il forlivese Carlo Lilli ed il capracottese Carlo Giuliano, loro insieme come i due popoli d'origine, menzionano i ricordi appena passati della fame, del dolore, dello strazio e della tribolazione, ma forti della speranza ed energici nella passione che, ad occhi aperti ed influenzati dal cuore, volgevano a catinelle la ritrovata libertà, nei tristi e cupi dintorni della distrutta cittadella alemanna, mio padre accenna anche, che l'amico Carlo Giuliano poneva sulla testa, sempre una retina marrone che non toglieva quasi mai. Quando gli Alleati arrivando sul profilo del valico del Macerone, ed osservarono il vasto orizzonte, che da Monte Campo, passando per il re delle cime centro-meridionali, Monte Greco, ove solenne volge lo sguardo in discesa per Monte Meta, che cede lo scenario del cordone mainardico allo spento vulcano di Monte Cesima, che ne disperde leggermente la catena all'infuocato e profondo Tirreno, certamente l'imponente frontiera li mise paura e li fece tremare, tant'è vero che a Forli ci rimasero fino alla presa di Montecassino da parte del Generale polacco Wladyslaw Anders, che portava fretta per la sua Polonia e che conosceva benissimo tutto il medesimo fronte, da Ortona a Gaeta, avendo, ed anche per un lungo e freddo periodo, dirette le operazioni militari dal territorio capracottese e quello di San Pietro Avellana, ove nelle gelide ed intramontabili notti, il sonno lo stendeva al forzato riposo, in una delle cappelle cimiteriali, a destra dell'entrata, nel montuoso e nascosto camposanto del paese e che nella primavera 1944 a Roccasicura gettò le basi per la costituzione della 111ª Kompani Ochrony Mostòw, istruita dai polacchi come Commando e che successivamente liberò Pesaro ed Ancona; fra gli arruolati vi furono anche tre capracottesi: Caporicci Giulio, classe 1924; Di Tanna Luigi, classe 1913, Croce al merito di Guerra (A.O.I.); Di Luozzo Diodato, classe 1925. Quest'ultimo, con alcuni forlivesi si arruolò da Forli, ove già risiedeva da profugo, dopo lo sfollamento, si arruolarono anche altri giovani volontari dei paesi limitrofi, tra questi Carmine Pecorelli detto Mino, di Sessano del Molise, allora giovanissimo ed intraprendente e poi passato alla storia con la sua documentata rivista "OP" e successivamente alle misteriose cronache degli anni di piombo, Mino Pecorelli dopo essere stato promosso Lance Corporal , sarà insignito della Bronze Cross of Merit with Swords (Croce di Bronzo con Spade) dal Comandante in capo del II Corpo polacco, generale Władysław Anders in persona. Dopo Pesaro ed Ancona la Compagnia si scompose ed il piccolo reparto italiano, quasi tutti molisani, sempre secondo i documenti polacchi, sarebbe poi passato alle dipendenze della Brigata Maiella del Magg. Ettore Troilo, che nel frattempo della Liberazione fu anche nominato Prefetto di Milano. Fu in quest'altomolisano e sofferente scenario di guerra, che i tormentati e angosciati figli di Capracotta e di San Pietro Avellana, che furono accolti a braccia aperte, ed i forlivesi di allora, dico di allora, veramente, aprirono immensamente i loro cuori, tanto è vero, che in parecchi vi rimasero sposandosi, altri per sempre con le loro famiglie, in effetti, l'attuale sindaco, che tutti stimiamo e vogliamo bene, c'è nato e cresciuto a Forli, ma i suoi genitori furono Luciano Sozio e sua madre dal cognome Monaco, puri capracottesi, ubicati nella casa, che sorgeva sul luogo, ove nell'appena dopo guerra, venne, a titolo di silenzio, costruito l'attuale ufficio postale di Capracotta. La buonanima di Luciano ne soffrì molto, quando tornando al suo paese natio, ove la stressante nostalgia lo richiamava, non ritrovò le sue pietre, anche se macerie, ma che in ogni caso lui voleva riprendere e ricostruire. Teodorico Lilli Fonte: T. Lilli, Perché da un forlivese un canto per Capracotta? , in «Voria», IV:1, Capracotta, luglio 2010.

  • Quando nel bosco nasce il figlio dell'uomo

    È stato detto dalla radio che ottanta carbonai sono restati bloccati in un bosco nei pressi di Carovilli (Molise) a causa delle eccezionali nevicate, e che per essi, tormentati spesso da bufere di inaudita violenza, si son dovuti approntare soccorsi d'urgenza: un fatto sempice di cronaca anche se ricolmo di significato umano e sociale, anche se sta lì nudo e crudo, a dimostrazione di un dramma collettivo che quassù, nell'Alto Molise, si ripete spesso, da sempre, senza che esso sia mai stato di insegnamento ad alcuno. Perciò siamo andati a discutere dei carbonai, di questa gente veramente povera e veramente laboriosa che sa tanto essere felice nell'evidente disagio e nella costante rinunzia, con Cicciotto e Francesco " Passarella " che dei carbonai conoscono vita e miracoli. La conversazione con questi nostri buoni amici si rende subito interessante. Cicciotto ha l'abilità di porci immediatamente nell'ambiente dei carbonai. Una comunità come tante altre: uomini, donne, vecchi, bambini; e tante capanne nel bosco, e fra queste alcune galline, delle capre, qualche maialetto. In ogni capanna una famiglia di carbonai. A volte la comunità è data da 40, da 50 e anche da 60 famiglie. Questa capanna è del "Caporale". Il Caporale è il capo dei carbonai. Ma non è un capo dispotico. Ha le funzioni del pater familias dei carbonai. Ed è il Caporale perché di tutti è il più esperto. E l'esperienza, si sa, il più delle volte è madre generosa di saggezza. Naturalmente la moglie del Caporale dei carobnai è "la Caporale" dei carbonai. Abbiamo già scritto che questa è la capanna del Caporale: è graziosa, anche civettuola, pur se fatta solo di tronchi, di rami, di creta e di foglie. È lunga tre metri e mzzo, è alta tre ed è larga un metro e cinquanta. La facciata principale ha la porta proprio al centro ed è fatta di tronchetti uniti l'uno all'altro nella misura più o meno giusta e con ordine approssimativo. La porta è aperta e noi entriamo nella capanna del Caporale. Nel bel mezzo vi è la focagna che serve a scaldare e a cucinare. Verso le pareti laterali, distesi su vecchie tavole, a destra e a sinistra della focagna vi sono dei pagliericci, due di qua e tre di là. Questa a sinistra sono del Caporale e della Caporale, quelli di destra sono dei loro tre figlioli. Dietro la focagna c'è una specie di pollaio con alcune galline. Dietro al pollaio sta una rustica credenza: vi si notano dei piatti, una bottiglia, qualche tazza, alcuni bicchieri. In alto, sulla credenza, proprio al centro, sta un vecchio orologio a sveglia. Di qua e di là per la capanna, appesi al soffitto, alcuni filari di peperoncini secchi, e qualche scerta di cipolle. Nell'insieme c'è dell'ordine. Tutte le altre capanne son fatte così. Messe lì, nel fitto bosco, danno l'idea all'osservatore che passa di un pittoresco villaggio di antica tribù. Vorremmo trattare della vita in genere di questa povera gente, ma verremmo meno allo scopo di questo nostro articolo scritto per "La Vita dell'ONMI" che è quello di riferire come oggi (ed è un progresso rispetto a ieri) la moglie di un carbonaio dà alla luce un bambolotto che molto probabilmente sarà un carbonaio. È questo un momento senz'altro importante anche lì, in mezzo al bosco, tra i carbonai. Bisogna però precisare che questa importanza dura poco, poche ore, perché tutto finisce lì, nel parto. Ma sono poche ore di intensa emozione perché tutta la comunità le vive con grande passione. Corre Filomena a chiamare Concetta la Caporale: Maria Fraccalira si lamenta, si lamenta assai perché i dolori son forti. E la Caporale interrompe immediatamente la sua occupazione e va a passo agile verso la capanna di Maria Fraccalira, seguita da Filomena che sembra alquanto emozionata. Concetta dimostra dignità ed orgoglio: evidentemente è consapevole della grande responabilità che è solo sua. Passano le due donne davanti alla catozza attorno alla quale lavorano alcuni uomini vestiti di rattoppi e bradelli, neri come il loro carbone, che cercano di mascherare il loro turbamento derivante dai lamenti di Maria che giungono sin lì, alla catozza, con una nota caratteristica canzone: "Amore mio ti voglio arricchire / e come un cane voglio lavorare". C'è tanta amarezza in questi versi. Ancora un poco più là un nugolo di frugoletti cantano e giocano. Intanto la nostra Caporale arriva presso la capanna di Maria Fraccalira. Vi trovano quasi tutte le donne della comunità in atteggiamento ansioso. Concetta ordina alle giovani e a qualche ragazzo di allontanarsi e chiama in suo aiuto solo due donne maritate, Carmela Cella e Rosaria Di Filoteo. Dentro la capanna sta già in attesa la Coronaria. Lascia Filomena a guardia della capanna, proprio all'ingresso, perché nessun'altra persona possa entrare. Ed è qui che comincia l'opera esperta e pietosa della nostra benemerita Caporale. La prima cosa che fa, entro la capanna, è quella di dare a Maria Fraccalira, che pure ha tre figli, fiducia e sollievo con un largo e generoso sorriso e con una adatta buona parola. Poi si lava le mani aiutata da Rosaria che le versa dell'acqua con un vecchio maniero, mentre la Coronaria le appunta dietro, alla gonna, una pesante tovaglia. Quindi si avvicina frettolosa a Maria Fraccalira che si dimena e grida che sta per morire: le doglie infatti si intensificano e sono frequenti. La nostra Caporale scopre, guarda, tocca, sorride e ricopre. Manca poco, ma la Caporale ha lo stesso il tempo di raccontare una storiella allegra, una barzelletta che avrà raccontato diecine di volte, quella stessa barzelletta che aveva sentito raccontare da donna Clorinda, la vecchia levatrice del suo paese, quando lei, Concetta la Caporale, quell'anno ebbe la fortuna di partorire in paese nella casa della sua amica. Ridono. Più di tutte ride la stessa Concetta. Maria pure sorride. Filomena che sta di guardia all'ingresso della capanna, fa capolino e si fa ripetere da Carmela Cella la storiella allegra. La Caporale, seduta presso il giaciglio di Maria su un rozzo sgabello di faggio, tiene costantemente la mano sotto una sdrucita coperta militare sul ventre della partoriente per sollecitarne le doglie. Maria Fraccalira ha sete, molta sete. Ma Concetta le consente solo qualche sorso di acqua perché teme molto vomito. – Una volta – racconta – la creatura dentro stava bene. Poi la madre volle bere assai e tutta quest'acqua si mise sullo stomaco. Cominciò subito un vomito violento e la creatura cambiò posizione e prese un atteggiamento irregolare perché si era rivoltata dentro tutta quanta. Si fece in tempo a chiamare il medico perché il paese era a pochi passi dal bosco. Il Dottore – racconta sempre la nostra Caporale – rimise le cose a posto e tutto, grazie a Dio, andò bene. Ma dovette tirare la creatura per i piedi, uno alla volta, e poi venne fuori il corpicino, e poi le braccia, e fu fatica quando si giunse alla testa. Certo, se non ci fosse stato il medico, lei Concetta la Caporale, che ci poteva fare? La creatura sarebbe morta e forse anche la madre. E tutto questo per quell'acqua che la donna aveva bevuto e che aveva provocato quel brutto vomito. A tanto sentire Maria rifiuta un altro sorso d'acqua e dice che non ha più sete. Intanto le doglie si succedono con più frequenza e una intensità maggiore. Ed è qui che Concetta alza la logora coperta che ricopre Maria, guarda e si accorge che non c'è tempo da perdere. Ed è pure a questo punto che Rosaria Di Filoteo si accorge delle galline che stanno dietro la focagna e che potrebbero dare fastidio. E nello stesso istante che Concetta, eccitata, quasi sorpresa dal precipitare dell'evento, grida: – Méne, méne, jècche mó nasce! Rosaria Di Filoteo, rivolta alle galline, fa: – Sció, sció, sció – e accompagna il caratteristico verso con le mani. Le galline, spaurite, si mettono a stramazzare per la capanna. Rosaria le insegue aiutata dalla Coronaria. Maria si lamenta sempre di più. La nostra Caporale è alquanto risentita per questa inopportuna situazione che si è creata nella capanna e, accigliata, invita Carmela Cella a starle vicino. Una gallina, stramazzando, va a sbattere contro la rustica credenza che all'urto traballa. Cade la vecchia sveglia ma fortunatamente non si rompe. A tanto frastuono entra pure Filomena e con Filomena alcune altre donne. – Jatevénne, jatevénne, – grida la Caporale – jatevénne. Finalmente le galline, una dopo l'altra, velocemente, prendono la porta volando fuori. Rosaria e la Coronaria, sudate e mortificate, si avvicinano alla partoriente. Rosaria le si pone dietro e la sostiene per le spalle e la testa, Carmela la tiene per le mani, la Coronaria si pone al fianco della Caporale. Maria, gridando, si dimena sul pagliericcio con molta scompostezza. Ma è tenuta stretta validamente dalle sue due amiche. Concetta la rimprovera e le ordina di stare ferma se no «no' nasce». A questo punto quella sofferente improvvisamente s'arresta, trattiene il respiro, sgrana gli occhi, i muscoli del suo ventre si contraggono fortemente e la sua faccia assume il volto del dolore insostenibile. Quindi ha la forza di rompere le catene della sua tortura con un potente grido duro e rozzo. Poi si accascia subito serena e sfinita, fra le braccia di Rosaria. Intanto la Caporale, che tempestivamente si era accostata a Maria con molta premura, ha già amorevolmente accolto nel suo grembo capace quel tenero bambolotto. Ha già legato e adesso taglia. Il primo vagito di Rocco (così si chiamerà per onorare la memoria di uno zio di Maria morto in guerra) è confrontato con la voce robusta e irosa di Angelomaria, il carbonaio padre, quand'ha la nuvola. La nostra Caporale si allontana dal pagliericcio e si porta dall'altra parte della focagna per il bagno che è fatto in quattro e quattr'otto. Lo asciugano e quindi sistemano Rocco in un grosso panno caldo e poi lo avvolgono in una lunga, spessa, larga fascia variopinta. Ma non è finita l'opera pietosa della nostra Caporale: è il momento degli scongiuri col dito. Per questa cerimonia è chiamata anche Filomena. È sempre Carmela che tiene tra le braccia la creatura. La Coronaria ha già preparato un piatto contenente dell'acqua. Questo piatto è attraversato per due versi da due fili di cotone nero. È il piatto più importante, perciò poggia sul neonato. In un altro piatto che tiene in mano Filomena vi è dell'olio. Rosaria guarda compunta. Concetta la Caporale invita Filomena ad accostarsi di più col suo piatto d'olio. A questo piatto si avvicina con la bocca quasi a toccarlo e vi fa cadere fiumi di parole incomprensibili. Di tanto in tanto alza la testa e mai gli occhi di Concetta hanno tanto brillato. Quindi poggia il suo pollice nel piatto dell'olio. Si sposta poi sull'altro piatto col pollice alto e steso, mentre le altre dita della mano destra sono tenute chiuse a pugno. Il momento è emozionante perché alcune gocce di olio cadono nel piatto che contiene acqua e fili neri. Subentra un'attesa di pochi secondi, quindi Filomena, Carmela, la Coronaria e anche la nostra brava Caporale gridano di gioia: le gocce d'olio si sono aperte nel piatto dell'acqua e i fili neri si sono mossi: l'annunzio che ogni eventuale malocchio è stato scongiurato e che nella vita sarà fortunato. Concetta prende da Carmela la creatura e si avvicina a Maria che accoglie quel figlioletto tra le sue braccia e nel suo seno con un radioso sorriso. Ma la nostra Maria ha bisogno di un paio d'ore di riposo perché forse stasera stessa dovrà levarsi da quel pagliericcio per accudire alle solite faccende della sua famiglia e del bosco. Perciò Concetta si avvicina ancora a Maria, riprende Rocco e dicendo, sorridendo: «Dio lo benedica», lo sistema nella piccola culla posta vicino al pagliericcio di Maria e che Maria stessa aveva preparato qualche giorno prima con i rami raccolti nel bosco. Tutte se ne vanno e la Caporale per ultima. Maria intanto può godere di poche ore di riposo. Angelomaria, come vede uscire le donne dalla sua capanna, gioioso vi entra per felicitarsi con sua moglie. Ma ne esce subito dopo perché sa che fuori ormai è atteso da tutti quanti nei pressi della catozza per la bevuta. E corre ridendo e saltando, e facendo bella mostra di due grossi fiaschi. Alla catozza s'arresta. Gli fanno subito festosa corona tutti quanti, anche i ragazzi. E anche per i ragazzi c'è da bere. Pure Cicciotto e Francesco Passarella sono invitati a bere due grossi bicchieri di marsala, e ciò fanno volentieri alla salute del piccolo Rocco. Il marsala finisce subito, ma si continua col vino fino a notte. Durante Antonarelli Fonte: D. Antonarelli, Quando nel bosco nasce il figlio dell'uomo , in «La Vita dell'ONMI», Roma, marzo 1956.

