LETTERATURA CAPRACOTTESE
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
VIRGILIO JUAN
CASTIGLIONE
Le arie popolari musicate da artisti capracottesi
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
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- Una luce
Natale, mio Natale. Dietro la finestra una candela di tremula luce illumina la notte dell'infinito breve. Il gelo scende e fiocca, neve e poi neve, il firmamento di bianco si tinge e di sogno si veste l'anima mia. Lontano vado e tra i pastori mi confondo nella notte Tua. Il vento una preghiera implora e la neve solleva spogliando dal cielo le stelle come a dimenticare l'infinito. Tu Infinito sei di struggente dolcezza bambina. La nenia che ti culla canta la nostalgia del Natale mio, appena creato appena svanito tra i fiocchi di neve, di polverosa luce bianca. Bianca Santilli Fonte: B. Santilli, Una luce , in «Voci e Scrittura», V:9, Sulmona, dicembre 2008.
- Tristi ricordi
Penso sovente col pianto al cuore, a quei saccheggi, fuga e terrore, nel mio paese, a casa mia, all'incredibile gran ferocia dell'uomo bestia. Bestia di moda! al quale manca solo la coda... Suonò la tromba, passò la guerra, scese il gran fulmine, tremò la terra. Fu il fuggi fuggi degl'innocenti mentre cadevano le case ardenti... Del ferocissimo nemico in rotta il primo martire fu Capracotta... Furiosa fiamma ovunque ardeva... tutto era strazio, tutto piangeva! Cambiate in bettole s'eran le Chiese, il Camposanto, mentre in paese si operava la distruzione, portando al massimo la confusione. Pietrame, mobili, letti, stoviglie, cenci fumanti delle famiglie rimaste povere, senza speranza del pronto aiuto d'una finanza. L'aria era scura, fredda, pioveva. Quell'acre fumo si diffondeva quasi a coprire tante miserie fra gli interstizi delle macerie. Restava il popolo dalla paura alla pazzia, per la sventura di quel Novembre: Cinque giornate senza riposo, membra spezzate. Scappò il nemico, venne l'Inglese; nuovo padrone, nuove pretese! Ordinò subito lo sfollamento, senz'ascoltare nessun lamento. Pochi restarono come aiutanti scelti a casaccio: e gli altri, avanti! Pronte le macchine per il trasporto... Pronto quel popolo tra vivo e morto, senza sapere l'altra dimora, scalzi e tremanti! Chi mora mora... L'audace stanco di quei tormenti, tentò la fuga, lasciò i parenti, mettendo a prova fiato e coraggio; andò a ramingo di viaggio in viaggio... Si ricontavano spesso, in famiglia, lungo i trasbordi di molte miglia. Ed al ritorno da quella... gita tutti trovarono... Piazza pulita! (novembre 1943) Nicola D'Andrea Fonte: N. D'Andrea, Le poesie di Nicola D'Andrea , Il Richiamo, Milano 1971.
- A mond'alla chiesa
Qualche volta che vaglie alla chiesa, loc'a monde che fridde che fà! Me reggire sembre verze Crapacotte, sembra che la genda stà affacciata alla fenestra e te vò salutuà. Uarde verze Colleruse, tutte chelle terre abbandunate, me vè da penzà, e nu cendenara de pechere loche sopra come putessere sctà. Giovanni Sopra la chiesa Qualche volta che vado in chiesa, lassù che freddo che fa. Mi volto sempre verso Capracotta, sembra che la gente stia affacciata alle finestre e ti voglia salutar. Poi guardo verso Colle Ruso tutti quei terreni abbandonati e mi vien da pensar: un centinaio di pecore là sopra come potrebbero star. (trad. di Francesco Mendozzi) Fonte: https://www.filastrocche.it/ , 5 febbraio 2011.
- Canto cittadino
Produzione declamata da D. Niccolino Falconi di Capracotta. Cittadini dall'arpe dirompa, suon di gioia, d'omaggio, di fè. Questo giorno, sia giorno che rompa l'onta iniquia che un Fato ci diè. Nell'auretta che il giorno c'invia presso sera dai monti ove muor, nei rintocchi dell'ave Maria si confonda il mio canto d'amor. Col gorgheggio del semplici augelli che salutano l'alba del dì deh! sentite miei cari fratelli il mio canto che canta così. Se tra il fiero clamor delle squadre jeri il genio s'ascose e tremò, oggi ai dolci richiami di Padre scioglie il canto ch'amore inspirò; sia che l'alba l'oriente rischiari, sia che l'astro nel sommo si sta, sia che l'ombre la notte prepari, voce arcana dicendo ci va. Cittadini dall'arpe dirompa, suon di gioia, d'omaggio, di fè. Questo giorno, sia giorno che rompa l'onta iniquia che un Fato vi diè. Quei che siede sublime sul soglio Acquaviva, tua Stella si fe, nella notte del fiero cordoglio essa un raggio di pace ti diè, rischiarata dal candido raggio, riscaldata da immensa virtù, ti scuotesti dal dosso l'oltraggio, e regina sorgeste allor tu; ma regina con Cristo alla mano ma bell'astro dell'astro maggior. Del tuo nome lontano lontano volò ratto la fama l'onor. Tu nel colmo di gloria cercasti. anche il raggio che pace ti diè, nell'ebrezza di gioia bramasti un sorriso dal labro del Re. Quei che siede sul soglio sublime con sorriso risposta ti dà, e parola d'affetto t'esprime, tuo fratello quest'oggi si fà. Chi mi dona la lena del canto che l'altezza ritragga del don? Il prodigio di dono cotanto uguagliare gli accenti non pòn. Ei non rege non padre si è detto, ma la palma fraterna ci dà; quella palma stringiamo sul petto, quella palma nostr'arma sarà. Colla gioia dipinta sul fronte deh! scordiamo quel tempo che fu; dagli oltraggi futuri, e dall'onte ci frangheggia Fernando quaggiù. Rassembrati nel tempio di pace su fratelli giuriamo la fè; fede eterna costante verace a Fernando nostr'inclito Re. E dall'arpe fratelli dirompa suon di gioia, d'omaggio, di fè; questo giorno ogni affanno ci rompa e ci stringa per sempre col Re. Arcangelo Lotesoriere Fonte: A. Lotesoriere, Versi declamati , Cannone, Bari 1850.
- Paesaggio invernale capracottese
Alta e chiara è la notte. Il ciel stellato diffonde una dolcezza luminosa sovra il borgo natale addormentato, sovra ogni morta cosa. Al mite raggio di vaganti spettri assumon forma i vedovati rami, e fiorellini gelidi, a ricami, disegnansi sui vetri. Come bianco fantasma e mostro immane, vigila il faggio, inerte, alla montagna; sull'uscio del pastor più non si lagna, uggiosamente, il cane. L'arcana pace sua la notte ha schiusa sulla terra e del ciel ne' penetrali: nel ghiaccio l'alma delle cose è chiusa, nel sonno, de' mortali. Oh, la tempesta l'animo sgomenta! Al grigio cielo il faggio erge le braccia: bórea feroce mugghia e, secca, scaccia innanzi a sé la foglia e la tormenta. Taccion l'opre: natura si addormenta nel greve manto, che ben presto agghiaccia già del borgo le vie non hanno traccia: l'orologio, ogni tanto si lamenta. Ma, più iraconda sugli eccelsi campi è la tempesta: nubi minacciose rapidi solcano i sanguigni lampi. Tra le folgori il tuon mugola forte, la neve incalza... O voi, madri pietose, stringete i figli al sen: passa la morte! A distesa, solenni, le campane suonan furiosamente in sulla sera; non è il suono che invita alla preghiera, non l'annunzio festoso del dimane. Nota squilla non è che all'opre umane stanca pia benedice umil sincera: son voci di dolor nella bufera, son cupe voci disperate e strane. Dappertutto un vociare concitato, un accorrer sospetto, un terror muto, un timoroso addimandar: – Ch'è stato? – Ite, grida una donna; Egli è perduto: dal pian ritorna il Figliuol mio malato, ...E le campane chiamano all'aiuto! Oreste Conti Fonte: O. Conti, La poesia popolare capracottese , Frattarolo, Lucera 1908.
- Adesso o mai!
