LETTERATURA CAPRACOTTESE
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
VIRGILIO JUAN
CASTIGLIONE
Le arie popolari musicate da artisti capracottesi
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
I risultati della tua ricerca
2278 risultati trovati con una ricerca vuota
- Cristo del Mare
Un bimbo di paese, i suoi ricordi di scuola e i racconti del maestro ambientati mentalmente nei luoghi familiari. Sotto l'altare maggiore della Chiesa Madre la leggenda del "Cristo del Mare". Un bambino sulla spiaggia trova, portata dalle onde, la scultura lignea, corrosa dall'acqua, di un crocifisso. Le mani forate ed i piedi non portano i chiodi: è privo della croce. Il parroco, come consapevole di un segno del Cielo per il suo villaggio di pescatori, fa costruire una bella croce di legno pregiato e il Cristo viene innalzato sull'altare maggiore. Ma il giorno dopo la croce è vuota e il Crocifisso giace sul piano dell'altare. Il Cristo del Mare forse non riteneva degna una croce pur così raffinata? Se ne farà allora una di argento, poi d'oro ma il Cristo scenderà sempre durante la notte dal Calvario. Il dubbio... il non capire il Segno... Poi lo stesso bambino, giorni dopo, vede sulla riva galleggiare dei legni: sono ciò che resta del fasciame di una barca naufragata. I pescatori non sono sopravvissuti. Corre, allora, in paese strillando di aver trovato la Croce del Cristo del Mare e, mentre tutti lo prendono in giro, il parroco intuisce e fa costruire una rozza croce con la vernice scrostata dove pone il Gesù innalzandolo ancora sopra l'altare. L'indomani tutti corrono a vedere e trovano il Cristo ancora sulla croce. La croce, ora sì degna di Lui, fatta di relitti cui i pescatori morenti si erano aggrappati invocando il Suo nome... Francesco Di Nardo
- Da Chiarenza a Capracotta sulle tracce di Roberto d'Angiò
Con riferimento al periodo degli Angioini (1266-1442) lo storico Luigi Campanelli ammetteva che «non maggior luce si spande attraverso il succedersi della Dinastia Angioina, anzi forse la confusione è maggiore. Ma quel che più penoso riesce nelle ricerche fra le memorie di tutto il periodo medioevale, è l’assenza di ogni traccia della maniera di vivere dei nostri antenati». Nel novero delle donazioni effettuate da Carlo d'Angiò, una volta insediatosi a Napoli, appaiono anche i feudi capracottesi di Macchia Strinata e Ospedaletto, i quali, dopo vari passaggi di mano, giungono ad Andrea Carafa, che nel 1352 «acquistò gli altri di Capracotta». Siamo in un periodo molto fumoso della storiografia sul Meridione, che si sta cercando di ricostruire a spizzichi e bocconi. Tuttavia si tratta di un momento storico importante per Capracotta e per il Molise, perché è il secolo in cui alcune grandi famiglie nobili fissano il loro nome su tanti castelli molisani: Acquaviva, Cantelmo, Caracciolo, Castelluccio, d'Evoli, del Balzo, Gambatesa e, soprattutto, Carafa, signori di Cercemaggiore, Capracotta, Carovilli, Carpinone, Gildone e Pietracupa. Sono signori appartenenti a famiglie di sangue blu che hanno tratto vantaggio dalla "napoletanizzazione" angioina. Appartenente alla famiglia d'Angiò è anche Roberto, figlio di Filippo di Taranto, despota di Romania e principe d'Acaia dal 1346 al 1364, un uomo sicuramente interessante sotto molti aspetti. Si pensi che Chiarenza, una delle maggiori città del suo principato in Asia Minore, sotto di lui era diventata una zecca clandestina di valuta veneziana, capace di sfornare copie quasi identiche dei ducati della Repubblica di Venezia. Una di quelle monete è stata rinvenuta anni fa a Capracotta (il luogo e il trovatore li mantengo anonimi), dimostrando che la nostra fu terra di passaggio tra il centro di Napoli e il porto di Chiarenza, in Acaia. Sul fronte del ducato vi è infatti san Marco che consegna il vessillo al doge genuflesso, sul retro il Redentore benedicente entro un'aureola ellittica di stelle. I numismatici, che si contendono queste monete nelle aste di mezzo mondo, hanno acquistato un lotto identico il 9 dicembre 2013 nell'Asta Lanz, a Monaco di Baviera. La descrizione era così corredata: «Fa riferimento allo scritto di Lambros e alla K. Una moneta molto assomigliante fu venduta da Negrini in un'asta del 2010. La ricerca su achaia elenca molte monete con caratteristiche tra loro diverse riferibili all'elenco Lunardi CS6 con varianti nella legenda. Nello stesso elenco Lunardi riporta le legende di un ducato: che sono le stesse, con la sola piccola variante dei tre globetti all'inizio della scritta a sinistra del D, invece dei tre anelletti, di questo ducato venduto da Lanz e già nella coll. Mazarakis». Qualcuno sostiene che Capracotta ospiti pochi resti archeologici testimoni di un qualche grande passato: io dico invece che tutte le cose più preziose rinvenute a Capracotta sono state trafugate. E l'emorragia continua giorno per giorno. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; G. Vitolo, Dinamiche politico-sociali nella Napoli angioina, in «Studi Storici», XLVI:3, Roma, luglio-settembre 2005.
- A don Claudio Conti
Addio don Claudio, passando dico, là dove medica quell'altro amico. È un'abitudine devota presa. Passo inchinandomi come a una chiesa. Noi, quella perdita troppo immatura della simpatica bella figura tua d'uomo e medico tutti sentiamo. Pace, don Claudio. Per te preghiamo. Fosti un carissimo dottore attivo; sei oggi immobile, ma il nome è vivo nel cuor del popolo riconoscente. Gloria don Claudio morto-vivente. Rassegnatissimo baciasti il velo che avvolse l'anima chiamata in Cielo. E senza scrupoli, caro dottore, di nessun genere, senza rancore, né v'è chi 'l dubita. a parer mio, l'alma nettissima rendesti a Dio. Tutti i più miseri eran tuoi figli; con l'elemosina, coi bel consigli e con le regole del saper fare, tra il serio e ridere, senza umiliare, sembrava il balsamo che gli portavi, e con quel metodo li risanavi. L'azione termina, lo vuol natura, ma i fatti restano, il nome dura. Se noi qualche obbligo abbiamo, è quello, credo, di toglierci tutti il cappello, dal primo all'ultimo. Qui c'è un passato scritto indelebile, inalterato, a grandi lettere. Si legge chiaro: "non si dimentica un figlio caro" di stampo nobile, di polso forte, che fu tanto utile fino alla morte. Avevi un genio parlante poi, ce lo dimostrano gli attrezzi tuoi; Il bello, l'ordine del tuo studiolo, i libri, il tavolo là dove solo cercavi il massimo pel ben di tutti. Chi mai sognavasi quei pianti e lutti che reclamavano la tua presenza. Quel voto unanime della coscienza di tutto il popolo segnò una data incancellabile e ricordata, plaudente l'opera degli anni tuoi. Gloria, don Claudio, prega per noi. (1932) Nicola D'Andrea Fonte: N. D'Andrea, Le poesie di Nicola D'Andrea, Il Richiamo, Milano 1971.