  • La fine del brigantaggio

    Di quello che era stato fino al 1866-67 il grande brigantaggio ormai restavano soltanto residui, che di tanto in tanto facevano la loro comparsa. Il consigliere anziano del comune di Gamberale, ad esempio, nel giugno 1871, scrisse a Lanciano che nei dintorni del paese era riapparso Croce di Tola, che si muoveva con una banda di sette individui, tutti ben vestiti ed ottimamente armati di fucili a due colpi, con patroncine, stili e baionette. Crocitto , che, secondo il consigliere, batteva la campagna da 8-9 anni e conosceva "a palmi" quelle contrade, era stato visto più volte nel tenimento di Pizzoferrato e in particolare nel luogo denominato Mandra delle Vacche, dove «stava appiattato, fingendo di aspettare qualcuno». Poiché le pecore ormai erano quasi tutte rientrate nei rispettivi stazzi, sarebbe stato necessario raddoppiare la vigilanza sugli stessi. Inoltre si sarebbe dovuto «intimorire i pastori, ricorrendo, se fosse occorso, anche alle minacce» poiché i pastori erano soliti "parteggiare" per i briganti, perché vi trovavano il loro tornaconto. Inoltre, sempre secondo il consigliere, per meglio «circoscrivere i briganti», sarebbe stato necessario anche allontanare i carbonari dal posto denominato Val di Terra, perché essi erano «più briganti dei briganti stessi ed il loro capo per nome Gregorio Spagnuolo era più brigante di tutti». Costoro negli anni passati avevano nascosto i briganti nelle loro capanne, avevano fatto loro la spia all'avvicinarsi delle truppe ed erano riusciti a rendere infruttuosi tutti gli sforzi dei militari e delle autorità civili. Nello stesso torno di tempo, la presenza di Croce di Tola nel bosco Val di Terra fu denunciata ai carabinieri di Palena dal "capobuttero" delle pecore del cav. Costanzo Norante, di Campomarino, il quale affermò che il 14 giugno 1871 la banda si era avvicinata allo stazzo delle pecore. Un mese dopo, la presenza di Crocitto fu denunciata anche nel bosco di Montedimezzo, sempre in territorio di Palena. Un pastore di Capracotta infatti, smarrita una pecora nel bosco in questione, si era messo alla sua ricerca e si era imbattuto nella banda da lui capitanata, composta da dieci individui. Il pastore era stato chiamato dal capo brigante che gli aveva chiesto perché i carabinieri e i bersaglieri fossero appostati nei pressi dello stazzo di S. Domenico e se per caso non fosse stato il padrone di quelle pecore a chiamarli. Il pastore gli aveva risposto di no. Al che Crocitto dapprima aveva manifestato l'intenzione di bastonarlo, ma poi aveva avuto un ripensamento e tutta la banda si era diretta verso il Sangro. Vista l'inafferrabilità del brigante, oramai a capo di pochi uomini, ma sempre pericoloso, a Lanciano si pensò anche ad armare i pastori, ma il prefetto di Chieti, a cui la proposta fu avanzata, dichiarò di non essere in disaccordo in via di principio, ma prudentemente aggiunse che sarebbe stato necessario assicurarsi prima della loro moralità ed onestà ed inoltre accertare che gli stessi non fossero «pusillanimi, ma ben disposti ad adoprarsi per la distruzione dei briganti». Romano Canosa Fonte: R. Canosa, Storia del brigantaggio in Abruzzo dopo l'Unità , Menabò, Ortona 2001.

  • Alla scoperta di Capracotta, il borgo delle bufere e della pezzata

    In primavera e in estate amate fare passeggiate a contatto con la natura ammirando paesaggi bellissimi e respirando rigenerante aria fresca di montagna? D'inverno cercate piste da sci, borghi tipici e vallate innevate? Capracotta vi piacerà. Questo comune con i suoi 1.421 metri sul livello del mare è il comune più alto dell'Appennino e un'importante località sciistica. Ecco cosa vedere e cosa fare a Capracotta, il borgo molisano famoso per le sue bufere di neve. La cittadina di Capracotta si trova al confine con l'Abruzzo, in provincia di Isernia in una splendida zona dell'altissimo Molise: è assolutamente adorabile e caratteristica con le sue piccole botteghe e i bar-trattoria locali che fungono anche da circoli ricreativi dove c'è sempre qualcuno pronto a fare due chiacchiere e a bere un bicchierino. Questa zona durante la stagione invernale è famosa per le sue bufere di neve da record ed è un importante località sciistica grazie alla presenza di una pista da discesa (quella di Monte Capraro) e di piste da fondo (quelle di Prato Gentile), mentre a fine primavera e in estate è una perfetta stazione climatica che offre ben 130 km. di sentieri e splendide foreste di abeti e faggio. Vi chiederete da dove venga il bizzarro nome Capracotta: tutto parte da una leggenda secondo la quale un gruppo di zingari decise di sacrificare una capra per celebrare un rito di fondazione della loro nuova città, ma che la capra fuggì tra i monti, obbligandoli a rincorrerla per recuperarla. Nel luogo dove l'acchiapparono, la sacrificarono e poi la cucinarono per consumarne le carni in una grande festa venne poi fondata l'attuale città. Negli ultimi anni il comune si è davvero prodigato nel rendere perfetta la propria accoglienza turistica e sono moltissimi i visitatori che ogni anno (sia d'estate che d'inverno) decidono di passare qui le loro vacanze. Noi ci siamo stati alla fine dell'estate e dobbiamo ammettere che questo paese di montagna è super caratteristico e molto rilassante, vale la pena di arrivare fin qui anche quando la neve non c'è perché il borgo è molto piacevole, si mangia benissimo e ci sono moltissimi sentieri interessanti per passeggiare tra i boschi o lungo verdi vallate. Il centro del borgo di Capracotta è molto tradizionale, perfettamente curato dagli abitanti, con i suoi portoni colorati e alcuni i murales particolari. I balconi delle case antiche d'estate sono pieni di fiori e nel corso principale si svolgono molti eventi e attività che coinvolgono gli abitanti locali e i turisti. Purtroppo i bombardamenti che hanno colpito diverse parti dell'Alto Molise non hanno risparmiato Capracotta, che è stata largamente distrutta ma per fortuna sono rimasti intatti molti edifici storici importanti. Vi consigliamo di fermarvi ad ammirare la chiesa madre di Capracotta ovvero quella di Santa Maria in Cielo Assunta, costruita nella parte alta del paese nel 1673 sui resti di un edificio religioso arcaico, dove potrete ammirare molti dipinti antichi, uno splendido organo e alcuni preziosi bassorilievi. Merita una visita anche la chiesa della Madonna di Loreto dove si trova l'omonima Madonna della processione locale, un tempo protettrice dei pastori capracottesi che pregavano la Vergine di proteggere le loro famiglie durante il periodo della transumanza, durante il quale si dovevano allontanare. Agli estremi del borgo si trova il palazzo baronale Baccari, edificato nel 1546 che oggi è una residenza per anziani. Se siete interessati alla storia locale fermatevi al Museo della Civiltà Contadina e dei Vecchi Mestieri che si trova nel palazzo comunale dove scoprirete le tradizioni degli antichi mestieri degli abitanti di Capracotta e ammirerete reperti fotografici e alcuno oggetti antichi della vita contadina. Una piccola chicca è anche il Museo d'Arte Sartoriale SEBA, che raccoglie molte testimonianze sulla vita e le opere del grande sarto Sebastiano Di Rienzo. La strada principale di Capracotta è corso Sant'Antonio, che termina in una bella piazzetta, qui si trova il cuore del paese ovvero il Bar di Rienzo, lo storico Sci Club di Capracotta, un piccolo locale vivacissimo a conduzione familiare, molto accogliente e davvero bello al suo interno. Per un bel panorama camminate fino a Poggio dei Grilli un belvedere davvero ampio dove potrete vedere le belle montagne dell’Alto Molise e il Parco Nazionale della Maiella. Visitare il Giardino della Flora Appenninica è un obbligo quando si passa da queste parti, si trova a pochi chilometri dal centro ed è un orto botanico naturale che sorge a 1.550 metri sopra il livello del mare, cosa che lo rende uno tra i giardini botanici più alti d'Italia. Al suo interno è possibile ammirare numerosissime specie di fiori e piante locali. Il giardino è davvero ben organizzato e molto ben tenuto, con tanti percorsi accessibili a tutti e godibili sia per i bambini che per gli adulti. Sul sito ufficiale troverete tutte le informazioni per prenotare e organizzare la vostra visita. Per quanto riguarda le passeggiate e i trekking nella stagione calda consigliamo di recarvi nella zona di Prato Gentile una bella piana verde dalla quale partono diversi sentieri. Attenzione perché non tutti sono ben tenuti e segnalati, quindi prima di avventurarvi vi consigliamo di chiedere nei ristoranti attorno al grande prato quali sono percorribili al momento. Se avete tempo vi consigliamo anche di fare visita al grazioso Eremo di San Luca, un luogo mistico scavato nella roccia con una storia particolarissima, che si trova tra Capracotta e Pescopennataro. L'evento più atteso a Capracotta è la festa di San Sebastiano Martire, il patrono del paese, che si celebra a metà luglio con una gran processione in fronte alla quale si erge la statua del Santo. Ogni 3 anni l'8 settembre è invece la volta della processione della Madonna di Loreto. D'estate un momento di gran fermento è la storica sagra della Pezzata, mentre dal 2016 Capracotta ospita anche il festival delle Erbe dell’Alto Molise, un evento molto divertente per i visitatori di passaggio e i foodies. Capracotta d'inverno è famosa per le sue piste da sci, come località sciistica è piuttosto gettonata ed è dotata di due impianti: uno dedicato allo sci alpino, che si trova in zona Monte Capraro e che è risalibile con seggiovia e l’altro per lo sci di fondo a Prato Gentile, quest’ultimo è stato anche sede dei Campionati Italiani Assoluti di sci di fondo nel 1997. La pezzata è senza dubbio la ricetta più famosa di Capracotta e anche una delle più antiche dell'Alto Molise. Questa ricetta tipica veniva preparata dai pastori durante la transumanza quando erano tra i monti e trovavano una pecora o capra ferita. In questi casi la macellavano in velocità, la facevano a pezzi (da qui il termine pezzata) e ne facevano uno stufato saporito con l'aggiunta di patate e pomodori. Un altro piatto importante della la tradizione che vi farà impazzire è l’agnello alla menta, mentre il formaggio più tipico è il pecorino (noi siamo andati al caseificio Fratelli Pallotta e ci siamo innamorati del loro pecorino e delle caciotte al tartufo). Per assaggiare ricette tradizionali ma anche molte rielaborazioni moderne della cucina dell'Alto Molise fermatevi a mangiare al ristorante l'Elfo che fa una pezzata buonissima e degli splendidi piatti di pasta fresca al tartufo. Capracotta offre parecchie strutture ricettive, alcune si trovano vicino al centro del paese e altre nella zona delle piste da sci. I prezzi degli alloggi sono piuttosto cari soprattutto durante la stagione sciistica quindi vi consigliamo di prenotare con anticipo e magari online, dove potrete trovare molte offerte. Elisa Lelli e Michelangelo Pasini Fonte: https://www.2backpack.it/ .

