LETTERATURA CAPRACOTTESE
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
VIRGILIO JUAN
CASTIGLIONE
Le arie popolari musicate da artisti capracottesi
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
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- Amore e gelosia (XXXVIII)
XXXVIII I due uomini erano rimasti lì nella sagrestia come due allocchi: letteralmente colti di sorpresa dalla reazione forte di Elisa, il prete se ne stava seduto alla sua scrivania con gli occhi che ancora tentavano di inseguire la figura bella e forte della donna fiera che si era ribellata come una tigre; don Salvatore invece teneva ancora un braccio steso e proteso in avanti, quasi a voler fermare Elisa che nel frattempo era già sparita dalla vista. Poi... dopo quasi un minuto di silenzio... – Don Salvato'... ma voi avete visto? – Don Alessa'... visto e sentito, purtroppo! Al prete non è che venissero troppo le parole in bocca: era davvero sbigottito! – Ma cheste so' cose 'e pazze! Una donna che reagisce così... così ..... Ma in che mondo viviamo? Dove andremo a finire? Che scostumata, davanti al suo prete e al suo fidanzato! Invece di ascoltare, assentire con umiltà e essere grata che le stavamo offrendo, no tendendo una mano, questa la mano l'ha morsicata, un altro poco se la mangiava! – Aaah... – fece don Salvatore – bellissimo, davvero grande! Superba... E che occhi! Scagliavano lampi! Che donna, che donna! Il prete sbigottì ancora di più: – Don Salvatore... Ma state bene? Che state dicenne? Ma l'avete vista bene? Quella n'atu poche ve sbranave e vuie... Il poeta scoppiò in una sonora risata: – Aaah, don Alessandro... non preoccupatevi! Cose mie, cose di poeta! Tutto a posto, missione compiuta! Siete stato un vero amico, è andata meglio di come pensavo! Mi avete aperto la porta giusta per riconquistare Elisa e oltretutto me l'avete fatta amare ancora di più! È proprio 'a femmena che fa per me! E che ne dovevo fare di una pecorella docile e sottomessa, sai che noia!... Grande, grande! E come mi ama! Il prete lo ascoltava con la bocca aperta incredulo: "Poveretto, questo si è nu poche rimbambite! La mazzata è stata forte, na femmena che risponne accussì non se l'aspettava e mò nun sape chelle che dice... Povero uomo!", così pensava don Alessandro, guardando l'altro uomo ormai di una certa età che invece ora aveva preso ad andare avanti e indietro per la sagrestia con energia e sorrideva da solo e parlava, parlava. – Grande, sì, è stata grande! E mò il gioco si fa interessante! Mò ci divertiamo! Mò scendono in campo le truppe corazzate! Aimme vede' chi è più forte! Madonna, che spasso! E che fuoco! Che sguardo la mia Elisa! Io una donna così me la sposo! E certo che me la sposo! Poi sembrò rinsavire e si rivolse a don Alessandro: – Caro amico mio, mi fareste l'ultimo favore di accompagnarmi alla stazione? Devo tornare a Napoli e c'è un treno fra mezz'ora, a piedi potrei non farcela... – Allora... Tutto a posto, don Salvatore? Sicuro tutto a posto? – chiese titubante il prete. – Sì, sì, ancora grazie amico mio... da questo momento consideratemi un vero amico vostro... Ma avete un carrozzino pronto per... – Non preoccupatevi don Salvatore... Fuori ci sta la carrozza di Cicce a meza botta, vicine al Gran Caffè... Quello vi porta alla stazione in un lampo! – Ah, bene, bene! Allora me ne vache e vi saluto con grande affetto! Ci vediamo in questi giorni don Alessandro... – l'uomo era tutto sorridente e felice – È certo che ci vediamo! Infilò poi la tenda che separava la sagrestia dalla chiesa e a sua volta andò via, lasciando solo don Alessandro che capuzziava ripensando a quanto era accaduto: poco ci aveva capito, tranne che a parer suo donna Elisa era na grande scostumata! Ce vuleva 'o curpine pe na femmena accussì! Francesco Caso
- La trebbiatura con i cavalli
In campagna si trebbiava sull'aia, con i cavalli. Lo si faceva ancora, fino a qualche anno fa, nelle vecchie masserie del mio paese, a Macchia e a Guastra. Chi abbia assistito, almeno una volta, alla trebbiatura con i cavalli può considerarsi fortunato. Si è goduto uno spettacolo straordinario degno dei mitici tempi georgici, di sapore quasi omerico. L'aia davanti alla masseria è cosparsa di un folto tappeto di spighe, sul quale i cavalli, appaiati in più ordini, girano al trotto pestando con gli zoccoli. Lo strato di spighe viene continuamente rimosso e rivoltato dai trebbiatori, che usano lunghe forcelle, in modo che la pestatura avvenga il più uniformemente possibile. Dirige la "danza" ruotante degli agili quadrupedi un contadino, uno dei più validi, piantato al centro dell'aia, che stringe in una mano le estremità delle lunghe corregge a cui sono legati, a raggiera, i cavalli, e nell'altra una lunga frusta che fa schioccare ritmicamente. È come una giostra vivente. Deve essere abile e forte il trebbiatore che dirige. Ruotando su se stesso, in sintonia con i cavalli, molla e tira le corregge, secondo come la situazione richiede; e sprona. È una gran fatica e quindi gli viene dato presto il cambio. Via via che la trebbia procede, i contadini rastrellano con lunghi rastrelli i mucchi di chicchi sprizzati dalle spighe pestate; altri trebbiatori spandono sull'aia nuovi mannelli da trebbiare. Le donne attendono che soffi la tramontana per "conciare" il grano nuovo, per separare cioè, sollevandolo con la pala e qualche volta con le mani, il grano dalla cama e dalle rische (la pula e le reste). La trebbiatura con i cavalli si concludeva con una festa, la sagra del grano trebbiato. Ce la racconta, nel suo bel libro "Letteratura popolare capracottese", il nostro compaesano Oreste Conti, al cui ricordo, in queste note, si intende rendere un devoto ed affettuoso omaggio. Quando la trebbia volgeva al termine, uno dei trebbiatori, il più giovane, si faceva avanti sull'aia, con una bella manciata di spighe in una mano e una fiasca di vino nell'altra: vino, s'intende, della cantina padronale. Dava da mangiare le spighe ai cavalli e porgeva poi la fiasca al "padrone" perché iniziasse, con una lunga sorsata, la grande bevuta augurale, cui partecipavano tutti i trebbiatori. Si era agli ultimi giri. Per ogni giro dei cavalli, un giro di spighe e di fiasca: tanti, quanti erano i componenti della famiglia padronale. Il primo giro, in segno di rispetto, era dedicato alla moglie del capofamiglia, l'ultimo, all'ultimo rampollo. C'è da pensare, ma questo il narratore non lo dice espressamente, che la suggestiva cerimonia, che sicuramente evocava, come accennato, antichissime costumanze, terminasse, al cader delle ombre, fra danze, suoni e canti d'allegria. Alla fine, veniva elargito, da parte del padrone, un dono, consistente in beni di natura, a tutti i trebbiatori. Viene spontaneo pensare che ogni singolo dono venisse accompagnato da una breve cantata estemporanea, in onore del donatore e del beneficiario. Termina così il racconto della sagra della trebbia sull'aia nelle vecchie masserie del mio paese. Termina anche questa storia, che ha preso impulso dal ricordo di vecchie costumanze paesane, ora non più in uso. Storia di cose e fatti che hanno vivificato, appena ieri, la vicenda umana quotidiana di tanta gente, contadini e operai, che in questa terra ha vissuto e generosamente operato. Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.
- Capracotta: una perla nel bianco
Capracotta è un paesino di montagna di 903 abitanti della provincia di Isernia situato a 1.421 m. sul livello del mare, è meta turistica in estate ed in inverno, in estate per i suoi percorsi naturalistici ed in inverno per le sue copiose nevicate che attirano turisti e amanti dello sci. Ci sono due piste, una da fondo e una da alpinismo. L'offerta turistica è stata arricchita e completata sin dal 1997 con la realizzazione di un comprensorio per lo sci alpino lungo le pendici di Monte Capraro. In particolare, è stata realizzata una pista di media difficoltà (rossa) con tratti adatti a soddisfare le esigenze di tutti gli sciatori. È possibile inoltre avventurarsi in diversi tracciati fuoripista sempre perfettamente battuti. Quest'anno le nevicate sono state molto forti. Tra le case, dove il vento ha determinato accumuli più sostanziali, il manto bianco ha superato circa i due metri e letteralmente sommerso i primi piani delle abitazioni. Ciò ha determinato la chiusura della scuola per diversi giorni. Gli alunni hanno accolto con entusiasmo l'eccezionalità dell'evento che ha permesso loro di stare a casa, non uscire e di godersi a pieno l'ambiente familiare. Capracotta ha battuto il record mondiale di neve, a testimoniare il tutto le immagini che hanno fatto il giro del mondo sui media. Valentina Paglione e Concetta Trotta Fonte: https://lascuolafanotizia.it/, 29 gennaio 2017.
- La masseria Colaizzo di Castel del Giudice
Sulla strada provinciale tra Capracotta e Castel del Giudice vi è la cosiddetta masseria Colaizzo (alias Nicola Izzi), un casale in linea, sviluppatosi parallelamente alle curve di livello al fine di ridurre in fase di costruzione lo sbancamento del terreno, che risulta composto da tre zone indipendenti, probabilmente risultato di aggregazioni successive dal 1800 in poi. Il complesso aveva sia funzione residenziale che di supporto all'attività agricola, che già negli anni '70 erano alquanto ridotte, oggi annullate. La copertura è stata oggetto di rifacimento negli anni '80, con inserimento di cornicione in cemento armato in sostituzione di quello precedente in lastre di pietra a sbalzo. Si tratta di un edificio costituito dall'accostamento in linea di tre corpi indipendenti ed uno arretrato, con abitazioni a pianta rettangolare. Interessante la scala con loggetta del modulo centrale, sul fronte a sud, probabilmente ad uso padronale. La muratura è in pietra squadrata, i pavimenti a "lisce" di arenaria e il tetto a due falde. Le tre scale interne, presenti in tutti e tre i moduli, conducono alle stalle. Al piano seminterrato, oltre alle stalle, vi è un vano con caminetto, presente anche in un ambiente del corpo di fabbrica più vicino alla strada. Nella sola abitazione centrale è presente un forno. In questa masseria trovarono inizialmente rifugio, nel settembre 1943, i soldati neozelandesi evasi dal campo di lavoro PG 78/1 di Acquafredda di Roccamorice (PE). In virtù di quell'ospitalità i proprietari del casale, Rodolfo, Gasperino e Alberto Fiadino, furono condannati a morte dal tribunale nazista istituito a Villacanale (Agnone) e i primi due furono passati per le armi in località Sotto il Monte il 4 novembre 1943. Alberto riuscì a fuggire. Francesco Mendozzi
- Amore e gelosia (XXXVII)