- Amore e gelosia (XLIV)
XLIV "...E mò faccio scendere prima lei e poi la seguo", così architettò don Salvatore e, tenendosi ben celato alla vista della giovane Elisa, scese finalmente dal treno solo quando la ragazza era già sulla banchina. Ma il poeta aveva fatto male i suoi conti. Napoli non era mica il piccolo scalo di Nocera: dal treno si precipitarono sulla banchina centinaia di persone, una fiumana, che ben presto si fusero con tante altre correnti di umanità che si intrecciavano, si scioglievano, tornavano a riformarsi lungo i corridoi e gli spazi di quella immensa stazione, sicché dopo neanche due minuti Elisa era completamente fuori vista, assorbita irreparabilmente dalla folla che entrava e usciva, correva, rallentava, si urtava e proseguiva in un convulso caotico andare che tuttavia aveva un suo ordine. Don Salvatore tentò in tutti i modi di ritrovarla, ma niente da fare, era sparita, nonostante avesse un vestito verde ben visibile e uno di quei vistosi cappellini con cui solevano adornarsi le donne dell'epoca, Elisa sembrava essersi dileguata! Un piccolo conforto il poeta lo ebbe però. I due uomini che in treno stavano così cordialmente conversando con la sua fidanzata li aveva ritrovati: erano entrati prima in una tabaccheria, poi in un caffè ed erano soli, Elisa non era con loro. "Dunque erano occasionali compagni di viaggio... Meglio così, se no... 'A verità è che la devo finire di essere geloso, di farmi i film in testa"... Nel frattempo era giunto fuori dalla stazione. Ora doveva decidere che cosa fare: le carrozze con i cavalli già alla stanga, i taxi di quell'epoca, si allineavano lungo una strada dirimpetto, sotto le mura di un antico palazzo, e i cocchieri erano a cassetta già con la frusta in mano, pronti a partire non appena un viaggiatore si accostava e dava la destinazione. La sera cominciò a calare e con essa le preoccupazioni di don Salvatore per la sua Elisa si triplicarono: sola in mezzo ad una città come Napoli, e di sera per giunta! Ma benedetta ragazza! Come le era venuto! Che cosa aveva voluto fare? E sopratutto "addó cacchie sta mò, come faccio a trovarla?". Una voce amata e cara, argentina, una voce di donna lo colse da tergo e lo fece letteralmente trasalire di gioia: – Salvato'... songhe io, sto ccà! Girati! Il poeta si voltò e se la trovò letteralmente di fronte, quasi a ridosso del suo corpo, già quasi tra le sue braccia, tanto da poterne sentire distintamente il respiro affannoso per l'emozione di quel momento. – Elisa! Tu qui a Napoli! E che ci fai? Quando sei venuta, come sei venuta? Che piacere che mi stai dando... e perché sei qui? Non l'avrei mai immaginato, che sorpresa che mi hai fatto! La ragazza tratteneva il riso, poi non ce la fece più e: – Salvato', Salvato'... cumme ire spassoso con quel tuo cipiglio furioso sul treno, quanne mi spiavi e te nascunnive adderete alla tendina pe vede', pe capi' chi erano i signori con cui stavo parlando! Madonna, cumme me so' divertita! Ma tu veramente ti pensavi che non ti avrei visto? Ma le conosci le donne? Abbiamo più occhi noi che manco cento di voi uomini ciechi dalla gelosia! Ah ah ah... Scusami amore mio, ma è così, eri geloso, lo si vedeva con chiarezza che eri geloso! Don Salvatore ci rimase male: ma come, lui era convinto di essere il cacciatore e invece era la preda! Era convinto di spiare e invece era spiato! Stava per accigliarsi di nuovo, ferito nell'amore proprio di maschio e stava per aprire bocca per replicare seccamente quando fu invece tacitato da un lieve, delicato gesto della sua donna, che alzò una piccola mano guantata e lo carezzò in volto. – Salvato', amore mio caro... Te si pigliate collera? Perdonami, ma quella è la mia natura di donna, nun ce pozze fa' niente se siamo più furbe di voi uomini... Quello che conta è che ce vulimme bene e mò stamme ccà, io sto cu te e tu stai cu mme, ammore mio! Un sentimento struggente, forte, travolse il poeta: "Dio mio, cumme è bella! Chesta è 'a femmena mia, sta ccà pe me, me vò bene! È 'a cchiù bella 'e Napule!". La guardava e se la mangiava con gli occhi... Francesco Caso
- Il Parroco: ricordo di don Nicola Angelaccio
Un vecchio santino Riandando col pensiero al caro amico e maestro don Nicola Angelaccio, il compianto arciprete di Capracotta, di cui in questi giorni cade il quindicesimo anniversario della morte, mi sono ricordato che, fino a non so quanti anni fa, avevo con me, nel portafogli, un vecchio santino, donatomi da lui, nientemeno... quando era seminarista a Chieti. – Ce l'ho ancora? – mi sono chiesto, – Dove sarà? Mi sono messo a frugare qua e là, fra vecchie carte, e finalmente il santino è spuntato fuori. L'ho guardato a lungo con affettuosa tenerezza, come se avessi ritrovato un amico, dopo anni di lontananza. C'è, impressa, l'effigie, a colori, del Sacro Cuore del Batoni; dietro, scritta ad inchiostro, con una grafia lievemente inclinata, leggera, aerea quasi, la dedica, semplice: "A Domenico D'Andrea". Sotto, a matita, scritto da me, credo: "Ricordo di N. Angelaccio". Mentre riponevo, commosso, il santino nel portafogli, sono riaffiorate dal fondo della memoria, nitide, le circostanze del piccolo dono. È una tiepida sera di primavera, una primavera lontana di tanti anni fa. La via Nuova, al mio paese, pullula di ragazzi schiamazzanti. Ad un tratto si affaccia alla finestra zia Edelia e ci chiama, facendoci cenno con la mano di entrare. – Ha scritto Nicolino da Chieti. C'è qualcosa per voi: venite. Entriamo. A zia Edelia, quando parla del figlio Nicolino, il volto si illumina di gioia, una gioia soffusa di commozione. Legge la lettera e, leggendo, là dove lo scritto è più tenero e affettuoso, si commuove e una lacrima le riga il volto. Nicolino, a fine lettera, saluta i piccoli amici della via Nuova e di San Rocco e li ricorda uno per uno, tracciando di ciascuno, con rapidi cenni un colorito ritratto. Dietro alle parole si sente la sua gaia, lunga risata, bonariamente canzonatoria. Poi zia Edelia ci dà i santini, che Nicolino ha inviato insieme con la lettera. Il seminarista I più remoti ricordi che io abbia di Nicolino risalgono al tempo in cui era seminarista a Trivento. Nel nostro concetto era molto in alto, come su un piedistallo: criterio, per così dire, di fiducia e di certezza; per le mamme e anche per i padri, termine di confronto, oggetto di ammirazione. Quando d'estate tornava a casa da Trivento, per le vacanze, noi ragazzi cambiavamo di punto in bianco il ritmo e i tempi dei giuochi consueti. Appena la notizia del suo ritorno arrivava sotto ai prati, lasciavamo tutto a mezz'aria e correvamo trafelati da lui, così come ci trovavamo, con le mani impiastricciate di terra, sporchi e sudati. La cucina di zia Edelia formicolava di teste infantili e si accendeva di occhi sfavillanti. Nicolino, con la veste talare e il colletto inamidato, che gli conferivano, agli occhi di tutti, grandi e piccoli, decoro e dignità, ci salutava affettuosamente, chiamandoci per nome, e, sorridendo, ci posava la mano sul capo, come per una carezza. Noi lo guardavamo estasiati e pendevamo dalla sua bocca. Ad un tratto, quasi senza ragione, scoppiava a ridere, prima sommessamente, a mezza bocca, poi più forte, sempre più forte, a sbellicarsi. Rideva, rideva. Che risata piena, schietta, felice, irrefrenabile! Mai sguaiata: contenuta nel tono, contegnosa, dolce e sonora. E noi tutti a ridere fragorosamente appresso a lui. Quando la risata rientrava, Nicolino ci dava i santini e le medagliette. Zio Cesidio sorrideva beato, tutto pace e serenità. Zia Edelia riusciva a malapena a contenere la sua gioia, intrisa, come sempre, di commozione, per il ritorno del figlio seminarista. Ad un certo punto, quando le cose andavano un po' per le lunghe: – Bambini, – diceva con tono materno – ora Nicolino deve riposare; tornate domani. Cominciava così la nostra magnifica estate: una estate tutta speciale, quasi a mezzo servizio, col seminarista: scarrozzate per i prati e passeggiate tranquille, da collegiali; giochi e preghiere; terra e cielo, sacro e profano. La mattina, quando non eravamo a scapicollarci sotto al Tirassegno, eravamo sicuramente nei prati sotto casa a manipolare la terra bruna, a scavare gallerie e buche, a costruire casotti di sassi e fango, col sole di luglio che picchiava. Il pomeriggio, rimessi un po' su dalle mamme e tornati decentemente presentabili, via con Nicolino in chiesa, all'asilo, dalle suore, a passeggio alla Madonna, appiccicati alla sua tonaca. Strada facendo, ci raccontava le storie sacre, ci parlava di religione e, pieno com'era di interessi culturali d'ogni sorta, ci intratteneva anche su altri argomenti del sapere. Cercava di trasfondere in noi curiosità e amore per la conoscenza. E così le nostre menti si aprivano, piene di stupore, ad orizzonti più vasti, ben oltre, certo, i modesti confini del piccolo mondo di sotto alla via Nuova. Si andava formando in noi un'aurora di spiritualità e di religiosità più consapevole. Parlando, parlando, ad un certo punto, non sapevi neppure tu come, Nicolino scoppiava a ridere e quel suo riso pieno, lungo, dolce e sonoro, così di cuore, contagiava tutti. Da che cosa scaturiva quell'incontenibile fiotto di riso? Forse dall'ingenuità degli atteggiamenti e dei comportamenti infantili, forse dalla semplicità e dalla stranezza delle situazioni che venivano a crearsi nella gaia e vivace comitiva, forse da altro. Una sera, all'imbrunire, mentre tornavamo da una passeggiata, vedemmo dei lumi brillare, tenui, ad intermittenza, nei prati sotto a Ponte Tre. Imbottiti come eravamo di racconti di streghe e di spettri di ogni risma, che ci procuravano sogni pieni di incubi, il nostro pensiero corse subito ai fantasmi. Nicolino, tranquillo, persuasivo, ci spiegò la natura fisica del fenomeno, i fuochi fatui, e ne prese le mosse per dare una prima spazzata alle fisime di cui era permeata la nostra immaginazione. A settembre Nicolino tornava in seminario e noi restavamo più soli e sbandati. Terminati i corsi del liceo-ginnasio a Trivento, Nicolino passò al seminario vescovile di Chieti per seguire il corso di teologia e percorrere l'iter degli ordini sacri maggiori. Noi entravamo allora nell'adolescenza e lui era nel pieno della giovinezza. Si avvicinava, fra l'attesa di tutti, il momento dell'ordinazione sacerdotale. Fu ordinato l'anno 1936, se non ricordo male. Per la prima messa a Capracotta, subito dopo l'ordinazione, fu scelta la festa dell'Assunta. Quel giorno il paese sembrava tutto un seminario: dappertutto uno sbattere di tonache, nere e bordate di viola, di preti, seminaristi e monsignori. La chiesa era tutta uno sfavillìo di luci e un candeggiare di cotte. Il rito, reso più solenne e suggestivo dal corale alto e sonoro dei seminaristi, faceva vibrare gli animi di commozione. Tutti gli occhi erano rivolti al novello sacerdote, nei paramenti color oro, al centro dell'altare, in mezzo agli altri concelebranti. Vicino a lui, l'assistente, che gli apriva il messale alla pagina giusta, gli dava qualche suggerimento, gli stava sempre alle costole. Noi aspettavamo che si voltasse verso il pubblico al "Dominus vobiscum" per guardarlo in viso. Lui, umile, con gli occhi bassi, si voltava verso i fedeli e... non finiva di recitare la formula di saluto, che subito si rigirava all'altare, quasi a cercarvi rifugio e protezione. Gli si poteva leggere in viso una gioia contenuta, tutta interiore. Della festa esteriore ricordo il banchetto sotto a casa sua. Tutto il pianterreno di casa Angelaccio era stato "requisito" per il pranzo. Il festeggiato stava con i familiari e i monsignori nella stanza sul lato sinistro, quella di zia Miruccia. Io capitai vicino alla porta d'ingresso e ogni tanto mi dovevo alzare per lasciare passare i vivandieri o qualche commensale. Ci furono brindisi e discorsi augurali. Nicolino, in fondo, appena visibile, sorrideva con modestia alle lodi. Ben pochi della cerchia dei piccoli amici del seminarista parteciparono al pranzo. C'erano Gino e Alfredo, suoi cugini, oltre a me, che ero un po' parente per via di zia Edelia. Gli altri si fecero vedere, per gli auguri, quella sera stessa o il giorno dopo. L'abate arciprete Nicolino, ma ormai è tempo di chiamarlo don Nicola, poco dopo l'ordinazione, fu destinato dalla Curia alla parrocchia di Sant'Angelo del Pesco, che si fregiava dell'ambito titolo di sede abbaziale. Quell’anno io non potei andare fuori a continuare gli studi e allora don Nicola mi prese con sé a Sant'Angelo per prepararmi privatamente. Vennero anche, per lo stesso motivo, Giampietro Venditti e Giuseppe Della Croce. Io e Giampietro eravamo anche suoi pensionanti e facevamo quindi vita in comune con la sua famiglia. Lezioni al mattino, dopo la messa. Nel pomeriggio, dopo il pranzo, se il tempo lo permetteva, facevamo insieme, insegnante e allievi, una lunga passeggiata, andando per la strada che menava a Castel del Giudice. Qualche volta arrivavamo sotto alla Madonna di Saletto, che è a una bella distanza da Sant'Angelo. Si parlava di tutto. Don Nicola era versato anche nelle materie non propriamente consone al suo ministero: particolarmente ferrato era nelle materie scientifiche, forse per una inclinazione innata. La conversazione quindi, oltre che ricreativa, risultava un utile complemento delle lezioni giornaliere. La residenza del novello abate era in una vecchia e decorosa casa gentilizia. C'erano molte stanze, androni, corridoi; c’era un cucinone con un grande camino da cui prendeva tono tutto l'ambiente. Quando ci riunivamo insieme, intorno al desco o accanto al camino, formavamo un bel gruppo. Fortuna che c'era anche Filomena, che, svelta e fattiva com'era, dava una mano, anzi tutte e due, per il disbrigo delle faccende domestiche. C'era mamma Cammuccia, la madre di zia Edelia, una di quelle donne tutte dolcezza e serenità, di cui si va perdendo il ricordo. Sferruzzava accanto al fuoco, nelle giornate fredde, o seduta nel vano della finestra per prendere sole e luce, quando il tempo era bello. La mattina il primo ad alzarsi era zio Cesidio, il nostro zi Cesino. Lo si sentiva muoversi piano, in cucina, mentre accendeva il fuoco o feceva qualche altro servizio. Che conversatore amabile, zi Cesino! Aveva un modo di evocare persone e fatti, dal lontano passato, che incantava. Ogni tanto arrivava qualche prete giù a Sant'Angelo e naturalmente veniva ospitato in casa. Una volta scese da Capracotta, per un breve ciclo di predicazione, il venerando padre Placido, nostro amato concittadino, la cui facondia viva e penetrante, era ovunque nota non meno della santità della sua vita. La chiesa, alla predica, era gremita di gente. A pranzo, in casa dell'abate, dove era ospitato, padre Placido parlava adagio, con gravità e dolcezza, e noi lo ascoltavamo rapiti. Giampietro Io e Giampietro, nei primi tempi, dormivamo insieme in una camera. Ma Giampietro, dotato di una volontà ferrea, rimaneva sveglio, curvo sui libri, fino a mezzanotte ed oltre. Provai anch'io a fare come lui, per un senso di emulazione, ma non ressi neppure due giorni: cascavo dal sonno. E allora me ne andai a dormire in un'altra stanza. Ogni tanto litigavamo e allora non ci parlavamo per un pezzo. Don Nicola non diceva niente, ma ci soffriva. Noi finalmente capivamo che dovevamo smetterla e allora l'atmosfera tornava serena. Il catechismo A primavera don Nicola, anche per darci modo di fare un po' di tirocinio, ci incaricò di tenere lezioni di catechismo ai bambini della parrocchia. Fu quella la prima esperienza di insegnamento. L'anno di Sant'Angelo, con don Nicola per maestro, fu un anno proficuo sia sotto l'aspetto culturale, sia sotto quello spirituale. Anni difficili La guerra, come si espresse icasticamente un nostro compaesano, un