Gravida di speranza e di minaccia urge fatale l'ora: di Roma alla Fedel volgi la prora, porgi a Trento le braccia; ascolta il grido dell'opposta sponda; scendi, con core invitto, fiera di te, nel tragico conflitto: placa di Lissa l'onda. Non vedi che su te il periglio incombe e i fati incerti stanno? O tu, balda, darai fiato alle trombe, o ne avrai scorno e danno. Il coro incitatore: «Adesso o mai!» dall'Alpi al mar non senti? Impugna il brando, e avanti, Italia! Guai ai pigri ed agli assenti! Oreste Conti Fonte: O. Conti, Adesso o mai! , in E. Cirese, Samnium pro Patria , Colitti, Campobasso 1915.
- Haiku per Capracotta
Dal nome strano, borgo d'alta montagna, è Capracotta. Paese antico, dal passato storico, e longobardo. Invidiabile e vasto il panorama! La "stolta" Isernia, il capoluogo, fra alterne colline si vede a valle. Borgo in bufera: spesso sotto la neve resta sepolto. Vita riprende poi a Prato Gentile coi campi di sci. Tanti turisti della montagna amanti, da Roma e Napoli. Felici tutti con le "candide ostie", gioie al palato... Sollecitante i peccati di gola la sua "Pezzata". Tanti gli eventi con la vicina Agnone, in concorrenza. Marisa Gallo Fonte: https://www.altosannio.it/ , 12 maggio 2017.
- Allo specchio ti vedo
Allo specchio ti vedo e mi vedo contento allorquando mi scopro d'imbarazzo arrossito. Stempiature gentili su due begl'occhi verdi su di un naso ad uncino su due labbra comuni. Allo specchio ti vedo e mi dico « stai calmo » ogni volta che guardo un giorno e poi un altro dettagli accertanti che ti sto raggiungendo. Vedo me nello specchio ma sei tu nel mio sguardo. Allo specchio ti vedo e son sempre felice che ogni volta che parlo il diaframma risuona di una voce che è tua. È il tuo tono, il tuo stacco, solo l'aria è la mia arsa come il distacco. Allo specchio ti vedo e ricordo il tuo viso. Ti rivedo bambino, quel tuo unico calcio dato a un solo pallone. Nella composizione di canzoni d'amore ti rivedo ragazzo. Allo specchio ti vedo, sei già uomo, sposato, le tue nobili lacrime per un figlio in arrivo. Ti rivedo sul letto ormai esausto, sfiancato quando sei andato via senza che fossi invecchiato. Allo specchio ti vedo e ti sento vicino ogni volta che grido, che canto, che rido. Son sicuro che è questo il progetto di Dio che io adesso sia te, adorato padre mio. Francesco Mendozzi
- I fegliole de Capracotte
I fegliòle dell'Orte Ianìre fanne sempe n'arte a rire ma se 'u 'nnammuràte 'i cagne fanne sempe n'arte a chiagne. I fegliòle de S. Antònie c' 'a fatìe fanne ceremònie, però s'énna ì a fà amore sò despòste a qualuncóre. I fegliòle de la Fundióne zulèssere spusà 'u gióne ma se ne punne truvà c' 'u vècchie ze sanne adattà. I fegliòle de Uasìne sò ni belle segnurìne, sò belle e pure forte però tinne 'i còsse stòrte. I fegliòle de S. Giuènne pàrlene sempe allucchènne ma c' 'u spóse quillie dritte fanne 'i fatte zitte zitte. I fegliòle de Funtecèlle s'énna sta c' 'u giuvenettélle, fusse cecàte oppure surde ze ne vunne ì 'ndu scurde. I fegliòle de ru Còlle in discese guìdene a fòlle, cìrchene da sparagnà, sìrvene 'i solde pe ze spusà. I fegliòle de Còste Grille assaie forte danne 'i strille quanne che 'u 'nnammuràte i vò fà che maniàte. I fegliòle de Cacatùre ch'i giùne vanne secùre e invece z'énna sta attènte pecché i giùne fanne i fetènte. I fegliòle d' 'a Piazzètte a povera mamme 'ndanne retta e a sere 'nge sta da fà, énna scì pe ì a 'bbaccaglià. I fegliòle de Capracòtte stanne sempe frédde a nòtte ma na vòte ammaretàte a notte stanne sempe anfucàte. Oie giùne de Capracòtte i cunzìglie da darve sarrìne otte ma une alméne v' 'u vòglie dà: lassàte sta 'i femmene da qua! Peppino Le ragazze di Capracotta Le ragazze dell'Orto Ianiro ridono di continuo ma se l'innamorato le cambia di continuo piangono. Le ragazze di Sant'Antonio col lavoro fan cerimonie, però se devono amoreggiare son disposte a ogni cosa. Le ragazze di Fonte Giù vorrebbero sposarne uno giovane ma, se non trovano, devono adeguarsi a uno vecchio. Le ragazze del Casino sono belle signorine, sono belle e pure forti ma hanno le gambe storte. Le ragazze di San Giovanni parlano sempre a voce alta ma col fidanzato giusto si danno da fare in silenzio. Le ragazze delle Fonticelle devono star con le bambine, fossero cieche o sorde, vorrebbero andare al buio. Le ragazze del Colle in discesa guidano a folle, cercano di risparmiare perché servono i soldi per sposarsi. Le ragazze di Coste Grilli lanciano forti strilli quando l'innamorato vuol palpeggiarle un po'. Le ragazze di piazza Cacaturo coi giovani stan sicure ma invece dovrebbero stare attente perché i ragazzi son fetenti. Le ragazze della Piazzetta non danno retta alla povera mamma e la sera non c'è nulla da fare, devono uscire a vociare. Le ragazze di Capracotta son sempre fredde di notte ma una volta coperte la notte prendon fuoco. Ohi giovani di Capracotta, i consigli da darvi sarebbero otto ma almeno uno ve lo voglio dar: lasciate star le femmine di qua! (trad. di Francesco Mendozzi)
- I giune de Capracotte
I giùne dell'Orte Ianìre iastìmene a S. Cire quanne abbìeno a menià e 'a fegliola nen ze sta. I giùne de S. Antònie c' 'a fatìe sò ni demònie ma quann'énna fa carézze tinne troppa debelézze. I giùne de la Fundióne de fà amore nen zò bòne, 'u penzère ci u tinne pure però tinne troppa paure. I giùne de Uasìne tinne sempe 'u male de rine, i fegliòle sò custrétte che l ó re a 'nze ze métte. I giùne de S. Giuènne 'a notte vanne abbaccagliènne, 'a matine p' 'i fà iavezà sempe a mamme l' 'a chiamà. I giùne de Funtecélle sò tutte quante bèlle ma devìntene brutte quanne stann'a v ó cche asciutte. I giùne de ru Còlle n'aùsene tresèlle, ùsene sule 'u centrìne 'mbacce 'i spalle d' 'i signurine. I giùne de Còste Grille spìnnene sòlde a mille a mille, stanne sempe desperàte perciò 'ndùvene 'nnammuràte. I giùne de Cacatùre sò tutte turcetùre, pìnzene 'i vacche e 'u tratt ó re e nen pìnzene de fà amore. I giùne d' 'a Piazzètte ze cunzìderene perfètte ma se bòne 'i chiamendàte sò tutte stòrtere e stengenàte. I giùne de Capracòtte ch' 'i fegliòle ce fanne 'a lòtte, 'nz'enne anc ó re ambaràte ch' 'i fegliòle vanne allesciàte. Oie fegliòle de Capracòtte, i cunsìglie da darve sarrìne òtte ma une alméne v' 'u vòglie dà: lassate stà l'òmmene de qua! Peppino I giovani di Capracotta I giovani dell'Orto Ianiro bestemmiano san Ciro quando la cominciano a palpare e la ragazza non ci sta. I giovani di Sant'Antonio col lavoro son demoni ma quando devono far carezze mostrano troppa debolezza. I giovanni di Fonte Giù a far l'amore non son bravi, il pensiero ce lo fanno pure ma hanno troppa paura. I giovani del Casino hanno sempre il mal di reni, le ragazze son costrette con loro a non mettersi. I giovani di San Giovanni la notte si mettono a gridare, la mattina per farli alzare la mamma li deve sempre chiamare. I giovani delle Fonticelle son tutti belli ma diventano brutti quando restano a bocca asciutta. I giovani del Colle non usano elastici, usano solo il centrino sulle spalle delle signorine. I giovani di Coste Grilli spendon soldi a mille a mille, stan sempre disperati e perciò non trovano l'innamorata. I giovani di piazza Cacaturo son tutti agresti, pensano alle vacche e al trattore ma non a far l'amore. I giovani della Piazzetta si considerano perfetti ma se li guardate bene son tutti storti e sbilenchi. I giovani di Capracotta con le ragazze fan la lotta, non hanno ancora imparato che le donne van coccolate. Ohi ragazze di Capracotta, i consigli da darvi sarebbero otto ma uno almeno ve lo voglio dar: lasciate star gli uomini di qua! (trad. di Francesco Mendozzi)
- La risposta der... "Poeta"
Er sor Armanno è tipo duro, vole punì sti regazzetti co' na chilata de bromuro e de valiùm quattro etti. Se 'mbriaca en trattoria co' l'amici de borgata, quanto beve mamma mia, ce vorrebbe na purgata. La società dei magnaccioni, la società de Roma bella, ma fanno male i lampacioni co' trippa, coda e na frittella! Co' la porchetta e la ricotta magni fave e pecorino ma fatte un giro a Capracotta e lascia stare poi quer vino. Te piace Sirvio, lo devi ammétte, co' le porcate che combina, ma che te manna na starlette, na bella figliola o na sbarbina? Er pesce puzza de la testa, se dice un po' de parti mie, ce voi proprio annà a 'sta festa facenno un po' de peripezie? Loro, e ragazzetti, so frustrati in questa sporca società e poi venimmo circondati da guappi Neroni... in libertà. Nei palazzi se da er mal'esempio, fanno crede d'esse Dio in terra, nun meravigliarti de 'sto scempio ce pò sarvà solo na guerra... Gabriele Renda Fonte: http://www.poetare.it/ , 10 settembre 2015.