  • La Terra Vecchia di Capracotta

    Terra Vecchia è il nome col quale spesso, nel Meridione d'Italia, a partire dal Medioevo, si indica l'insediamento umano più antico d'un dato centro abitato, interno o esterno ad esso, il che significa che può trattarsi tanto di un quartiere quanto di un'area archeologica periferica. A Capracotta non vi è dubbio che la Terra Vecchia sia il luogo del primitivo insediamento stabile di quei pastori - sanniti o romanizzati - che la fondarono. Il toponimo della Terra Vecchia si diffonde in questa fetta d'Italia a seguito della discesa dei Longobardi e dei Normanni, il che non significa che questi abbiano fondato le "terre vecchie" dei nostri paesi, ma dimostra piuttosto l'esatto contrario, cioè che essi trovarono quei centri già abitati (o già disabitati) e decisero di dar loro un nome comune. Nei casi di Fara S. Martino o Sepino, ad esempio, la Terra Vecchia rappresenta l'insediamento italico; nei casi più lontani di Cerignola o di Vibo Valentia quel toponimo definisce invece l'abitato romano, nato per la caccia o l'agricoltura. Si pensi che a Capracotta esistono due terræ veteræ : una è il borgo fortificato, l'altra si trova sul Colle della Parchesana, l'antica sella per la guardia tratturale tra il Verrino ed il Trigno, di cui restano pochissime vestigia. Evitando di addentrarci nelle diverse teorie sulla fondazione di Capracotta ed evitando pure qualsiasi disputa tra Sanniti e Romani, faccio un salto nel tempo e mi catapulto nel XV secolo, quando compaiono le prime cronache cittadine. La Terra Vecchia, che allora è Capracotta tutta, è uno dei quattro feudi presenti sul nostro territorio, assieme a quelli di Maccla Strinata, Mons Fortis e Vallisurda: tra l'altro non è nemmeno il più abitato, visto che su Monte S. Nicola vivono mediamente 40 persone in più. Nel 1507 appare il quinto feudo di Ospedaletto e nel 1568 il sesto, la Cannavina. Nel 1656 l'epidemia di peste spariglia le carte. La popolazione di ogni feudo viene decimata ma Capracotta sopravvive al flagello diventando il centro che attrae i pochi superstiti delle contrade vicine e da lì comincia il suo definitivo sviluppo demografico. Chi ha modo di vedere e conoscere Capracotta nel XVII secolo - ad esempio i teologi slovacchi Giovanni Simonide e Tobia Masnizio, arrestati dalle guardie capracottesi il 4 maggio 1675 - afferma che: Delle alte mura circondano il suo nucleo interno per difenderlo dagli attacchi dei briganti. Gli abitanti trascorrono l'inverno nelle Puglie col bestiame. Tornano a giugno e rimangono nella loro terra quasi quattro mesi. Niente giova loro quanto il formaggio, che da queste parti ha un sapore, un profumo e una consistenza molto buoni. Non è affatto simile al nostro. Non producono burro e, al suo posto, utilizzano l'olio d'oliva. Gli abitanti del posto hanno costumi rozzi. Ritengono che la devozione e la rispettabilità risiedano unicamente nel portamento e nei gesti. Per tutta l'estate vanno in giro armati per proteggersi dall'esercito, ma anche perché vivono nella paura costante delle scorrerie dei banditi. Del resto, se ne radunano duecento, cinquecento e a volte anche più: provengono dallo Stato della Chiesa e tornano indietro con un ricco bottino. [...] Questa città conta a malapena duecento case, un arciprete, dieci sacerdoti e dodici chierici. [...] La nostra prigione si trovava in questa città e, quel che è peggio, si trattava di una prigione per malfattori. Senza dubbio, era già da un po' di anni che non la mettevano a posto: lo si poteva dedurre dalla grande sporcizia. Sopra la prigione c'era la cappella o - come la chiamavano - l' officium della Beata Vergine Assunta. C'eran tante pulci quanta sporcizia, ricoprivano l'impiantito come formiche. Da questa descrizione si possono desumere alcuni dati importanti: innanzitutto è scritto che la Terra Vecchia era cinta da alte mura difensive (non è un caso la presenza di contrafforti sia a sud-ovest, in via S. Sebastiano, che a nord-est, sui Ritagli); in secondo luogo Simonide afferma che l'abitato di Capracotta consisteva in circa duecento case; infine che le prigioni, come oggi, erano poste al di sotto della chiesa, ed erano luride. Le condizioni igieniche della Terra Vecchia han lasciato a desiderare almeno fino al primo dopoguerra. Si pensi che l'ufficiale sanitario Luciano Conti, nelle sue relazioni del 1891 e del 1900, affermava che: Le case hanno un pian terreno e un piano sovrapposto, e spesso dalla parte di occidente, il cui livello è più alto, restano interrati ambidue i piani con conseguente mancanza di luce e infiltrazione di umidità. La densità della popolazione è pareggiabile a quella delle grandi città, dove l'agglomerazione spesso è eccessiva. In una sola stanza alle volte non dorme una sola coppia di sposi, ma anche tutta la famiglia, e qualche volta, divisi con leggeri tramezzi di legno, abitano altri individui estranei a quella famiglia. Oltre poi alla popolazione umana, vi è nelle case un'altra popolazione più numerosa: vi è l'arca di Noè delle bestie domestiche: maiali, cavalli, pecore, capre, vacche, galline ecc. La stalla sul pian terreno non sempre è un vano isolato, ma serve pure per l'entrata e per il passaggio degli inquilini. Qualche rara volta serve pure da dormitorio e da cucina. Tra la stalla e le camere [...] vi è sempre diretta e libera comunicazione [...] e perciò le esalazioni delle stalle si diffondono pienamente e profumatamente per tutta la casa. [...] Le camere sono piccole, basse, con finestre meschine, ingombre di mobili e di viveri. Le pareti e il cielo delle stanzette erano prima lodevolmente imbiancate a calce; ora con mal vezzo si tappezzano di carte colorate. I camini mal costruiti danno fumo in quasi tutte le case del paese [ma] per i soli abitanti ai Ritagli vi è il vantaggio che i rifiuti domestici possono essere sbalzati direttamente nei campi giù in fondo al precipizio, dove dall'aria e dalla luce sono rapidamente ossigenati, assorbiti dalle piante in crescenza, e resi così innocui alla popolazione. Se nella prima metà del Novecento la Terra Vecchia era ancora un formicaio umano, con la Seconda guerra mondiale la devastazione fu quasi totale. I nazisti minarono buona parte degli edifici e incendiarono i rimanenti, dei quali si riuscì a salvare qualcosa grazie alla solerzia dei pochi capracottesi rimasti in paese che tentarono di spegnere alla bell'e meglio quei criminali incendi. Le case saltate in aria, invece, vennero dapprima utilizzate dagli Alleati per farne postazioni da cannone verso l'Oltresangro, dunque abbandonate al loro destino di macerie. La conta dei danni bellici calcolò la perdita di ben 44 unità immobiliari alla Terra Vecchia, a cui si aggiunga una torre angioina che gli amministratori del 1952 inserirono tra gli edifici da abbattere. Oggi la Terra Vecchia è tornata a splendere ed è diventata il centro degli eventi culturali di Capracotta ma nessuno potrà conferirle di nuovo l'aura di borgo medievale, la natura urbanistica complessa ed organica, il sentimento di sorpresa nel veder apparire la bianca facciata della Chiesa Madre una volta usciti da vico San Sebastiano... Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: A. Baroncioni, F. Boschi e E. Ravaioli, La Rocca di Acquaviva Picena (AP). Approccio multidisciplinare per lo studio di un impianto fortificato delle Marche meridionali , in «Archeologia Medievale», XXXII, Firenze, dicembre 2005; L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Tip. Antoniana, Ferentino 1931; L. Conti, Le condizioni igieniche e sanitarie di Capracotta , Del Monaco, Isernia 1900; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; F. Mendozzi, L'inaudito e crudelissimo racconto della prigionia capracottese e della miracolosa liberazione , Youcanprint, Tricase 2018; E. Schubert, L'arte siculo-normanna. La cultura islamica nella Sicilia medievale , Museo Senza Frontiere, Palermo 2003; A. R. Staffa, Ortona fra tarda antichità ed altomedioevo. Un contributo alla ricostruzione della frontiera bizantina in Abruzzo , in «Archeologia Medievale», XXXI, Firenze, dicembre 2004.

  • La Società operaia di Capracotta e la festa della Madonna di Loreto

    La Società operaia di Mutuo soccorso di Capracotta, chiamata anche società dei vetturini - infatti sulla facciata della bandiera del sodalizio è impressa l'immagine di un cavallo - fu fondata il 5 settembre del 1881 e da allora ha un ruolo di primo piano durante i festeggiamenti in onore della Madonna di Loreto, che è anche la protettrice dei viandanti di lunghi percorsi, come scrive Luigi Campanelli ne "La Chiesa Collegiata di Capracotta". I protagonisti della sfilata oltre ai cavalli, asini e muli che riccamente bardati la sera del sette e nella mattinata del giorno nove settembre accompagnano la statua della Madonna di Loreto sono: il presidente della Società operaia di Mutuo soccorso, il portabandiera e i vetturini. Il presidente per l'occasione indossa la fascia di colore verde dove sono impresse due mani che si stringono a pugno con il significato sia di darsi la mano in segno di saluto e rispetto, sia nel senso di solidarietà e di mutuo soccorso. Tra i primi presidenti di cui abbiamo testimonianza fotografica va ricordato Achille Conti, come da foto risalente alla mattinata del 9 settembre 1928. Alla sua morte gli succede il figlio Vincenzino Conti che sarà presidente dagli inizi degli anni Trenta fino alla prima metà degli anni '60. Designato successore è Antonino Conti che per il suo carattere schivo e riservato non presiederà alla sfilata, ma sarà sostituito da Geremia Sozio, successivamente sarà presidente il signore Michelino Carugno fino ai primi anni Settanta. In seguito subentrerà Mario Comegna attuale presidente del sodalizio. Alla sfilata dei cavalli partecipavano e partecipano tuttora rappresentanti di tante famiglie che una volta svolgevano l'attività di vetturini e/o conducenti di muli. Questo antico mestiere oggi è scomparso, ma con orgoglio le diverse generazioni conservano questa antica tradizione e perciò permane la consuetudine di "vestire" i cavalli con coperte riccamente decorate dalle donne di Capracotta, panni sfarzosi e addobbi con fronzoli. Oggi, oltre alle famiglie che storicamente partecipavano alla sfilatam si sono aggiunti nuovi componenti o gruppi di amici che con passione trovano i cavalli e procedono alla loro bardatura, con una propria originalità nel "vestire" il rispettivo cavallo, asinello o mulo. Altro elemento fondamentale della sfilata dei cavalli è il portabandiera della Società di Mutuo soccorso. Tra i tanti che si sono alternati in questo ruolo, va ricordata la figura di Michele Monaco ( Squarcióne ) che la sera del sette settembre, all'imbrunire, con solenne gesto, tipico degli uomini del suo tempo, dopo aver fatto inginocchiare il proprio cavallo, impugnando con tutte e due le mani la bandiera del Sodalizio con al suo fianco il presidente e un terzo cavaliere, rende omaggio alla Madonna di Loreto imitando con la bandiera il segno della croce. Il rito viene ripetuto per tre volte, tutto il popolo resta in silenzio e commosso partecipa all'evento. Tra i portabandiera ricordiamo anche Italo Di Rienzo e Giacomo Carnevale, l'attuale. Subito dopo, singolarmente o a coppia, tutti i cavalli e relativi conducenti rendono omaggio alla Vergine con l'inchino, e inizia la solenne processione. Il corteo dei cavalli la sera del sette termina in piazza Ruggiero Conti (a Sant'Antonio), mentre il presidente, il portabandiera e un terzo cavaliere scortano la Madonna fino alla Chiesa Madre. La tradizione vuole che i cavalli del presidente e del portabandiera, generalmente di color bianco, non siano bardati, ma "nudi", probabilmente, perché gli stessi simboli della Società di Mutuo Soccorso costituiscono la bardatura. Il giorno otto settembre, durante la solenne processione il presidente con a fianco il portabandiera, a piedi, accompagnano la statua della Madonna per le vie del paese. Il giorno nove, in mattinata, si ripete la sfilata dei cavalli che tradizionalmente sono più numerosi della sera del sette e sono anche più riccamente "vestiti", questo perché ogni vetturino ambisce al primo premio per la migliore bardatura. Non erano rari i casi in cui la sfida per la migliore bardatura si facesse animosa e a tratti vivace. Per tale ragione veniva costituita una apposita commissione che sottoponeva ad attento esame i cavalli e le relative bardature allo scopo di assegnare il meritato premio. Il presidente della Società operaia, il portabandiera e un terzo cavaliere salutano la Madonna all'uscita della Chiesa Madre, si ricongiungono ai restanti cavalli che si sono radunati a Sant'Antonio e inizia la sfilata in senso inverso rispetto alla sera del sette. Arrivati alla Cappella, si ripete, in modo solenne e commovente, il rito del saluto alla Vergine Madre, iniziando sempre dal presidente, con il portabandiera della società, e successivamente sfilano tutti i cavalli con i relativi cavalieri. La festa si chiude con una grande commozione popolare dovuta non solo alla partecipata venerazione per la Madonna di Loreto, ma anche perché bisogna attendere tre lunghi anni per rivivere questi momenti intensi e attesi da tutti i capracottesi dislocati nel mondo. Sebastiano Conti Fonte: S. Conti, La Società Operaia di Mutuo Soccorso di Capracotta e la festa della Madonna di Loreto , in «Voria», II:4, Capracotta, settembre 2008.

  • La Madonna di Loreto onorata da secoli a Capracotta

    È motivo di gioia tessere le lodi della Madonna onorata a Capracotta sotto il glorioso titolo di Madonna di Loreto. Anche se lontani dal paese natio dagli anni giovanili, avendo scelto la Congregazione salesiana fondata da Don Bosco, mi sono fatto un dolce obbligo di trovarmi a Capracotta nelle ricorrenze triennali dell'8 settembre. In quelle occasioni il paese diventa come un grande salotto per graditi incontri. Poiché, oltre me, anche altri, compresi i fratelli, hanno scelto di seguire Don Bosco - e, voglia il cielo, che altri giovani lo scelgano ancora - colgo l'occasione di unire al culto della Madonna, invocata come Madonna di Loreto, anche quello di Ausiliatrice dei cristiani. È il titolo propagandato da Don Bosco ed è il titolo di grande attualità. Infatti, ora che le forze del male sono così scatenate, da non trovare riscontro in altri periodi storici, invocare Maria, perché usi la potenza d'intercessione presso il Suo Divino Figlio, vuol dire confidare che il bene trionferà sul male. Invochiamo dunque la nostra Madonna di Loreto, non dimenticando che è Lei la potente Ausiliatrice dei cristiani. Cesare Carnevale Fonte: C. Carnevale, La Madonna di Loreto onorata da secoli a Capracotta , in «Voria», II:4, Capracotta, settembre 2008.

  • I banchi egualitari di Ruggiero

    Al liceo mi hanno insegnato la differenza tra uguaglianza e libertà, due concetti fondamentali da cui si diparte l'intera storia occidentale delle dottrine politiche. La prima vuole che gli uomini partano da uguali condizioni, la seconda che essi siano liberi di agire. Negli anni a seguire ho imparato che, nei limiti di uno Stato democratico, l'uguaglianza (delle opportunità) dà vita ad istanze di sinistra, la libertà (di iniziativa) a quelle di destra. Questa dicotomia mi si è palesata con forza all'interno della Chiesa di S. Vincenzo di Capracotta quando ho visto un decrepito banco riservato alla famiglia Santilli, un banco che proviene dal magazzino della Chiesa Madre. La targa che riporta "Riservato alla famiglia Ruggiero Santilli" mi ha lasciato perplesso perché a primo acchito fa pensare a un qualche privilegio di cui godeva il signor Ruggiero, il fondatore della famosa fornace di San Pietro Avellana, un illustre capracottese che ha fortemente influito sull'economia altomolisana tra gli anni '30 e i '50. In realtà sua nipote Maria Antonietta ha rivelato che quel banco non era affatto il frutto di un privilegio religioso ma di una donazione. Ruggiero Santilli, infatti, aveva provveduto a fabbricare presso la falegnameria collegata alla sua fornace tutti i banchi per poi donarli alla chiesa. Il suo bellissimo gesto non fu mosso soltanto dalla carità cristiana ma anche e soprattutto da istanze prettamente egualitarie. Egli aveva infatti assistito a un episodio increscioso durante una Santa Messa: coi suoi occhi Ruggiero aveva visto il sacrestano della Chiesa Madre che noleggiava le sedie, cosicché i ricchi potevano seguire la liturgia comodamente seduti, lasciando i poveri cristi in piedi. Questa era in realtà una prassi piuttosto comune in molte parti d'Italia ma a Ruggiero dovette sembrare insopportabile e certamente contraria alla Parola di Dio, che sempre rivendica l'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte al Padreterno. Col suo nobile gesto Ruggiero trasformò una libertà personale (quella di noleggiare un seggio) in una pari opportunità (quella di poter assistere tutti seduti), sradicando peraltro una ignobile speculazione. La placca del posto riservato fu forse una sorta di riconoscimento della chiesa a chi aveva provveduto a fornire gratuitamente banchi a tutti. Negli anni a seguire Santilli donerà infatti alla Chiesa Madre anche il bel crocifisso ligneo che oggi svetta al di sopra dell'altare maggiore, acquistato presso una ditta artigiana del Nord Italia, del quale parlerò in altra occasione. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: F. Belfiore, "Sinistra" e "Destra", uguaglianza e libertà: dalla conflittualità alla collaborazione , Aracne, Roma 2021; E. Jannone, Ricostruisce da sé la fabbrica distrutta alla maniera di Jack London , in «Corriere del Molise», Campobasso, 9 novembre 1952; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; E. Tirone, Oltre la valle , Cappelli, Bologna 1968.