bel giorno «dalla lontana Africa, arrivò sopra la soffitta di casa nostra». Sant'Angelo e Capracotta furono mezzo spianate. L'abate, rimasto senza casa e senza chiesa, andò peregrinando con la famiglia qua e là per il Chietino, da una parrocchia all'altra. Si fermò in fine a Torrebruna. Più tardi, quando la bufera della guerra si fu placata e le cose cominciarono a riprendere il corso normale, don Nicola concorse per l'arcipretura di Capracotta, rimasta vacante dopo la partenza per Roma del vecchio arciprete. Vinse il concorso e venne finalmente al suo paese. Anche la sua casa a Capracotta era stata distrutta. In attesa che venisse ricostruita dal Genio Civile, venne a stare con la famiglia a casa nostra; occupavano due vani al seminterrato, abbastanza spaziosi, ma affatto confortevoli. Quelle stanze erano state sempre adibite a deposito di mercanzie varie. Don Nicola vi si adattò con spirito di sopportazione. Riservato com'era, sembrava che non ci fosse. Poi andò ad abitare nella casa del maestro Ottorino, sul Corso. Finalmente un po' di respiro! Era una casa abbastanza confortevole, spaziosa. Don Nicola aveva anche uno studio, un angolino tranquillo dove ritirarsi per lavorare e pregare. Qualche volta andavo a trovarlo e, se il tempo era buono, uscivamo a conversare nel giardino di casa. La casa canonica Nacque proprio allora in lui l'ideazione della casa canonica. E qui don Nicola rivelò sorprendentemente di avere un non comune senso di concretezza e una notevole capacità organizzativa. In chiesa, sotto alla Congrega di Carità, c'erano dei gradi spazi, che nel passato erano serviti come deposito di arredi e altro materiale e anche come sepoltura di ecclesiastici. L'arciprete ci vide subito la casa canonica. Si mise al lavoro. All'inizio, nella fase di progettazione, incontrò difficoltà di ogni genere, ma non si perdette d'animo, lottò per superare le resistenze e finalmente la cosa prese a decollare. Il Genio Civile si assunse l'onere della costruzione; preparò il progetto e appaltò i lavori. Anche nella fase di realizzazione si presentarono non poche difficoltà, ma esse furono tutte superate grazie anche al pragmatismo dell'arciprete, il quale, ad un certo momento, si assunse la responsabilità dell’apporto di importanti modifiche al progetto iniziale, suggeritegli, sul piano dell'attuazione, oltre che dall'esperienza dei mastri muratori, dalla sua visione realistica delle cose. Finalmente la casa canonica divenne una realtà e l'arciprete vi si trasferì con la famiglia. L'antica collegiata di Capracotta poteva finalmente ospitare, fra le sue vecchie e massicce mura, il titolare della parrocchia. La Gilera 500 L'attività pratica era per don Nicola un necessario complemento di quella pastorale e spirituale. L'una e l'altra si armonizzavano in lui felicemente. Aveva acquistato una moto Gilera 500 e se ne serviva per andare fuori paese, di norma per affari inerenti il suo ministero. Era curioso vederlo trasformato in centauro, a cavallo della grossa macchina scoppiettante. Per ripararsi dal vento, si infilava, sotto la tonaca, grossi fogli di giornale. Un giorno la Gilera si guastò e don Nicola la rimorchiò nella cappella di Santa Filomena e ve la fece svernare. Un pomeriggio di primavera mi chiamò perché lo aiutassi a smontare la macchina: intendeva ripararla. Mentre lavoravamo, lui mi spiegava, come un provetto meccanico, il funzionamento dei vari organi. “Ma dove hai imparato”, gli chiesi. – In nessun posto, – mi rispose – basta avere un po' di dimestichezza con i principi della fisica e della meccanica e far lavorare il cervello per capire il funzionamento degli organi. Certo, bisogna esserci portati. Riparò la Gilera e riprese a correre rombando, con i giornali sul petto. Poi l'abbandonò perché, di salute cagionevole, era troppo esposto alle correnti. Comprò allora una Seicento, ma neppure questa conobbe mai il meccanico. Umiltà e carità Imparare l'arte di sapersi controllare non è cosa da poco. Don Nicola l'aveva appresa attraverso un lungo e perseverante esercizio di autocontrollo. Era difficile vederlo adirato, nel senso pieno del termine. Solo qualche rara volta l'ho visto fremere di sdegno, che è cosa ben diversa dall'iracondia. Contrastava le idee e le opinioni, che non riteneva giuste, con la forza della ragione. Riservato com'era, nei primi tempi del suo ministero dava l'impressione di poca compartecipazione ai problemi e ai travagli dei suoi parrocchiani. Ma chi lo conosceva bene, sapeva quanto grande fosse e sofferta la sua carica di solidarietà umana e di cristiana pietà. Avvertiva come gli altri e più degli altri la difficoltà amara dei duri tempi che correvano e si sforzava, come meglio poteva, di alleviarli con sacrificio anche personali. Proprio la sua riservatezza, la sua integrità, generavano talvolta negli altri atteggiamenti di incomprensione e talvolta anche di ripulsa e di critica. Lui reagiva con serena e filosofica calma, senza scomporsi, magari con l’arma del sorriso, senza neppure l'ombra del dispetto o della ripicca. Svolgeva il suo ministero pastorale con spirito di dedizione, sorretto da una fede adamantina. E purtroppo ci volle del tempo prima che tutti ne prendessero coscienza. La predicazione Un anno l'arciprete, all’omelia domenicale, svolse un ciclo di predicazioni sul Credo. Poi, l'anno appresso, un altro sul Pater. Questi corsi mi sono rimasti impressi per la profondità e la coerenza degli argomenti trattati, il cui valore, oltre che spirituale, risultava essere anche didattico. L'omelia era costruita con sistema, che chiamerei scientifico, probabilmente derivatogli dalla grande dimestichezza che aveva con la filosofia di san Tommaso e, forse, dalla conoscenza della fisica galileiana. Tutto il suo sistema mentale, d'altra parte, aveva una struttura dottrinale e teologica modellata sul pensiero dell'Aquinate. Nelle sue argomentazioni sembrava di notare una sorta di sillogismo: poste solidamente le premesse del discorso, si perviene alla verifica e alla conclusione. Un giorno mi chiese, non per avere apprezzamenti - non era proprio il tipo - cosa pensassi delle sue omelie, o, per meglio dire, se esse, a mio avviso, erano ben comprese da tutti. Gli risposi, con tutta franchezza, che meglio non potevano essere costruite e che erano adeguate alla comprensione di tutti. Semplicità di vita Zia Edelia non aveva grossi problemi di culinaria con don Nicola, anzi direi che non ne aveva affatto. Parco come era, e non solo nel mangiare, si contentava di niente. Una minestrina, di solito, come primo piatto; un uovo o un po' di formaggio per secondo; un po' di verdura, quando c’era, e un frutto. Carne, di rado; vino, poco o niente. Lamentele per il cibo non erano in uso in casa. San Nicola Sei dicembre, San Nicola. Uno spesso strato di neve ghiacciata ricopre le vie. Folate di tramontana ci investono mentre saliamo verso la canonica. Stiamo andando a dare gli auguri di buon onomastico all'arciprete. È un rituale che si celebra tutti gli anni. Don Nicola ci accoglie con la consueta affabilità. Ci sediamo intorno al camino, ove scoppietta un bel fuoco di legna di cerro. Parliamo di un po' di tutto. Mio zio Oreste, conversatore facondo, tiene banco. Ha un modo di raccontare aneddoti e fatti così convincente, che te li fa vedere davanti, come se tu vi assistessi allora allora. La sua narrazione, a parte una leggera, sfumata cornice, è permeata da un sottile spirito d’ironia, che la rende ancora più seducente. Don Nicola sorride, annuisce. Il narratore piano piano, senza avvedersene, fa scivolare la conversazione sul sociale e sul politico, il suo cavallo di battaglia, anzi, per meglio dire, il suo elemento. L'arciprete, fattosi più serio, interviene con sensate osservazioni, ma non dà mai l'idea di voler primeggiare. Il protagonismo gli è sconosciuto. Zia Edelia offre pizzelle fatte