- Elegia ob obitum Domini Joannis Dominici Falconi
Clausit Episcopus heu! Falconi lumina morte. Tuam charis dura fata fuere suis! Abstulit atra dies, et funere mersit acerbo! O Capræcoctæ gloria magna, decus! Si pius, integer, et nulli probitate secundus vixerit, ætherea scandit ad astra via. Hoc tumulo ossa jacent, donec fastigia Cœli conscendent anima, te veniente die! Nobilis Altamura, tuus dolor ora repressit! Facundus Præsul mortis ademit iter! Civis Aquævivæ, terremur imagine mortis visa; sæva tamen crimina luce geme!... Sat decet occulto venerari murmore manes, atque simul colere nomen honore suum. Sed tantum patriæ Dominus concessit honorem, non vobis, flenti corpus habere suum. Et tumulum facite, et tumulo superaddite carmen, cui dixit. Patria carmina sculpta dedit. Ipsa sinum rursus lacrymis implevit obortis, terque, quaterque pia funera duxit ei. Præsulis æternum an teneat per sæcula nomen? Ipsa tenebit eum semper in ore suo. Horibus innumeris aspergitur undique bustam, ad sacrum unanimes eja venite locum. Præterea trahimus querulas de pectore voces, mœstos ed dulces ore ciendo modos: o Præsul, quoniam fatalia fila recidit mors infesta tibi, percipe mente sonum: cum fauste teneas æternæ regna salutis, invoca confestim supplice voce Deum; ut diras mittat nostro de pectore curas, et populis pacis fœdera firma donet; ut gentes videant manifesto in lumine Verum, laudibus et cultu sic venerentur eum. Perfice; non valeat dignas persolvere grates et si lingua tibi, corde manebit amor. Agostino Bonanotte Per la morte di Giovanni Domenico Falconi vescovo del Signore Ohimé! Il vescovo Falconi chiuse gli occhi a causa della morte. Che io possa espiare quelli che furono i crudeli destini con i suoi favori! Lo strappò il giorno funesto, e lo inghiottì in una morte prematura! Oh illustre vanto di Capracotta, oh onore! Qualora qualcuno lo abbia definito pio, virtuoso, e secondo a nessuno per rettitudine, ascese fino alle stelle attraverso le vie del cielo. In questo sepolcro giacciono i suoi resti mortali, fino a quando le altezze dei cieli eleveranno te nell'anima, arrivando per te il giorno predestinato! Nobile di Altamura, il tuo dolore ti chiuse la bocca! Presule facondo, il sentiero della morte ti ha strappato! Cittadino di Acquaviva, siamo atterriti dall'aver scorto l'ombra della morte; tuttavia compiangi nella luce le orribili colpe! Conviene alquanto che i defunti siano onorati con preghiere nascoste, e insieme onorare il loro nome. Ma il Signore ha concesso un tale onore alla patria, non a voi, a chi piange di avere il suo corpo. Preparate un sepolcro, e aggiungete sulla tomba un'iscrizione in onore di quello che la patria gli dedicò. La patria consegnò iscrizioni scolpite. Essa stessa riempì più e più volte il petto con le lacrime sgorgate dagli occhi, per tre e per quattro volte, gli dedica una doverosa sepoltura. Si tramanderà in eterno il nome immortale del vescovo? Essa stessa sempre lo ricorderà. La tomba sia cosparsa da innumerevoli onori, orsù, venite concordi presso questo sacro luogo. Poi eleviamo dal petto canti di compianto, pieni di mestizia e di dolcezza cantando così: vescovo, poiché il destino di morte a te ostile ha reciso il filo della vita, accogli questa preghiera: poiché hai raggiunto felicemente il regno dell'eterna salvezza, invoca subito Dio supplicandolo di allontanare dal nostro cuore gli affanni funesti, e implorandolo di donare la stabile alleanza di pace tra i popoli; affinché le genti vedano rifulgere il Vero, di coloro che lo venerano con lodi e devozione. Accorda questa preghiera; e se non ti sia permesso rendere giuste grazie attraverso la preghiera, nel cuore rimarrà l'amore. (trad. di Alessandra Scorcia) Fonte: A. Caruso, L'arciprete Agostino Bonanotte di Capracotta: dalla microstoria alla storia , Artificio, Ascoli Piceno 2016.
- Canti popolari di Capracotta (II)
La fanciulla del nostro popolo è molto positiva in fatto di amore: accetta con non molta esitazione le richieste, sicura che 1a potente invisibile mano del destino, la guiderà all'uomo che saprà comprenderla, che le darà il nome e la comunanza di vita. Una grande influenza esercita su lei il primo amore. Oh, il primo amore! Quante speranze! Quanti affetti! I cuori giovanili si aprono alla divina fiamma, come i fiorellini alla rugiada, si scuotono dal torpore in che giacevano, la vita sembra più bella, più volentieri si fa quello per cui prima si era negato. Una volta sola può amarsi veramente nella vita: la passione non si rinnovella! Chi può dimenticare la persona cara che prima ha tocco il nostro cuore con la fiamma della passione? Chi il luogo ove la vide la prima volta? Chi può giurare che dalla sua mente si sia allontanato il ricordo di quel primo incontro? 16 Ru prim'amore nen se scòrda mai! Ru prim'amore è come la ténta, add ó s'appoia nen se stégne mai; e ru sec ó nde è come la vrénna, la iétte mmiése all'acca e se ne vai. Come r'auciégli, che pìzzica r' pire e ce lassa r' sapore 'nzuccarate, e ce torna, cuscì chi ze marita, semp'arretorna ar prime 'nnammurate. O giuvinétta, che gentile sèi, che cosa sia l'amore ancor nen sai, tu stiétte férme 'nsine all'iènne miei, e le péne d'amore apprènderai. 17 M ó me ne viénghe, bèlla, a passe a passe, viénghe da te a piglièrte 'n pussèsse. Tròve la casa apèrta, e me ne trasce, tròve la seggetèlla e m'arrepose. Pu ó ze ne vène r' padrone de casa: – Che vieà facènne, giglie, tra le ròse? 18 Tutte quante hai viste mandemàne, suole che l'amor mié n'hai viste ancora. R'avisse viste tu, cumpagna cara, me la sapissi dà la bòna nòva? – I r'àie viste alla chiésa trascì, ingénucchieàte all'altare maggiore, e na paròla i' hai sentuta di': "Iutami Die, da ru prim'amore!". 19 Luoàcce de séta, capiglie de vellute, ru prime 'nnammurate m'ha lassate, ru prime 'nnammurate se n'è iute. Ma l'idillio non è sempre sereno: spesso, la gelosia muove i primi passi, agitandolo, nel cuore degli innamorati. La cosa che si ama è sempre cara, e mai si cessa di temere per essa, e sempre si vorrebbe sottrarla a tutto e a tutti, circondarla di cure e di devozione come un idolo. Come imporsi un riserbo? Come allontanare da sè la terribile furia? 20 Chi pate de gélusia rosca le fafe, chi tè la scieàmma ar còre magna la nève. 21 Chi te l'ha ditte, amore, ca nen te vu ó glie? Fatte la vèste ghieànca, ca m' te piglie. E si seguono i pettegolezzi, i litigi con un crescendo meraviglioso, perché, pel grande amore che si portano, i due giovani si adombrano al più lieve accenno che sfiori il loro grande sogno. E si accusano reciprocamente d'indifferenza o peggio, e l'uno non sa darsi pace e resta perplesso e non sa spiegarsi il repentino cangiamento dell'altro. Egli soffre, e versa lacrime, e vorrebbe mettere a nudo il cuor alla bella crucciata per allontanare ogni malinteso, disperdere ogni dubbio, annientare ogni maligna insinuazione. 22 Le male lénghe làssale parlà, ca quisse è ru destine ch'iéne avute. 23 Che t'haie fatte, amore, che stai 'ncagnate; che dispiacére hai da stu còre avute? Qualche cattiva lénga t'ha parlate, t'ha ditte male de me, tu l'hié credùte. Oh, che pòzz'arde come alla bambace, come alla cannéla ch'arde e stuta: o care amore mie, facéme pace, cuscì nen parlarriéne tanta nemici. Chi di noi, nel mese che l'anitra selvatica lascia la Maiella, e Vallesorda si riveste di tinte gialle e dal Sangro si elevano fumi bianchi, chi di noi non ha inteso, nelle campagne ammantate di pallore, ne' boschi senza mistero, sui monti deserti, il canto melanconico delle nostre montanare? Chi non l'ha inteso, profondamente patetico o giocoso, a primavera, quando, invitate anche dalla natura rimessa a nuovo, coll'accesa fantasia personificano gli esseri inanimati, fanno vivere le erbe e le piante, e all'aura, ai fiori, agli uccelli confidano i palpiti della loro vergine anima? Oh, come allora escono d'ogni riserbo, e, mentre nel linguaggio comune difficilmente si permetterebbero di parlar di baci all'innamorato, allor che esprimono col canto la piena dell'animo loro, non sanno più dominarsi, ché la passione è più forte. 24 Partenza dulurosa e vita cara, chi sa ddumane a séra add ó me tròve. Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese , Pierro, Napoli 1911.