XXXVII Alle tre e mezza del pomeriggio del giorno dopo, Elisa si presentò puntuale alla chiesa del Corpo di Cristo per tenere la lezione di catechismo ai fanciulli che dovevano fare la prima comunione. A quei tempi eravamo in piena età rurale: l'influenza dei preti e della religione sulla società era davvero notevole e buona parte del tempo libero della gente, in specie delle donne, orbitava attorno alle chiese e alle iniziative che il clero promuoveva per mantenere saldo il Cristianesimo nel cuore delle masse. La vita era scandita dai ritmi e dai riti della religione cattolica: mettersi fuori di essa voleva dire l'ostracismo totale. Tutta la comunità ti additava e ti scacciava, finché come pecorella smarrita non si tornava all'ovile a chiedere perdono per essere riammesso a far parte della società benpensante. Quando un prete chiedeva in nome della religione, si poteva solo ubbidire, docilmente: e così ora stava facendo Elisa. Avrebbe voluto trascorrere quel pomeriggio in compagnia delle sue amiche ma niente da fare: la chiesa aveva bisogno di lei? Lei andava! Entrò e fu stupita dal silenzio che l'avvolse: normalmente i fanciulli e le fanciulle tanto quieti non stavano, i loro trilli risuonavano dappertutto rimbalzando per le navate, e ci voleva il bello e il buono per tenerli calmi e far seguire loro la lezione di catechesi. "Staranno in sagrestia, a mangiucchiare qualcosa" pensò Elisa, e si diresse nel retro dell'altare per andare a vedere. Entrò e ancora il silenzio permeava le stanze della sagrestia, avvolta nella penombra. Solo una luce in fondo era accesa e illuminava con chiarore vacillante l'ultima stanza. Ormai era chiaro che i ragazzi non c'erano, ma tanto valeva andare a vedere fino in fondo. Avanzò ancora e con una mano scostò un tendaggio che separava quell'ambiente dagli altri: seduto alla scrivania v'era don Alessandro il prete che stava scrivendo alla fioca luce di un candelabro con cinque candele. – Don Alessandro, ie songhe venute ma addo' stanne 'e uagliune? Il prete alzò la testa: aveva uno strano sorriso sulle labbra: – Niente catechismo oggi, cara Elisa... Oggi dobbiamo rimediare a uno sbaglio e fare un'opera buona... Vuoi aiutarmi? Elisa fu incuriosita: di che si trattava? – E come no, don Alessandro! Che cosa devo fare? Da dietro una voce che lei conosceva fin nelle fibre più intime di sé, intervenne: – Nun ie fa niente, amore mio... Mi devi solo perdonare e avimme fa' pace! Salvatore! Era il suo uomo che aveva parlato! Salvatore che era entrato in una chiesa e l'aveva aspettata, lui che vedeva i preti come il fumo negli occhi! L'istinto la spinse a girarsi di scatto e buttarsi nelle sue braccia, ma la ragione la fermò un attimo prima; si girò lentamente e: – Ah, sei tu... Sei venuto a Nocera... Perché? Devi dirmi qualcosa? Pensavo ti fossi dimenticato della mia esistenza, sono passati quasi venti giorni e... Il poeta le pose una mano sulla bocca: – No! Sono passati 19 giorni, 18 ore e – guardò l'orologio appeso al muro – e 15 minuti... E non c'è stato un secondo che io non ti abbia pensato, amore mio... La giovane vacillò, stava quasi per cadere, tanto le ginocchia non la sorreggevano. – Hai tenuto il conto... Bene... E non hai pensato che per qualcuno tutto questo tempo poteva essere più lungo di diciotto anni? – Una lacrima le calò per una gote, la strofinò via con rabbia e continuò – Ora ti presenti qui e col dono che il Signore ti ha concesso, mi parli col miele in bocca! Grazie, Salvatore, ma sono solo parole, non mi servono! Così dicendo voltò le spalle e col busto eretto, l'orgoglio che la sorreggeva se ne andò, uscì dalla sagrestia, poi dalla chiesa e la piazza deserta l'avvolse nel suo cammino precipitoso verso casa, col cuore che voleva scoppiarle in petto... Francesco Caso
- Il bronzo di Capracotta e non di Agnone
Sig. Direttore Stimatissimo, avendo avuta l'occasione di leggere nell'Appendice dell'ultimo numero, che porta la data dei 18 di questo mese, come fra i tanti preziosi oggetti di antichità rinvenuti nel nostro Sannio si faccia menzione anche del così detto bronzo di Agnone, sappia nel mio interesse tanto il Signor Direttore che la Commissione preservatrice dei monumenti sannitici che un tale nome indebitamente gli fu dato dal Cremonese, dopo che pel primo venne ad osservare l'oggetto in mia casa ai 15 maggio 1848 d'infelicissima memoria, imprimendone destramente i caratteri su lamina di argento, per così farne la sollecita pubblicazione. È il fatto che non ammette contradizione di sorta alcuna, poiché il bronzo in parola fu rinvenuto dal mio bifolco, a nome Pietro Tisone, in un mio terreno a pochi metri lontano dalla mia casa di campagna, sita nell'agro di Capracotta, nella contrada detta Macchia, e non già in quello di Agnone, voluto dal Cremonese medesimo. Fu dunque la sola ragione di campanile che indusse quest'ultimo di chiamarlo bronzo di Agnone, presso la società archeologica di cui egli fa parte. Ed ecco perché anche nell'Enciclopedia Popolare sotto la parola Osca lingua troviamo fatta menzione della lapidetta sotto il nome di bronzo di Agnone. Ond'io come associato a detta opera premurava la Direzione Pompa in Torino a correggere l'articolo dalla erronea dicitura del Cremonese, dopo avergli fil filo narrato tutto l'accaduto. Promise il sig. Pompa Luigi soddisfare questo mio desiderio con rinnovare l'articolo sul Supplemento Perenne, ma la immatura morte lo colpì, ed ogni mia speranza andò perduta con lui. Anche il sig. Caraba, venuto un giorno nella mia casa campestre per osservarne la località, mi prometteva siffatta soddisfazione; ma toccatagli la stessa sventura del Pompa, ogni mia correzione rimase lettera morta. Sicché, sig. Direttore, mi rivolgo tanto alla bontà di Lei, che a quella del bravo archeologo sig. Perrella, onde non ignorino che se il bronzo di che è parola (e del quale mi addolora sempre più la perdita), mi fu strappato e direi quasi per forza dal figlio del mio compare di quel comune, non debba poi ulteriormente avere la pena di sentire che il monumento osco siasi rinvenuto in tenimento tutt'altro che quello del mio paese; e che da oggi innanzi abbia il bene di sentirlo appellare nel di Lei giornale col giusto nome di bronzo di Capracotta e non di Agnone. Perdonerà, sig. Direttore, se l'abbia bastantemente tediata con la presente lettera, mentre mi creda per la vita, suo Devotissimo. Capracotta, 22 aprile 1877. Giangregorio Falconi Fonte: G. Falconi, Cronaca, in «La Libertà», I:29, Campobasso, 25 aprile 1877.
- Cose sociali nel Meridione
L'agitazione popolare lungi dal diminuire nella bassa Italia, vieppiù si ravviva e non è per l'effetto di quei fenomeni che appariscono dietro una reazione violenta, o una repressione sanguinosa, no; ma è per l'effetto delle condizioni economiche lagrimevoli in cui giace il paese e che pare siano ben lungi dal sparire. A Capracotta gli operai tumultuando hanno ucciso un carabiniere, una fiera lotta ne nacque tra popolani e le truppe accorse sul luogo, furono fatti molti arresti. Nella provincia di Benevento, il brigantaggio è il solo mezzo che rimane come espediente di vita, a questa popolazione affamata. Da Ustica il compagno Roberto d'Angiò scive che colà si perseguita e si perquisisce, su vasta scala, egli stesso fu passivo di una perquisizione nella notte del 26 al 27 agosto p.p., nella quale si potette dopo tante cure e prevensioni, sequestrargli il manoscritto della biografia di Angiolillo. Perfino a Bovino, i segugi si spinsero a fargli una perquisizione in vista di afferrare questo prezioso gioiello di propaganda che fatalmente è caduto nelle loro mani. Egli dice: «I governanti non vogliono che la genesi degli atti di rivolta siano studiati e fissati personalmente; ma trovano semplicissimo il modo di annientarne le traccie, piuttostoché sopprimere le cause». Angelo Maffucci Fonte: A. Maffucci, Cose sociali: Italia, in «L'Avvenire», IV:56, Buenos Aires, 16 ottobre 1898.
- Un profilo di padre Luciano da Capracotta
La famiglia De Paola è originaria di Riccia, in provincia di Campobasso. A questa apparteneva Antonio De Paola, che era un ufficiale del Corpo Forestale e che, per un certo periodo, ha vissuto a Capracotta dove il 2 febbraio 1928 è nato il figlio Luciano, fratello minore della maestra Giuseppina (1920-2009), che in seguito diventerà la moglie di Durante Antonarelli (1915-1993), il medico condotto di Lupara che a Capracotta lasciò ottimi ricordi di sé negli anni '50. Luciano prese presto i voti e si fece frate nell'Ordine dei frati minori cappuccini. I luoghi della sua attività spirituale partono ovviamente da San Giovanni Rotondo, dove regolava l'ordine delle confessioni con padre Pio, futuro santo. Grazie alle notizie fornite da Enzo Antonarelli, nipote di padre Luciano, sappiamo che egli fu ospite delle comunità francescane di Manfredonia, Termoli, Agnone, Isernia e Venafro, dove si spense troppo presto a soli 55 anni, il 9 novembre 1983. La prassi di cambiare il nome, per chi diventa frate, non è mai stata obbligatoria e prescritta dalle norme, ma è stata adottata nei secoli da molti religiosi che hanno voluto così sottolineare il taglio con la vita precedente e l'adesione radicale ad un nuovo e alternativo stato di vita, qual è la consacrazione, in un totale affidamento e abbandono a Dio. Padre Luciano, tuttavia, scelse di non cambiare il suo nome di battesimo, in sintonia con san Francesco d'Assisi. Antonarelli afferma che «quando [padre Luciano] ci veniva a trovare, a Capracotta o a Termoli, dove ci trasferiamo nel '57, a casa era una festa; sempre sorridente, trasmetteva gioia e serenità». Non fatico a crederlo perché il nome di Luciano De Paola compare anche nella biografia di padre Pio realizzata da Marcellino Iasenzaniro, con riferimento a un divertente episodio a sfondo "alcolico" (che ho raccontato qui), che restituisce un frate cappuccino tutt'altro che solenne. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: M. Iasenzaniro, Padre Pio: profilo di un santo, vol. II, Padre Pio da Pietrelcina, S. Giovanni Rotondo 2009; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016.
- Il nuovo Podestà di Capracotta
Il dottor Ermanno Santilli è stato nominato Podestà di questa cittadina in seguito alle dimissioni - per ragioni familiari - del dottor Gregorio Conti, che per ben 9 anni ha con amore e prestigio tenuto la carica Podestarile. Nell'occasione S. E. il Prefetto Monticelli ha inviato una lettera al dottor Conti, nella quale, fra l'altro, dice: Nel momento in cui Ella lascia la direzione di codesta Amministrazione comunale, tenuta per un sì lungo periodo di tempo con piena soddisfazione della cittadinanza e delle autorità superiori, Le esprimo il mio vivo compiacimento per l'opera intelligente, disinteressata e pregevole da Lei prestata a favore dell'Azienda comunale che molto se ne è giovata. Certamente l'egregio dottor Santilli, col quale ci congratuliamo, seguirà le orme del suo predecessore pel bene del nostro paese. Guglielmo Labanca Fonte: G. Labanca, Echi molisani, in «Eco del Sannio», XLII:9, Agnone, 24 ottobre 1935.
- Archeologia di Agnone
Presentazione della ricerca e dei luoghi Il presente contributo costituisce la sintesi delle ricerche effettuate nell'ambito del XXIV Ciclo di Dottorato in Metodologie conoscitive per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni culturali presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Le indagini topografiche sono state svolte in Molise nei territori compresi nei limiti amministrativi dei Comuni di Belmonte del Sannio, Agnone, Capracotta, Vastogirardi e San Pietro Avellana, appartenenti alla Provincia di Isernia. Si tratta di un'area cerniera tra la valle del Sangro, la Marsica e il Sannio Pentro, un comprensorio che per la sua collocazione geografica ha mostrato forti potenzialità archeologiche sin dall'inizio delle indagini. La centralità di quest'area e il suo valore strategico in epoca sannitica risultano ben chiare se consideriamo la vicinanza del santuario di Pietrabbondante, il principale centro religioso e politico del Sannio, posto a soli 6,8 chilometri a sud di Agnone, in connessione col Tratturo Celano-Foggia. I confini territoriali della ricerca sono ben marcati a nord, est e ovest. A ovest il limite è dato dal percorso del Tratturello San Rocco-Piana delle Vacche e dal Torrente Sente (l'attuale limite di divisione tra le Regioni Abruzzo e Molise), a nord invece la demarcazione orografica è rappresentata dalla catena di monti costituita da Monte Sant'Onofrio, Monte San Nicola, Monte Campo e Monte Capraro, mentre a est la linea ideale di confine è rappresentata dalla catena montuosa di Schienaforte, la Costa e Colle San Biagio (lungo la quale passa il confine tra Abruzzo e Molise). Meno definiti risultano invece i margini meridionali, dove le ricerche sul campo sono state condotte sino alle propaggini settentrionali di Monte Pizzi e alle estremità meridionali delle pianure di Piano San Mauro e della Cocozza, sino al vallone Zelluso. Dal punto di vista geomorfologico il comprensorio presenta un'estrema varietà di caratteri, passando da un paesaggio collinare nella valle del Torrente Verrino, con altimetrie che si aggirano intorno ai 500 metri s.l.m., ai leggeri pendii della conca di Agnone, sino ai picchi di Monte San Nicola e Monte Capraro che raggiungono rispettivamente 1.500 e 1.700 metri di altitudine. Questa estrema varietà di situazioni geografiche, che condiziona anche la natura dei terreni e la loro produttività agricola, ha inciso profondamente sulle dinamiche insediative e sullo sfruttamento del territorio. Le indagini hanno mostrato una maggior concentrazione di insediamenti nella conca di Agnone e lungo la valle