  • La Madonna di Loreto

    Le origini riguardanti il Santuario di Santa Maria di Loreto sono incerte e le poche notizie che abbiamo ci sono pervenute attraverso il racconto degli antenati. L'originaria Cappella di Santa Maria di Loreto, «piccola e rozza», fu sicuramente eretta dove sorge l'attuale Santuario. Detta chiesetta doveva esistere prima del 1600, se il Papa Gregorio XV, nella bolla emanata nell'aprile 1622, proclamava quella chiesa «venerabile» e «antiquissime constructa». L'iniziale costruzione del sacro edificio è da attribuirsi ai pastori capracottesi dell'antica transumanza, che, in quel luogo, erano soliti salutare le proprie famiglie e affidarle alla protezione della Madonna per il tempo della loro lontananza da casa. Un rito di ringraziamento, poi, si svolgeva nella stessa Cappella, ai piedi della Vergine, quando i pastori, agli inizi della bella stagione, lasciato il Tavoliere delle Puglie, ritornavano ai nativi monti. La primitiva, minuscola Cappella, nel tempo è stata ampliata nella struttura e perfezionata nell'attuale, elegante linea architettonica. L'altare centrale, sormontato da una seicentesca nicchia lignea - dorata e rabescata - accoglie la venerata statua della Madonna di Loreto (probabilmente di origine anteriore al 1600) elaborata da ignota mano artigianale da un tronco di pero. La notte del 15 settembre 1981, una mano sacrilega privò l'immagine del suo Bambino. Risparmiata dai tedeschi, nella seconda guerra mondiale, la Chiesa, invecchiata dal tempo e danneggiata per le infiltrazioni di acqua, fu consolidata e gli ultimi interventi risalgono al 1973 e 1975. Il 30 agosto 1975, Mons. Enzio D'Antonio, Vescovo di Trivento, la riaprì al culto. Il 30 agosto 1978, il Vescovo di Trivento, Mons. Antonio Valentini, considerata la sentita devozione, riservata alla sacra immagine, dai capracottesi, dai turisti e dagli emigranti, con decreto proprio elevò a Santuario Diocesano la Chiesa Santa Maria di Loreto «perché ricordi a noi e ai posteri che Maria SS.ma è per tutti vangelo vivo e Chiesa viva!». Elio Venditti Fonte: E. Venditti, La Madonna di Loreto , in «Voria», II:4, Capracotta, settembre 2008.

  • Egidio Monaco

    Egidio Monaco è nato a Capracotta (IS) nel 1948. Vive e lavora a Roma, alternando lunghi soggiorni nella casa natìa. Ha esposto in diverse mostre in Italia e all'estero. L'artista realizza paesaggi il cui tema principale è il cielo azzurro e dove prevalgono le gradazioni degli ocra e dei verdi che si affievoliscono verso l'orizzonte. Attento osservatore di una natura minacciata dall'industrializzazione e dal progresso tecnologico, Egidio Monaco ha cominciato dal 1968 a mettere in guardia la società manifestando il suo timore nei confronti della minaccia dello smog. L'impegno ambientalista è un elemento caratterizzante del suo corpus di opere. Tra i temi preferiti dell'autore troviamo silenziose figure immerse in rigogliosi paesaggi e in variegate nature morte trattati su un piano di estrema coerenza. Gli impasti materici di Egidio Monaco prendono così quota in larghe stesure soffusamente mosse, quasi picchettate o, se si preferisce, maculate, che lasciano tuttavia trasparire qua e là i neri del fondo di preparazione, accenti coloristici che animano l'impianto del quadro. Ne risultano spesso effetti quasi misteriosi che rendono i trapassi luministici più preziosi. Dai dipinti di Egidio Monaco emerge prorompente il richiamo al Molise, terra a lui cara non soltanto per il paese natìo, ma anche quale fonte d'ispirazione di molte sue opere imbevute d'aria cristallina, nelle quali la figura umana è protagonista accanto alla natura. Franco Miele Fonte: https://www.orizzonteitalia.com/ .

  • I "giusti" romagnoli Carugno e Giorgetti

    Questa storia ha per protagonisti 39 ebrei, arrivati a Bellaria nell'albergo di Ezio Giorgetti dopo l'armistizio. Sono donne, uomini e bambini, originari della Germania, dell'Austria, della Jugoslavia e della Polonia, fuggiti l'11 settembre da un campo d'internamento veneto. Li ha mandati da Giorgetti una sua vecchia cliente, una contessa che da Asolo, dove abitava, aveva organizzato il viaggio di quel gruppo in camion fino alla Romagna. «Arrivarono con una lettera di presentazione che li qualificava come "profughi stranieri". Li accolsi», testimoniò Giorgetti in un'intervista. «Solo dopo qualche giorno, visti vani tutti i loro tentativi di noleggiare una barca da pesca e di allontanarsi via mare, ci dichiararono di essere ebrei e di rimettersi nelle mie mani». Chiedono un'ospitalità che per i padroni di casa significa rischio della vita. Solo una decina hanno i soldi per pagarsi la retta-sfollati. Giorgetti e la moglie, Lidia Maioli, li accolgono, li aiutano, ricorrendo per consiglio ed appoggio anche al maresciallo dei Carabinieri di Bellaria, Osman Carugno; al segretario comunale di San Mauro, Alfredo Giovannetti; al vescovo di Rimini, monsignor Vincenzo Scozzoli e don Emilio Pasolini. Uno degli scampati, Leopold Studeny, definì Carugno «il nostro protettore in tutti i momenti». Giovanetti fornisce carte d'identità in bianco che sono intestate a nomi falsi. Come falsi sono i timbri apposti sui documenti: riproducono lo stemma del Comune di Barletta, che era stato occupato dagli alleati. Quei timbri li ha lavorati un incisore di Rimini, Pietro Angelini. Don Pasolini procura materassi, coperte, biancheria e pane biscottato preparato dalle suore Maestre Pie. Dopo due mesi, all'albergo di Giorgetti arrivano i nazisti. Gli ebrei sono trasferiti di notte ad Igea Marina, alla pensione Esperia. Pure lì giungono i tedeschi. Altro spostamento alla tenuta Torlonia di Cagnona di Bellaria. E di qui, nel dicembre 1943, per un'altra requisizione nazista, i profughi scappano alla pensione Italia di Gino Petrucci, dove sono presentati come «italiani all'estero» sfollati all'ultimo momento. Gli alleati s'avvicinano, ma i sospetti di fascisti e nazisti aumentano. Gli ebrei, su consiglio di Carugno, decidono di inoltrarsi verso l'interno, a Madonna di Pugliano (PU). Nel settembre 1944, ad un anno dall'inizio della loro odissea, sono liberati dagli alleati, e trasferiti a Roma, dove rimangono sino al 2 giugno 1945, quando sono portati all'Ufficio trasporti di Riccione. Carugno e Giorgetti saranno definiti in Israele «Giusti fra le genti». «Polizia e carabinieri, nella nostra zona (da Viserba a Torre Pedrera) non si sono mai affannati per collaborare con gli occupanti», dice Guido Nozzoli, ricostruendo i momenti della clandestinità. «Per esempio, la squadra politica del Commissariato, come potemmo accertare dopo la Liberazione, aveva localizzato un recapito dei Gap nei pressi di Torre Pedrera, ma non venne mai a bussare a quella porta e non trasmise l’informazione né alla gendarmeria tedesca né alla sede del fascio. Neppure i Carabinieri, a cui era affidato il compito di reperire disertori e renitenti alla leva... se la son presa troppo calda». Antonio Montanari Fonte: A. Montanari, Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica (1943-1946) , Il Ponte, Rimini 1989.

  • Lotterie e sogni miliardari

    Capracotta, provincia di Isernia, 1.421 metri di altezza e novecento residenti divisi in trecento famiglie. Un giorno, una decina di loro se ne stavano seduti davanti a una birra allo Sci club. C'erano l'impiegato delle poste, il benzinaio e altri sette, otto amici. Perché non mettiamo 10.000 lire a testa e puntiamo al jackpot supermiliardario?, si sono detti. Conclusione: circa due milioni raccolti nei tre bar del paese, dal benzinaio e allo Sci club; più di trecento giocatori, praticamente uno a famiglia, compreso il parroco e il sindaco. La schedina ha l'incarico di compilarla l'impiegato delle poste che poi va a giocarla in un altro paese. Perché a Capracotta non c'è neppure la ricevitoria. Speranze, sogni degli aspiranti miliardari? Niente Caraibi, una volta tanto, e nemmeno una villa hollywoodiana o la fuoriserie. Nei sogni di tutti c'è una fabbrica. Desiderano investire i miliardi di un eventuale 6 per dar lavoro ai disoccupati che ci sono in paese (quei pochi giovani rimasti) e a quelli che se ne sono andati via da Capracotta per lavorare a Milano, a Roma, o all'estero. Pare che qui in paese ci siano solo due falegnamerie: opportunità di lavoro, molto poche. Al punto che gli abitanti, testardi come sono, stanno pensando di autotassarsi per finanziare comunque qualche attività. Intanto, continuano a puntare al jackpot: un sistema di ottocentotto colonne con sedici numeri, costo 646.000 lire. Chi si recasse allo Sci club, potrebbe leggere il lunghissimo elenco dei nomi e cognomi e pure i soprannomi dei giocatori e accanto tutti i numeri giocati nel supersistema. Un unico assente, tal Mario Comegna. Chissà mai perché ha preferito astenersi dal gioco. Maurizio Costanzo Fonte: M. Costanzo, Un paese anormale. L'Italia che non ci piace , Mondadori, Milano 2000.

  • M. Capraro ed il Campo: montagne di Capracotta

    Prima di parlare di queste due montagne credo opportuno di dare un cenno della traversata da Pescocostanzo a Capracotta. La mattina del 22, alle ore 6:10, insieme al Dott. Giovanni Conti ed al Signor Errico Pitassi Mannelli, partimmo da Pescocostanzo a cavallo. Traversato il Quarto del Barone, giungemmo, in meno di un'ora, alla base della catena di monti, che divide quella regione degli altipiani dalla valle del Sangro. La vetta più elevata di questa catena è il M. Siccine (1.883 m.). Dopo una piacevole salita, tra piccoli faggi, giungemmo prima all'altipiano Mancini e poi, alle 8:30, al colle detto Pietra Cernaia. La vetta di M. Siccine ci dominava appena di 150 metri. Cominciammo la discesa pel versante opposto, ammirando la valle del Sangro e le montagne di Capracotta. Lungo la via trovammo varie casette solitarie in amena posizione. Alle 10, eravamo in fondo ad Ateleta, bello ma misero paese. Non vedemmo una persona. Presa la strada carrozzabile, traversammo, subito dopo, un ponte sul Sangro. Qui è il limite tra il Molise e la Provincia di Aquila. Il Sangro corre tra boschi di cerri. Dopo 20 minuti di salita, giungemmo a Castel Del Giudice, ove ci fermammo per ristorarci. Alle 11:30 partimmo. Durante la salita ammirammo tutta la catena di M. Siccine, da noi traversata poche ore prima, e le montagne, che la costituiscono. Adagiati alle falde di questi mondi, vedemmo, verso nord, due paeselli: Gamberale e Pizzo Ferrato. Il sentiero è comodissimo, e di tanto in tanto permette di vedere in alto le case di Capracotta. A circa mezza via scendemmo in un vallone, ove sorge un'acqua solfurea. Continuando per brevi piani, quasi balze sovrapposte, alle 13:30 giungemmo a Capracotta, ove fui colmato di cortesie dalla famiglia del nostro compagno Dott. Conti. Il M. Capraro ed il Campo sono le estremità di una gradiosa sella, diretta da est ad ovest, i cui fianchi dechinano nella valle del Sangro, a nord, e su quella di Agnone, a sud. L'analogia alla sella credo sia esatta, quando si riflette che la parete occidentale di M. Capraro e quella orientale del Campo sono verticali. Su questa sella trovasi adagiata Capracotta (1.375 m.). Com'è chiaro quindi le gite al Capraro ed al Campo, specialmente la seconda, sono vere passeggiate. Lo stesso giorno, dopo un sontuoso pranzo, alle ore 16:45, partimmo, nell'intento di assistere al tramonto, dalla vetta di M. Capraro. Dopo 10 minuti di cammino sulla strada carrozzabile, prendemmo un sentiero a destra, e subito cominciammo la salita sulla falda orientale del monte, completamente rivestita di faggi. Per più di un'ora si procedette benissimo, ma poi, perduta ogni traccia di sentiero, dovemmo lavorare di braccia per avanzare tra quei faggi. Riuscimmo alfine sopra un masso, appartenente alla cresta, che piombava sul precipizio, soltanto per accorgerci, che non eravamo sulla punta più alta. Dovemmo ritornare, tra i faggi, per ricominciare il lavoro, mentre la notte si avanzanva. La speranza di assistere al tramonto era perduta. Uscimmo ancora dai faggi per trovarci fra massi enormi, separati da fenditure profonde. Dissi allora, scherzando agli amici, siamo forse su ghiacciai per trovare questi crepacci? Con precauzione saltammo dall'uno all'altro masso; quando la fenditura era molto larga, si doveva scendere da un masso, trovare un sito opportuno e salire sull'altro. Questa ginnastica, a quell'ora avanzata della sera, era poco piacevole, ma riuscimmo, quando era oscuro, a guadagnare la vetta più alta. Ci fermammo per poco e ripartimmo. È inutile dire il lavoro compiuto e le difficoltà superate per uscire, nella oscurità, da quei massi e da quei faggi, in cerca del sentiero, che riuscimmo a trovare solamente alle 9. Un'ora dopo eravamo di ritorno a Capracotta. Il nostro programma era di assistere al tramonto dalla vetta di M. Capraro ed al sorgere del sole da quella del Campo. Perduto il primo spettacolo, avevamo grande interesse di ammirare il secondo. La mattina del 23 ci levammo alle 3:15, ed alle 3:45 partimmo con gli stessi amici. In 20 minuti il sentiero raggiunge la base occidentale del Campo, ed in altri 25, con alcune curve a rampate, l'altipiano, che dalla vetta dechina dolcemente verso sud. Volgendo a sinistra alle 4:40 eravamo presso il segnale trigonometrico. È difficile, io credo, dopo la passeggiata di un'ora, trovare altrove un belvedere, che offra un panorama così grandioso, come quello da noi ammirato dalla vetta del Campo. Il sole, come un globo di fuoco, ci apparì sull'Adriatico, ed a grado a grado, che le zone si vestivano d'oro, illuminava le pareti rocciose di tutta quella serie di montagne, che ci facevano corona: il M. Amaro (2.795 m.) e tutta la mole immensa della Maiella, che era presso di noi, il M. Porrara (2.136 m.), il Pizzalto (1.969 m.) ed il M. Rotella (2.127 m.), i tre bastioni della grande giogaia, che si avanzano verso nord; la catena della Marsica, che era spiegata in tutta la sua ampiezza, sulla sponda sinistra del Sangro e su di cui dominava signore il M. Greco (2.283 m.), con la sua orrida parete orientale; il ramo meridionale della catena delle Mainarde con tutte le montagne di mia conoscenza, dalla Parruccia (2.021 m.) al Petroso (2.247 m.), e tutta la massa del Matese, coi suoi contrafforti, dominata dal M. Miletto (2.050 m.) si presentavano in tutt'i dettagli. Moltissime catene secondarie ed una infinità di paeselli si ammiravano nel vasto circolo, che ci era dinanzi. Alle 7, con vero rincrescimento, lasciammo la vetta, e girando a sud e ad ovest del monte, che presenta belle vedute su canaloni di pietre, raggiungemmo l'altipiano, detto Prato Gentile. Penetrati poi in una splendida foresta, prima di faggi e poi di abeti, alle 9:35 giungemmo a S. Luca, modesto santuario, adagiato sopra una rupe. Di là ammirammo tutta la valle degli abeti, dominata dalla parete orientale del Campo, completamente verticale, tutta rivestita di faggi. Fatta una squisita colezione in un prato, tutto circondato da abeti, ripartimmo, ed a mezzogiorno eravamo di ritorno a Capracotta. Nel pomeriggio, accompagnato da molti signori, visitai la Cattedrale, l'Asilo d'infanzia, e la parte antica del paese, ove sono due porte, ben conservate. Poi, da una terrazza chiamata Costa dei Grilli, a sud del paese, ammirai una bellissima veduta. Il giorno seguente, in carrozza, percorrendo la bellissima strada, che corre prima ad ovest e sud di M. Capraro, e poi scende, fino ad incontrare quella che viene da Agnone, mi recai alla stazione di Vastogirardi, ove presi il treno per Napoli. Vincenzo Campanile Fonte: V. Campanile, Sull'Appennino centrale e meridionale. Escursioni del 1898 , da «L'Appennino Meridionale», VII:1-2, 1898.