- Parolieri, cantanti e complessi di Capracotta nei favolosi anni '60
Mio padre Nicola Mendozzi (1949-2017), assieme al suo grande amico Luigi Parini (1949-1996) di Agnone, è stato il primo capracottese a depositare un brano originale di musica leggera presso la Società italiana degli Autori ed Editori (SIAE). Correva l'anno 1969 e la canzone s'intitolava "Il mare in settembre". Se i parolieri erano i due citati altomolisani, la musica fu invece composta dai Ruthuard, ossia Giuseppe Damele (1928-2012) , autore di indimenticabili canzoni de Le Orme, ed Elvio Monti, arrangiatore dei primi successi di Fabrizio De André. All'epoca, "Il mare in settembre" ebbe vari passaggi in radio, dapprima nella trasmissione "Biliardino a tempo di musica" ed in seguito ne "Il mattiniere" di Adriano Mazzoletti. Quella prima esperienza, pubblicata sia su 45 giri che su LP, diede l'avvio alla stesura di altre canzoni, da "Ridono di te" ad "Amore che mi dai", passando per "Una calda estate", "Io se non piangevo mai" - incisa da I Notabili su musica di Italo Salizzato (1941-2019) -, "Cosa c'è di vero" e "Pattini d'argento", pubblicate da Golden Record. Per la coppia Mendozzi-Parini, negli anni a seguire, arriveranno gli incontri coi direttori d'orchestra Antonio Coggio, Gian Franco Reverberi e Piero Pintucci, la corrispondenza con l'indimenticato cantautore e talent scout Herbert Pagani, nonché la presentazione dell'acetato "Una sera ricorderai" per il Festival di Sanremo del 1970. Contemporanea e di maggior visibilità fu l'avventura della cantante capracottese Raffaella Perruzzi che, assieme ad Oscar Avogadro, Luciano Bertagnoli e Mariuccia Sgroi, ha fatto parte, tra il 1969 e il 1971, de I Protagonisti. Con cinque 45 giri all'attivo, questi parteciparono nel 1970 a "Un disco per l'estate" e, nel 1971, presentarono un brano per il Festival di Sanremo. La Perruzzi lasciò la band per inseguire la carriera solista, ritornando nel 1972 a "Un disco per l'estate" col brano "Cenerentola", fuoruscito dalle preziose penne di due giovani cantautori, Edoardo De Angelis e Francesco De Gregori, e pubblicato dalla It. Nel caleidoscopico mondo musicale dei favolosi anni '60 - che si prolungò ben oltre il decennio di riferimento -, va infine menzionata un'esperienza tutta interna a Capracotta, che si mosse prevalentemente nei suoi locali a partire dai primi anni '70: quella dei Vaga 7, la prima e più completa band nata nel nostro paese. I membri originari del complesso erano ovviamente sette: Antonio " Ciaciùcche " Evangelista (basso), Antonio " Cannalóne " Vizzoca (chitarra), Carmine " l'Arceprète " Angelaccio (batteria), Ennio " d'Onorìne " Di Tanna (fisarmonica e leader), Fernando " d’Aŝtòlfe " Evangelista (tastiera), Francesco " Ciccio " Di Nucci (chitarra solista) e Mario " Bettóne " Comegna (voce). È triste rilevare come buona parte dei componenti siano deceduti prematuramente. Il repertorio dei Vaga 7 andava da Peppino Di Capri a Little Tony, passando per il beat radiofonico dei Camaleonti, dei Dik Dik e dell'Equipe 84. Si trattava, insomma, di cover che i nostri interpretavano con grande impegno e talento, cercando sempre di dare un tocco personale ai brani. Per meglio comprendere quale fosse l'humus artistico del periodo, basterà dire che la vicina Agnone conobbe la nascita di cinque complessi, il più famoso dei quali resta quello dei The Pab ( Panonda Association Band ), nato nel 1968 per mano di Eduardo De Simone, Lino Mastronardi, Michele Delli Quadri e Pasqualino De Martino, seguito da I Serafici (Anastasio Tricarico, Ciro Amicone, Florenzio Anniballe e Settimio Busico) e dagli Enonga ( Agnone scritto al contrario), composto da Antonino Di Rienzo, Domenico Di Pasquo, Franco Gerbasi, Graziella Di Sabato, Nino ed Antonio Labbate e Renzo Rossini. Vita breve ebbero invece I Falchi ( Giulio Bucci, Giuseppe Di Gennaro, Giuseppe Gigliozzi, Michelino Marcovecchio, Nicolino Di Sabato e Raffaele Catolino ), nati nell'ottobre del '68, così come I Doors 69 ( Enzo De Lucia, Franco Leone, Geppino De Lucia, Giulio Bucci, Michelino Marcovecchio e Walter Latino). Nella seconda metà degli anni '70, grazie alle ricerche etnomusicologiche di Silvio Trotta, nasceranno i Musicanti del Piccolo Borgo ma questa è tutta un'altra storia... Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: E. Deregibus, Quello che non so, lo so cantare. Storia di Francesco De Gregori , Giunti, Firenze 2003; M. Maiotti e G. Del Maso, 1964-1969: i complessi musicali italiani. La loro storia attraverso le immagini , vol. II, Jamboree, Milano 2022; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. II, Youcanprint, Tricase 2017; D. Motta Frè, Promesse d'amore. L'epoca d'oro dei complessi melodici italiani: 1970-1980 , Torino 2006; A. Patriarca, L'angolo della musica , in «L'Eco dell'Alto Molise», 2, Agnone, 20 marzo 2000.
- Sapete cos'era il Tom Tom?