in casa e un bicchiere di vino. Zio Cesidio Quando se ne andò zi Cesino, il rito funebre lo celebrò proprio il figlio, l'arciprete. Mentre dalla sacrestia, seguito dal sacrestano, don Nicola si avvia all'altare, riesce a contenere, seppure con grande sforzo, la sua commozione. Comincia la celebrazione della messa. Per un po' l'arciprete va avanti, recitando le parti sommessamente, dolorosamente. Ad un tratto, all'improvviso, incomincia a singhiozzare, piano: singulti appena percettibili da coloro che stanno vicini alla balaustra dell'altare. Ogni tanto, mentre continua la celebrazione, uno spasmo lo scuote tutto. Alla benedizione funebre, che segue subito dopo, la commozione è cosi intensa che solo con un'eroica fatica riesce a portarla a termine. Le elezioni L'arciprete di politica si interessava poco: quel tanto che riteneva necessario per l'attinenza all'esercizio del suo ministero. Tuttavia, nei primi tempi, la sua partecipazione politica fu notevole, specie all'epoca del cosiddetto Fronte Popolare, quando si temette, non ha importanza se a torto o a ragione, per le sorti della democrazia. In quell'occasione sfidò, in contradditorio, un candidato di sinistra. Lo "scontro" ebbe luogo nella sede del circolo ricreativo e don Nicola, ferrato com'era in tutto, dette non pochi punti all'avversario. Anche nelle amministrative di quegli anni fece sentire il suo peso. Le passeggiate al Monte Il pomeriggio, quando il tempo era buono, prima delle funzioni vespertine, l'arciprete se ne andava con la sua Seicento sotto al Monte. Parcheggiava al limitare del bosco, giù, verso la Montagna, e cominciava la sua tranquilla passeggiata lungo quel tratto di strada pianeggiante e diritto che corre nell'ultimo tratto del bosco. Avanti e indietro, leggendo il breviario. Ogni tanto si fermava e sedeva sul parapetto del ponte. Interrompeva la lettura e rimaneva un po' così, in meditazione, assaporando la dolcezza dell'ora, prossima al tramonto, nella pace vespertina. Se qualcuno si fermava, don Nicola, con la consueta affabilità, si metteva a discorrere di questo e di quello, sempre sorridente, tranquillo. L'inverno gelido Passano gli anni. Don Nicola ha i capelli grigi. Il suo volto si è fatto ancora più sereno, disteso. Continua a svolgere il suo ministero con immutata dedizione. L'inverno, il rigido inverno capracottese, è lungo, duro a morire. Le navate della chiesa matrice sembrano un’enorme ghiacciaia. Le stufette a gas, sistemate presso i pilastri della nave centrale, fanno ben poco: riescono appena ad ammorbidire, in un piccolo spazio intorno, la muraglia di aria gelida. Sull'altare il freddo è ancor a più pungente. L'arciprete, mentre officia, deve spesso interrompersi per la tosse, una tosse stizzosa, pertinace, che ogni tanto esplode in un accesso convulso, che lo scuote tutto. Lui aspetta che passi e riprende. All'omelia, peggio di peggio. Gli accessi lo costringono ad interrompersi continuamente. È una pena vederlo così strapazzato. Mai un lamento! Quanti inverni così! Addio, don Nicola! L'arciprete non sta bene. Vado, a trovarlo in casa. Seduto a tavolino, nel suo studio, ove ha fatto erigere un piccolo e semplice altare, sta leggendo. Mi sorride affabilmente e mi invita a sedere. Dal grande finestrone a meridione piove una luce calda e tenera. Parliamo di un po' di tutto. Accenna appena al suo stato di salute. Ha il volto scolorito, pallido, ma non emaciato. Non sta proprio bene. Passa qualche mese. Il suo stato di salute si fa precario. Ci sono serie apprensioni da parte di tutti. È operato a Roma, al Santo Spirito. Torna in paese. Le sue condizioni precipitano. È inverno. Don Nicola se ne va. Vado a trovarlo. È a letto. Filomena va a sentire se vuole scendere. Si leva e viene giù in cucina. Ci sediamo accanto al fuoco. È sereno, tranquillo. Prende interesse alla conversazione. Zia Edelia e Filomena cercano di nascondere, in sua presenza, la loro angoscia. Torno qualche giorno dopo e vado a salutarlo nella sua camera. È il commiato. So che soffre e cerco di non affaticarlo. Mi parla, adagio, di tante cose. Fa capire, ma senza darlo a vedere, che è consapevole della prossima fine. Ad un tratto si fa triste. – Se il Signore vuole che io vada, – dice – io sono pronto; ma che cosa lascio di buono? Ho fatto tutto quello che il Signore si attendeva che io facessi? Pronuncio qualche parola di conforto. Gli ricordo il bene che ha fatto. – Coraggio, caro Don Nicola, ti riprenderai. – Sarà come Dio vorrà! A distanza di tanti anni, mentre scrivo queste poche note di ricordo, risento ancora in me, commosso, l'eco di quelle parole, le ultime che io abbia sentito da lui. In esse, a pensarci bene, è espressa tutta la grandezza della sua fede e la speranza della divina misericordia. (1983) Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.
- Appello a tutti i capracottesi in vista della festa patronale
La festa patronale di san Sebastiano si avvicina: si terrà domenica 17 luglio 2022. La parrocchia di S. Maria in Cielo Assunta e gli uomini di buona volontà han fatto i salti mortali per organizzare ogni cosa nel modo più bello possibile, affinché questa festa rappresenti la rinascita della nazione capracottese dopo due anni difficili per tutti. Ma, per esser tale, la festa ha bisogno che ogni capracottese partecipi con la presenza, con le spalle e col portafogli. La presenza è importante affinché ci si riconosca nel Santo, emblema dell'identità capracottese. Le spalle sono importanti perché vi sono almeno 8 statue lignee da portare in processione. Il portafogli è importante perché, come ogni evento che si rispetti, la festa ha un costo significativo. I tempi odierni sono caratterizzati da uno scollamento - speriamo non definitivo - tra popolo e religione; persino i gloriosi comitati capracottesi, continuazione delle antiche confraternite, si stanno sciogliendo come neve al sole. Tuttavia, partecipare alla festa patronale significa non soltanto venerare Dio, la Madonna e san Sebastiano (a cui si può anche non credere), ma onorare soprattutto gli antenati, persone senza le quali nemmeno ci saremmo. È questo uno degli aspetti più importanti della religione cattolica: ci lega alle generazioni passate per mezzo della divinità. La nostra è una religione che onora i morti, che li celebra, che li mostra apertamente, tanto che i migliori, quelli che han fatto vita perfettissima, sono venerati, beatificati, canonizzati, e i loro cadaveri esposti, ché la carne è niente in confronto all'anima. Noi capracottesi portiamo in processione san Sebastiano, morto per mano dei Romani, perché in ogni tempo i martiri sono le vittime universali del fanatismo, dell'odio e dell'intolleranza. Se i valori della libertà, della pace e della tolleranza sono vostri, potete far vostra anche la devozione per san Sebastiano. Non siamo che l'eredità di quei Sebastiani, di quelle Carmele, dei Vincenzi, dei Giovanni, delle Chiare, degli Antonii e delle Marie che hanno abitato e onorato Capracotta nei secoli dei secoli. Chi siamo noi per ribellarci a tutto ciò? Siate presenti alla festa di San Sebastiano e partecipate secondo le vostre possibilità: è questo il mio appello. Francesco Mendozzi
- "Bławaty" nel commando polacco