  • Viaggio a Capracotta: l'infanzia di Erasmo Iacovone

    Per chi non lo conoscesse, Capracotta è un piccolo paese in provincia di Isernia, in Molise, posto a 1.421 metri sopra il livello del mare, su una delle vette più alte dell'Appennino Sannita, non molto distante dal confine con l'Abruzzo. Definita "la piccola Cortina degli Abruzzi" nel film "Il Conte Max" (1957), Capracotta, assieme a Campitello Matese, è una delle stazioni sciistiche più note del Molise. Capracotta, quindi, è una cittadina molto legata allo sport, non solo sciistico ma anche calcistico. È proprio in questo paese, infatti, che il 22 aprile 1952 nacque Erasmo Iacovone. Un vero talento del pallone che, nella sua breve ma intensa carriera, seppe regalare gioie ai tifosi e alle squadre in cui ha militato. Quella per il calcio era una passione che Erasmo coltivava sin dalla più tenere infanzia nel paese di Capracotta: « Bastava che trovasse un barattolo, un sasso. Sfasciava scarpe. Non vi dico quante scarpe comprava mia madre » dice ai nostri microfoni il fratello di Erasmo, Giacomo Iacovone, che insieme al nipote Giuseppe ci hanno concesso l'intervista davanti alla casa natale del grande calciatore, del quale ci hanno raccontato la storia. « Erasmo è entrato nella squadra locale dell'Albula, che sarebbe Tivoli Terme, in parole povere...» continua orgoglioso Giacomo. Io sono stato un po' il fautore perché lo accompagnavo sempre a fare le partite. È entrato nei pulcini, ma poi lo hanno subito messo in prima squadra, che all'epoca si trovava in seconda categoria. Dopo un anno fu chiamato all'OMI Roma che era il vivaio della Roma e, dopo un anno, è passato alla Triestina che giocava in Serie A. Mio fratello teneva 16 anni. Poi dalla Triestina è passato al Mantova, dove ha giocato insieme a Boninsegna e Zoff. Poi è passato al Carpi e, successivamente, fu richiesto dal Taranto. Il presidente del Taranto Fico conosceva molto bene Seghedoni, l'allenatore del Modena, che gli disse: «Prendilo, che fai un affare!», nel vero senso della parola. E così è stato. Io mi ricordo che Fico, a quel tempo, pagò mio fratello 80 milioni. Già a novembre c'erano l'Inter e la Fiorentina che avevano messo un'opzione. Giustamente si è sparsa la voce e a Taranto ci fu un po' di confusione perché stava per andare in Serie A e nessuno voleva che andasse via. Così Fico fece un passò indietro, tenendolo fino a giugno, fino alla fine del campionato, e poi sarebbe andato all'Inter o alla Fiorentina, anche se altre squadre di Serie A gli giravano intorno. Una giovane promessa destinata a una grande carriera, stroncata purtroppo la sera del 6 febbraio 1978, a San Giorgio Jonico, a pochi km. da Taranto. Giacomo ricorda con dolore quel momento: Purtroppo quella sera fu fatale. La colpa è stata di quel delinquente, inseguito dalla polizia, che correva a fari spenti. La moglie di Erasmo era incinta ed era tornata a Carpi, dove era nata. Lui la domenica successiva sarebbe andato a giocare a Rimini e così sarebbero scesi a Taranto insieme. Era la sera di Carnevale e siccome era solo non era andato a cena con i compagni di squadra, ma loro lo avevano invitato a raggiungerli per stare un po' insieme. La sua Alfetta aveva poca benzina e così aveva preso l'auto di sua moglie, la Dyane. È andato al locale insieme ai compagni e poco dopo la mezzanotte aveva deciso di tornare a casa. Uscendo dalla strada secondaria che immetteva sulla San Giorgio Jonico-Taranto, non avendo visto fari delle macchine si è immesso sulla strada, ma questo delinquente, a fari spenti, gli è piombato addosso. «Era innamorato di Taranto e dei tarantini, e questo era un sentimento reciproco» dicono Giacomo e Giuseppe sul rapporto tra Erasmo Iacovone e la città dei due mari, che ci parlano ancora della sua infanzia a Capracotta. «A parte le piccole scaramucce tra ragazzi, quando si giocava in mezzo alla strada, in un giorno giocarono 10 partite fra i rioni del paese». Una stima smisurata non solo da parte dei tarantini, ma anche da parte dei suoi compaesani, che gli hanno intitolato il campo sportivo e, nel 2018, a quarant'anni dalla sua scomparsa, lo hanno commemorato con una targa posta sulla facciata della sua casa natale. Anche gli abitanti di Capracotta, suoi amici e coevi, conservano interessanti aneddoti sulla sua vita in paese e non solo. Fra questi c'è il signor Filippo che ricorda Erasmo così: Ha cominciato a giocare a pallone a 6-7 anni. Lui è sempre stato un campioncino prima e un grande campione dopo, ma è stato sempre un campione perché anche da piccolo era superiore a tutti. Quando giocava qui a Capracotta si notava che aveva già la stoffa del campione. Col Capracotta faceva tanti gol... e sempre di testa! Anche di piede, ma di testa ne faceva davvero tanti. Quando divenne famoso, tutta Capracotta seguiva il Taranto perché c'era Erasmo. Quando l'estate veniva a Capracotta, perché c'erano anche i genitori che si spostavano da Tivoli per venire qui, era una festa per tutti. Il signor Filippo ricorda anche un divertente aneddoto avvenuto durante il periodo nel quale Erasmo Iacovone giocava nel Carpi: C'era un mio amico che era il presidente della squadra del Capracotta e una volta andò a trovare Erasmo a Carpi. E lui per fare una battuta disse ai dirigenti del Carpi che il presidente del Capracotta lo voleva comprare e loro, che non avevano capito lo scherzo, cercavano di opporsi preoccupati. Con 187 presenze e 55 gol, in una carriera di appena 8 anni, Erasmo Iacovone (detto "Iacogol") è stato un esempio di amore per lo sport e anche una guida morale per i giovani del suo tempo. I suoi spettacolari gol di testa sono stati un esempio per i suoi successori e anche Cristiano Militello, giornalista di "Striscia la Notizia", ha rivisto nel gol di Ronaldo alla Sampdoria proprio l'influenza del calciatore molisano. Per il calcio tarantino, grazie a 47 presenze e 16 gol, Erasmo Iacovone, con il suo numero 9 sulla maglia rossoblù, è stato il simbolo di un sogno a quel tempo raggiungibile ma che non si è potuto avverare: la Serie A. Una promessa spezzata dal destino che ancora vive e pulsa nel cuore dei suoi tifosi che, dopo avergli intitolato lo stadio lo hanno commemorato con una via, a eterna memoria di un campione sempre vivo. Giuseppe Gallo Fonte: https://www.anynamenews.com/ , 21 agosto 2020.

  • Le tavole osche di Caprecotte

    Ieri sera sulla piazza di Capracotta aleggiavano gli spiriti di Giangregorio Falconi e Francesco Saverio Cremonese, i compagni burloni autori della più clamorosa truffa dell'archeologia italica: la patacca di Capracotta. Si teneva la presentazione di due piccoli ma importanti saggi di Paola Di Giannantonio e di Vincenzino Di Nardo. Ha esordito il sindaco Candido Paglione che ha tolto subito tutti dall'imbarazzo affermando: – Sono convinto che la vera tavola osca non sta in Inghilterra! Nonostante il conduttore Nicola Mastronardi, che preventivamente ci ha fatto sapere di non essere d'accordo con quello che stava per dire la relatrice, ho ascoltato con religiosa attenzione, come tutto il numeroso pubblico presente, la magistrale lezione di Paola Di Giannantonio, "La Tavola Osca di Capracotta". La studiosa ci ha accompagnato, prendendoci per mano, nel cuore del mondo indo-europeo per farci capire finalmente il senso e il significato del più importante documento linguistico del popolo italico. Una lezione affascinante contaminata dalla lettura dei versi liturgici con quella cadenza abruzzese-molisana che appartiene alle donne anziane della nostra tradizione. Una narrazione piacevole e puntuale interrotta un paio di volte dalle sollecitazioni a chiudere da parte del presentatore. Poi è stata la volta di Vincenzino Di Nardo che ha ricostruito in ogni minimo dettaglio tutta la vicenda della scoperta del bronzo che si trova a Londra e che, giustamente deve chiamarsi Tavola di Capracotta. Perché a Capracotta è stata trovata. Il problema è che i compari Falconi e Cremonese agli inglesi rifilarono una patacca che era stata fusa nel laboratorio degli orafi agnonesi Amicarelli-D'Onofrio e che avevano fatto sotterrare da Pietro Tisone a Fonte del Romito. Il ragionamento del dottor Vincenzino Di Nardo sembrava avere un impianto rigoroso, ma ancora una volta interveniva il conduttore Mastronardi per contestare le sue affermazioni sostenendo che la storia del bronzo agnonese-capracottese (come pilatescamente viene da lui definito) è ancora tutta da studiare. Insomma, in conclusione, il presentatore della serata ci ha spiegato che l'interpretazione della Tavola Osca da parte della professoressa Di Giannantonio è suggestiva e che la ricostruzione dei fatti da parte di Di Nardo è tutta da dimostrare. Una cosa è certa. A un certo punto il coordinatore della serata ha guardato l'orologio e, considerando che si era fatto tardi, ha consigliato di rinviare a un'altra occasione il dibattito sull'argomento. Prima di andare via sono andato a salutare il sindaco Candido Paglione complimentandomi per la serata con tanta bella gente: – Candido, pensa se la tavola fosse stata trovata mentre tu eri sindaco di Capracotta e ti fossi comportato come Falconi e Cremonese che, per vil denaro, se la sono venduta agli Inglesi... I capracottesi ti avrebbero cacciato a calci nel sedere! Franco Valente

  • Il Moderno: una "crosta" per eredità?