Avevo 6 anni quando mio padre si trasferì con tutta la famiglia a Villa Adriana, in provincia di Roma. Era il settembre 1961. Ricordo che il trasloco delle poche masserizie venne effettuato da Antonio " Ciòcce " Di Ianni col suo camion OM Tigrotto. Dopo giorni difficili per ambientarsi nella nuova destinazione, mia madre ci iscrisse alla scuola elementare, dove mio fratello Michele ed io fummo iscritti alla prima classe. A casa si parlava solo ed esclusivamente il dialetto, per cui anche il primo approccio coi nuovi compagni non fu facile. Nei pressi dell'edificio scolastico sorgeva un negozio di generi alimentari ed è qui che si consumò l'aneddoto che vado a raccontarvi. Mia madre aveva dato a me e Michele una fetta di pane e ci aveva consegnato anche 10 £ ciascuno per comprare un Tom Tom ciascuno, raccomandandoci di mangiarlo col pane. Questa sarebbe stata la colazione da consumare durante la ricreazione a scuola. Il Tom Tom era una barretta di cioccolata, molto usata allora a Capracotta (anche se non so perché venisse chiamato così). Giunti al negozio, mi rivolsi in dialetto capracottese alla padrona e le dissi: – È ditte mamma ca m'éra dà dù Tom Tom, une a me e une a fràteme. Purtroppo la signora non capì nulla e, nonostante le mie rimostranze, non riusciva a comprendere cosa volessi realmente. Dopo molte spiegazioni e risate di scherno, finalmente capì e ci diede i benedetti Tom Tom. Uscii dal negozio borbottando e dissi a mio fratello: – Michè, ècche nen g'éma chiù menì, sa pappahàlla de fémmena nen capisce niénde, nen sa manghe che è nu Tom Tom! E, tutti offesi, ci incamminammo verso scuola... Nicola Carnevale
- La statua dell'Ecce homo di Capracotta
L' Ecce homo è custodito nella sagrestia della Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta di Capracotta e viene esposto nel periodo pasquale. La statua lignea, in mediocre stato di conservazione (presenta tarli e ridipinture) è un mezzo busto (52x30x24 cm) di Gesù flagellato, col mantello trattenuto da un cordone; le mani sono incrociate davanti e, sul capo, la corona di spine. L'arch. Franco Valente ricorda che l'opera, databile al XVI-XVII secolo, è « di discreta fattura, denota una certa cura del particolare e una ricercata espressività nel volto ». La frase «Ecce homo» ("Ecco l'uomo"), che proviene dal Vangelo di Giovanni, fu proferita da Ponzio Pilato all'atto di mostrare Gesù al pubblico giudeo dopo la flagellazione inflittagli. Pilato aveva compreso che Gesù era soltanto un uomo e, ammettendone la fragilità terrena, voleva forse salvarlo dalla pena capitale. Da un punto di vista prettamente teologico, Gesù è dunque l'Uomo per antonomasia: è l'Adamo incorrotto nel Giardino dell'Eden, è l'agnello sacrificale, egli è il più santo dei santi, il più perfetto, il più autentico. Grazie all'episodio narrato nel Vangelo di Giovanni, insomma, sappiamo che torturare l'uomo significa attentare a Dio. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: E. Bianchi, "Ecce homo!" , Qiqajon, Milano 2020; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016.
- Innamoramento
Gestire una centrifuga che si incastra ad ogni giro e urla dentro, non saprei, scuote e confonde mi volto e rivolto penso di andare via ma intanto mi aggroviglio ancora finché incastrata tutto intorno stringe e perdo i sensi. Apro gli occhi ed è solo calore ormai irrefrenabile che fa esistere e rende invincibili, chiude lo stomaco, urla ancora deciso ma si scioglie dentro. Resta melma stregata. Non nasconde più argini cedevoli, le ombre si aprono in contorni netti e scuri, la verità scoperta sconvolge ma cede anch'essa davanti a un'incantevole illusione di solidità: come se un giorno tra questi canali la tua lingua scavando le ossa potesse rimediare e dare definizione tanto da farmi avere stabili sembianze. Si muove ancora senza sosta mi stacca dentro e mi cucio da sola fino a sigillare tutto per poi strapparmi in nuove figure da decifrare, se vuoi. Sei aria fredda che cambia il tempo, uccide le sterpe vecchie e sposta i semi, a boccate cerco di prenderne più che posso finché non scenderò giù a sistemare i miei relitti e aprire mostre solo per te. Agata Carnevale Fonte: https://www.vocidicarta.it/ , 16 ottobre 2023.
- La mia piccola (Francesca)
Mentre il sonno tuo lieve si ferma sugli attimi del mondo, io ti guardo e m'inginocchio per sentire breve il tuo respiro e per rubare un bacio nell'attesa del risveglio. Suona il pendolo che lento annuncia il tempo che trascorre, impaziente custode del silenzio. Sorridi finalmente e rosse le guance sveglie dell'ignoto riportano il sorriso a me che triste veglio sui tuoi capelli di seta. Ugo D'Onofrio
- Il prof. Giovanni Carnevale passerà alla storia
Da quando scrivo di architettura e di storia delle Marche, ho sempre trattato con rispetto e sottotono le divergenze fra le tesi avanzate da don Carnevale e le mie. Ora che don Giovanni riposa in pace e non può difendersi di persona dai "nonsanclaudisti", ritengo sia un mio dovere dire come la penso sulla figura di don Giovanni come storico. Nel 2016, se ben ricordo, ci fu una riunione dei suoi simpatizzanti a Montegranaro, per festeggiare una delle sue molte primavere. In quell'occasione un poeta e un certo numero di relatori, parlarono delle proprie ricerche sui Franchi, io parlai per ultimo, credo, con poche frasi che ponevano Carnevale insieme e con la stessa importanza dei tre più noti scopritori di civiltà "nascoste" ovvero Leo Wolley, il quale scoprì Ur e la grande civiltà dei Sumeri, Howard Carter che portò alla luce il tesoro della unica tomba inviolata dei faraoni egizi e Heinrich Schliemann, il commerciante d'aringhe che trovò Ilion, tutti e quattro insieme sono un poker d'assi. Carnevale è lo scopritore della Francia Picena e, checché dicano i suoi detrattori, passerà alla storia per questa sua importantissima scoperta ed è per questo suo grande pensiero innovatore che la sua memoria deve essere conservata e spiegata ai giovani, non perché disse che San Claudio somiglia a Germigny des Pres, a prescindere dal fatto che possa o meno essere vero. Entrare in luoghi bui come fece don Giovanni e vederci uno spiraglio di verità che toglie il fiato, quando tutti pensano il contrario di cosa tu intuisci, non è differente dall'episodio di Galileo che porse il cannocchiale al Porporato perché guardasse la luna. Sappiamo che rifiutò sdegnosamente: oggi tutti conoscono Galileo e nessuno più si ricorda di quel Cardinale. Questo è storia, gli storici nostrani lo sanno, ma continuano a difendere le tesi degli storici dell'M.G.H. Ho scritto e continuo a ripetere che la grandezza del Salesiano di Capracotta non sta nell'aver messo a San Claudio la cappella palatina, l'importanza del prof. don Giovanni Carnevale è di aver messo al loro posto l'Alto Medioevo e i Carolingi nell'antica Francia, questo è il primato che deve essere sostenuto e difeso, basta con i battibecchi su San Claudio e Germigny, i quadrati, i triangoli e le strisce per terra. Per quanto riguarda le corrispondenze fra i due monumenti, una esaustiva disamina dal punto di vista architettonico richiederebbe un paio di pagine in più, che magari vorrò scrivere più avanti, qui mi limito ai fatti essenziali: il nucleo architettonico di Germigny è una piccola torre centrale quadrata i cui muri d'ambito non arrivano a toccare terra perciò, per la stabilità torsionale dei 4 piedritti che la sostengono, la scelta della base quadrata è inevitabile per bloccare con dei controventi (gli archi a centro oltrepassato) i pilastri ai quattro vertici della base della torre, quanto la stabilizzazione delle pareti laterali con le absidiole. Altrettanto