del Verrino, in opposizione a una rarefazione delle presenze nei territori più marcatamente montuosi di Vastogirardi e San Pietro Avellana. L'area della ricerca può esser idealmente divisa in due settori distinti con caratteristiche geomorfologiche specifiche in cui la linea di divisione può essere rintracciata nel sistema montuoso che va da Guado Ogliararo sino a Monte Capraro. La conca di Agnone rappresenta il bacino imbrifero del Torrente Verrino, alimentato dagli affluenti principali, quali il Vallone Fossato e il Vallone della Rocca, e da varie aste torrentizie minori che solcano profondamente il territorio, presenti sia sulla destra che sulla sinistra idrografica. Il territorio compreso tra Agnone, Capracotta e Belmonte del Sannio, in cui sono presenti maggiori termini argillosi, è caratterizzato da forme dolci con pendenze non accentuate, soggette spesso a isolati movimenti franosi, inciso profondamente da un sistema di ruscellamento superficiale ben strutturato. Il secondo settore comprende invece i territori di Vastogirardi e San Pietro Avellana e si caratterizza per morfologie più aspre, con rilievi spesso contraddistinti dalla presenza di estesi affioramenti rocciosi alternati a forme di terrazzamento sub-pianeggiante, determinate da depositi alluvionali generati dai corsi d'acqua, in modo particolare dal Torrente Vandra nel caso di San Pietro Avellana e dal Fiume Trigno per Vastogirardi. Non mancano poi vaste conche intermontane di origine carsica con presenza di inghiottitoi, come nelle località Monteforte e Piano Sant'Angelo. La maggior parte dei rilievi è costituita da elementi litologici appartenenti in prevalenza alla formazione di Gamberale-Pizzoferrato, con marne a orbulina e alternanza di calcilutiti, radiolariti e marne argillose del Miocene Inferiore-Oligocene. Fanno eccezione i rilievi meridionali sui quali si sviluppano gli abitati di Belmonte del Sannio e Agnone, costituiti essenzialmente da arenarie meno soggette ad erosione rispetto alle zone vallive circostanti. Queste ultime, assieme ai terrazzamenti di origine alluvionale che ritroviamo ad esempio nelle località Staffoli, Piano San Mauro, La Cocozza, sono caratterizzate dalle formazioni del Flysch di Agnone negli elementi litologici argilloso-arenacei del Messiniano Inferiore. I tratti distintivi di questa vasta area si traducono nella disponibilità di risorse idriche e boschive, di larghe fasce di territorio adatte all'agricoltura alternate a estesi pascoli montani. A partire dai 900 metri circa s.l.m., i pendii dei monti non interessati da coperture boschive mostrano le tracce dell'intenso sfruttamento a cui sono stati soggetti nel passato. Interi pendii anche molto acclivi sono stati regolarizzati con terrazzamenti realizzati con muretti a secco. Tali opere hanno garantito la stabilità del territorio, arginando fenomeni di dilavamento superficiale dei terreni garantendone un buon drenaggio. Nel passato l'intenso sfruttamento del suolo dei rilievi ha prodotto frequenti ed estesi accumuli di pietrame derivanti dall'opera di spietramento dei terreni. Molto comuni sono inoltre gli stazzi, recinti più o meno estesi formati da muretti realizzati con pietre a secco, utilizzati in passato per la raccolta degli animali al pascolo. Spesso questi recinti ospitano costruzioni di forma circolare in calcare locale, denominate caselle o capanne, adibite al ricovero temporaneo dei pastori. La casella ha un'altezza massima di circa due metri, copertura a pseudo volta ottenuta con la sovrapposizione di filari di pietra stringenti verso il centro del vano. Le capanne e gli stazzi presenti numerosi nel territorio, soprattutto oltre i 1000 metri di quota, sono il segno delle intense attività di pascolo stagionale svolte negli ultimi secoli. Non disponiamo invece di dati sulla pastorizia nelle epoche più antiche, tuttavia la fitta rete di mulattiere e i tratturelli (Sprondasino-Castel del Giudice, Ateleta-Biferno, San Rocco-Piana delle Vacche), collegati a loro volta ai principali tratturi diretti verso il territorio apulo e l’Abruzzo, suggerisce che anche aree le montuose di Agnone, Capracotta, Vastogirardi e San Pietro Avellana costituirono in passato terminali e/o tappe importanti di transumanza. La configurazione geo-litologica conferisce a una parte del territorio un'accentuata fragilità di fronte ai processi di degrado dei versanti, com'è facile riscontrare analizzando la diffusione dei fenomeni franosi. Le valli secondarie, caratterizzate da strette e profonde gole scavate da corsi d'acqua a carattere torrentizio, hanno fianchi decisamente scoscesi, dove l'occupazione umana risulta improbabile. Lungo il corso del Trigno gli insediamenti antichi evitano le aree pianeggianti. Lo si riscontra per esempio nelle località di Staffoli, Piano San Mauro o La Cocozza. Si tratta infatti di zone soggette agli straripamenti del fiume o a frequenti impaludamenti nel periodo invernale. Le ricognizioni con la raccolta dei dati di superficie sono state effettuate in maniera intensiva e sistematica a tendenziale copertura totale. Esse sono state indirizzate verso una conoscenza quanto più organica e capillare possibile del territorio, registrando testimonianze di ogni tipo, dalla preistoria all'età moderna. Una fondamentale fase del lavoro ha riguardato la definizione di un quadro delle fonti, in grado di fornire dati utili per la ricostruzione dell'antico paesaggio antropizzato. Sono state a tal proposito prese in esame fonti scritte a carattere storico-letterario, epigrafico, documentale e geografico. L'attività sul terreno si è svolta in tre campagne, tra gli anni 2009 e 2012, in modo particolare nei periodi compresi tra i mesi di agosto e marzo. Nello stesso periodo sono state effettuate indagini attraverso prospezioni geofisiche che hanno interessato un campione di 5 insediamenti ritenuti promettenti nell'ambito di questa metodologia di ricerca. Nei settori montani oltre gli 800 metri s.l.m. sono preponderanti gli incolti, le aree boscate e i pascoli. Qui la ricognizione archeologica può essere praticata con successo solo nelle limitate porzioni di terreno ancora coltivate o in zone in cui durante l'inverno il manto erboso risulta poco sviluppato. L’esodo dalle aree montane, verificatosi principalmente nella seconda metà del '900, ha inciso sull'intero complesso di attività (principalmente agricole e zootecniche) che per secoli avevano garantito il sostentamento della popolazione. Un semplice confronto tra le immagini del volo base IGM (1954-1955) e quelle recenti documenta chiaramente l'espansione di superfici ricoperte da boschi e incolto. Sono state schedate in totale 135 Unità Topografiche corrispondenti a strutture, sepolcreti, aree di frammenti fittili o ritrovamenti isolati posizionate su cartografia IGM in scala 1:25.000 e identificate con un numero progressivo. Sono state realizzate anche 10 Schede che riguardano rinvenimenti avvenuti in passato che però non è stato possibile localizzare con precisione. Il risultato ottenuto non costituisce solamente un catasto delle evidenze che permetta interventi di tutela e di valorizzazione, ma più in generale un supporto per la programmazione territoriale. Esso cerca inoltre di fornire una plausibile ricostruzione storica del territorio, delle dinamiche insediative manifestatesi nel tempo, dalla preistoria sino al Medioevo. Bruno Sardella Fonte: B. Sardella, Archeologia di Agnone, Scienze e Lettere, Roma 2021.
- Capracotta, 13 ottobre 1961: una giornata all'insegna del ciclismo
A metà ottobre 1961 la federazione ciclistica professionisti organizzò la "Tre Giorni del Sud", una corsa di ciclismo su strada che si disputò nel Molise con percorso di 480 km. circa, suddiviso in 3 tappe (a loro volta suddivise in 2 semitappe). La vittoria fu dell'italiano Vito Taccone, che completò il percorso in minor tempo precedendo i connazionali Gastone Nencini e Imerio Massignan. La partenza avvenne da Cassino con semitappa mattutina con arrivo a Capracotta, dove vinse Luigi Zanchetta. La semitappa pomeridiana, con partenza da Capracotta e arrivo ad Isernia, vide la vittoria di Franco Bitossi. Fu una giornata meravigliosa. A pranzo, a Capracotta, eravamo con i corridori e parlammo con i nostri campioni preferiti: Vito Taccone, Gastone Nencini, Angelo Coletto, Imerio Massignan, Graziano Battistini, Martin Federic Bahamontes, con Eberardo Pavesi direttore della Legnano. Alla partenza della seconda semitappa, vicino alla Chiesa di Sant'Antonio, mio padre aveva un giornale tra le mani e, passando Bahamontes, gli chiese se lo voleva e così fu. Qualcuno scherzò dicendo che correndo avrebbe letto il giornale… Mio padre, invece, che sapeva molto di ciclismo e faceva parte della Federazione Ciclistica Italiana, spiegò che una volta partita la tappa e usciti da Capracotta, il ciclista avrebbe messo il giornale tra il torace e la maglia per proteggersi dal freddo nella discesa verso Staffoli. Quella manifestazione fu fatta una sola volta, sostituita successivamente dal giro del Tirreno- Adriatico. Capracotta, per una volta, divenne anche la regina del ciclismo! Enrico Zarlenga
- Tiénghe une che ŝta arrète a re menìŝtre e vùtta forte
Nell'anno scolastico 1970-71 insegnavo matematica a Poggio Sannita, nella sezione staccata della scuola media di Agnone. Nel tranquillo tran tran di quella scuola di periferia improvvisamente arrivò un ciclone! Fu nominato bidello un capracottese, tale Antonio Carnevale, nome d'arte Cacapaglia. Non lo conoscevo ma al primo incontro subito mi inquadrò: – Ma tu sié de la razza de re Carmenùne! Era allegro fino all'inverosimile, con una parlantina a volte fluida e veloce, altre volte impastata e stentata, ma sempre piacevole nel suo caratteristico dialetto non proprio capracottese. Essendo più grande di me lo chiamavo «ze 'Ndogne» però, nonostante gli chiedessi di non farlo, mi si rivolgeva sempre con un riverente «Prufessó». Nelle ore di buco tra una lezione e l'altra andavo a cercarlo e chiacchieravamo; mi raccontava delle sue passate difficoltà nel lavoro e della sua fortuna per essere stato nominato bidello! – E chéŝta è fatìja? – e così non stava un momento fermo. Lo prendevo in giro dicendogli che aveva fatto una bella carriera venendo da Roma e finendo in una scuola media di periferia, oltretutto lontano da casa; era un tasto dolente e apertamente mi diceva di sognare il trasferimento nella scuola media dell'amata Capracotta. In quel periodo i trasferimenti erano molto difficili da ottenere ed io gli ripetevo: «Càmba cuavàglie ca la jèrva crésce!», detto capracottese per indicare una cosa quasi impossibile ad avverarsi. Mi divertiva sempre la sua spettacolare risposta: «Prufessó, i tiénghe ùne (accentuava la u in modo caratteristico) che ŝta arrète a re menìŝtre e che vùtta forte!»; aveva dunque un amico capracottese, molto importante, che lavorava a Roma nel Ministero della Pubblica istruzione, che era appena sottoposto al ministro della Pubblica istruzione e che premeva molto per il suo trasferimento! In un'altra occasione mi fece ridere a crepapelle. Avevo una collega isernina che insegnava francese; la sua macchian quasi sempre era sporca di fango; ad Antonio dava fastidio che una professoressa si presentasse a scuola con una macchina così ridotta e prese l'abitudine di lavargliela, logicamente gratis. – Prufessó, sò ddù o tre juórne ca chéla màchena puzza gné re culèra! Ma le sià ca i l'àje addùmannate? Signó, ma che ce cacàte déndr'a sa màchena? Seppe così che la professoressa era proprietaria di un allevamento di mucche e spesso, prima di venire a scuola, andava nell'azienda per controllare se tutto filava liscio e non era difficile che pestasse escrementi di mucca. Antonio restò qualche anno nella scuola media di Agnone ,di cui Poggio Sannita era sezione staccata; poi il suo angelo custode, a furia di «vettuà forte arrète a re menìŝtre», riuscì a farlo felice e contento, facendogli avere l'agognato trasferimento a Capracotta. Grande Antonio Carnevale, in arte Cacapaglia! Domenico Di Nucci Fonte: D. Di Nucci, E mó vè maiie auanne! Pillole di saggezza popolare capracottese, PressUp, Settevene 2020.