Le prime truppe commando durante la Seconda guerra mondiale furono create dai britannici e le formazioni diventarono presto élite delle forze alleate. Oltre ai commando britannici comparvero i commando francesi, greci, jugoslavi, e addirittura tedeschi ed austriaci che combattevano nelle file della coalizione anti-hitleriana. Pure nella compagnia commando polacca, che combatteva nelle file del II Corpo in territorio dell'Italia, c'erano soldati di altre nazionalità che si decisero a combattere sotto lo stemma dell’aquila bianca. All'inizio di dicembre 1943, la 1ª compagnia commando indipendente, prima unità polacca durante la guerra, approdò al fronte italiano. I commando furono mandati all'Appennino Centrale, nella zona del paesino montano di Capracotta, ubicato sul fiume Sangro, che insieme ai fiumi Garigliano e Rapido formavano la linea difensiva frontale tedesca. Quando ai commando nella primavera del 1944 susseguì il II Corpo Polacco, le loro truppe cominciarono a ricorrere all'aiuto dei volontari italiani. Questi ultimi si presentavano ancora più volentieri perché i militari polacchi trattavano molto bene i civili italiani, portando loro cibo e assistenza medica. Ai polacchi al contempo mancavano i soldati per difendere le strutture militari, i ponti, le strade oppure i depositi. Questo permise la costituzione della 111ª Compagnia pontieri, presso la 3ª Divisione dei Fucilieri dei Carpazi. La Compagnia doveva costituire una truppa di guardia e di tecnica italiana, al comando dei polacchi. Gli effettivi diventarono i montanari della stessa zona nella quale operavano i commando polacchi, cioè dell'Abruzzo meridionale e del Molise nel territorio dell'Appennino Centrale. La Compagnia inizialmente constava di circa quaranta volontari italiani e di sette ufficiali e sottoufficiali polacchi. La battaglia di Montecassino durante cui il II Corpo subì enormi perdite nel corso dell'assalto, fu decisiva per quanto riguarda la sorte della truppa. Il comando polacco pensando a come colmare le carenze di truppe assottigliate dalla sanguinosa battaglia, si ricordò dei fatti dei montanari italiani che avevano servito i commando come guide e facchini. Questo ruolo lo rivestirono con successo pure a Montecassino. Fu quindi deciso di non sprecare la 111ª compagnia per i compiti legati alla guardia, ma trasformarla in una truppa da combattimento, non solo - nella truppa commando. Dei compiti originali della compagnia ne fu lasciata solo la traccia nel nome, 111ª Compagnia pontieri. Il nome originale doveva confondere i tedeschi per quanto riguarda i compiti effettivi della truppa e tranquillizzare le autorità alleate italiane che avrebbero potuto protestare contro l’arruolamento dei propri cittadini alle unità da battaglia straniere. A metà maggio del 1944 la compagnia fu trasferita ad Oratino vicino a Campobasso in Molise, dove fu completata con ulteriori volontari della regione. Ci furono destinati anche ulteriori ufficiali e sottoufficiali della 3ª Divisione dei Fucilieri dei Carpazi ed istruttori della 1a Compagnia Indipendente commando i quali iniziarono una formazione intensiva dei soldati italiani. Dopo la conclusione della formazione, nella seconda metà di giugno del 1944, la 111ª compagnia constava di 68 volontari italiani e di 23 ufficiali e sottoufficiali polacchi. I polacchi svolgevano tutte le funzioni di comando dal livello della squadra in su. Capo della compagnia fu nominato l'ufficiale presente al fronte, tenente Feliks Kępa, e il suo sostituto sottotenente Edward Zalewski. Il soldato più giovane dell'unità, di appena sedici anni, era Mino Pecorelli, il quale dopo la guerra diventò un avvocato e un giornalista famoso. Seguendo il modello della 1ª compagnia polacca, quella italiana fu divisa per tre plotoni. I suoi soldati portavano divise britanniche e avevano l'equipaggiamento britannico. Dai compagni d'armi polacchi si distinguevano per il colore dei baschi. Piuttosto che portare i baschi verdi - portati generalmente nelle truppe dei commando - i commando italiani portavano baschi azzurri con le aquile polacche e con mostrine rosse con la parola Poland sul braccio. Col tempo si è creata l'usanza di chiamare i commando italiani "Bławaty" (Azzurri) facendo riferimento al colore dei loro baschi e il soprannome rimase appiccicato a loro fino alla fine del combattimento dell'Adriatico. Inoltre, informalmente, la 111ª compagnia veniva chiamata la 2ª compagnia commando oppure semplicemente la compagnia italiana. I risultati molto buoni della formazione influirono su un'ulteriore decisione del comando del II Corpo - dalla 1a Compagnia Commando Individuale e la 111ª Compagnia pontieri fu creato il 1° Raggruppamento Commando al comando del quale stava il comandante precedente della 1a compagnia, maggiore Władysław Smrokowski. Quando i volontari italiani si stavano intensamente allenando nel combattimento tipico dei commando, il II Corpo ricevette dal comando degli Alleati in Italia, un compito indipendente di condure l'offensiva verso Ancona. Il 1° Raggruppamento Commando fu inserito nell'operazione e il 21 giugno 1944 trasferito dal luogo di stazionamento ad Oratino alla tratta adriatica. Attraverso Monte Pagano e Porto San Giorgio all'inizio di luglio il raggruppamento arrivò alla linea del fronte sotto Monte Lupone. Il raggruppamento ottenne l'allocazione tattica presso la 2ª Brigata Corazzata polacca, fu collocato a Castelfidardo però non partecipò alla prima battaglia di Ancona che si svolse nelle vicinanze. L'8 luglio il generale Anders collocò il raggruppamento alla 3ª Divisione dei Fucilieri dei Carpazi. Entrambe le compagnie del raggruppamento presero posizioni nel tratto del fronte tra Villa Virginia e il ponte nei pressi di Numana, occupato dal Reggimento degli Ulani dei Carpazi, sotto il comando del quale fu introdotto il raggruppamento. Il giorno successivo la compagnia italiana ebbe il proprio battesimo del fuoco. I suoi due plotoni insieme al 1° squadrone degli ulani assalirono con bravura le colline di Monte Freddo e la 119ª e la 107ª occupate dal nemico. La conquista delle posizioni importanti da parte dell'intero reggimento dei Carpazi, fu pagato dalla Compagnia con la morte di due soldati. Un atto eroico nel corso del combattimento fu compiuto dal commando Attilio Brunetti, il quale sul Monte Freddo salvò il suo comandante ferito, sergente Zygmunt Piątkowski, portandolo sulle spalle per alcuni chilometri dalla linea del fronte. Brunetti fu premiato con la Croce di guerra polacca al valor militare. Il primo episodio di combattimento dei volontari italiani dimostrò quanto fossero ingiusti i pareri sul presumibilmente basso valore del soldato italiano, e le battaglie successive consolidarono la nuova fraternità d'armi polacco-italiana. Non per caso la prima unità che il 18 luglio 1944, nella veste della guardia anteriore del Reggimento degli Ulani dei Carpazi, entrò ad Ancona attraverso la porta Santo Stefano, fu la 2ª compagnia commando. Verso la fine di luglio 1944 le strade dei commando polacchi e italiani si divisero. La 1ª compagnia polacca fu trasferita al sud d'Italia per una riorganizzazione, in seguito alla decisione della sua trasformazione nel 2° Battaglione Commando Motorizzati. Invece la compagnia italiana tornò sotto il comando del Reggimento degli Ulani dei Carpazi e combatté insieme ai suoi soldati fino alla conquista di Pesaro, avvenuta il 2 settembre 1944. In quel momento fu deciso di sciogliere la 111ª Compagnia dei pontieri. La compagnia italiana rimasta sotto il comando polacco fino al 18 ottobre 1944 perse complessivamente quattordici soldati, tra cui dieci italiani, e 29 dei suoi soldati furono feriti. La testimonianza del riconoscimento del valore dei commando italiani fu l'assegnazione a loro, da parte del generale Anders, delle onorificenze militari polacche: tra i diciannove italiani premiati, diciassette ricevettero Croci di guerra polacche al valor militare (tra cui nove di loro post mortem), una Croce al merito con spade d'argento, due di bronzo. Piotr Korczyński Fonte: P. Korczyński, L'unico Corpo fatto così, in «Polska Zbrojna», Varsavia-Montecassino, 18 maggio 2019.
- Petali
Un mucchio di foglioline che sanno di fiore nei lembi striati dalla primavera al sole, petali miei io vi conservo anche se appassiti in un vecchio libro di Poeti, un'aiuola che per un attimo almeno vi profumerà. Geremia Carugno Fonte: G. Carugno, Petali, Sammartino, Agnone 1963.
- Don Elio Venditti ha corretto uno strafalcione!