razionalmente scelse la base quadrata l'ingegner Eiffel per la sua torre, senza per questo aver copiato le piramidi. Le fattezze e la tecnica dell'Oratorio sono tipiche della Spagna moresca e questo si spiega con le origini culturali di Teodulfo in Settimania, lontanissimo da Aachen o Corridonia. Ora badiamo al punto di vista documentale: la nota che i sanclaudisti impugnano basandosi su poche righe di testo, secondo la Treccani, Enciclopedia dell'arte medievale 1955, è riportata nel catalogo degli abati di Benoit redatto nell'anno 900, un secolo dopo la costruzione, perciò di seconda mano. Noi abbiamo la trascrizione di terza mano del 1668 negli "Acta sanctorum" che recita «basilicam miri operis, instar videlicet eius quae Aquis est constructa». Nel testo l'edificio non è cappella , ma basilica , sostantivo che ha tutt'altro significato. Perciò l'Oratorio quale edificio pubblico non avrebbe la stessa funzione della "cappella palatina" ovvero privata. Dove e per cosa l'amanuense antico veda questa comparazione con una generica Aquis è oggi impossibile saperlo, soprattutto per le grandi aggiunte, modifiche, rifacimenti non originali specie ottocenteschi. Tutti gli edifici di culto cristiani hanno un nome traslato da aspetti funzionali o particolarità strutturali, la Chiesa da Ecclesia , la Basilica dagli edifici pubblici romani, la Cattedrale per il sedile del vescovo, eccetera; nessuna di queste corrisponde a un preciso schema tipologico, fra di esse sono accomunabili solo le funzioni. Perciò solo Frate Indovino può sapere quali analogie voleva indicare chi scrisse o trascrisse la notazione, escluso il fatto che se scrisse Aquis , fra le cento e passa Acquae romane, forse voleva riferirsi proprio al ben noto edificio -ampliato a quei tempi - eretto sulla fonte termale in Val di Chienti citata da Dione Cassio. Senza la fonte, lo ricordo ai distratti, i romani non avrebbero mai dato il nome Acquae a un sito del loro impero e Aquisgrana dovrebbe sloggiare dalla Val di Chienti e dal "Planu de Ara Grani Vocatu" (la piana detta dell'altare del dio Granno, nel sito detto delle Acque di Granno). La sola cosa certa è che l'amanuense non scrisse Cappella. Questa se la sono trovata in grembo gli storiografi tedeschi, quando decisero di eleggere a monumento carolingio l'unico edificio anteriore al 1400 ancora esistente in Bad Aachen. Quel sito non è l'Aquisgrana dove fu tumulato Carlone, perché nel sottosuolo non si è trovata alcuna sala sepolcrale, contrabbandata come tomba di Carlomagno per due secoli. In quella città hanno cercato, ma non hanno trovato la faglia causale dei terremoti di Aquisgrana dell'801 e 829. Candidamente i geologi di Bad Aachen dicono che la cercheranno ancora da qualche altra parte (come pubblicato su Academia.edu) e se la cercheranno 1.000 chilometri più a Sud, forse la troveranno. Nessun documento altomedievale autentico parla di Capellam Palatii , e mi corre l'obbligo di spiegare perché i Tedeschi se la sono dovuta creare nell'Ottocento. Quando i Tedeschi decisero di prendersi la storia della Francia Picena, offerta loro dal Re dello Stato Pontificio, si accordarono con i Francesi che vollero Pipino e i Merovingi mentre loro si presero Carlone e successori. Restavano le Capitali: ai Francesi faceva gioco Saint Denis per sostituire San Ginesio, i Tedeschi avevano solo il villaggio termale romano di Aquis Villa , e lo nobilitarono in Aquisgrana, dopo che il Papa Re aveva fatto bruciare o secretato tutti i documenti piceni con tal nome. Purtroppo avevano solo l'edificio del XII secolo (A. Nesselrath dixit). Era certamente l'unico di tono della cittadina, rinomata anche in Francia per altre peculiarità, e siccome i Francesi hanno l'abitudine di tradurre tutti i nomi stranieri, Bad Aachen avrebbe fatto Aix les Bains ma ne avevano già una in casa, per cui la chiamarono Aix la Chapelle, per quell'unico edificio medievale (mica la più logica traduzione in "Aquisgrane" se quello fosse stato davvero il suo nome). Così per il nome francese, i tedeschi furono costretti a inventarsi che il mausoleo fosse invece una cappella cioè la Pfalzkapelle, taroccatura ispirata dal «sanctus amor patriae dat animum». Investirono una fortuna a rivestire di marmi, nobilitare gli archi, decorare dappertutto con mosaici veneziani ispirati a Ravenna, inventare una cupola in pietra le cui spinte il tamburo non avrebbe sopportato senza le necessarie catene circonferenziali in acciaio e molte altre particolarità. Oggi siamo nell'anno 2024 ci sono Internet, ci sono i social , le notizie circolano velocemente e perciò i dogmi lasciamoli alla fede, che ne è l'unica depositaria lecita. Badiamo alle meraviglie che abbiamo e cerchiamo di conservarle e di farle conoscere, soprattutto per onorare le nostre radici storiche, a prescindere dal fatto che le architetture sono riconosciute dalla Costituzione come "beni culturali", piccola parola di significato giuridico ed economico grandissimo. Medardo Arduino Fonte: https://www.larucola.org/ , 11 marzo 2024.
- Lettera di J. Keith Killby ai capracottesi
11th November 1993 Prof. Ciro Mendozzi Molise Italy Gentilissimo Signor Sindaco, con questa lettera vorrei tentare di ringraziare Lei, il Parroco e tutti i Capracottesi per la vostra ospitalità ed accoglienza calorosa. Allo stesso tempo vorrei offrire le mie congratulazioni per lo splendido programma di manifestazioni durante tre giorni indimenticabili. Nemmeno in inglese saprei trovare parole giuste per esprimere i miei pensieri, i miei ricordi ed i miei sentimenti per giornate così commoventi. Mi ha fatto molto piacere poter tentare di esprimere la nostra gratitudine per tutto ciò che è stato fatto per noi 50 anni fa al Presidente della Camera dei Deputati ed a tutti i partecipanti ad un convegno così interessante. La mostra fotografica, così ben ordinata, mi ha spiegato quanto Capracotta e i suoi cittadini hanno sofferto. Ma voi potete capire che la cerimonia "Sotto il Monte" in memoria dei fratelli Fiadino con tanti parenti presenti è quella che ho trovato più commovente di tutte. Il monumento è stato molto ben restaurato. La sua posizione sul luogo stesso di quel terribile evento con la vista del paese splendido sulle colline avrà per sempre un posto molto importante nella mia memoria. Per tutto questo e per l'ospitalità e per la generosità ricevuta dai Capracottesi oggi e 50 anni fa vorrei ringraziare tutti a nome di tutti noi che abbiamo ricevuto quella generosità. Questa lettera sarà forse breve ma spero che sia riuscita ad esprimere la profondità dei miei pensieri e ricordi. I miei sinceri saluti e la mia gratitudine, James Keith Killby Fonte: https://msmtrust.org.uk/ .
- «Z'à pigliate troppe fastidie ru cumbare!»
Le rimesse dall'estero sono state un volano per lo sviluppo economico, in particolare per paesi a forte emigrazione come l'Italia. Avere un parente negli Stati Uniti, in Canada o in Germania, in grado di inviare periodicamente denaro a casa, significava, per la famiglia d'origine, poter contare su un reddito sicuro, generalmente più alto di quello medio. Capracotta, ovviamente, non faceva eccezione a questa regola. Vi racconto allora la storia di una moglie che, al marito finalmente tornato dall'America, cercò di spiegare quanto si fossero rivelate inadeguate le sue rimesse in dollari. Ella infatti affermava che, se non fosse stato per l'aiuto concreto del compare, non avrebbe potuto sopportare tutte le spese quotidiane, anzi, entusiasta, aggiunse: – Vedi? Ho comprato la tavola nuova grazie all'aiuto del compare. E pure le diciotto sedie nuove le ho acquistate con l'aiuto del compare. Vedi? Persino quei mobili nuovi ce li siamo potuti permettere con l'aiuto del compare! Il marito, oltremodo meravigliato, rispose: – Pòvere cumbàre, quànta faŝtìdie! Tuttavia, vedendo una culla con un bebè all'interno che dormicchiava, egli chiese: – E quìsse cìtre déndr'alla sciònna? La moglie, senza batter ciglio, rispose: – Pure il compare... Al che il marito sbottò: – Ma z'à pigliàte tròppe faŝtìdie ru cumbàre! Francesco Mendozzi (su idea di Gregorio Giuliano)