- Amore e gelosia (XXXVI)
XXXVI Il parlottio tra i due uomini durò per circa una decina di minuti. Le teste seguivano il discorso con rapidi movimenti: assentivano, venivano scosse a destra e a sinistra, si alzavano o si abbassavano, finché ad un certo punto cominciarono a muoversi all'unisono: un'intesa era stata trovata! Infatti poco dopo i due si strinsero la mano, il prete accennò ad una breve benedizione a don Salvatore e i due si congedarono, don Alessandro salì sulla carrozzella che don Salvatore gli aveva conservato per farlo accompagnare alla stazione, mentre il poeta si diresse a piedi su per il rettilineo, diretto ai quattro palazzi, dove aveva un appuntamento con un amico. Passarono altri giorni. A Nocera Elisa aveva ormai compreso fino in fondo di aver commesso il più grave errore della sua vita: dare ascolto alla madre le era costato il fidanzato! Salvatore non era venuto più, né aveva scritto o telegrafato. Si era semplicemente dimenticato di lei, con una alzata di spalle l'aveva gettata nel dimenticatoio, come si fa con una ciabatta! E ora, che cosa fare? La ragazza stava davanti allo specchio di casa sua e guardava la bella figura che il vetro le rimandava: aveva ormai circa 30 anni, sì, la sua figura era ancora molto bella, ma fra poco competere con giovani ragazze sarebbe stato inutile, oltre che stupido! Ma d'altronde che cosa voleva? Se Salvatore l'aveva dimenticata in così breve tempo, voleva dire che non avevano costruito su basi solide, che l'amore non c'era e dunque non era mica possibile inventarlo! Era immersa in questi bui pensieri quando una cameriera entrò in quell'ambiente che un po' intimidiva e chiese se potesse parlare. – Ma certo Dorina, dimmi dimmi... Che succede? – No, è che di là c'è don Alessandro, il prete del Corpus Domini e chiede di voi... – Di me? – Chiese meravigliata Elisa... "E che vorrà mai?", poi rifletté e disse – ...E fallo passare! Magari mi fa declamare alcuni passi del messale durante la funzione! Dopo una ventina di secondi, una tonaca nera varcava la soglia ed entrava nella stanza. – Signorina Elisa, come state? Una bellezza, da quel che vedo... ma... avete avuto comunicazioni dal vostro fidanzato? Quando viene? Anch'io ho da chiedergli alcune cose, di cultura ovviamente... – Eeeh, don Alessandro, temo che ne avremo ancora per molto, mi ha scritto che è super impegnato col teatro e quindi ancora non potrà venire. Se ne parlerà la prossima settimana... Il prete fece finta di accettare per buona la stentata giustificazione della ragazza. – Ah, bene, bene, e voi... state davvero bene, donna Elisa? Qui ci voleva una risposta appropriata, doveva evitare di suscitare sospetti in quell'uomo già furbo di suo. – Tutto bene, padre. E domenica vorrei essere la più elegante, stiamo studiando le toilettes... – Eh, ma domani pomeriggio non potrete farlo, niente amichette, cara signorina! Mi dovete fare un favore... Si fermò un attimo, don Alessandro: da questo momento in poi avrebbe compiuto una vera "mezzaneria", che tra l'altro era anche un peccato mortale! Però continuò la recita, stavolta non poteva tirarsi indietro. – Di che si tratta don Alessandro, dite, dite! – Fece la bella dama che lo fronteggiava. – Niente, è che la signorina Nannina domani non andrà a fare catechismo, potreste sostituirla voi? – Ma... Io ho tante cose da fare... Perché non lo chiedete a Carolina? È libera domani, e accetterà sicuramente... Il prete scosse la testa: – No, no... meglio se venite voi, avete più pazienza! Alle tre mezza, mi raccomando! Non aspettò risposta don Alessandro. Prima che la giovane potesse replicare, tagliò corto e se andò. Francesco Caso
- La via Nuova
La via Nuova allora era tutto fango e breccia, con dei solchi carrai profondi, che quando pioveva si riempivano di acqua, formando grosse pozzanghere. In esse sguazzavano i ragazzi, godendosela un mondo. Le case erano quasi tutte di aspetto modesto, ma dignitose: alcune con la facciata a bolognini. Ai bordi della via, addossati al vecchio muro sbrecciato dell'orto di Tabanella e davanti a Triano, c'era sempre qualche carretto con le grandi ruote fermate da grossi sassi e le stanghe rivolte al cielo. A sera c'era sempre un grappolo di ragazzi vocianti appeso ai raggi delle ruote e alle stanghe. Il carretto re della strada Il carretto era il re della strada. Passavano e ripassavano i traìni dalla mattina alla sera, carichi di mercanzia. Qualche volta, nel tardo pomeriggio, arrivava con fragore di ruote e tinnire di sonagli, veloce, traballante, il carretto di Scarcione, trainato da cavallo e bilancino. Alla guida uno dei figli, ritto in piedi, pettoruto, a gambe divaricate, che incitava i cavalli con la frusta. I ragazzi lasciavano di giocare e seguivano con lo sguardo, ammirati, l'intrepido vetturale fino a quando, alla svolta di Giorgetto, non scompariva alla vista. Fiore il capraio Di primo mattino passava Fiore il capraio per rilevare le capre e menarle al pascolo, giù alla Difesa o più su al Piano delle Grotte, alle pendici delle coste della Ruchetta. La convivenza con gli animali e la lunga permanenza quotidiana in campagna gli avevano conferito un non so che di silvano nell'aspetto, ma sotto quella scorza ruvida e scontrosa c'era tanta semplicità d'animo. Si annunciava suonando il corno. Le capre uscivano dalle stalle e si univano al branco. Se tardavano Fiore chiamava le padrone, infilzando i loro nomi, uno di seguito all'altro, come i grani del rosario: Giacinta Pulcheria Annina Bambina!... Vento, sole, pioggia, il buon Fiore passava sempre, con il bastone, il corno e la bisaccia con la colazione: pane e una crosta di formaggio secca; per bevanda: acqua fresca di fonte campestre. Zimba Si chiamava Sinforosa, ma tutti, storpiando il suo bel nome, che sapeva di musica e di fiori, la chiamavano Zimba. Il marito, zi Sebastiano, lo chiamavano Bandista. Abitavano sotto alla via Nuova, tra la casa dell'Arciprete e quella di don Leonardo. Che onore per Zimba!... Tutti e due erano avanti negli anni. Campagna o casa, con qualche puntata in chiesa per la messa, quando possibile. Un giorno al Pischeto per sarchiare il grano in quel benedetto terreno sempre pieno di sassi, che più ne toglievi, più aumentavano; un altro giorno a Santa Croce a battere il farchio; un altro al Fossato a raccogliere il fieno. Questa la loro vita. Stava venendo l'inverno. Il lavoro dei campi era sospeso. Zimba e Bandista una mattina di fine novembre misero il basto all'asino e scesero per San Rocco, diretti ad Agnone. Volevano comprare un maialetto, che avrebbero allevato durante l'inverno. Sinforosa per la verità era un po' inquieta perché si era alla incrociatura dei mesi. Faceva freddo, il cielo era velato. Arrivarono a destinazione prima di mezzogiorno e subito si misero in giro per le masserie in cerca del maiale. Combinarono, consumarono una parca colazione e ripresero la via del ritorno. Cominciò a piovigginare. Scesero al Vallone del Cerro e presero a salire verso la Macchia. La pioggia insisteva, il freddo penetrava nelle ossa. Stava scendendo la sera e allora decisero di passare la notte a Macchia, alla masseria di un conoscente. La mattina dopo, di buon'ora, si rimisero in viaggio, nonostante il parere contrario degli ospiti, ai quali per ogni buon fine avevano lasciato in custodia il maiale. Avevano il pensiero delle bestie, delle due capre in particolare, rimaste incustodite nella stalletta. Il tempo andava peggiorando. La temperatura era scesa e da Sant'Onofrio soffiava un vento teso, infido. Grossi nuvoloni si addensavano minacciosi sul colle di San Nicola. Mentre procedono dietro all'asinello su per la scoscesa mulattiera, cominciano a cadere di traverso spruzzate di pioggia mista a neve. Superano il Passo della Regina. Al Precorio, dove la mulattiera si biforca, si decidono per la via di sopra, quella che passa sotto alla Fonte Fredda, alle Macerie. Fanno questa scelta per evitare di impantanarsi con tutta quell'acqua, alla Lamatura e forse anche perché sperano di essere più al riparo. Il tempo incrudelisce. Turbini di neve investono i due vecchi viandanti. I panni fradici gli si ghiacciano addosso e stringono in una morsa di gelo i loro corpi già intirizziti. Arrancano dietro all'asino, sfiniti. Sono finalmente sopra alla Lamatura. Intravedono nello spolverio il casone di Potena. Il cuore si riapre alla speranza: forse è la salvezza! Troppo tardi: sono allo stremo delle forze, assiderati dal gelo. Si lasciano cadere, presso un muretto, a qualche centinaio di metri dalle prime case, forse nel tentativo disperato di cercarvi un riparo. Non si rialzeranno più. Costantino di Bonafede, che era stato al mulino a macinare, sulla via del ritorno alla masseria, li trova lì, vicini all'asino, vivo, che ha un grumo di ghiaccio sulla fronte e intorno agli occhi e il pelame raggelato. A bocce A primavera, nelle prime ore del pomeriggio, prima della ripresa del lavoro, la via Nuova diventava campo di bocce per gli improvvisati bocciofili della zona. Giocando, arrivavano sotto a don Leonardo e poi tornavano indietro fino all'orto di Nocente. Le buche, i sassi e le altre asperità erano per loro come tanti zuccherini. Si cimentavano in gare puntigliose quanto mai. Raramente bocciavano e se lo facevano, colpivano sempre la palla sbagliata. Facevano un chiasso indiavolato, canzonandosi a vicenda, tra la piccola marmaglia, che tifava plaudente per l'una o per l'altra squadra. Zi Colitto Zi Colitto aveva la sua bottega sulla via Nuova. Nel suo piccolo laboratorio tutto era funzionale: dei ripiani per gli arnesi di lavoro, ai cassetti per i chiodi e le viti, alla porta a vetri che dava sulla strada, fornita di apposite cerniere ed altri aggeggi, inventati da lui, per l'apertura e la chiusura automatica degli scuri e delle controvetrine. Aveva fama d'inventore e in effetti lo era. Al tempo cui ci si riferisce con la presente narrazione, costruì una carrozza di legno semiautomatica, fornita di ingranaggi e di un sistema di leve, azionando le quali essa si metteva in moto e correva su e giù per la via Nuova. Tutti volevano provare a manovrarla. I ragazzi se la sognavano la notte. Durante la Prima guerra mondiale, al fronte, inventò una mangiatoia smontabile, di grande praticità, che fu adottata subito dalle salmerie. Ecco come andarono le cose, secondo il racconto che ne faceva lui stesso, con aria divertita, confermato dal fratello, che condivise con lui, per un breve periodo, le fatiche del fronte a Palazzolo della Stella. Zi Colitto era capo reparto in una falegnameria militare nella località su ricordata. Un giorno lo chiamò il comandante del battaglione e gli ordinò di fare un esemplare di mangiatoia smontabile per le salmerie e gli mostrò il modello a cui si doveva attenere. Zi Colitto osservò il modello attentamente, poi si rivolse al comandante e gli disse: – Signor Maggiore, questa mangiatoia è ingombrante e poco maneggevole: si perderà tempo per montarla e smontarla. – Questa sì ch'è bella! – esclamò il maggiore, sorpreso e indispettito; – Poco maneggevole... ingombrante... Falla tu una migliore, se sei capace! – Sono pronto – disse zi Colitto. – Caporale, quando ripasserò, fra qualche giorno, mi farai trovare il tuo bel campione di mangiatoia smontabile. Intesi? Zi Colitto si mise subito all'opera. L'idea della sua mangiatoia ce l'aveva già in mente: gli era sorta, osservando il modello del maggiore. In un paio di giorni, lavorando con impegno, con l'aiuto di un commilitone fabbro per le parti metalliche, costruì il campione. Ingrassò le cerniere e attese il comandante di battaglione. – Caporale, vediamo questa mangiatoia... Il caporale Colitto con pochi rapidi gesti: trac... trac... smontò la mangiatoia; trac... trac... la rimontò con altrettanta rapidità. Provò anche il maggiore: trac... trac... trac... trac... Con il volto spianato ad un sorriso di grande soddisfazione, il comandante, alla presenza dei soldati, che avevano fatto cerchio, si rivolse a zi Colitto e gli disse: – Caporale, una licenza premio, subito, e una proposta di promozione al grado superiore. Qui finisce il racconto della mangiatoia di guerra. Torniamo alla bottega. Nel cassetto sotto il banco c'era il Canzoniere del Petrarca, il poeta prediletto. Scriveva anche lui poesie, quasi sempre di notte, nei momenti di veglia, al buio, servendosi di foglietti predisposti; forniti di una specie di guida mobile per la matita, di sua invenzione. In quei tempi era in voga l'ultima sua poesia: "La regina del villaggio", le cui strofe erano declamate anche dai ragazzi. Faceva anche il fotografo. Qualche reclamo in proposito: – Zi Culì, come m'hai fatta vecchia! – È colpa della macchina: un po' di ritocco e ritorni più giovane di prima. Era un accanito lettore e gli piaceva commentare con qualcuno ciò che leggeva. Negli ultimi anni, passando davanti alla sua bottega, lo vedevi seduto accanto al banco, intento a leggere. Qualche volta lo sorprendevi assopito, con la testa reclinata sul libro posato sul banco, che ormai era solo il suo leggio. Don Leonardo Più giù, andando verso il Fontanino (che oggi, coperto di ruggine, fa bella mostra di sé a ridosso del muraglione eretto sotto al mercato), abitava don Leonardo nella sua bella casa con la facciata a bolognini e le finestre e il portone di pietra grigia di Monteforte. Il terrazzo era sempre pieno di ragazzi, che trovavano lì sopra il modo di organizzare certi loro giochi di gruppo. Don Leonardo lasciava fare. Aveva altro per la mente. Era sempre alla ricerca di nuove progettazioni per risolvere vecchi problemi di interesse pubblico. Dinamico, fattivo, geniale, aveva impiantato nei primi decenni del secolo l'illuminazione pubblica e il mulino ad acqua a Santa Croce; poi la sega e il mulino a vento, a proposito del quale, il poeta artigiano, più sopra ricordato, così dice in una poesia dedicata a don Leonardo: ...nessuno sapeva cosa mai con lui facessero tanti operai. ...solo dopo si seppe l'utile vero scopo: quando, finito ...quel movimento, era... che cosa? un mulino a vento. Impianterà più tardi la segheria elettrica, il mulino elettrico, il servizio automobilistico. A detta di tutti, don Leonardo anteponeva sempre il bene della comunità al suo interesse personale. Don Luigi Qualche volta sul