    Pongo mano ad alcune riflessioni, un po' prendendo a incominciamento il libello "Sono io che non capisco" del 2013 di Maurizio Pallante e un po' bighellonando nella campagna delle mie letture. Alla pagina 41, dunque, con il titolo "Conservazione e progresso" trovo dispiegarsi con chiarezza estrema l'architettura genealogica della contrapposizione tra i due archi-modi di visione politica, ma prima ancora culturale, che sogliono vedersi il più delle volte a viaggiare su binari divergenti se non opposti, con direzione contraria allorquando li si consideri come nomi, non come aspetti aggettivali. Quella di Pallante è l'ennesima accusa, dopo le tante che non sono emerse all’attenzione editoriale e quelle altre invece che sono emerse con notevole peso storico: di P. P. Pasolini per es., di Raffaele La Capria, e ancora prima di Leon Tolstoj, anche ripreso negli scritti di La Capria... e di altri che non sto a citare. Se Raffaele La Capria, nel suo libro "La mosca nella bottiglia" uscito nel 1996, declina l'una via e l'altra in semantemi (cioè: nuclei semantici, segnali linguistici significanti) diversi da quelli di Pallante, e ciò non toglie nulla alla loro pregnanza nel significato, e comunque così si raggiunge di sicuro il lettore comune. I due semantemi di La Capria sono: "il buon senso/il concettualismo moderno". La Capria denuncia quello che non si può dichiarare a voce alta: l'arte non è più un bene comune ma, vittima di una spirale di totale interesse-oblio commercial-finanziario, deve ora diventare, è diventata nel contemporaneo, il luogo dell'incomprensione, dell'umiliazione dell'intelligenza e della impostura del gusto. L'arte non ha più come suo referente pubblico la gente comune, ma un ristretto gruppo di "competenti" che, per dirla appunto col senso comune e nella forma più immediata: "se la suona e se la canta" per i propri interessi speculativi. Essi però fanno capo, così pare, a un'atroce costrittiva "macchina politico-finanziaria" che ha come fine la distruzione delle regole naturali comuni a tutti i viventi, - piante comprese, aggiungo qui -: la consapevolezza dei materiali, la precisione tecnica intrinseca e la bellezza. E così addita anche il prof. Pallante nel suo libello. Questa sorta di tabula rasa arriva ormai a toccare la vita umana, ritorta e distorta in esperimenti estremi, con l'assurda pretesa di liberarci dai limiti naturali. Ma pensiamoci un po': davvero quelli naturali sono dei limiti e non piuttosto delle opportunità diverse per un lento e naturale "andare oltre"? Non sarà che siamo caduti, vittime affatate, in un circo delirante di manager dell'industria culturale globalizzata? La Capria ci rimanda a Tolstoj e alla sua feroce presa di posizione contro la modernità, in "Che cos'è l'arte?". Il rimando è prezioso per correlare a questo discorso un movimento di pensiero contemporaneo non del tutto distante. In Russia, nei circoli filosofico-politici della Mosca odierna, a partire dalla Caduta del Muro e ben da presso la cerchia dello stesso Putin, pare si sia attivato un ripensamento che vorrebbe liberare dalle incrostazioni della modernità la politica, ma sopra tutto la cultura tutta, attraverso una riscoperta della Tradizione, sulla quale ha molto da dire un nostro filosofo molto vituperato, e molto male accolto in patria e invitato così a far da profeta in altri paesi: Julius Evola. Insieme con le opere di Guénon, il suo "Cavalcare la tigre" è stato tradotto di recente in russo. Il traduttore è il prof. Alexander Dugin politologo e filosofo molto attento alle correnti di pensiero minoritarie ma forti del Novecento europeo, Evola, Guénon. Sto citando Evola è vero, ma se di Dugin si porta attenzione alla Visione del mondo nella sua articolazione storico-politica invece nella Tradizione evoliana si evince non altro che una parte essenziale della mia cultura: quella del fuoco e della narrazione, e delle mani e del canto, e del cuore e del sole, insomma di quella natura spirituale una volta trattata religiosamente, quanto timorosamente; quella natura concreta e tattile accettata con la venerazione che si addice agli dèi imprevedibili, bizzarri e potenti. Riporto qui alcuni brani indicativi da una intervista al prof. Dugin, sul suo tentativo estremo di cercare una Quarta Teoria Politica fuori dei totalitarismi del liberalismo, fascismo e comunismo: L'essenza della verità è di tipo sacro. Oggi domina il nulla, ma non è possibile che il nulla esista. Il nulla è solo una forma esteriore, al cui interno arde il sacro. È proprio quando è saltata la trasmissione regolare delle forme del sacro che appare quello che io chiamo Soggetto radicale, vale a dire l'uomo della Tradizione gettato in un mondo senza Tradizione. [….] Paradossalmente il tradizionalismo oggi è più importante della stessa Tradizione. […] Noi non vogliamo restaurare alcunché, ma far ritorno all'Eterno, che è sempre fresco, sempre "nuovo"; questo ritorno è dunque un procedere in avanti, non a ritroso. Chiaramente qui nel citare Julius Evola si guarda a una sua agguerrita prospettiva di difesa della Tradizione contro i livellamenti dell'ordine di felicità materiale promesso dalla modernità. Si guarda agli elementi specifici dello spirito, del concetto di persona nell'accezione antiindividualistica e filologica, della bellezza come grande stile nel senso nietzschiano. Si è comunque persa nel contemporaneo l'educazione sociale al sentire bene, al pensare giusto e al produrre bello. Il sentire bene che è oramai non solo ferito, ma del tutto estromesso dal diritto a esserci e a parlare, assoggettato come un cane al guinzaglio all'asse veloce e cieco della tecnologia. Ma ci si chiede come perseguire un sentire di nuovo semplice, chiaro, lento, formato, dove la cosa e il nome cercano per quanto possono nelle arti come nelle comunicazioni interpersonali, una via di intesa e di unificazione; pur riconoscendo che l'intesa fra nome e cosa è una strada molto accidentata che non potrà mai incontrarsi in una coincidenza esatta, ma soltanto e sempre mediata in una sorta di patto. E questa mediazione la nostra Tradizione l'ha chiamata con i nomi: regole, tecnica, artigianato, lunga formazione, magistero dei "padri", impegno fisico protratto, lo splendore di una forma di immediata ricezione. Ci sono stati altri modi per definire questi tratti che delimitano la vera arte dalla falsa arte, e anche permettono di riconoscere senza dubbi un artista da un furfante, come permettono di sceverare un uomo da un fantoccio. Di fatto al centro di tutto c'è, come è leggibile fra le righe nel libello a cui mi riferisco, l'assoggettamento a un'antica dea, ancora vigente nel sottosuolo della nostra coscienza, la Necessità. La Tyche dei greci arcaici: l'ineludibile caso, o Anánke, la Necessità. Il cammino della Necessità vuole che si proceda per tempi opportuni verso una chiusura parziale di questa epoca del Moderno per riscoprire che l'uomo ha già tutto in sé e per sé sia del bello che del giusto che ha cercato altrove... Occorre cercare in sé, non fuori. Occorre richiamare le potenze del corpo e del pensiero, il campo naturale dove si posiziona la nostra identità, e fare sacrificio, offrire in un'azione inviolabile la loro potenza strettamente unita, alla terra. La terra: quella cosa viva che sola, a richiesta e con le opportune cure, può donare in cambio vita, salute, gioia. Il sacrificio alla terra non è mai senza ritorno né senza senso: è il rito quotidiano del volgersi al centro della fabbrica dell'ossigeno e dunque del respiro, alla potenza davvero globale del buon cibo e dunque del giusto sostegno materiale, al cuore della salute mentale e perciò dell'armonia e della gioia. Vuole dire "scambiare" la propria potenza con la sua potenza, produttiva di salute per il corpo di sé e dei propri cari. L'unica dittatura buona, devo qui testimoniare, è la terra nel patto armonico con l'uomo. A noi sta davanti il compito urgente di articolare questo patto nel modo più equo, flessibile e duraturo, in un contesto di solidale serenità. E proprio invocando Anánke, il discorso che sto facendo mio malgrado mi convoglia al cuore della testimonianza di un altro pensatore che, invece, nella sua imperdonabile ma ineludibile presenza fra noi, scandalizza davvero anche il padre eterno nel suo rappresentante cattolico, per osare ricostruire l'efferata dimenticanza dei filosofi antichi: che il nulla non è e ciò che è è compatto e indissolubile. Da questa dimenticanza - che è tracciata da Parmenide fino a noi - ci si è portati sulla via dell'Errore per cui le civiltà occidentali hanno al fondo un tema problematico che le accomuna tutte in ogni campo: la venerazione del cambiamento, e del nuovo come creazione dal nulla, trasformazione dal nulla in essenti e dagli essenti in nulla. Sapete tutti a chi mi riferisco e dunque taccio per evitare citazioni ridondanti. Siamo giunti allora alla cima dell'Errore, una montagna di pensiero totalmente inutile, ma ginnastica necessaria comunque al nostro essere umani sulla terra isolata dal Tutto. Su questa cima appare che l'arte, come la vita intera ormai dell'uomo nella globalizzazione, diverranno oggetti di una totalitaria speculazione macchinica, tecnologica. Le macchine artificiali sostituiranno ogni fare umano e non umano, nell'ipotesi programmatica di spostare i confini del terrestre oltre se stesso e conquistare la grandiosa eternità degli dei, nella delirante ricerca del nuovo e del cambiamento a ogni costo, qualsiasi danno esso produca alle generazioni a venire e alle risorse limitate del pianeta. Ma esse, le generazioni a venire per forza di cose avranno della realtà una visione diversa da questa, proposta e perseguita negli ultimi tre secoli, perché si è ormai dimostrato che anche un battito di ciglio qua può scatenare un uragano più in là nel corso del tempo e dello spazio. Il battito di ciglio che è utile politicamente oggi sarà allora ogni minimo impegno dei singoli e delle comunità guardando a quell'uragano futuro. In relazione alla cerca della verità, della bellezza e della giustizia si può legittimamente dire che ciò che sta e dunque resta, permane, l'eterno cercato fuori della Terra isolata dal Tutto, è un sogno tanto radicale quanto inutile, così attesta il filosofo di Brescia. Poiché questo sogno siamo noi stessi, da sempre salvi e da sempre avviati sulla traccia di un destino di Verità; noi che non ci avvediamo, non ci siamo avveduti in tutta la nostra storia occidentale, di essere dei re convinti di vivere da mendicanti. L'eternità è consustanziale all'essere qui-ora di ogni cosa: del sasso come del fiore come dell'uomo e della donna, come degli oggetti della tecnica, come le teorie e le contro-teorie, come i sentimenti e ogni diversa sottigliezza terrena. Ogni "cosa" ha un posto nella manifestazione progressiva del Tutto nel tempo storico. Il “sacro”, cioè l'Inviolabile, è ogni aspetto e dettaglio e sfumatura del mondo nel tempo. È tutto ciò che si palesa come essente, anche l'uomo. Certamente non è un discorso nuovo. Le radici sono nei Greci, e in qualche avveduto folle pensatore, come Leopardi per es., o Nietzsche, o Gentile, ma è ora giunto nella testimonianza severiniana a un rigore filosofico compatto e totalmente coerente del quale, per quanto sia stato finora indagato, non si è riusciti a infirmarne un solo rigo da parte degli allievi, pure eminenti studiosi contemporanei tutti usciti dalla scuola di Venezia. Il filosofo perciò ci mette in guardia, con il suo discorso fondato e rigorosissimo: il cambiamento dal nulla all'essere, e viceversa, non esiste perché non lo esperiamo mai, neanche nella morte. Ciò che mano mano appare sono dei cerchi, delle visioni progressivamente diverse del Tutto. La sottolineatura sull'importanza dell'esperienza riporta il pensiero coi piedi a terra e ci fa riflettere sulla cogenza che esso assume nel vaniloquio mediatico contemporaneo. Ci sono i cerchi dell'apparire che, come onde dello stesso mare si frangono intorno ai nostri piedi senza che noi ne possiamo cogliere Tutta l'unità, seppure possiamo testimoniarne l'immensità e la necessità di coesione. Ogni onda è diversa ma appartiene per intero allo stesso mare. È quello stesso, Tutto intero, in "successione" di stati. Ma una successione, spiega il filosofo bresciano, è tutt'altro che una “trasformazione". Questo discorso in cui mi sono immersa con l'arroganza di potervene comunicare almeno la portata sconvolgente, se non i tratti filosofici per i quali ben altre capacità occorrerebbero, viene a supportare e corroborare la necessità di dare man forte ai critici della modernità. Se alcune grida rimbalzano fra i secoli e si mantengono vive nella sensibilità anche nostra, suscitando ancora pensiero e ulteriori sviluppi, esse dimostrano di avere un necessario e potente legame con il Tutto e per questa ragione assurgeranno a portatori di senso in una diversa visione di realtà e di umanità. Se non fossi certa di questo neanche potrei tentare di scrivere una sola sillaba delle tante che ho già vergato qui, in questo intervento. Tengo a precisare: un intervento che mi vede per la prima volta della mia vita personale impegnata collettivamente in un progetto che condivido. E d'altro canto, chi ha partecipato alla riunione nazionale SEQUS del 23 febbraio scorso avrà potuto sentire fisicamente, cioè completamente con tutti i sensi del corpo, quanto questa attesa sia immediatamente percepibile, e quasi scoppi in una intensità che oso dire smagliante, splendente. Mi riferisco ai bellissimi interventi; della prof.ssa Mieli, per esempio, sulla esperienza del prima e del dopo nella vita del bambino, della infinita catena umana femminile-infante, che fa corpo e archi-testo di ogni socialità politica in quanto contempla il primigenio rapporto democratico dell'io-tu. Ricordo anche il bellissimo intervento del rappresentante della Coop. Bellosguardo del Cilento, un professore di lettere che ci parla della terra come un contadino parlerebbe, cuore in mano. E la presentazione fatta da Marcello Spinello della Comunità Etica Vivente di Città della Pieve, soffermatosi sull'urgenza di riproporre un'alleanza fra pensiero ed esperienza. E per chiudere, senza dilungarmi con altri riferimenti altrettanto significativi quanto questi, la proposta di "Vivere con cura", una associazione di Capracotta nel Molise, che propone l'autoeducazione come centro del vivere eco-conviviale. Tutte realtà che sono state sviluppate nello spirito della solidarietà, dell'equità, della sostenibilità, nella riproposizione dell'economia del dono e dello scambio. Non sto a elencarli tutti gli interventi anche per non incorrere in troppi errori e sviste sui nomi dei partecipanti, delle associazioni e dei movimenti, avendo frettolosamente appuntato a mano, ma mi auguro che vengano raccolte le documentazioni registrate in un archivio comune, per poterle riportare alla memoria quando occorresse in futuro una riflessione di confronto con se stessi e con le intenzioni originarie. Ho di recente scoperto nell'avventura ecologista che, a macchie di leopardo, ci sta di nuovo reintegrando in modo armonico con la Terra Madre, la sperimentazione agraria ai confini di Milano, DESR parco Sud, che nel 2012 ha dato fondamento a una "filiera degli undici grani antichi" e alla riscoperta di antiche arti come quella della pasta madre, o della molatura o della macinatura a pietra. Una rivoluzione delle procedure che tornano a stare nell'ottica della cura del suolo e dei materiali, e una rivoluzione dei prodotti, di nuovo vivi, ricchi di nutrienti, sani. Come questa altre simili esperienze di restauro ecologico stanno punteggiando la penisola di sacche di resistenza alla prosecuzione cieca dell'industrializzazione agricola di marca liberal-globalista. Insisto a presentare queste emergenze pratiche dentro il discorso, seppure riassunte nei loro elementi essenziali, perché sento come una stringente necessità logica che il discorso del pensiero concettuale sia connesso, collegato strettamente a quello del pensiero pratico, liddove sia quest'ultimo, insieme al pensiero progettante, a fare da traino, e non viceversa imponendo regole astratte a ogni suolo e a ogni uomo, come è accaduto in Occidente. Mi piace venire a sapere che gli agronomi prendano dai contadini le preziose notizie sulle soluzioni a certi problemi che solo localmente e nella pratica del suolo sono risolti dall'intelligenza applicata delle mani e volta a volta che si presentano. Visto dal punto di vista di una persona radicata nel mondo contadino e poi vissuta dalla parte dei consumatori ignari e superficiali delle città, questo atteggiamento sembra idoneo a porre le radici di una inedita dignità per il lavoro gravoso della terra. Non già l'eroismo, che spesso sfora nella demagogia, ma almeno una alta dignità, un riconoscimento di diritti inalienabili di creatività e di intelligenza, che la letteratura prodotti per lo più delle classi sociali abbienti, hanno sempre ciecamente ignorato se non combattuto. Occorre fare i conti: così si prospetta da più parti. Mi limito a due riferimenti: i debiti in sospeso che attendono di essere onorati, proposta di Armando Gnisci e poi una vera e propria rielaborazione nella coscienza e nella storia dello sterminio progettato e perpetrato contro i contadini a favore dell'ascesa di una figura di "comodo" per le ideologie del Novecento: l'operaio. (Quante carriere si sono costruite da questo trampolino!?) “Non mi riferisco soltanto allo sterminio dei contadini nell'Unione Sovietica, un vero e proprio genocidio - mi piace ricordarlo proprio oggi nel giorno della memoria - che ha fatto un numero di vittime doppio o forse triplo rispetto allo sterminio degli ebrei. Mi riferisco anche alla violenza - perché di una forma di violenza indubbiamente si è trattato, anche se più subdola - che è stata necessaria per deportare le popolazioni agricole dal meridione verso le fabbriche del Nord. Era necessario farlo - ci è stato detto - perché una nuova figura epocale si era affacciata alle soglie della storia e avrebbe ormai segnato il corso dei secoli a venire: l'operaio. Nel 1938 appare il libro di Ernst Jünger che porta appunto questo titolo: "Der Arbeiter", l'operaio - un libro che doveva esercitare un influsso considerevole tanto alla destra che alla sinistra dello schieramento politico europeo. Al centro del libro sta la descrizione e la teorizzazione di questa nuova figura epocale, che doveva sostituire i contadini (che a dire il vero sono appena nominati da Jünger), l'aristocrazia e la borghesia nel dominio del mondo. Tutta la modernità si colloca secondo Jünger sotto il suo segno: la tecnica - sono le sue parole - «non è che il modo in cui la figura dell'operaio mobilita il mondo». Ebbene: tutto ciò era falso, semplicemente falso. Questa decisiva figura epocale, che è stata esaltata, descritta, rappresentata e celebrata innumerevoli volte con amore e anche respinta con odio e disprezzo è scomparsa con la stessa velocità con cui era comparsa. Ci sono certamente ancora degli operai, ma l'operaio come figura epocale appartiene oggi al passato come il contadino di cui doveva prendere il posto. Non è facile dire quale sia la figura storica che ci sta davanti - se il tecnocrate, lo scienziato o qualche altro più oscuro personaggio digitale di cui riusciamo appena a intravedere il volto - ma certamente non sarà l'operaio. Jakobson ha parlato, a proposito del destino tragico dei poeti russi del primo Novecento, di «una generazione che ha dissipato i suoi poeti»: noi siamo certamente una generazione che ha dissipato in pochi decenni un antichissimo patrimonio e non sa bene con che cosa sostituirlo. I letterati possono fare molto su questo versante della ricostruzione della dignità delle mani, soprattutto i letterati coinvolti personalmente con la terra, prendendo un impegno a fare spazio alla parola dei contadini in prima persona, andando loro incontro per imparare finalmente da loro la dignità segreta della terra e delle piante; il profondo sollievo fisico e spirituale del sudore; la salubrità e la gioia del prodotto lavorato con l'amore e il timore, che sono da sempre i due sentimenti cardinali dell'azione contadina. Per imparare dagli ultimi contadini di antica tradizione che della terra tutto è nobile e che essa dona preziose ricchezze all'uomo. "La terra è oro"/"La terra è una maledizione" era il bipolo intrinsecamente dialettico che ricorreva fra le massime nelle famiglie contadine. Il primo dei due corni era esclamazione significante la benedizione del raccolto e della sicurezza alimentare. L'oro del sole, l'oro del grano, l'oro del cibo sano e l'oro di una salute solida: tutti collegati dall'evento unico della fotosintesi clorofilliana. L'altro corno era esclamazione volta a sottolineare uno dei modi in cui la terra si rivelava al suo curatore agricolo: nel modo del "giuramento", anzi è nominato solo l'ultimo dei tre momenti di un giuramento del quale si tace i primi due, per i quali si entrerebbe nelle scelte religiose personali. La struttura di questo modo della comunicazione è così riassunta da G. Agamben in "Il sacramento del linguaggio...: La struttura del giuramento presenta dunque tre elementi: «un'affermazione, l'invocazione degli déi a testimoni, e una maledizione rivolta allo spergiuro». […] ciò che è in questione nel giuramento è lo stesso potere significante del linguaggio, il legame che unisce le parole con le cose, «cioè il logos come tale». L'essere una maledizione è dunque il destino che la Terra riserva allo spergiuro, a uno cioè che è venuto meno al patto: alla fiducia e alla cura per lei, non dunque in assoluto a ogni uomo che si cura della terra. E poiché in ogni patto o giuramento ciò che ne va è il legame fra le parole e le cose ecco che allora la maledizione che la terra diventa non fa altro che palesare il blocco, il cessare di quella relazione fra l'uomo e il suo oro: il raccolto, i frutti, lì dove la terra si configura come la sua punizione. È noto difatti fra i contadini di tradizione, che la cura quotidiana del campo - una leale e inflessibile frequentazione, è il lavoro indispensabile per mantenere un rapporto intelligibile coi fenomeni della terra e con le loro conseguenze: l'osservazione continuativa dei dettagli, del suolo, dei colori delle foglie come dei tronchi e delle zolle... Essi parlano una loro lingua muta, fatta di stimoli tattili, visivi, odoriferi, e a volte anche sonori che il contadino impara a conoscere, a decifrare nella frequentazione attenta e a controllare con lo scambio continuo di tempo contemplativo con la terra. Prima della "maledizione" in cui si muta la terra tutta per la mancata attenzione della cura, era stato invocato il Cielo degli dei/dee. Il nome del dio nomina e garantisce la giusta relazione fra le parole e le cose, mentre la maledizione indica lo spezzarsi di questa relazione, e quindi la debolezza costitutiva del logos. Se il giuramento dalla parte dell'uomo indica le parole e il logos, e l'invocazione del dio le certifica, la terra invece contrae il patto parteggiando per le cose, i frutti. È per questo che se essa è una maledizione significa che essa ha scardinato il patto convenuto a causa di una slealtà. Dunque solo per uno spergiuro la terra è davvero una maledizione. E i cittadini tutti sono spergiuri, come anche gli intellettuali, poiché la stragrande maggioranza degli abitanti della città e dei libri non si cura della terra nonostante ne ricerchi e ne consumi i frutti. (E se pensassimo a istituire un sacerdozio della terra?) Il dio invocato nel giuramento è l'evento di linguaggio stesso, in cui parole e cose indissolubilmente si legano: «Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s'impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza». Quello con la terra è perciò un altro nodo democratico originario dell'io col tu, alla pari con quello madre-figlio, in una relazione equa - il giuramento, il patto di cura - dove lo spirito divino viene invocato per rendere certa la potenza. Di qui anche la necessità del sacro e della festa, della presenza di un terzo-Altro che si ponga a celebrante della relazione di cura. Non si parla mai delle feste per es. nella permacultura dei primi fondatori, quasi fosse questa modalità di agricoltura soltanto un ammasso ben architettato ed efficiente di espedienti tecnici, ma invece le feste agricole sono state nella cultura contadina il momento di celebrazione del patto. Che fosse per la semina o per il raccolto o per la purificazione, tutte quante erano il momento di introduzione veritativa di quel terzo-Altro nel patto di cura fra l'uomo e la terra, fra contadino e frutti, fra linguaggio e doni-cose. Per questo non solo occorrerà, suppongo, il recupero dalla cultura antica della terra di molte delle procedure "buone" per il "buon cibo" e la buona amministrazione dell'ambiente, ma anche quelle necessarie celebrazioni che facevano del contadino il vero sacerdote del campo. E direi anche che, nella festa, sia lecito che il contadino porti i segni della celebrazione, e porti le parole per riassumere l'anno e i suoi frutti, e che sia il contadino il nuovo soggetto di una dignità mai riconosciuta, in primo luogo dalla letteratura e di conseguenza dalla società dei cittadini. Non si faccia di nuovo l'errore di porsi come illuminati in giacca e mani inattive alla guida di quelli bisognosi di aiuto perché chini con le mani nella terra. Sono i cittadini globalisti bisognosi di aiuto non le provincie e le frange liminari di contadini. Sono le "mani sporche" dell'agri-cultore e i suoi patti di cura a pretendere il riconoscimento dell'onore e la posizione sociale di primi, e non più ormai le "mani pulite" dell'intellettuale. Non più da molto tempo ormai. Al fine di questo tentativo (non so quanto riuscito), di ricucire fra orizzonti personali e orizzonti politici, vorrei portare a beneficio del discorso le parole di un poeta contemporaneo romano: «il rispetto e la cura, la visione, contemplazione e amore degli esseri è la nostra unica vera felicità. Il nostro ubi consistam... Se noi siamo buoni (e con essere buoni intendo che vediamo la bellezza di tutti gli esseri, la loro sacralità e intangibilità e li amiamo) ecco che non moriamo, perché ci siamo già distaccati da noi stessi, prima che si disgreghino i nostri elementi, e ci siamo uniti a tutti gli esseri, siamo uniti alla forma del tutto, alla forma che contiene tutte le forme, che non muore mai». Daniela Negri Fonte: http://www.artedecrescita.it/ , 16 novembre 2019.