- Il poeta Giampietro Venditti
(Capracotta, 5 dicembre 1922 - Lucera, 4 settembre 1944) Mi chiamo Michele Venditti e sono nato a Capracotta il 21 settembre 1943, tredici giorni dopo l'armistizio con gli Alleati. Mi stavano battezzando nella Chiesa Madre quando irruppero alcune donne che annunciarono spaventate l'arrivo dei soldati tedeschi. I miei genitori mi raccontavano che gli uomini si diressero verso i boschi e le donne si rifugiarono nella cappella più grande del cimitero. In quella circostanza una scatola grande di cartone, su cui era stampato il marchio "Sapone Scala", divenne la mia culla con grande sollievo di mia madre per il persistente profumo di sapone che rivestiva il suo bambino. Di notte la culla con il bambino profumato venne adagiata in un loculo posto nelle prime file. La mia famiglia fu "invitata" dai soldati inglesi a salire su un camion militare diretto al centro sfollati di Lecce. Arrivati a Lucera, gli sfollati furono trasferiti su un treno diretto a Foggia. In questa circostanza alcuni componenti della famiglia Carnevale, residenti a Lucera da diversi anni, venuti a conoscenza della presenza di capracottesi nella stazione ferroviaria, si presentarono al responsabile del convoglio dichiarando la propria disponibilità ad ospitare la mia famiglia. La mia era una famiglia patriarcale con i nonni paterni, i miei genitori, io e mio zio Giampietro. Avuta la disponibilità di una nuova casa, la serenità regnava nei miei familiari. Purtroppo, il 4 settembre 1944 la morte tragica per annegamento di mio zio Giampietro, all'età di 22 anni, determinò un periodo doloroso per tutta la famiglia. Egli era nato a Capracotta il 5 dicembre 1922. Nel periodo scolastico aveva dimostrato grande interesse per lo studio. Agli esami di Stato fu premiato dal ministro dell'Educazione nazionale quale migliore alunno d'Italia. Si era dunque iscritto alla Facoltà di Ingegneria presso l'Università di Roma e successivamente di Napoli. Il 4 settembre 1944, tornando da Capracotta con destinazione Lucera, percorrendo la notevole distanza con mezzi di fortuna e molti chilometri a piedi, fu attratto da un piccolo torrente che scorreva nella pianura su cui si ergeva la collina con soprastanti il Castello svevo e la cittadina di Lucera. Il desiderio di rinfrescarsi e l'inesperienza nel nuoto gli furono fatali. Capitanati da Mario Romano, gli amici di Lucera, in memoria di zio Giampietro, nel 1945 diedero alle stampe una raccolta dal titolo "Tristia - Dulcia" ( Cose tristi - Cose dolci ) di 46 sue poesie e brevi pagine di prosa. Michele Venditti
- Canti popolari di Capracotta (I)
Eterno tema prediletto dal popolo è l'amore. Da noi, per lo più, il giovine comincia in chiesa a volger lo sguardo alla donna amata, poi la segue alla fontana, e infine, a tarda notte, timidamente, le manifesta la sua passione. La vergine, intanto, che ha tutto indovinato, dalla camera buia, ascolta, non vista, la serenata. In ogni parola sale a lei l'immagine del suo adoratore, sin che cessato l'omaggio notturno, che è una rivelazione, i due giovani vanno a dormire, ma per riportare nel sogno il pensiero alla persona amata. Da quella notte, per la prima volta, la fanciulla perde la pace, la passione l'avvolge nelle sue spire, il cuore le vien rapito e crede di sognare ad occhi aperti. Il giorno dopo, qualche compagna compiacente le porta l'attesa imbasciata: l'amore è corrisposto, l'idillio incomincia. 1 L'am o re cumènza che suspire e cante e ce se manna pu ó l'ambasciat ó re. 2 Piglia la cuncarèlla e va pe d'acca, ru 'nnammuràte alla fonte t'aspètta; la fonte còvre la fr ó nna de lacce, màmeta t'ha crésciuta e i t'abbràcce; la fonte sta cuvèrta a matunèlla: la conca è d'òre e la spusina è bella. 3 Amore, amore, tu iétte l'acca e i de séte mòre. 4 Ierséra me 'ncuntrieàtte che na brunétta alla fontana che la tina, 'nchiéva. Passieàtte e i diciétte: amore mié, na véveta de chéss'acca me farrìa. Éssa z'arvòlta che na lénga bella: i mieà nen d ó ne l'acca pe la via; vié quanda n'ce sta mamma e che sto sòla, te d ó ne l'acca e la persona mia. 5 Mussìgli 'nzuccaràte e arburétte de tre c ó se de te sò nnammuràte: sa ghieànca canna e su gentile piétte de s'u ó cchi nire da r' cigli 'annarcàte; tutta la vita téia nen ha defiétte, palma pe palma t'hàie arremerieàte, tu scié zetèlla e i sò giuvenòtte, tu piérde tiémpe e i sò desperàte. 6 Chìsse capìglie che 'n cape tenéte, déntr'a stu còre stieàne arretrattàte; le pèrle vu mustràte se redéte, caccia sciùre la v ó cca se parlate; vlarrìa vedé ru viérne che magnieàte che la stagione tanta bella séte, vu de zùccare e mèle ve cibieàte, l'acca du r' ciéle serìne ve vevéte. 7 Quanda t'affieàcce, o luna a campanèlla, che stieà 'nturnieàta de la vita mia, vlarrìa vacià chéssa vuccùccia bella, vlarrìa vedé le péne che ce avrìa, se péne de denieàre o de dul ó re, o puramènte de la vita mia. 8 Stella lucente scié de matutìna, ne 'mpòrta ca ru còre rubàte m'hai; quanda t' affieàcce pieàre na regina, e notte e iu ó rne me fai susperài: pecché la mamma téia nen te marita? chi te fa fa sa vita despérata? La mamma téia n'te marita appòsta, pe nen levà ru sci ó re dalla fenèstra. 9 Quanda nascisti tu nacque nu sci ó re, la luna se fermò de cammenare, le stélle ze cagnieàrene de cul ó re, e de cul ó re l'acca de ru mare. Bella figliola, piccola e galante, scié benedìtte chi te tène a mènte, scié benedìtte chi te dòrme accànte che quìsse scieàte tié ch'è tant'aulènte. 10 Ru Die de l'amore còme facètte quanda sta bèlla figlia 'ngeneràtte? Alzàtte l'u ó cchi 'n ciéle, ru sòle vedètte, e miése all'altre stélle te capàtte; pu ó te purtàtte a chéla funtanèlla add ó ve se vattéiane re 'nnuciénte: pu ó te purtàtte arru murtàle de br ó nze, add ó ze pista l'òre che r' fine argiénte. 11 U ó cchi nerèlla e catenina d'òre, tu mertarrìsce d'essere regina, tu mertarrìsce sta palazze d'òre, che déntre f ó sse de séta e de trine, ch'avésse le porte e le fenèsce d'òre e le lastre de stella matutìna: déntre starìsce tu, culònna d'òre, i servarrìa e sarìsce regina. 12 Oh, che bell'aria che sta a stu paiése, vieàte a chi ci tè la 'nnammuràta: ce sta na figlia che fila la séta, e fa re buttuncìne arrecamàti. – Bella, appìccicane quattr'a stu vestìte, te re vu ó gli pagà mille duchieàte. – Éssa z' arvòlta, tutta 'ngentelìta: « Re buttuncìne d'amor nen zo' pagàte » . 13 Amore, quand'a r' mattine v'alzate trema la terra add ó ve ve vestite, e quand'alla fenèscia v'affacciàte fin'arru sòle ru ragge 'mpedìte. Piglieàte ru vaccìle e ve lavate, piglieàte la tuvàglia e ve pulite. Piglieàte ru specchiu ó le e v'armirieàte: nen serve a remirieà ca bella séte. 14 Tu, donna, la duméneca scié fata, ru lunedì tu scié de paradìse, ru martédì scié n'angele beàte, ru mèrculdì te fieà de gioia e rise. Ru giuveddì te fieà la bella cape, ru venerdì t'armìre ru bel vise, ru sàbbate te done milla vieàci, la duméneca ce ne iéme 'n paradìse. 15 Capìglie fulte, ricce, 'nanellàti sempre davante all'u ó cchie re tenéte, ciénte lire darìa a chi re 'ntréccia, ciénte vieàce d'amore a chi re pòrta: tenéte r'u ó cchi de la négra sèrpe, e re cap ì glie de séta rentòrta. Oreste Conti Fonte: O. Conti, Letteratura popolare capracottese , Pierro, Napoli 1911.