balcone si vedeva don Luigi Campanelli, serio in viso, curvo, con un libro in mano. Aveva pubblicato da poco "Il territorio di Capracotta". Il libro circolava tra le famiglie. I ragazzi ne sentivano parlare e ponevano domande sulle cose e i fatti narrati, cominciando così sin da allora a prendere qualche interesse per la storia del paese. Si sapeva che l'opera - la storia di Capracotta dalle lontane origini, inquadrata nel panorama degli eventi politici ed economici della regione, intesa in senso lato - era il frutto di anni di studio e di ricerche, fatte con impegno e passione negli archivi e nelle biblioteche. Arricchiscono il libro interessanti note sulle tradizioni, i costumi, le attività preminenti dei capracottesi e sulle caratteristiche fisiche e geologiche del territorio. Felice il fogliaro Primavera! Il disgelo era alla fine. I valloni della Guardata gorgogliavano, gonfi d'acqua delle nevi che si scioglievano più a monte, e cento piccoli rivi, anch'essi ricolmi, scorrevano mormorando dalle pendici di Colle Cornacchia, sparpagliandosi giù per la Difesa. Segno che l'inverno era finito. Allora da Sant'Angelo saliva zi Felice il fogliaro con la giumenta carica di ortaggi. "Iàmme alle fòglie" ed ecco la sua figura ciondolante in fondo alla svolta, col cappellaccio tirato giù. "Insalata, cipolle, scarola!". Le donne escono: zi Felice le conosce tutte e le chiama per nome. Mentre è intento alla vendita, chiacchiera allegro e di tanto in tanto, scappellandosi, manda una lode al Cielo. Per pochi soldi rifornisce tutti di verdura, ma qualche donna, incontentabile, gli sfila dal mazzo un cespo d'insalata: lui allora, trattenendo un'imprecazione, sbotta in una... benedizione. A giro finito, appena il tempo di una capatina in chiesa e via... a casa. I banditori Scende dalla scalinata di Muccio Gildonno il banditore. Stava lavorando da manovale, con la callarella sulle spalle, quando Cosimo l'orefice l'ha mandato a chiamare per il bando. Gildonno ha avuto appena il tempo di ingollare un bicchiere di vino. Col berretto a sghimbescio, la pipa in bocca mezzo spenta e la cornetta in mano, strascicando il passo, com'è sua abitudine, si avvicina alla cantonata di Trotta, si sporge, suona due volte e lancia con voce alta e chiara il bando giù per la china di San Rocco: – In casa di Erasmo Iacovone è arrivato Cosimo di Agnone con ricchi assortimenti di oro e d'argento e si trattiene fino a domani a mezzogiorno. Quando don Gildonno se ne andò, lo sostituì Vincenzone. Vincenzone, quando andavano nella bottega a chiamarlo, appendeva la sega al piuolo, si scuoteva la segatura di dosso, si riempiva le tasche di pane e via col suo bando. Tra una fermata e l'altra, dava una smozzicata al pane e avanti. Qualcuno gli gridava: – Vincè... Ma mangi sempre, mangi…? Vincenzo, per tutta risposta, emetteva con la bocca piena una specie di grugnito e proseguiva. Qualche volta il bando era lungo e difficile a ricordarsi e allora Vincenzone leggiucchiava, complicando seriamente le cose. Il gelataio Pomeriggio estivo. La strada è quasi deserta. Due o tre vecchiette, sedute sulla soglia di casa, intente a fare la calza, il fazzoletto scuro, con le cocche ripiegate sopra, sulla testa. Ai loro piedi tre o quattro marmocchi che si trastullano come meglio possono. In mezzo alla strada, bianca di luce riflessa dalle facciate delle case, un cane steso al sole. Ad un tratto il suono di un fischietto rompe la quiete sonnolenta dell'ora. È Ercolino di Mercallò, detto anche zi Merca, che viene avanti, col grembiule bianco, dalla svolta di Giorgetto, spingendo il carrettino del gelato. Ercolino, falegname uscito delle vecchie e rinomate botteghe della via Nuova, uno dei bocciofili a tempo... libero, perdurando la disoccupazione artigiana, si è improvvisato gelataio; forse deve aver pesato sulla decisione di cambiare di punto in bianco mestiere, anche il fatto che sotto al casotto di don Luigi, di cui egli è il custode c'è una piccola neviera, che gli risolve il problema del rifornimento del ghiaccio. Una ragazza con un bimbo per la mano gli si avvicina e gli chiede un gelato per il piccolo. Zi Merca per due soldi porge al bimbo un piccolo cono al cioccolato, semiliquido. Come era da prevedersi, ben poco della succulenta pappardella finisce in bocca al marmocchio: buona parte gli gocciola addosso, fra la costernazione della sorella. Carminuccio sotto alla gonnella In fondo alla strada compare una strana figura nera, che fa vivo contrasto col bianco delle case. Sembra un'apparizione. È Carminuccio "sotto alla gonnella", un anacoreta delle masserie di Gamberale, che viene per la cerca. L'uomo è tutto nell'espressione con cui viene nominato. Una lunga sottana nera, che gli scende fino alle caviglie, stretta alla cinta da un cordoncino, dalla quale emerge la testa con due occhi vivi da spiritato. Un cappellaccio nero a larghe falde, col cocuzzolo tondo, completa l'opera. Ha in mano la cassetta delle offerte con una immagine sacra appiccicata sopra, e nell'altra un lungo bastone. A tracolla la bisaccia. Parla, anzi farfuglia, in modo appena percettibile, con voce gutturale, profonda. Sembrano, le sue, parole di una cabala. I ragazzi, appena lo vedono apparire, lasciano i giochi, turbati. Qualche donna si avvicina e infila una moneta nella cassetta. Carminuccio alza la mano in un gesto vagamente benedicente e barbuglia qualche parola, forse di ringraziamento, e se ne va. I ragazzi devono avere intuito che sotto sotto Carminuccio non deve poi essere quel baubau che sembra e timidamente tentano qualche approccio canzonatorio. Visto che va, attaccano e allora cominciano veramente i guai per il povero Carminuccio sotto alla gonnella. Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.
- Amore e gelosia (XXXV)
XXXV Dico la verità: mi sarebbe piaciuto stare nei panni di Salvatore Di Giacomo, il grande poeta, quando don Alessandro, il prete di Nocera Inferiore, gli pose così, ex abrupto, la domanda finale: – Don Salvato'... ma voi l'avete veramente l'amante, la grande attrice? – e lo guardava! e come lo fissava! Con gli occhi da fuori, la lingua quasi penzoloni, lo sporcaccione voleva sapere, voleva notizie sullo scandalo, e magari pure qualche particolare erotico, così poi al suo misero paesello avrebbe detto, poi ritirato, poi rifatto sapere che lui sapeva, "eeeh, cose enormi, cose mai sentite, cose di città... e sporche eeeh! e la povera Elisa che aspetta e passa p' 'a vetrina, mente 'o napulitane fa la bella vita!". Pensando a tutto questo, don Salvatore prima si gonfiò, poi esplose: – Ma don Alessandro, che cacchio state dicendo? ma facite 'o vere o pazziate? ma per chi mi avete preso? Io songhe n'omme serio, io voglio bene ad Elisa e a nisciune cchiù! – Tirò un respiro e: – Ma cumme campate 'nda chillu paese, facenne sule nciucie? povera Elisa mia, mò overamente capisco! ma io me la porto a Napoli e la tolgo da quel paesaccio e dalle malelingue! Don Alessandro si fece quanto un pizzico: aveva fatto una gaffe, e che gaffe! E mò come se la cavava? La curiosità irresistibile di sapere lo aveva messo in una brutta situazione, ora doveva rimediare... – Don Salvatore, perdonatemi, stavo scherzando, così, tanto per dire... quello... al paese davvero non fanno altro che parlare di voi... siete un personaggio famoso, le vostre canzoni sono sulla bocca di tutti e poi... sapete com'è... il teatro, le attrici, quelle donne bellissime che vi circondano sempre... – e poi gli sfuggì involontariamente, con un sospiro – Beato voi! Beato voi! Il poeta si acquietò e si mise a ridere: – Don Alessandro, ma quasi quasi ve piacesse na bella napulitanona? Ma vuie appartenite a Dio, 'e femmene ve le dovete scordare! – e fece una di quelle risate squillanti che a Napoli tutti conoscevano. Il prete si fece quanto un pizzico, poi assunse l'aria indignata. – Ma che dite, don Salvato'! io dicevo così... tanto per dire... cose da uomini... pecché poi alla fine sempre un uomo sono anch'io... ma per carità, mai, mai una cosa simile! Una bella napoletana! a me! una di quelle coi capelli neri neri, con gli occhi neri come due carboni, con un paio di cosce piantate a terra, un paio di spalle, un seno duro e prorompente, una così insomma... mai! non ci voglio neanche pensare, io devo curare le anime, le mie pecorelle... A Don Salvatore venne da ridere ancora più forte: il prete una napoletana così ci faceva un pensiero eccome! quello se la sarebbe mangiata viva! – Va buone, don Alessandro, lasciamo stare, non ci pensiamo più... pensiamo piuttosto a come sistemare i miei problemi con Elisa... voi cosa proponete? Il prete colse a volo la scappatoia: – Don Salvatore, oggi siamo diventati più amici, e ho l'obbligo di aiutarvi fino in fondo... dunque , io avrei pensato che... – e si mise a parlare fitto, mentre don Salvatore ascoltava attento e ogni tanto annuiva... Francesco Caso
- Il fascino discreto dello sci di fondo
Valle d'Aosta, il paradiso del fondo Lo sci nordico consente di apprezzare il silenzio della natura addormentata sotto la neve e di ammirare panorami eccezionali attraverso boschi, ruscelli e distese innevate. In Valle d'Aosta lo sci di fondo si pratica sia in stazioni già famose per lo sci alpino come Courmayeur (Val Ferret), La Thuile, Valtournenche e Champoluc sia in località considerate da sempre il paradiso dello sci di fondo: Cogne, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Gressoney-la-Trinité e Torgnon, le cui piste sono collegate con quelle di Verrayes. Località più piccole, con svariati tracciati da sempre apprezzati dagli appassionati, sono Arpy (Morgex), Valgrisenche, Rhêmes-Notre-Dame e Valsavarenche (nel Parco nazionale del Gran Paradiso), il comprensorio di Flassin nella valle del Gran San Bernardo, Champorcher e Saint-Barthélemy, località soleggiata e luogo d'origine del campione olimpico valdostano Federico Pellegrino. In Abruzzo, fra boschi e faggete innevate L'Abruzzo è una destinazione d'eccellenza per gli appassionati dello sci che qui hanno a disposizione 700 km. di piste, di cui 300 km. solo per lo sci di fondo. Mentre le aree degli alti rilievi montani sono perfette per la discesa, i numerosi altipiani abruzzesi accolgono gli appassionati dello sci di fondo con una vasta scelta di anelli e itinerari. Una delle mete più frequentate è la Riserva regionale Bosco S. Antonio di Pescocostanzo che vanta la presenza di tre anelli per un totale di 13 km. Partendo dal Comune di Pacentro, gli appassionati di fondo possono avventurarsi alla scoperta del Monte Morrone e del Monte Amaro della Majella o seguire i diversi itinerari escursionistici nei pressi del borgo di Santo Stefano di Sessanio e presso la piana di Campo Imperatore. A Passolanciano, a Ovindoli e presso la Majella Occidentale sono presenti tracciati con anelli da 3 e 5 km, mentre tra Pizzoferrato e Gamberale l'anello La Mandra si sviluppa all'interno di una meravigliosa faggeta. Molise, piccola terra di grandi campioni Capracotta (Isernia) è una tra le mete invernali più conosciute del Molise per gli appassionati di sci di fondo. Capracotta, a 1.400 metri d'altezza, affacciato sui suggestivi paesaggi dell'Appennino, da sempre raccoglie il consenso di migliaia di turisti che amano sciare immersi nella natura più incontaminata. Chi viene a sciare a Capracotta può praticare sci di fondo a Prato Gentile o sci alpino a Monte Capraro. Prato Gentile nel 1997 ha ospitato i Campionati Italiani di sci di fondo e nel 2004 alcune gare internazionali della Coppa Europa. Su queste piste sciava Mario Di Nucci, campione di sci di fondo e stella della Nazionale al tempo della Seconda guerra mondiale. Fonte: http://www.touringmagazine.it/, marzo 2019.
- Una relazione sulla Società di Tiro a segno
Questo egregio Direttore del Tiro, Sig. Giovanni Paglione, con lodevole pensiero, ha compiuto una succinta e particolareggiata relazione di questa Società di Tiro, rendendo un grande servizio a questa bella istituzione, che fra noi ha trovato un buon campo, e che, colle rinnovazioni che si hanno in mente di aggiungervi, progredirà ancora moltissimo. Infatti, si cerca di aggiungere accanto al Tiro ed alle Esercitazioni militari una Palestra di ginnastica ed anche una Sala di Scherma! Se si attueranno queste due utili e buone cose, la nostra Società progredirà molto rapidamente, perché tutti vorranno temprare i forti animi nell'esercizio delle armi, e dare e ricevere botte e puntate incruenti, quando i lunghissimi inverni e la neve altissima ci avranno bloccati e ci faranno attrappire accanto ai grossi fuochi. Colla relazione suddetta del Direttore Sig. Paglione, si rileva che la nostra Società ha 177 soci iscritti ai diversi riparti, e che 150 di essi presero parte alle esercitazioni; e se soli pochi potettero compirle, è da imputarsi ai pochi nostri mesi freschi, che quest'anno furono cattivissimi, da Agosto in poi, ed impedirono del tutto le esercitazioni. Con tutto ciò furono sparate durante il '96 ben 3.972 cartucce! Che l'istruzione poi sia qui veramente bene acclimatabile lo prova che tutti i soci inscritti han pagato regolarmente la tassa e le munizioni. La gara del '96, che si dové interrompere pel cattivo tempo, sarà completata nel giugno di quest'anno; ed in detto mese sarà pure pubblicato il programma della XII gara ordinaria del 1897, che avrà luogo in luglio ed agosto, e sarà divisa in due distinte categorie. I premi per il 1897 sono i seguenti: un elegante orologio remontoir; un elegante astuccio foderato in raso con quattro bellissime saliere, dorate, a forma di conchglia; un altro simile astuccio con un trinciante ed un forchettone da tavole, con manico di maiolica, decorata. Il Sig. Paglione da ultimo fa voti, perché in quest'anno non sia più un'utopia ed abbia luogo presso la Società di Venafro, che ne ha il dritto, la gara provinciale sannitica, e perché si istituissero in Campobasso e negli altri centri più importanti della Provincia simili società di tiro, onde ne' diversi luoghi, in tal modo, si affermi il culto per sì nobile e patriottica istituzione! Il Sig. Paglione, davvero, merita una pubblica lode per la sua bella relazione, da tutti ammirata e lodata. Gabriele Di Tella Fonte: T. G., In Provincia e fuori, in «Il Nuovo Risveglio», II:3, Agnone, 3 febbraio 1897.