  • I fuochi della Madonna del Carmelo del 1902

    La sera del 16 luglio ricorrendo la solita festa della Madonna del Carmelo, assistemmo con generale letizia allo sparo d'un fuoco pirotecnico, fatto a spese di operai capracottesi residenti a Pueblo nel Colorado (Stati Uniti), i quali vollero così manifestare i senso d'affetto che li legano alla patria lontana ed alla religione delle proprie famiglie. Riportiamo l'elenco dei sottoscrittori: Vittorio Losito £ 15; Vincenzo Antenucci £ 15; Domenicantonio Di Nucci £ 15; Vincenzo Del Castello £ 15; Sebastiano Dell'Armi £ 12,50; Gioacchino Di Nucci £ 12,25; Giovanni Fiadino e consorte £ 12,25; Cesare Bucci £ 10; Diodato Paglione £ 10; Francesco Monaco £ 10; Domenico Monaco £ 10; Felice Di Tella £ 10; Maria Carmina Fiadino e marito £ 10; Santino Appollonio (di Agnone imparentato a Capracotta) £ 5; Giuseppe Fiadino £ 5; Giuseppantonio Mastrostefano £ 5; Totale £ 180. Claudiano Giaccio Fonte: C. Giaccio, Fuori di Agnone , in «Il Cittadino Agnonese», III:6, Agnone, 3 agosto 1902.

  • Giorno di mercato

    Il lunedì a Capracotta c'è il mercato. D'estate è grande, di questi tempi si riduce di parecchio. Tra tutti gli altri venditori ambulanti c'è qualcuno che sfida i rigori dell'inverno e porta sempre la sua mercanzia. Per le donne questo è un giorno di festa. Messa a posto la casa, sfilano via per guardare, eventualmente acquistare, ma, soprattutto per incontrare altre donne, chiacchierare, con capannelli che si fanno e si disfanno. Oggi la giornata è grigia, freschetta, ma sono sicura che un po' di merce c'è, che le signore andranno a curiosare e che non mancheranno all'appuntamento settimanale per nessun motivo. Maria Delli Quadri Fonte: https://www.altosannio.it/ , 1 ottobre 2013.