D. O. M. DIE XIV M(ensis) SEPTEMB(ris) A(nno) D(omini) MDCCLV ILL(ustrissi)MUS AC R(everendissi)MUS D(omi)N(u)S D(on) JOSEPH CARAFA EP(iscop)US TRIVENTINUS TEMPLUM HOC CUM ARA PRINCIPE STATO RITU CONSECRAVIT. ANNIVERSARIUM VERO DIEM FESTUM AD QUARTAM DOMINICAM MENSIS AUGUSTI CUM CONSUETIS INDULGENTIIS TRANSTULIT Colui che si appresta ad entrare nella Chiesa Madre di Capracotta si ritroverà di fronte, sulla prima colonna di sinistra della navata centrale, una grande lapide commemorativa a cornice mistilinea che presenta l'epigrafe appena trascritta. Proseguendo verso la navata laterale di destra egli troverà una lapide gemella, con un'iscrizione diversa nel contenuto ma identica nello stile. Le pietre raccontano infatti due momenti della storia moderna della nostra chiesa: la prima si riferisce alla consacrazione ufficiale del tempio e del suo altare maggiore, avvenuta il 14 settembre 1755 per mano del vescovo Giuseppe Carafa Spinola; la seconda si riferisce al titolo di "insigne collegiata", riconosciuto alla nostra chiesa nel 1756 da mons. Giuseppe Pitocco, succeduto al Carafa, che a luglio era stato nominato vescovo di Mileto. Don Elio Venditti ha il merito di aver corretto recentemente entrambe le iscrizioni presenti sulle due lapidi poiché, almeno dal 1979, presentavano diversi errori formali e sostanziali. Si pensi che pochi anni or sono le epigrafi furono oggetto di restauro arbitrario da parte di un volenteroso cittadino capracottese, molto bravo nell'arte manuale ma digiuno di latino. Se la lapide di sinistra non presenta grosse discrepanze con la versione precedente, in quella di destra l'errore era madornale. Sulla pietra in questione, infatti, oggi si legge: D. O. M. RESTAURATO HOC SAGRO TEMPLO DEIPARÆ ASSUMPTÆ DICATO ILL(ustrissi)MUS AC E(mintentissi)MUS D(omi)N(u)S D(on) JOSEPH PITOCCO EPI(scopus) TRIVENTINUS IN DIE VII M(ensis) SEPTEMBRIS MDCCLVI MUNIFICENTI ANIMO DUODENOS EIUSDEM TEMPLI REVERENDOS PRESBÝTEROS INSIGNE DECORAVIT Sorvolando sull'aggettivo «sagro» - che trovo più corretto nella forma classica - e sull'inchiostro nero, meno elegante del vecchio oro zecchino, nella precedente epigrafe si leggeva uno sgrammaticato «sub Pie VII» (sotto Pio VII), invece di «in die VII» (nel giorno 7), come a dire che il titolo collegiale era stato riconosciuto sotto Barnaba Chiaramonti, salito al soglio pontificio quasi mezzo secolo dopo la realizzazione della lapide commemorativa! Insomma, don Elio Venditti, in questo caso, ha giustamente corretto uno strafalcione storico che per anni è stato sotto gli occhi di tutti. Il clero e il popolo capracottesi furono infatti invisi al vescovo Fortunato Palumbo per tutto il suo mandato episcopale (1736-1753), mentre con Carafa e Pitocco i rapporti "politici" tra il capitolo di Capracotta e la diocesi di Trivento furono improntati a una maggiore distensione, giacché questi religiosi si preoccuparono di rivalutare le prebende dei canonici e dei mansionari, di ammodernare gli arredi sacri e di curare l'aggiornamento delle linee pastorali in applicazione del Concilio di Trento. Francesco Mendozzi
- Lo sai che a Capracotta ci sono i dinosauri?
Quel buchetto verde che sembra il green di un campo da golf è Prato Gentile, a Capracotta, fotografato dai 1.746 metri di Monte Campo. Da lassù si vedono contemporaneamente montagne innevate, fitti boschi mezzi verdi e mezzi marroni, paesini arroccati, laghi e perfino il mare. Ci siamo arrivati camminando per un'oretta abbondante, passando attraverso prati in fiore, stretti sentieri, rami che ti sfrascavano la fronte e un sole a picco che mi ha reso più bruciacchiato di Carlo Conti. Nella seconda parte del viaggio, sul costone "buio" della montagna abbiamo trovato pendii innevati, discese ripide e scivolose, umide foglie nel fango, ghiaccio ed è passato anche Gollum incespicando mentre cercava l'anello. Dopo una spettacolare camminata di più di due ore mio figlio aveva lo sguardo di uno che aveva vissuto la più mirabolante avventura della sua vita. Non batteva gli occhi per la meraviglia e si è solo limitato ad accertarsi di una cosa: – Ma è vero che lassù ci sono i dinosauri quelli graaandi? Secondo me da adulti peggioriamo perché smettiamo di vedere dinosauri ovunque. Umberto Di Giacomo Fonte: https://www.facebook.com/, 29 aprile 2019.
- Amore e gelosia (XLIII)
XLIII Il dondolio del treno ebbe un effetto soporifero sul poeta: senza che se ne accorgesse, il mento poggiato sull'immancabile bastoncino da passeggio, si ritrovò immerso in un delizioso pisolino cui pose fine dopo una ventina di minuti uno scossone del treno che si inoltrava nella stazione di Torre del Greco. Uno dei passeggeri seduto accanto a lui doveva scendere e per fargli posto, anche don Salvatore dovette alzarsi. A quel punto decise di sgranchirsi un po' le gambe: al massimo un'altra ventina di minuti e sarebbe giunto a Napoli, tanto valeva restare in piedi e farsi un giro per i vagoni. E così fece: lasciò la seconda classe e si inoltrò per la terza: veri carri bestiame! Non c'erano poltrone, solo panche di legno e anche senza schienale, e una umanità povera e misera si affollava su quelle dure tavole, diretta alla capitale del Sud, Napoli. Un moto istintivo di compassione colse il poeta, alla vista di una donna, una popolana con un bambino in braccio che frignava lamentandosi a tratti. Panni laceri, uno scialle verdastro accoglieva in un tutt'uno madre e figlio, e i due si intrecciarono ancor più quando, per farlo quietare, la donna cacciò fuori un seno enorme e lo mise in bocca al bambino, cullandolo allo stesso tempo per farlo addormentare. Don Salvatore si allontanò scuotendo la testa: scene simili erano all'ordine del giorno, la povertà la faceva da padrona in quegli anni e l'accesso al cibo era una continua lotta, incessante, per i milioni di proletari affamati in giro per il regno italico. "Ne partene a migliaia tutte 'e iuorne pe l'America con i piroscafi, e ce ne sono sempre tanti che muoiono di fame"... La triste considerazione che gli venne in mente era veritiera: in poco più di 15 anni circa 23 milioni di italiani, stanchi di una vita di stenti, migrarono in massa, verso gli Usa e l'Argentina: navigarono come bestie rinchiuse nelle stive dei piroscafi, per lottare, per morire (e ne morivano tanti) e infine per rifarsi una vita... Ma questa è un'altra storia... Finalmente giunse alle carrozze della prima classe e inconsciamente tirò un sospiro di sollievo: ah, come era consolante guardare la bella gente, la gente vestita bene, ben nutrita e dallo sguardo fiero e sicuro! Era come prendere una boccata d'aria pura, una frizzante boccata d'aria di mare, era come... un momento! Ma... chi era quella bella signora che conversava cordialmente con due gentiluomini e rideva ad alta voce, anzi con tono squillante? E quel vestito... Elisa! Elisa sul treno! Dove stava andando? E con chi? Con quei due signori? "Non puoi fidarti di nessuno! Le donne? Tutte uguali! Appena giri le spalle, ecco che ti pugnalano! Ed io che la pensavo a casa a piangere, a soffrire per me! E ora che faccio? Mi avvicino e... nooo, qui rischio di fare la figura del cretino! Se sta con quei due, che dico? Sono il fidanzato? Sai le risate che si faranno! Se sta da sola invece, allora sta qui per me, sta venendo a Napoli a casa mia... Devo sapere! E allora ora non mi deve vedere"... Fece marcia indietro e si mise in una posizione in cui poteva vedere senza essere visto. Elisa, ignara che il suo Salvatore fosse a pochi metri da lei, continuava a conversare cordialmente con i due gentiluomini che aveva conosciuto sul treno. Parlavano del più e del meno, sorridevano e piano piano il tarlo della gelosia cominciò ad insinuarsi nel poeta. Tra i due, v'era il più giovane che in una occasione aveva posto la sua mano su quella di Elisa: non l'aveva trattenuta a lungo ma neanche la ragazza si era schernita... "Qui sta nascendo qualcosa tra quei due, lo sento... È proprio un bel giovane, non come lei ma"... Tentava di rimanere freddo il poeta, ma fremeva al punto da tremare. E meno male che finalmente il treno entrò nella stazione di Napoli, il viaggio era finito... Francesco Caso