- Il pane in prestito
Una delle più gentili consuetudini paesane spazzate via dalla rapida mutazione dei costumi è quella del pane in prestito. Sì, una volta nel mio paese si andava per pane in prestito dai parenti o dai vicini di casa. Delegati a questo compito, di norma, erano i ragazzi. La sera se ne incontrava sempre qualcuno per via con il panóne, avvolto in un tovagliolo, sotto il braccio. Si capiva subito che era andato per pane in prestito. Se lo seguivi con lo sguardo, vedevi che ogni tanto ficcava la mano sotto la salvietta, staccava un po' di crosta e se la cacciava in bocca. Quando arrivava a casa, il pane era tutto sfrangiato sull'orlo, torno torno. «Un altro po' te lo mangiavi tutto per via!», lo rimbrottava, con voce querula, la madre. Questa consuetudine, curiosa quanto si vuole, ma ricca di significato umano, era il simbolo di un certo stile di vita comunitaria, di un modo, cioè, di intendere e vivere i rapporti con i propri simili. I vicini, cui ci si rivolgeva quando in casa, per una ragione qualsiasi mancava il pane, erano sentiti quasi come un'estensione della propria famiglia. Lo scambio del pane, prima il prestito e poi la restituzione, esprimeva una forma umanissima di donazione reciproca, frutto di rispettosa e fiduciosa dimestichezza: un farsi onore reciprocamente. Mangiare il pane dei vicini amici, del grano della loro terra, voleva dire anche che si aveva fiducia nelle sane abitudini alimentari di casa loro. In quei tempi in paese il pane normalmente non si comprava come si fa oggi. Si confezionava con la farina del grano del proprio campo (tutti possedevano qualche terreno) e si cuoceva in casa, se si disponeva di un forno casalingo, al forno del rione in caso contrario. Di pane allora, come è risaputo, se ne consumava un subisso. I ragazzi, che quasi non conoscevano il companatico, chiedevano solo pane. Ma che sapore aveva quel pane! Nella sua intima fragranza era nascosto, per così dire, anche il companatico. Li vedevi, i bambini, per strada con le tasche dei giacchetti sempre rigonfie di tozzi di pane, che tiravano fuori e mangiucchiavano, nelle pause dei giuochi, a piccole riprese, per paura che finisse presto. Se li scambiavano fra loro come pennini o bottoni. Si faceva perciò presto a vedere il fondo della madia. In attesa di confezionare le nuove pagnotte, via... per pane in prestito. Capitava talvolta ai piccoli, addetti a questa commissione, di dover picchiare a più di un uscio prima di trovarne. Ragione di più per una sbocconcellatura a più ampio raggio lungo la strada. Capitava anche di trovare talvolta, dalla vicina, pane fresco di giornata. Allora c'era speranza di avere in dono un pezzetto di pizza fresca, soffice e fragrante, odorosa ancora di forno. In tale fortunata circostanza c'era speranza che il panóne arrivasse a casa integro, senza sfrangiature. Quando si doveva fare il pane, la casa si animava, come per una festa, sin dal giorno avanti. C'era da macinare il grano, e allora qualcuno caricava il sacco del frumento sulla carriola e andava al mulino. Due erano i mulini: il "Mulino vecchio", sotto alla via Nuova, e il "Mulino nuovo", vicino alla cabina elettrica. I loro gestori, zio Vincenzino Buonanotte e Cosimo, si identificavano così bene coi loro mulini che riusciva difficile immaginarli distinti da essi; e ancora oggi li rivedi, con l'occhio affettuoso del ricordo, al loro posto, nel brusio sonoro delle macine, circonfusi da un alone di candida farina. Dopo la macinatura, cominciava la stacciatura. Ti svegliava, ancor prima dell'alba, il rumore cadenzato dello staccio che correva su lla madia, e, a quel ticchettio, discreto e gradevole, dopo un po' riprendevi sonno. Poi, d'un tratto, il rumore cessava e vedevi le donne apparire sulla porta con una sfarinatura leggera sul le vesti e sul fazzo lettone che s'erano annodate al capo. È il momento d'impastare. La massaia, dopo aver fatto nella farina stacciata nella madia un gran buco, vi versa l' acqua, vi mette il lievito, il sale, le patate e dimena con discrezione per amalgamare; impasta e attende che la pasta lieviti. Ecco: la pasta è lievitata. La massaia taglia e fa le pagnotte: al centro ci fa un segno, un occhiello, perché nel forno non vadano confuse. Le cosparge di una spruzzata lieve di farina, poi le colloca l'una accanto all 'altra, in bell 'ordine, sulla mésa, una lunga e capace tavoletta, adatta all'uso, e le copre con una bianca tovaglia. Prende il cercine, se lo mette sul capo, centrandolo, si china e su quello, aiutata da qualcuno di casa, sistema la mésa bene in equilibrio; si rialza e, reggendola forte con una mano, si avvia verso il forno. Il fornaio si è alzato presto per preparare il forno. Quando la massaia vi giunge, è ormai giorno da un pezzo. Il fornaio ha il viso rubicondo, arrossato dal calore. Ci sono altre donne. Che tepore e che sentore di farina lievitata! Fuori, il maiellese fischia e punge, ma lì dentro si sta bene. La conversazione si anima, si fa calda, sapida anche, adeguandosi, certo inconsapevolmente, allo stato termico, impregnato di forti effluvi, dell'ambiente. È dal forno che si propalano poi le novità del giorno. Il fornaio, assicuratosi che il forno è ben caldo, al punto giusto, toglie i residui della legna arsa, spazza accuratamente dentro, e comincia ad introdurvi le pagnotte, servendosi di una pala lunga come un remo. La massaia indugia fino a quando le sue pagnotte non vengono ingoiate dalla bocca del forno e torna a casa. Tornerà al forno più tardi, con un canestro, per riprendere il pane. Affiora adesso un'altra gentile costumanza dei tempi: l'invito all'assaggio del pane fresco: invito che si compiva come un rito. La portatrice del pane fresco, ancora odoroso di forno, quando, durante il tragitto verso casa, incontrava qualche persona, non importa se parente o semplice conoscente, la invitava ad assaggiare un po' del suo pane. «Favorisci», diceva con un sorriso gentile. Oltre i convenevoli, era questo un invito sincero, tanto che spesso la portatrice si toglieva dal capo il canestro del pane, lo posava, staccava un lembo di crosta, scegliendolo dall'orlo più rosolato, e lo porgeva cortesemente all'invitato perché lo assaggiasse. L'invito era rivolto a tutti. Passando diritto, senza farlo, era segno di cattiva educazione, di cui nessuna donna voleva dare prova. Quante fatiche era costato quel pane! Dura è la terra a quelle altitudini e i frutti che rende non sono abbondanti. Quanto sudore per rimuovere quelle zolle! Ma l'amore per essa, pur così avara, era fortemente radicato nella gente. Un pezzo di terra da coltivare lo avevano tutti e poco importava che esso fosse vicino all'abitato o nell'agro lontano, a un'ora di cammino a piedi. Durante il lungo inverno, quando il seme dormiva sotto la neve, la gente sognava copiosi raccolti, traendo auspicio dalle abbondanti nevicate. "Sotto la neve, pane": l'antico adagio non era stato mai smentito, dicevano. A primavera, dopo lo scioglimento delle nevi, quando la campagna cominciava a rinverdire e i primi germogli spuntavano timidamente qua e là, i vecchi sentieri sassosi, che percorrevano il territorio in tutte le direzioni e menavano alle lontane contrade, cominciavano a rianimarsi: iniziavano i primi lavori campestri. C'era da zappettare il grano, poi da seminare le patate, i legumi, gli ortaggi. So du le cóse che n'iéne paràgge: la luna de iennàre e re sòle de màgge. Nelle sere di maggio, così piene d'incanto, mentre sui campi scendevano le prime ombre, si levava improvviso, dolce e malinconico, un canto d'amore: erano le campagnole, che si preparavano al rientro. Lontano rispondeva un altro coro. Datasi così la voce, le donne dei gruppi, cantando a cori alterni, riprendevano, stanche ma liete, la via di casa, recando ciascuna la zappetta sulle spalle e l' involtino dei panni sotto il braccio. A giugno c'era la fienagione. I robusti falciatori avanzavano curvi nei prati falciando: con una falciata, a semicerchio, rasavano una larga striscia d'erba. Si udiva il sibilo, rapido e ritmato, prodotto dalla lama sugli steli. Dietro, i falciatori si lasciavano lunghe e ordinate strisce di fieno. Di tanto in tanto sostavano un momento, si tergevano l'abbondante sudore e si attaccavano alla fiasca: di vino, non d'acqua. Il vino, dicevano, asciuga e dà forza. Issavano la grande falce fienaia, dalla parte del manico, e affilavano la lama con la còte. Dai prati falciati esalava, acuto, l'odore del fieno steso a terra ad asciugare. Poi, una volta asciugato, veniva ammucchiato e la campagna si agghindava di stigli, quei caratteristici mucchi di fieno, simili a pagliai, ma più alti e snelli, da cui emergeva la punta di un palo. Venivano rimossi prima dell'inverno, quando il fieno si era ben seccato e bisognava riporlo nei fienili. Il paesaggio, privato degli stigli, immalinconiva. Ma il pensiero di tutti era rivolto al grano, che ormai aveva accestito. Si temevano le grandinate, il flagello dei campi, che qualche volta purtroppo venivano. È impresso ancora nella memoria collettiva il ricordo di una violenta grandinata che un anno, prima della mietitura, si rovesciò improvvisamente sulla campagna. Cessato il temporale e tornato il sereno, uomini e donne, oppressi da un'ansia angosciosa, corsero trafelati nei campi. Uno scempio! Le messi, pronte a maturare, giacevano a terra, piegate sugli steli, come se vi fosse passato sopra un rullo compressore. Il raccolto di intere contrade era irrimediabilmente compromesso. I lamenti delle donne riempivano la sera estiva. Luglio, finalmente! Le messi biondeggiavano ormai mature e la campagna pullulava di gente da mane a sera. Partivano ai primi chiarori dell'alba i mietitori, diretti alle lontane contrade: li accompagnava qualcuno di famiglia, spesso un ragazzo. Alla levata del sole rifulgeva, in una ricca gamma di gradazioni, il giallo fulvo della campagna, cosparsa di una miriade di appezzamenti, grandi e piccoli, recintati con muretti di pietra a secco, coperti di rovi. Tutto quel mare d'oro era franto, qua e là, dal verde delle seminagioni di primavera. Le messi ondeggiavano lievi al vento del mattino. Quelli di Macchia, di Guastra e dell'Orto Ianiro erano, a detta di tutti, i terreni più redditizi. Le spighe cedevano, piegando il capo, sotto il peso dei grossi chicchi. Mentre il sole avvampava nel cielo, i mietitori mietevano svelti, curvi, a dorso scoperto, lasciandosi dietro i dorati mannelli, che poi legavano in covoni. Al ritmo delle falci alzavano lunghi e patetici canti. Acqua, chiedevano continuamente acqua. I barilotti e le cicine di creta si svuotavano presto. Per rifornirsi, bisognava cercare le fonti campestri, spesso lontane. Dai terreni delle Cimalte, che erano più a nord e lambivano le fresche faggete di Monte Campo, si scendeva a cercare la Fonte dei Pezzenti o la Fonte del Forno, alle pendici del Colle di San Nicola; oppure si andava per acqua alla masseria di Cennaflora, giù alla Macchia. Percorrendo la campagna dorata, vedevi spuntare, qua e là, a ridosso dei muretti di recinzione, i vecchi casotti, chiamati impropriamente pagliai, così intimamente assimilati al paesaggio. Erano stati costruiti in tempi remoti, con pietre a secco: avevano un'apertura per l'ingresso e il tetto di lastroni di pietra sovrapposti, che si restringevano gradatamente, a cerchio, fino al colmo. Servivano per riporvi gli attrezzi agricoli ed anche per riparo in caso di pioggia. Se ne può ancora vedere qualcuno, mezzo diroccato, nella campagna incolta. I ragazzi si prestavano a qualche lavoretto, come quello di riunire i covoni. Speravano in cuor loro che venisse giù un po' di pioggia per avere il piacere di correre a ripararsi nei vecchi casotti, ai loro occhi così pieni di mistero. Ma la pioggia non veniva. Ardente splendeva il sole nel cielo sempre terso, di un azzurro intenso, limpido, luminoso. Si trebbiava. I mietitori erano partiti. Le vie di campagna erano ingombre di asini, giumente e mul i con le "carrucole" legate ai fianchi, ricolme di covoni, se provenivano dai campi mietuti; vuote, se dalle trebbiatrici, installate alle porte del paese, andavano nei campi a caricare. Le strade interne erano affollate di animali carichi di some di grano nuovo, provenienti dalle trebbiatrici. Il rombo dei motori e lo scarrucolìo delle pulegge durava fino a notte. Una gioiosa attività, quasi frenetica, animava il paese. Le donne che avevano già trebbiato, stendevano a terra i grandi teli di canapa e vi spandevano sopra il grano nuovo per farlo asciugare. I bambini erano ingaggiati, per un pugno di albicocche o di prugne, per parare le galline e tenerle lontane. Finite le prugne, non resistevano alla tentazione di ficcarsi in bocca una manciata di chicchi. Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Storie capracottese d'altri tempi, D'Andrea, Lainate 1995.