- Il disastro ferroviario di Vasto Girardi
Napoli, 27 gennaio, notte. «Ieri sera alle 18:30 al chilometro 93,558 fra le stazioni di Vasto Girardi e Carovilli il treno 1783, per un franamento del terreno, ha deviato e le due ultime vetture di terza classe sono state rovesciate nel sottostante vallone. Vi sono quattro morti - due ferrovieri, un carabinieri e un giovanotto non ancora identificato - e dieci feriti, tutti leggermente. Il pretore del mandamento di Carovilli si è recato sul luogo per le constatazioni di legge». Questo il laconico annunzio ufficiale dato oggi alle 16:30 dalla Stefani . Da Sulmona giungono intanto i seguenti particolari. La linea Sulmona-Casarino-Caianello è la più alta dell'Italia centrale perché raggiunge, al piano della stazione di Roccaraso, metri 1.230 sul livello del mare. Da Sulmona a Sant'Ilario di Sangro la linea è costruita quasi interamente su viadotti di una grande arditezza e per alcuni tratti presenta dei grandi pericoli di curve e di precipizii. Specialmente il tratto da Pettorano sul Gizio a Palena è pericolosissimo e i treni, specialmente nella stagione invernale con la locomotiva armata di robusti spazzaneve, procedono a velocità ridotta. Il disastro avvenne a circa 90 chilometri da Sulmona fra la stazione di San Pietro Avellana, a dieci chilometri da Castel di Sangro, e quella di Vasto Girardi e precisamente al primo disco di questa stazione. Il treno 1783 era partito ieri in perfetto orario dalla stazione di Sulmona alle 14 diretto a Caianello. Era formato di otto carrozze, compreso il bagagliaio e la vettura postale, e trainato da una macchina di vecchio modello in uso su questa linea. Il viaggio era proseguito regolarmente attraverso il paesaggio solenne e nevoso sul piano di Pescocostanzo e il treno aveva raggiunto la stazione di Castel di Sangro con la prudente e consueta lentezza. Le tre vetture di terza classe erano abbastanza affollate di popolani. In una carrozza c'erano pure parecchie balie di Intro d'Acqua coi bambini lattanti. Esse vennero salvate. Alle 18:30 il piccolo treno fischiò e rallentò. Aveva superato il disco della stazione di Vasto Girardi. A un tratto i vagoni furono violentemente sbattuti gli uni contro gli altri. Il treno si fermò quasi improvvisamente. La macchina era deviata per uno slittamento sul binario coperto di nevischio e aveva urtato contro il parapetto del ponte. Se la velocità fosse stata maggiore sarebbe caduta nel vuoto trascinando tutto il treno. Per l'urto formidabile le due ultime vetture di terza classe si rovesciarono sulla sottostante scarpata. La penultima andava in frantumi rimanendo sul binario. Fu un momento di spavento e di confusione. Dalla vicinissima stazione di Vasto Girardi accorsero il capostazione e il personale di servizio, i quali procedettero subito all'apertura delle carrozze ed a soccorrere i feriti che furono su lettighe improvvisate trasportati alla stazione, e depositati nella sala d'aspetto e nell'ufficio del capostazione. I feriti dei quali non si conoscono ancora i nomi, sono una decina. I morti sono un carabiniere che da Sulmona andava a Isernia, un giovane di cui si ignora l'identità, due frenatori fuori servizio che venivano da Sulmona a Isernia, certi Galassini Ruggero di Roma e Ferretti Carlo di Anagni. Tutti e quattro si trovavano nella penultima vettura di terza classe. Furono ritrovati orribilmente sfracellati. I due frenatori furono trovati abbracciati, stretti nello spasimo di morte. I feriti sono quasi tutti contadini che emigravano in America. Per fortuna si tratta di lievi ferite. Nell'unica vettura mista di prima e seconda classe viaggiavano il colonnello cav. Antonio Ricciardi e il tenente Arturo Salvi. I due ufficiali rimasero miracolosamente incolumi, poiché la vettura in cui essi viaggiavano si trovò schiacciata fra le forze opposte dei primi carrozzoni arrestatisi bruscamente e delle due vetture di coda rovesciate. Parecchi dei feriti - di cui due sono ferrovieri - giunsero ieri sera stessa a tarda ora a Sulmona. Uno dei ferrovieri feriti ha le costole rotte; però le sue condizioni non sono gravi. Venne operato il trasbordo dei soli viaggiatori, i quali in un treno speciale procedettero per Caianello. Fu aperta una inchiesta per ricercare le cause del disastro, che avrebbe potuto essere anche più grave. Secondo coloro che conoscono le condizioni di questa infelicissima linea, l'incidente va attribuito allo stato del binario e alla neve caduta. Il ministro dei LL. PP., on. Rubini, d'accordo col direttore generale delle ferrovie, ha disposto che l'inchiesta sia affidata al capo del compartimento ing. Don e ai capi divisione ing. Talenti del movimento, ing. Mengoni-Marinelli della trazione, e ing. Steffenini del mantenimento, i quali sono subito partiti pel luogo del disastro. L'unico viaggiatore giunto a Napoli fra quelli che si trovavano nel treno 1783 precipitato nel burrone presso la stazione di Vastogirardi fu il tenente aiutante maggiore del 39° fanteria, Salvi Arturo. Riuscii a sapere dov'era ed andai a trovarlo stasera. Egli era in letto ancora sotto l'impressione del disastro. Mi narrò che tornava da Sulmona, dove si era recato a visitare la famiglia, e soggiunse: Il treno 1783 era partito da Sulmona alle 14:14 ed era composta da una locomotiva, dal bagagliaio, da una vettura mista di prima e seconda classe e da due vetture di terza. La neve cadeva abbondantissima e i binari ne erano coperti per parecchi centimetri, tanto che il treno procedeva con parecchio ritardo, anche a causa del forte vento. Assieme a me vi era il colonnello Ricciardi, comandante il reggimento di fantera a Caserta, e Pasquale Capone, direttore del dazio di Isernia. Nella prima vettura di terza vi erano due ferrovieri, un carabiniere ed un giovanotto; nell'altra un soldato di cavalleria, un bersagliere e dieci contadini abruzzesi emigranti. Alle 19 precise, a circa 800 metri dalla stazione di Vastogirardi, il treno ebbe un brusco movimento, fermandosi poscia di botto. Immediatamente s'udì un enorme fragore di vetri infranti, di legno fracassato e di grida disperate invocanti soccorso. Io ed i miei compagni di viaggio riuscimmo a stento a saltare da un finestrino: ma un orribile spettacolo ci attendeva. Il treno era completamente deragliato e la macchina, che già aveva imboccato il ponte in muratura formante cavalcavia al sottostante vallone profondo 15 metri, giunta a circa metà del ponte, era uscita dalle rotaie e, sfondando il parapetto, si era messa di traverso ostruendo completamente il ponte e restando sospesa nel vuoto colle ruote anteriori. Il bagagliaio e la vettura di prima e seconda classe si erano obliquamente addossati al parapetto; la prima vettura di terza classe, rotti i ganci e capovolta, era precipitata nel vallone frantumandosi completamente, mentre l'ultima vettura, scivolando sulla scarpata, le cadeva accanto anch'essa capovolta. La neve, intanto, continuava a cadere con violenza, mentre l'oscurità più completa rendeva difficilissimo il salvataggio. Io ed i miei compagni, passato il primo momento d'orgasmo, unitici al personale del treno, discendemmo subito per la scarpata onde portare i soccorsi più urgenti ed operare quei salvataggi che fossero possibili. Infatti frantumando i finestrini della quarta vettura riuscimmo, dopo un enorme lavoro, ad estrarre feriti più o meno gravemente i dieci emigranti, fra i quali vi era una donna incinta, ed i due militari che erano quasi incolumi e che si dettero anch'essi all'opera di soccorso pei quattro viaggiatori della prima vettura. I disgraziati, però, sbalzati fuori dalla vettura, nella caduta erano rimasti completamente schiacciati dal carrello precipitato su di essi. Non si poté neanche tentare di estrarli. Il frenatore caduto dal bagagliaio, sebbene gravemente ferito corse alla stazione di Vasto per invocare soccorsi e per far impedire il proseguimento dell'altro treno inverso, che già era giunto in stazione. Dopo circa un'ora giunsero due treni di soccorso uno da Caianello, l'altro da Castel di Sangro, coi medici, gl'ingegneri, l'ispettore ferroviario e il giudice istruttore di Carovilli. I viaggiatori medicati alla meglio e scavalcando la locomotiva, si recarono a piedi fino a Vasto dove, sopra il treno merci, raggiunsero Caianello. Fonte: Il disastro ferroviario di Vasto Girardi , in «Corriere della Sera», XXXV:28, Milano, 28 gennaio 1910.
- Ciao poesia
Ciao poesia! Pure tu m'abbandoni; anche tu... che restavi per me ultimo conforto! Quali colori dipingeranno ormai le mie passioni, quale penna adesso allenterà le briglie della fantasia che tumultuosa e dirompente dentro mi preme se libera non fugge dalla mente mia! Non sentirò più l'odore dei miei boschi e degli abeti, dei prati a primavera, del fiume rumoroso o del roco monte silente quando ne avrò voglia, ma sterile m'accascerò sul foglio bianco e muto che sordo più non risponderà al mio richiamo! Ciao poesia, non dirmi addio perché io ti aspetterò: umile e non spavaldo picchierò ancora alla tua porta in cerca di compagnia e spero che anche tu sola, un giorno infine, sentirai di me la nostalgia! Ugo D'Onofrio
