  • Il rione di San Rocco

    In quegli anni San Rocco era un po' malandato. Giù per la via, a ridosso dei muretti degli orti, c'erano sempre cumuli d'immondizie, che quelli di "sopra alla Chiesa" venivano a scaricare a tarda sera e qualche volta anche di giorno. I ragazzi, ignari, si trastullavano su e giù per la ripida discesa sollevando nuvoli di polvere. Per una buona ripulitura, si doveva aspettare gli acquazzoni estivi e le piogge d'autunno. Gente di San Rocco Ma come era vivo allora San Rocco! All'alba, se eri sveglio, sentivi le voci di quelli sotto a zi' Curdìsche , già in piedi e pronti per recarsi al lavoro noi campi. Se ti affacciavi, vedevi il vecchio zi' Loreto muoversi svelto, davanti a casa, curvo, quasi prono, piegato così - dicevano - dalla dura fatica, forse più verosimilmente dall'artrosi. Non si concedeva riposo. Un po' di tregua solo quando, rimesso a nuovo, andava in pellegrinaggio alla Madonna di Casalbordino. Di primo mattino la via si animava, specie nei giorni d'estate, quando ferveva il lavoro dei campi. Scendevano con gli asini coloro che andavano in campagna o che portavano il grano al mulino vecchio. Si udiva il battere secco degli zoccoli ferrati sui selci sconnessi del primo tratto di strada a scalinata. Prima che il sole si affacciasse radioso da Monte Campo, il cielo si riempiva di rondini. L'aria era piena delle loro strida. Seguivi il loro svolio interminabile, assorbendoti tutto in quel brulichio sotto l'azzurro. Il mulino vecchio: zi' Vincenzino Intanto nelle botteghe dei falegnami strepivano le seghe. Dal mulino vecchio veniva il rombo sordo e cupo delle macine. Zi' Vincenzino Buonanotte era al lavoro. Davanti al mulino c'era già qualche somaro, legato alla catenella al muro. Zi' Vincenzino era spesso il bersaglio degli scherzi infantili. Mentre lui era intento a macinare, i monelli della via Nuova gli buttavano i sassi nel locale e poi correvano a nascondersi nelle stalle. Lui fermava le macchine, se poteva, e, ancora avvolto in una nube di candida farina, correva sulla soglia e tentava anche qualche passo fuori. Ma era impressione generale che facesse così per puro dovere più che per impartire una lezione ai piccoli impertinenti: nella sua imperturbabile calma non c'era posto per le rivalse, specie infantili. Dietro al mulino c'era la cabina elettrica, regno di Buccitto . Naturalmente si tentava anche con lui qualche approccio scherzoso per avere accesso nel suo campo, ma Buccitto da quell'orecchio non ci sentiva: si trattava di sega elettrica e c'era poco da scherzare. Per altre cose, così pieno di spirito come era, lo trovavi sempre disponibile. Ciacià La sera San Rocco si rianimava. Risaliva gente dalla campagna, rotta dalle fatiche. Che sgroppata quella salita! Ecco il buon Ciacià , che arranca con la zappa sulle povere spalle cadenti. I ragazzi si divertivano a rifargli il verso: cià... cià... cià! Lui faceva finta di arrabbiarsi: di fare sul serio non ne aveva la forza, stanco morto com'era, né la voglia, impastato com'era d'innata mansuetudine. Le lavandaie Ritornavano le donne che erano andate a lavare i panni giù, alle fredde sorgenti del Verrino. Sfinite, con i canestri ricolmi di panni asciutti sul capo, salivano ansanti. Ma la loro faticosa giornata non era ancora conchiusa: c'era la cena da preparare, la magra cena. Muccio Ma ecco zi' Giacomo, detto Muccio , famoso per le bisticciate giovanili coi carabinieri, dopo le corpose bevute festive nelle cantine, che finivano, se era vero quel che si diceva, sempre a suon di botte. Viene dalla masseria. Sale stanco, ma è sempre in gamba. Si ferma a parlare con questo e con quello, di raccolto, di semina, di annate, di animali. Sputa anche, grave e calmo, qualche sentenza: crede di averne ben diritto, ricco com'è di esperienza. D'inverno veniva ad ammazzare il maiale, armato di uncino e coltelli. Durante le operazioni, che si svolgevano con ritmo lento e misurato come un rito, Muccio narrava qualche suo trascorso burrascoso, ascoltato con interesse da tutti, anche dai bambini. Se richiesto, raccontava anche, tra la divertita attenzione degli astanti, con una punta di sussiego, come una volta, parlando con l'Arciprete, avesse spiegato a modo suo il significato del segno della Croce. Bonaria saccenteria! L'Arciprete Passava qualche volta don Leopoldo, che si recava all'orto, lì alle prime case. Si fermava a parlare con qualcuno, bonario, affettuoso, con quella sua voce sottile e cordiale. I ragazzi gli correvano incontro per fargli festa, ma, sempre in vena di divertirsi, senza rischi, alle spalle degli altri, non risparmiavano neppure lui. Quando era ben lontano, gli gridavano, chiamandolo con un soprannome venuto fuori chissà da dove: Cipollì... Cipollì! Lui tentennava il capo, desolato. Nei prati di Conti Nelle tiepide giornate di primavera, i ragazzi sciamavano per i prati di Conti. Andavano in cerca di erbe commestibili, i ciammarlotti e, più ambiti, i selvaggi . Chini sull'erba fresca e profumata, facevano a gara a chi ne trovasse di più. Poi andavano alla fonte, sotto a zi' Carminone, per lavarli e mangiarli, se non li avevano già mangiati durante la raccolta. Seduti intorno alla pila dell'acqua, rivestita di borracina, mentre si rimpinzavano, tenevano d'occhio, con un po' di apprensione, le mucche, che si avvicinavano lente per l'abbeverata. A sera tornavano a casa con la bocca e le mani verdi, le tasche gonfie e le toppe ai ginocchi. Qualche volta si spingevano fino ai prati di Cesare, sopra alle Croci, in cerca di altre specialità mangerecce, dal sapore asprigno, ma non era il loro regno, quello. Temporali estivi Durante i temporali estivi si stava coi visi incollati ai vetri delle finestre, in attesa del sereno. I grossi rivoli d'acqua precipitavano, rapidi e torbidi, giù per San Rocco, suscitando sensi di gioioso stupore. Nell'orticello dell'Arciprete, quello sotto casa, all'inizio della via, c'erano due grandi alberi: un noce frondoso che spandeva i suoi rami fin sopra alla via Nuova e un cerro che svettava maestoso fin sopra i tetti delle case. Il vento infuriava e li sferzava violentemente, agitando e scompigliando le loro chiome, ma essi, placatosi il vento, le ricomponevano in fretta frusciando piano, senza mostrare segni di offesa addosso. Quando Giustino li abbatté per ricavarne legna o spazio, San Rocco divenne più triste e più povero. Per i ragazzi, che avevano sui loro rami la loro aerea dimora, fu un duro colpo. Notti d'estate Nelle notti estive di festa da sotto a zi' Loreto e da Fonte Giù salivano le allegre note di canti paesani, accompagnate dal suono dell'organetto. Uscivano grandi e piccoli e si trattenevano fino a tardi, chiacchierando sui sedili di pietra. Le notti erano calde e limpide e, sopra, c'era un cielo stellato puro, che infondeva tanta pace. Sullo sfondo, a sudovest, si stagliava netto, bruno, il profilo familiare di Monte Capraro. Lontano abbaiavano i cani. Inverno D'inverno la neve ammantava tutto di bianco e copriva pietosamente anche le piaghe di San Rocco, i cumuli di rifiuto, appunto. I rumori si attutivano. Ciacià non scendeva. In alto pigolava solo qualche passero. Il cerro spilungone si scrollava la neve di dosso, buttandola anche sui passanti. Dalle grondaie, che in estate avevano ospitato le amiche rondini, pendevano grossi ghiaccioli, duri a sciogliersi, perenne minaccia per i poveri passanti. I comignoli fumavano tutto il giorno. I ragazzi sciavano, per San Rocco fino a Fonte Giù, sotto a zi' Mingo , con i loro sci posticci, legati alle scarpe con cinghie rimediate, che si spezzavano letteralmente ad ogni piè sospinto. Don Checchino, a cui ricorrevano, borbottando dava loro pietosamente qualche cinghia di ricambio. Zi' Vincenzino Buonanotte macinava di meno e finalmente nessuno lo molestava. La tormenta Quando infuriava la tormenta, si restava ovviamente chiusi in casa, disperazione delle donne. Stanchi di giochi e di sgridate, ci si incollava ai vetri e si guardava, con quello stupore attonito proprio dei bambini di fronte allo spettacolo della natura in furie, la neve che turbinava violentemente. Si sentiva il fischio della bufera, che, in un crescendo continuo d'intensità, finiva in un lungo profondo ululato; poi decresceva e si stemperava in una sorta di grosso respiro. La sera, al lume delle lucerne, che fumigavano sul camino - la luce elettrica di solito se ne andava -, ci si riuniva accanto al fuoco nella speranza di sentire o di risentire qualche vecchia fiaba. Si udiva su per la canna fumaria il risucchio del vento, che mugghiava paurosamente: poi una grande riboccata e zaffate di fumo acre t'investivano in pieno. La mattina dalle fessure delle imposte filtrava una luce scialba e stanca. La bufera ruggiva ancora. Folate di vento gelido, ora più ora meno rabbiose, frustavano sibilando i vetri, scuotendoli furiosamente negli infissi e imbiancandoli con uno spolverio di neve granulosa. Levandoti, trovavi sui vetri incredibili intrecci di arabeschi formati dal gelo. Grattavi un po' di ghiaccio e guardavi fuori: in mezzo al turbinio dei fiocchi, nelle pause dei vortici, si scorgevano grossi cumuli di neve, frastagliati in cima come creste; qualche albero che, simile ad un bianco fantasma, agitava i rami, le case con i tetti incappucciati e le finestre con i davanzali esterni ricolmi di neve e i vetri imbiancati, che sembravano tanti occhi attoniti. In mezzo al turbine, la sagoma barcollante di un passante avvoltolato fino alla testa nel pesante e lungo cappotto a ruota, che il vento gonfiava. Poi finalmente la tempesta si placava. Le schiarite si facevano sempre più frequenti e su quell'universo immerso nel bianco tornava a splendere il sole. La gente usciva, dopo essersi aperta una via, spalando la neve accumulata davanti agli usci. Come è ovvio, questi fenomeni sono noti a tutti coloro che passano l'inverno in paese. Forse la loro descrizione così come è stata resa, può significare qualcosa solo se si ripensano i sentimenti che essi generano e che si è cercato di esprimere, così tra le righe. Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria , a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.

  • Il Museo della civiltà contadina e dei vecchi mestieri

    Il museo è una tappa del paese da non perdere che affascina il visitatore attraverso un piccolo viaggio guidato nella memoria e nel ricordo del passato, dove viene riproposta la vita quotidiana, cioè quella densa di sacrifici, da un lato, ma anche di momenti di grande calore e condivisione dei nostri nonni e bisnonni. Pezzi in disuso, strumenti di lavoro e della quotidianità, tutti autentici e talvolta rari, patrimonio di una società ancora fortemente legata alle sue antiche origini, sono esposti, con cura, nelle sale del museo, allestito al pianterreno del Palazzo Baronale, oggi sede del Municipio che nel passato ha ospitato le varie famiglie feudali che si sono succedute nel territorio di Capracotta. Per la realizzazione di questo museo va un grazie speciale non solo all'Amministrazione Comunale che lo ha realizzato, scegliendo dei locali, che riportati alla loro originale struttura, hanno contribuito a rendere ancora più accogliente e suggestiva questa passeggiata nel passato, ma anche al sig. Loreto Di Nucci che ha iniziato un paziente lavoro di ricerca e di raccolta di vecchi oggetti utilizzati nelle attività agricole ed artigianali legate alla vita capracottese, affinché non andassero perduti e, agli abitanti residenti nel paese e non, che hanno contribuito ad arricchirlo donando oggetti che si sono tramandati e che custodiscono gelosamente nelle proprie case, legati al mondo contadino di ieri e per, alcuni aspetti, di oggi. Le caratteristiche dello spazio espositivo e i criteri di allestimento consentono un'agevole visita. Di attrezzi e di oggetti in genere ce ne sono davvero tanti, ognuno testimone di arti manuali tramandate di generazione in generazione che hanno fatto la storia del nostro paese. Inoltre sembra quasi che ogni attrezzo rechi, ancora oggi, le impronte delle mani di chi li ha costruiti, utilizzati, riparati e tramandati. Quindi, da ciò, è facile dedurre che dietro ciascun oggetto c'è una storia, anzi, sono gli oggetti la storia stessa che si dipana come una tessitura fatta di povertà. Ogni oggetto è stato prima catalogato e poi identificato da un cartellino su cui è scritto sia il nome in dialetto capracottese che in italiano (così tutti possono capire di cosa si tratta e a cosa servivano), sia il nome della persona o della famiglia che lo ha donato al museo. Da subito i visitatori hanno capito ed apprezzato l'intento della responsabile del museo cioè quello di offrire a coloro che lo visitano scorci di vita contadina che hanno caratterizzato, da sempre, l'uomo capracottese mantenendo viva la memoria delle tradizioni e della storia capracottese, facendo fare a tutti un bellissimo tuffo nel passato... Il percorso è stato concepito come un immaginario viaggio nel passato attraverso le principali fasi della vita del popolo capracottese ben documentate da oggetti, fotografie ecc. esposti nel museo. Varcata la porta d'ingresso si può da subito ammirare l'antica muratura in pietra arricchita di archi di una precisione millimetrica, ritornata alla luce grazie ad un intervento di restauro, che ha consentito di riproporre, all'attenzione e alla curiosità dei visitatori, un esempio di edilizia abitativa locale, testimonianza di un modo di lavorare che appartengono da sempre alla comunità capracottese. Gli spazi espositivi racchiudono i più svariati oggetti che testimoniano, anzi raccontano, in maniera molto chiara, come si svolgevano le varie attività agricole e artigianali che da sempre hanno fatto parte della vita quotidiana e lavorativa del popolo capracottese e che oggi, sono scomparse del tutto o quasi. Strumenti di lavoro di altri tempi, necessità quotidiane dei pastori, dei contadini, delle donne e degli artigiani (falegnami, calzolai, sarti, fabbri ecc.), sono esposti con cura nelle sale dove è allestita la mostra. All'ingresso, su entrambi i lati, troviamo due manichini che indossano i costumi tradizionali capracottesi e sulle spalle la donna ha appoggiato uno scialle mentre l'uomo il classico tabarro ( cuappòtt'a ròta in dialetto capracottese). Proseguendo troviamo una sala con sedie adatta per convegni, per la presentazione di libri ecc. Qui è possibile ammirare l'antico meccanismo che faceva muovere le lancette dell'orologio posto sull'antica Torre dell'Orologio che, al contrario, è stata demolita nel 1970 ed è stata riprodotta in miniatura per far vedere come era strutturata. Completano la sala alcuni documenti antichi come la lettera di Giuseppe Garibaldi inviata alla Società di Mutuo soccorso di Capracotta ed alcune lettere di un emigrante capracottese e articoli di giornali del 1950, entrambi, risalenti al periodo in cui fu donato lo spazzaneve "Clipper" al paese. Tali oggetti, ben combinati nel percorso, rievocano il lavoro degli uomini dediti al pascolo, alla preparazione del formaggio e della ricotta e alla cura della terra; accanto, ai quali, ci sono altri numerosi attrezzi che ricordano, nella memoria, gli antichi mestieri del tempo e i vari momenti di lavoro che venivano svolti durante l'arco della giornata. Altri spazi sono riservati al calzolaio e al falegname, dove sono visibili arnesi dimenticati dalle moderne tecnologie e che mostrano i ritmi e le consuetudini degli artigiani di un tempo. Un altro spazio ospita l'arte femminile dove vi sono esposti alcuni attrezzi della tessitura. Sono visibili, in un altro spazio del Museo, varietà di ceste di vimini di varie grandezze, setacci ecc., utili ed indispensabili alla pulizia del grano e alla lavorazione della farina. Infine, un angolo è stato dedicato alla neve, da sempre, amica e nemica dei capracottesi. In sintesi, all.interno del museo, sono presenti oggetti appartenuti alla vita pastorale, contadina e artigiana del popolo capracottese, che hanno subito mutamenti nel loro percorso di trasformazione avvenuti nei secoli successivi. Essi, inoltre, ne hanno segnato il passaggio da testimonianze reali e materiali, in generale e nello specifico, di forme di lavoro e di vita domestica non più attuali, a reperti da raccogliere, conservare, catalogare ed esporre in spazi museali (come nel nostro caso), nei quali, i visitatori possono ritrovare i segni della propria identità e riconoscerne, sotto tutti i punti di vista, le proprie origini. La vita quotidiana di un museo è data dall'insieme di molte attività, spesso disparate nei modi in cui si realizzano e che sembrano svolgersi in direzioni diverse: la conservazione, la tutela, la risistemazione di alcuni oggetti, l'esposizione nelle varie sale, la cura, la catalogazione e la ricerca del materiale. In realtà il lavoro che si svolge dietro le quinte di un museo della civiltà contadina, si sforza sempre di raggiungere un unico obiettivo: conoscere e affermare la nostra identità culturale e rendere partecipe la gente che la storia di chi ci ha preceduti è la nostra storia. Per questo il museo vuole dialogare con i visitatori raccontando la sua "vita quotidiana" come se stessimo sfogliando un album di famiglia. Emilia Mendozzi Fonte: https://www.capracottatracking.com/ .

  • Il motore a vento

    L'impianto eolico forniva energia alla segheria della famiglia di Donato Antonio Sammarone. L'impianto, tecnologicamente molto avanzato, è tra i più antichi e longevi dell'Italia centro meridionale, tanto da essere pubblicato su riviste specializzate. Il motore a vento era costituito da un castello interamente re­alizzato con tralicci di legno ancorati al terreno, da una ruota, formata da otto raggi che sorreggono altrettante pale realizza­te in lamiera zincata, da un rotore in acciaio e da un braccio, anch'esso in lamiera, preposto ad individuare la direzione del vento. Il castello era collegato, tramite due passerelle, ad un fabbricato ubicato nell'attuale via Maiella, dove erano instal­late la sega alternativa ed una moderna sega circolare della ditta Kirchner di Lipsia. La potenza generata dal vento, sempre così abbondante a Capracotta, veniva trasferita dal rotore alle due seghe con un sistema complesso di rinvii, formato da alberi ed ingranaggi di acciaio, ruote in legno e cinghie di cuoio. Intorno alla struttura sopra descritta, si nota l'inizio della costruzione di un edificio che diventerà la futura seghe­ria, attualmente ancora esistente. Il castello in legno della foto per due volte fu abbattuto dalla furia del vento, tanto che l'impian­to rimase inutilizzato dal 1916 al 1937, anno in cui, per la terza volta, fu ricostruito, interamente in acciaio, da Savino Sammarone e da mio padre, Vincenzo Sammaro­ne, unico, a suo dire, in grado di farlo funzionare, in quanto a conoscenza del funzionamento dei motori a vento. La nuova segheria, realizzata nell'edificio posto al di sotto del castello in acciaio, oltre alle due seghe già esistenti, fu completata an­che da un tornio, un trapano e da una mola. Dopo il fermo di quattro anni (1940-43) dovuto al richiamo di Vincenzo Sammarone per gli eventi bellici della Seconda guerra mondiale, ha funzionato fino al 1955-56, anno in cui la sega circolare fu trasferita nell'attuale sede ed allacciata all'energia elettrica. La nascita di questa segheria costituisce un primo tentativo di produzio­ne industriale di tavole diritte e ricurve, queste ultime dette corve, indispensabili per realizzare i basti degli animali da soma da parte dei bastieri o bastai, numerosissimi in quel pe­riodo a Capracotta per la fiorente industria boschiva. Giuseppe Sammarone

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