- Capracotta e il pianoro di Prato Gentile
Immagina una splendida domenica di gennaio. Di buon mattino il sole dipinge di un rosa tenue la coltre nevosa del pianoro di Prato Gentile, e tu a un tratto pensi davvero che quella neve candida, caduta silenziosamente durante la notte, fiocco dopo fiocco, abbia davvero un'anima gentile, pronta e desiderosa di accogliere i tuoi passi per regalarti quell'intimità magica che solo un paesaggio innevato sa offrire. Siamo a Capracotta, piccolo e suggestivo borgo del versante più settentrionale della provincia di Isernia, situato a circa 1.400 metri di quota, caratteristica che rende questo luogo uno dei paesi più alti dell'Appennino. L'altimetria, le condizioni orografiche favorevoli e il forte innevamento hanno contribuito in maniera piuttosto significativa affinché l'attività turistica e gli sport invernali in particolare potessero svilupparsi in modo eccellente. Capracotta è senza dubbio una delle più belle e suggestive località dove praticare sport come lo sci di fondo, attività escursionistiche con le ciaspole e, nella tranquillità dei boschi e dei borghi circostanti, trascorrere piacevoli giornate in totale relax. Il Centro per lo Sci di fondo di Prato Gentile offre tracciati di diversa difficoltà che si estendono per oltre quindici chilometri, formati da due anelli agonistici e uno di tipo turistico. La pista "Mario Di Nucci", omologata F.I.S.I., ha ospitato il Campionato italiano di sci di fondo del 1997. Il suo tracciato attraversa splendide faggete e abetaie che regalano un paesaggio fiabesco. Il comprensorio sciistico di Prato Gentile è poco distante dagli impianti di risalita di Monte Capraro che, insieme a Monte Campo, rappresenta la cima principale del comprensorio e consente di praticare anche lo sci alpino e lo snowboard. I sentieri presenti consentono di raggiungere punti panoramici particolarmente incantevoli che spaziano dai monti della Meta sino alla Majella e al Gran Sasso; percorsi che, con l'ausilio di una Guida Ambientale Escursionistica, rivelano e svelano tutta la loro ricchezza e bellezza. Capracotta è anche una straordinaria destinazione gastronomica, rinomata soprattutto per i prodotti ottenuti dalla trasformazione del latte, dai sapori genuini e autentici che soddisfano i palati più sopraffini. In tutto il territorio sono presenti diversi caseifici specializzati nella produzione artigianale di vere e proprie prelibatezze. Ne sono un esempio la stracciata, un latticino fresco a pasta filata dalla forma appiattita prodotto con latte vaccino, i gustosi fiordilatte, i caciocavalli e i caratteristici pecorini che arricchiscono l'offerta gastronomica locale. Un'altra squisitezza tutta "capracottese" è senza dubbio la Pezzata, un piatto molto gustoso le cui origini rimandano al rito della transumanza, lo spostamento di greggi e pastori dalle montagne verso le valli. Si tratta di carne di pecora che viene sapientemente preparata e cucinata in un callàre di rame e gustata in tegami di terracotta che ne esaltano i profumi e i sapori. Questi primi suggerimenti permettono già di vivere una bella esperienza di soggiorno tra natura incontaminata, gastronomia di alta qualità e attività sulla neve per tutti i gusti; ma Capracotta ha ancora molto altro da offrire ai suoi visitatori. Venite a scoprire un luogo capace di sorprendervi in tutto l'arco dell'anno ma che durante il periodo invernale sa esprimere il meglio della sua sincera e originale accoglienza. Guglielmo Ruggiero Fonte: G. Ruggiero, Capracotta e il pianoro di Prato Gentile, in «Guida turistica del Molise», Piedimonte Matese, ottobre 2021.
- Il matematico Nicola Trudi
(Campobasso, 21 luglio 1811 - Caserta, 3 ottobre 1884) In base a una consolidata ed errata prassi i biografi del passato tendevano a trascurare la discendenza matrilineare dei grandi personaggi. Nicola Trudi, infatti, è sempre ricordato come un grandissimo matematico campobassano, altre volte come un figlio illustre di Forlì del Sannio. Ma in quasi nessun libro e su nessuna lapide egli viene ricordato per le sue origini capracottesi in quanto figlio di Rachele Carugno, a sua volta «figliuola di Preziosa Falconi, cugina dell'avo materno del defunto senatore Nicola Falconi, e sorella a Filippo Falconi, avo materno del padre di Tommaso Mosca». Nel bel libro di Sergio Bucci sul Convitto Nazionale "Mario Pagano" di Campobasso, nella sezione dedicata agli studenti illustri, si legge che Trudi fu un «matematico insigne, come recita la lapide posta sulla facciata esterna del Convitto, [...] fu professore di Calcolo all'Università di Napoli dove si conserva tuttora un suo busto». Nella capitale del Regno la famiglia Trudi abitò nel Palazzo Filangieri d'Arianello, in via Atri 23, uno splendido edificio sul quale oggi si stagliano, oltre a quella di Nicola Trudi, le epigrafi di Wolfgang Goethe, Gaetano Filangieri e Benedetto Croce, che lì vissero. Facendo tesoro dei fitti contatti avuti con Jakob Steiner (1796-1863) e con Carl Jacobi (1804-1851), che nell'aprile 1844 furono in viaggio a Napoli, Nicola Trudi fu tra i primi a elevare il livello degli studi matematici nella capitale del Regno. Egli si era infatti discostato dal cav. Vincenzo Flauti (1782-1863) - uno dei principali esponenti della scuola matematica sintetica napoletana del XIX secolo che si rifaceva alla geometria euclidea -, di cui fu allievo, per seguire la geometria cartesiana e altri metodi moderni che cozzavano col principio d'autorità stabilito dalla dottrina della Chiesa. Nicola Trudi fu socio del Reale Istituto d'Incoraggiamento, dell'Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche e dell'Accademia Pontaniana; i suoi contributi scientifici concernono la teoria delle funzioni ellittiche e i connessi poligoni di Poncelet. Nel 1862 pubblicò uno dei primi saggi sulla teoria dei determinanti, che vennero definiti "determinanti di Trudi" proprio per evidenziarne l'originalità rispetto a quelli di Alexandre-Théophile Vandermonde. Alla ricerca scientifica Trudi affiancò sempre la missione didattica, tanto che fu professore di Calcolo infinitesimale presso l'Università di Napoli, dove ebbe per allievo anche Pasquale del Pezzo (1859-1936), futuro esponente della Scuola Italiana di Geometria Algebrica. Ai nostri occhi appare altamente probabile che Nicola Trudi, soprattutto in giovane età, abbia soggiornato a Capracotta per far visita ai parenti materni e per godersi l'aria salubre d’alta montagna; tuttavia rileviamo che, allo stato attuale, non vi sono testimonianze scritte in grado di confermarcelo. Francesco Mendozzi Fonte: F. Mendozzi, In costanza del suo legittimo matrimonio. Sociologia del popolo di Capracotta desunta dai registri dello stato civile napoleonico (1809-1815), Youcanprint, Lecce 2021.
- La dea Kerres
Nel 1848, in località Fonte del Romito, in territorio di Capracotta, il contadino Pietro Tisone, intento a dissodare la terra di Giangregorio Falconi, rinvenne una tavoletta di bronzo con inciso un testo apparentemente indecifrabile: era la Tavola Osca, una placca metallica di 28x16,5 cm. risalente al 250 a.C. che parla del culto allora esistente presso il popolo osco-sannita. La tavola era posta all'entrata di un recinto sacro che fungeva sia da luogo di culto, all'aria aperta, che da centro fiscale, dove poter pagare i tributi per la comunità, una rudimentale forma di cassa erariale. Il culto era finalizzato a ringraziare e propiziare la dea Kerres, incarnazione dei fenomeni della natura, quindi generatrice e protettrice della flora, delle sorgenti e dell'agricoltura. Non mancavano le divinità maschili, anche se in una posizione secondaria e non aggressiva: tra queste, Giove ed Ercole erano quelle principali, tuttavia erano molto diversi da quelli greco-romani, profondamente maschilisti. Ebbene, le nostre antenate riconoscevano sia la meraviglia che la sorgente di tutto il ciclo della natura, fosse essa spontanea, coltivata o addomesticata, dove Kerres ne simboleggiava vita, morte e rigenerazione. Ne conseguiva che la natura era vissuta con amore e attenzione e celebrata insieme alle donne, tutte, anch'esse fonti di vita e di amore, finché i Romani prima e poi il cattolicesimo non spazzarono via questo culto, imponendo una vera e propria religione di Stato fondata su un dio maschio e autoritario che oscurò le origini di Kerres e la visione naturale della vita e del mondo ad essa collegata. Ciò nonostante, il suo culto, da quei secoli antichi, è rimasto presente nel grande amore e nell'attenzione verso la natura e la vita conviviale, tramandate e in parte ancor oggi avvertite. Il culto della Dea Madre è sopravvissuto camuffato (e depotenziato) in quello odierno della Madonna di Loreto - una Vergine nera, a emblema della terra fonte di vita per tutti gli esseri -, Madre di Gesù che, nonostante rivesta una posizione subalterna rispetto al Dio Padre, genera, protegge, ama. Ogni tre anni si celebra a Capracotta la festa della Madonna di Loreto con la sfilata di cavalli bardati. E il cavallo non era forse l'animale archetipico delle amazzoni? Antonio D'Andrea Fonte: A. D'Andrea, La pecora che miagola perde il boccone. L'immensa eredità di Lucia di Milione: strega, amazzone e sacerdotessa di Capracotta, Youcanprint, Lecce 2019.
- Amore e gelosia (XXXIV)
XXXIV Ma voi poi ve lo siete ricordato a don Alessandro? È lui, lo stesso prete che stava facendo un bel servizio a don Salvatore quando si era presentato a casa di Elisa per la prima volta. Con il mazzo di poesie "sporche" nella tasca della tonaca, stava per far leggere quei versi audaci al giudice, il padre di Elisa. Ne sarebbe derivato uno scatafascio! Per fortuna era intervenuta la madre della ragazza che l'aveva fermato in tempo! Questo tanto per definire meglio il personaggio: e tuttavia quell'uomo così ristretto di mente, bigotto fino alle estreme conseguenze, ebbe uno scatto di impulso che neanche lui seppe poi spiegare. – Ma dove andate, don Salvatore? Tornate indietro! Mica ve sto dicenne che nun ve voglio aiuta'! Venite ccà, parlamme! Ma secondo voi a me fa piacere vedere quella povera uagliona che si intristisce? Per me è una figlia, e una figlia prediletta! La famiglia poi! Che signori, che gente perbene! Don Salvatore, statemi a senti': diciteme 'e cose cumme stanne overamente e poi vediamo che cosa fare! Va bene? Il poeta capì che a quel punto non poteva più tirarsi indietro: doveva dire tutto a don Alessandro e poi affidarsi a lui, non c'erano altre strade. – No, è che... Elisa una quindicina di giorni fa mi ha fatto uno strano discorso... che non poteva venire a Napoli, doveva andare a Capracotta con la madre, che per un po' non dovevamo vederci e via dicendo... Io mi sono offeso e me ne fino andato, poi... come si dice... tu mantiene accà, io nun molle allà... – Agge capite tutte cose! Eeeh, ma chelle 'e femmene hanno ragione! Don Salvatore, voi vi dovete decidere! La ragazza la dovete impalmare! E mica la potete tenere lì al vostro servizio mentre gli anni passano! – E questo mò che c'entra? Che cosa è questo discorso che mi fate, don Alessandro? Io a Elisa le voglio bene e me la sposo, ma... – C'entra, c'entra, statemi a sentire! La questione è tutta lì! Ma non capite che Elisa vive in un piccolo paese e tiene tutti gli occhi addosso! Quelli aspettano solo che voi la lasciate! Mò già murmureiene che si è fatta grossa, e n'atu poche rimane pa vetrina! Ma ve le immaginate le zeppate che riceve la madre dalle compagne? Io le ho sentite una volta! Il prete si mutò in volto e mimò una delle sue parrocchiane, tra le più assidue a battersi il petto durante la messa... – Cara amica mia, – cominciò a parlare con voce fessa, al femminile – mia figlia si sposa, a diciotto anni... Come sono contenta, è l'età giusta! – Senti, ma io te lo devo dire proprio: Elisa, tanto bella, ancora a perdere tempo dietro a quel... poeta, tanto più vecchio di lei! Per quanto pure lei ormai va per i trenta... Tu devi insistere, devi farli sposare! E se no, ognuno per la sua strada! Affaticato dall'imitazione fatta, il prete prese fiato, poi concluse: – E mò avete capito, don Salvato', in che guaio avete cacciato quella povera uagliona? Tutto il paese chiacchiera, le amiche vere consigliano, 'e mmeriose se spassane e mettono inciuci in mezzo continuamente! L'ultimo è che voi tenete per amante una grande attrice ed Elisa fa solo 'o cupierchie! Prese di nuovo fiato don Alessandro e: – Don Salvato'... ma veramente tenete l'amante, la grande attrice? Francesco Caso
- Tiberio Carafa e il clima di tensione a Napoli tra il 1693 e il 1696
Tiberio Carafa nacque a Chiusano il 27 gennaio 1669 da Fabrizio principe di Chiusano e da Beatrice della Leonessa dei duchi di Ceppaloni. Dopo aver ricevuto una prima educazione dai maestri del luogo si trasferì a Napoli, dove si dedicò all’apprendimanto delle cosiddette arti cavalleresche. Nel 1692, sposò Giovanna Carafa dei duchi di Forlì, vedova del duca di Capracotta e, successivamente del duca di Campolieto. Il matrimonio era stato voluto dal padre del Carafa interessato ad assicurare al figlio la pingue eredità del Campolieto. Gli ultimi anni del secolo XVII, durante i quali giunse a maturazione il problema della successione spagnola, determinarono un certo clima di irrequietezza di cui si faceva portatore un gruppo di nobili di cui il Carafa può essere considerato, insieme allo Spinelli, l'ideologo. I valori che lo muovevano non erano però quelli della nuova cultura sviluppatisi a Napoli nella seconda metà del Seicento. L'interesse dimostrato dal Carafa nelle sue Memorie per le polemiche religiose del tempo, la simpatia per le filosofie moderne, sono legate a ben precisi interessi politici. In particolare il richiamo alla tradizione anticlericale era strumentale all'opposizione alle tendenze filofrancesi in materia di successione sul trono spagnolo che avevano il loro centro nella Curia napoletana. Nell'estate del 1699 si ebbero i primi accordi relativi alla possibilità di realizzare una azione aristocratica comune da avviare in previsione dell'estinguersi della linea asburgica madrilena. Gli obbiettivi erano: l'assunzione del potere da parte del gruppo alla morte del re ed il trasferimento di esso agli eletti di Napoli per conseguire o l'autonomia del Regno o la possibilità di sceglierne il sovrano. Per procurarsi gli aiuti necessari il Carafa si sarebbe recato a Venezia. I contatti che vi ebbe non furono fruttuosi. Ritornato nel Regno riuscì ad attirare dalla sua parte un considerevole numero di nobili molisani. Alla morte di Carlo II di Spagna il programma del partito patrizio si rivelò, tuttavia, irrealizzabile. L'ascesa di Filippo di Borbone al trono spagnolo vanificava ogni possibilità di rendere Napoli autonoma dal Madrid. Fu necessario mutare gli orientamenti del movimento e cercare di dargli uno sbocco inserendolo nella contesa tra Borboni ed Asburgo. Ci si proponeva a questo punto di giungere all'acclamazione di un principe austriaco come re di Napoli. La dinamica della rivolta fu fallimentare tant'è che il Carfa unitosi al principe di Macchia fu costretto a fuggire alla volta di Venezia. Da qui si trasferì presso l'esercito imperiale di stanza in Italia, comandato da Eugenio di Savoia, alle cui dipendenze partecipò alla presa di Cremona, all'assalto di Mantova ed alla battaglia di Luzzara. Nel 1702 si recò a Vienna dove svolse un'azione mediatrice per comporre i contrasti da cui erano divisi gli esuli napoletani. Alla fine del 1703 si recò al seguito di Eugenio di Savoia in Ungheria, dove si erano avute sommosse. Tornato a Vienna, nel settembre del 1704, postosi al seguito dell'arciduca Giuseppe prese parte all’assedio di Landau. Infine nel luglio del 1707 il Carafa poté tornare con l'esrcito austriaco del Daun a Napoli. Il 16 luglio 1707 venne inviato a Barcellona presso Carlo d'Asburgo per dargli notizia dell'avvenuta conquista del Regno e per esporgli le condizioni in cui esso versava nonché le disposizioni date da Vienna. In questa occasione il Carafa stese un Parere su ciò che riteneva "vantaggioso e convenevole alla sua Patria". Alla fine del 1708, trovandosi in difficoltà finanziarie, ritornò a Napoli non senza aver ricevuto da Carlo d'Asburgo il titolo di Grande di Spagna ed una pensione annua di seimila ducati. Le sue condizioni economiche non erano delle più brillanti e lo stesso esilio volontario sarebbe stato in parte determinato dall’esigenza di ridurre le spese. Da questo ritiro il Carafa uscì in occasione della guerra che avrebbe condotto alla fine del dominio austriaco nel Napoletano. Nel dicembre del 1733 venne nominato vicario generale della provincia del Principato Ultra. Costretto ad abbandonare la provincia per l'avanzata dell'esercito nemico, si ritirò al seguito del viceré prima in Capitanata e poi in Terra di Bari. Di questa ultima provincia assunse il governo. Caduto il Regno nelle mani dell'esercito borbonico, il Carafa nel maggio 1734 si imbarcò per Venezia donde si recò a Vienna. Qui si risposò con Maria Giuseppa Pinelli dei duchi di Tocco e poté risanare un po' le finanze tanto più che tutti i suoi beni erano stati sequestrati. Morì a Vienna il 9 dicembre del 1742. Francesca D'Avino Fonte: F. D'Avino, La confisca dei beni agli eretici nella Napoli di età moderna, Dottorato di ricerca, Università degli Studi di Napoli "Federico II", Napoli 2011.
- La cartolina: elogio del cappotto
C'è in casa una vecchia cartolina illustrata di Capracotta sotto la neve - edizioni S. Sammarone - di cinquanta e passa anni fa, che ogni tanto mi capita sotto gli occhi. Quando ciò accade, non la ripongo subito, ma mi soffermo a rimirarla con qualche diletto. Si vede la piazza, lato verso la torre, sommersa da enormi cumuli di neve. La ragione per cui mi fermo a guardare la cartolina, a vezzeggiarla, non è tanto per quel subisso di neve, che certamente fa effetto, specie in tempi di magra come sono quelli correnti, quanto la suggestione che suscitano le figure che movimentano la scena. Sono tutte intabarrate nei loro mantelli, tranne due, tanto da costituire una specie di campionario del cappotto a ruota. Splendeva un bel sole quel pomeriggio di tanti anni fa in cui l'ignoto fotografo scattò la foto. La luce è vivida, ma radente; le ombre sono ben marcate e cominciano ad al lungarsi, segno che il sole sta declinando. I cumuli di neve più grossi sono ammonticchiati davanti alla casa di Vincenzino Conti e a quella dove abitava il sarto Popolano. Davanti a Vincenzino è stato creato un passaggio, ma Popolano è bloccato: portone e finestre, sepolti. Forse lui non c'è. L'ingresso della macelleria Sozio, a fianco, è scoperto: vi hanno spalato. Addosso alle case gravano, fitti e compatti, strati di neve simili ad immani parrucconi. Oddio (vien da pensare), e se i tetti cedono? Da uno di essi sporge, lateralmente, lungo la linea del timpano, una lunga fila di lisce. Il portone di Sebastiano è coperto visibilmente fino alla sommità, dove spunta il tabellone, su cui si legge: "Sebastiano Sommarone parrucchiere". Dico visibilmente perché non è detto che l'accesso al negozio sia ostruito, anzi non lo è, dal momento che, di lato, ci sono cumuli di neve rimossa e si nota una donna rivolta verso il negozio, in procinto di scendere. Sulla torretta, uno spesso strato di neve, a cupola. Dal finestrino della medesima, sopra il tabellone, si protende un coso, forse uno stuoino o una veneziana. E questo francamente stupisce non poco. Che ci fa quel coso, spruzzato di neve, sporto in avanti come se dovesse riparare l'interno dal sole? In pieno inverno? Che forse la nevicata abbia colto tutti di sorpresa, dopo un periodo di bel tempo, tanto che zia Bettina, o Lucietta, non abbia avuto il tempo di ritirarla? Mistero. Andiamo avanti. La torre dell'orologio non mostra neppure una spruzzatina di neve. Si vede che il vento l'ha aggirata. L'orologio segna, almeno così sembra, le sedici e dieci. Dunque la foto è stata scattata in un pomeriggio invernale, alle quattro e dieci. In che mese? Non a dicembre e neppure a gennaio, quando le giornate sono cortissime e a quell'ora il sole si sta coricando. A febbraio, dunque, o a marzo. Il tetto della casa di Bazzarino e quello della casa a fianco, appena imbiancati, fanno vivo contrasto con gli altri tetti bene incappucciati. Trovandosi sopravvento, la neve li ha risparmiati. Spruzzate di neve sono anche le facciate delle case della piazza, a sinistra, che hanno i balconi e le mensole delle finestre stracolmi. La persiana di una finestra al pianterreno è rimasta aperta, incastrata nella neve. Sullo sfondo, Monte Campo è ammantato di bianco. Andiamo adesso a vedere chi c'è in piazza. Ci sono ben dodici figure, undici uomini e una donna. Sono tutti in fila lungo la pista battuta tra un cumulo e l'altro. Alcuni, accortisi del fotografo, si sono messi in posa; tre uomini e un ragazzo camminano in fila indiana, tutti e quattro intabarrati; davanti al bar del Milionario c'è un uomo con un pastrano addosso o un cappotto, non si capisce bene. Tutte le volte che prendo in mano la foto, sono punto dalla curiosità di identificare le figure, forse per un desiderio inconscio di ricreare, in ispirito, un rapporto umano, affettivo con le persone che esse rappresentano, specie quelle che non ci sono più. Due di esse si riconoscono bene: sono Aurelio Di Rienzo e Annibale di don Giacinto. Aurelio non ha il cappotto, ha l'impermeabile: forse sarà venuto in piazza da sotto al serbatoio, dopo giorni di isolamento, per sentire le novità. La bufera avrà imperversato, come al solito, per tre o quattro giorni, tappando tutti in casa. Annibale ha una mantellina con il collo rialzato: sembra che guardi divertito verso il fotografo. La visione della sua immagine suscita ancora, dopo tanti anni, sensi di accorato rimpianto. Vicino ad Aurelio c'è uno che sembra Bozzetto, ma potrebbe essere anche Pompilio. Un altro sembra Amedeo Paglione. Davanti alla macelleria c'è uno che mastreggia con qualcosa che ha in mano: forse è compare Vincenzo Borrelli con il cartoccio della carne appena comprata. E quella donna che va da zio Ciano chi sarà? La moglie dello scarparello che va a comprare quattro soldi di smicce? L'uomo del bar, cui si è fatto cenno, pare che sia Antonio di Tavuto, ma il pastrano che indossa, se di pastrano si tratta, ne fa dubitare. I tre uomini e il ragazzo che incedono in fila indiana, tutti incappottati, si vedono di spalle e qu indi non sono identificabili. Nella cartolina c'è un solo ragazzo: e gli altri? Possibile che siano tutti rintanati in casa? C'è da scommettere che la fine del maltempo e la ricomparsa del sole li abbia indotti a prendcre i loro sci arrangiati e ad andarsene a sciare nei prati di Conti o al trampolino, dietro alla Madonna. Forse qualcuno si è spinto fino a Colle Liscio. Quasi tutti i personaggi hanno le fasce alle gambe, come si usava allora. Ma l'indumento che campeggia, attirando l'attenzione dello spettatore, è il cappotto a ruota. Merita perciò, questo impagabile capo di vestiario, un piccolo elogio per il servizio reso a tante generazioni. In quell'epoca, quando non esistevano giubbotti e giacconi imbottiti, per ripararsi dal freddo, in montagna, non c'era niente di più congruo del cappotto a ruota. Bene avvoltolato in esso, ti sentivi a tuo agio perché il cappotto ti creava intorno al corpo una sorta di cuscino d'aria, un isolante termico, che impediva la dispersione del calore corporeo. Ti sentivi, per modo di dire, nelle tua nicchia ecologica, al riparo. La tormenta spesso cercava di rivoltartelo sul capo, e qualche volta ci riusciva, ma questi erano gli incerti del mestiere, si fa per dire, che non sminuivano affatto la praticità e la funzionalità dell'indumento. Uno o due cappotti, spesso anche di più, di panno nero o blu, coi colli di pelliccia forniti di borchie e catenelle d'ottone per l'aggancio, funzionali ma anche elementi di ornamentazione, pendevano dagli attaccapanni di ogni casa. Erano lì, a portata di tutti, anche delle donne, quando necessario. Facevano figura, davano tono all'ambiente e, ciò che più conta, davano un appagato senso di tutela contro la tormenta e il freddo. Merito anche dei bravi sarti del paese che li sapevano confezionare a regola d'arte. (1988) Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.
- Superstizioni del popolo capracottese
Ce n'è anche da noi! Una gallina si prende licenza di cantare strozzatamente, tanto per fare del femminismo anche nel pollaio, e, se la malcauta ha l'accortezza di farlo di notte, salva la pelle, ma se vi si prova alla luce del giorno, la qual cosa annunzia sventura per il proprietario, va a finire in pentola. Ru cuoànte a r' pusatùre è buóne pe ru padróne. Vi nasce un porro all'occhio? Ebbene, esso è causato dal fascino maligno esercitato da una donna incinta, alla quale vi siete rifiutato di dare qualche cosa. Cigola il tizzo da un capo? Annunzia infortunio a chi v'è dirimpetto. Vi capita, per caso, di trovare un pezzo di ferro? La miseria vi stringerà nelle sue spire dolorose. Nel bosco vi scappa davanti una lepre? Presto v'incoglierà un gran malanno. Vi batte l'occhio destro? Avrete sfortuna; se il sinistro, bene ve ne verrà. Quànda bàtte l'uócchie drìtte, còre afflìtte. Quànda bàtte l'uócchie mànche, còre frànche. Per salvaguardare i cavalli dal danno del mal'occhio, bisogna mettere in mezzo alle loro cavezze de' peli di tasso e pezzetti di ottone. Se il caldaio esce dal fuoco con la fuliggine accesa, o la minestra scodellata fùmiga molto, o gli animali corrono all'impazzata con la coda eretta e il collo inarcato, muggendo, o la luna ha il cerchio bianco, il tempo si guasterà di certo. Vi viene il singhiozzo? Qualcuno, di lontano, parla di voi. Una pulce si è posata sulla vostra mano? Rallegratevene, ché avrete presto una cara lettera. Bevete con una vecchia? Avrete un figlio cieco. La donna incinta mangia carne di lepre o pecora scannata da' lupi? Darà alla luce un muso di lepre o sarà allupato, ossia mangerà più che se fosse affetto da tenia e avrà istinti sanguinarî. Una giovine va a cavallo nel periodo della mestruazione? Ebbene, se dimentica di configgere il coltello nel basto, sarà fatale alla bestia che cavalca. Con l'osso della forcella d'un pollo si decide se la donna incinta farà maschio o femmina e il canto primaverile del cuculo dice alle fanciulle quanti anni dovranno ancora aspettare per trovar marito. Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese, Pierro, Napoli 1911.
