- Le acquasantiere delle chiese di Capracotta
Sin dal X secolo l'ingresso in una chiesa cristiana è tradizionalmente accompagnato dal segno della croce bagnato dall'acqua santa. È un gesto che affonda le radici nell'antica pratica dell'abluzione, che aveva funzione pratica prima che spirituale e che nella religione cattolica di oggi richiama il battesimo, quella purificazione dal peccato originale propedeutica per l'ingresso nella comunità cristiana. Tuttavia l'acqua santa usata all'ingresso in chiesa non va confusa con l'acqua lustrale del fonte battesimale, ovvero il grande contenitore utilizzato per il primo sacramento. Generalmente l'acqua benedetta è contenuta nell'acquasantiera, un recipiente di pietra posto all'ingresso della chiesa o poco distante, che permette ai fedeli di entrare velocemente in contatto col Signore. Si parla di acquasantiera a labbro (o a parete) quando è fissata al muro e di acquasantiera a fusto (o a pila) quando si tratta d'una vasca fissata sopra una colonnina isolata. A seconda della ricchezza della chiesa e dei gusti del committente l'acquasantiera è più o meno ornata da motivi decorativi od allegorici. Dirò subito che nelle vecchie chiese capracottesi le acquasantiere sono a parete, non presentano particolari decorazioni e rientrano tutte nella produzione meridionale sei-settecentesca. Certamente nella matrice Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta vi sono quelle più finemente lavorate (foto in alto): si tratta di due larghe vasche gemelle in marmo poste sulle colonne frontali della navata centrale. Nelle chiese di S. Antonio (1), di S. Vincenzo (3) e di S. Maria di Loreto (2), invece, i recipienti dell'acqua benedetta sono posti a destra dell'entrata e trattasi di acquasantiere a calotta svasata, con una sostanziale differenza nel caso del Santuario della Madonna, la cui vasca in granito poggia su una staffa in pietra molto più antica, per cui la si può datare al 1622, anno del grande restauro che trasformò quella rozza cappella in una vera chiesa. Altre due acquasantiere sono poste ai lati dell'altare maggiore, una, a conchiglia, nei pressi dell'uscita, l'altra vicino la sacrestia (4), che presenta una staffa col volto d'un putto, che le conferisce un aspetto unico. Nella Chiesa di S. Giovanni vi sono poi altre due acquasantiere a conchiglia, simili tra loro per stile ma diverse nella qualità di pietra polita, che probabilmente appartenevano alla primissima Chiesa dei SS. Giovanni, Sebastiano e Rocco. La prima (5) è, come di consueto, a destra dell'entrare; la seconda acquasantiera (6) sta più avanti sulla sinistra, nascosta dal confessionale, e forse dimostrerebbe quanto quella chiesa, posta nel rione agricolo di Capracotta, fosse un tempo sovraffollata. In realtà a Capracotta ci sarebbe un'altra acquasantiera, che però non è custodita in alcun tempio: mi riferisco a quella dell'ex monastero benedettino di S. Giovanni, le cui rovine si nascondono tra le fronde boscose del Monte Capraro. L'erezione del piccolo cenobio capracottese è databile proprio al X secolo e l'acquasantiera, ancor oggi visibile, è scolpita nella roccia viva, utile tanto a chi si accingeva ad entrare nel luogo sacro quanto a chi seguiva il tragitto spirituale che, dall'oratorio di S. Nicola di Macchia, portava a S. Maria Caprara, a S. Nicola di Vallesorda, quindi al monastero di S. Giovanni Capraro, alle chiese dei SS. Simone, Giuda e Lucia, per approdare infine al monastero di S. Pietro. Francesco Mendozzi
- Una vita di impegno contro la xenofobia, il razzismo e l'estremismo
Intervista a Giovanni Pollice Domanda: – Giovanni Pollice, lascio che sia lei a presentare la sua storia. Sappiamo che è figlio di emigranti molisani in Germania, per cui le chiedo come la sua storia personale abbia influito sulla scelta di impegno politico. Risposta: – La vita da figlio di emigranti non è stata facile. A 12 anni raggiunsi mio padre che lavorava in Germania già da sei anni. La felicità di essere tornati vicini si trasformò presto in un trauma: non conoscevo nessuno, non sapendo la lingua non potevo comunicare né interagire. Fu questa la molla che mi spronò a imparare velocemente il tedesco e a capire il mondo nuovo in cui mi trovavo a vivere. Mio padre, come tutti i lavoratori nella sua stessa situazione e le loro famiglie, alla loro venuta in Germania subirono discriminazioni umilianti e tremende. Nella stessa situazione era facile vedere persone che si chiudevano e non era cosa scontata trovare chi aiutasse i nuovi arrivati. Pur in situazioni di disagio estremo, io iniziai ad occuparmi dei lavoratori italiani e ad aiutarli come potevo, soprattutto nelle incombenze quotidiane dove una lingua così diversa dalla nostra poteva essere davvero un ostacolo a tutto. Li accompagnavo dal medico, negli uffici, dagli avvocati e così via. Il mio impegno sociale sorse così, dalla vita che conducevamo. Appena ne ebbi l'età iniziai un tirocinio nell'azienda dove lavorava mio padre a Gernsbach, in quella formula di formazione professionale tipicamente tedesca in cui tre giorni erano di lavoro e due nelle aule della scuola professionale. Già nel corso del tirocinio mi sono adoperato in sede aziendale per i più deboli e a 18 anni sono stato il primo non tedesco a essere eletto come rappresentante dei giovani. Nel '74 divenni presidente della rappresentanza dei giovani in quella industria che contava 700 dipendenti. Fino al 1980 sono stato funzionario giovanile del sindacato industriale dei settori chimico, carta, ceramica e membro della commissione contrattuale del Land Baden-Württemberg. Dopo anni di corsi d'aggiornamento e lavoro, dopo la modifica della legge sullo statuto aziendale che permise ai non-tedeschi di ricoprire cariche direttive nel 1975 fui eletto membro del consiglio aziendale della summenzionata azienda, poi nel 1981 vice-presidente del consiglio aziendale a tempo pieno e presidente dei fiduciari sindacali nella stessa azienda. Da lì in poi il mio impegno è sempre stato costante. D: – Elenco velocemente i ruoli che ha coperto, un breve curriculum vitae per dare il giusto valore alla storia del suo operato: 1988-1994: direttore dell'ufficio centrale italiano della segreteria nazionale della confederazione dei sindacati tedeschi (DGB), Düsseldorf; 1994-1998: responsabile della sezione "Migrazioni" del dipartimento internazionale della segreteria nazionale sempre della DGB, Düsseldorf; 1998-2004: segretario politico del dipartimento "Lavoratori stranieri" della segreteria nazionale del sindacato industriale dei settori minerario, chimico ed energetico (IG BCE) Hannover, poi, fino al 2014, direttore del dipartimento "Migrazioni/Integrazione" sempre dell'IG BCE, Hannover; dal 2004 membro del direttivo del consiglio interculturale tedesco, Darmstadt e membro del direttivo del consorzio addetto alla cura della cultura del settore minerario, Herne; dal 2006 co-presidente del consiglio interculturale tedesco a Darmstadt e, sempre nel 2006, candidato alle elezioni del Parlamento italiano, circoscrizione Europa; dal 2008 presidente dell'associazione nazionale dei sindacati tedeschi contro la xenofobia, il razzismo e l'estremismo di destra "Non toccare il mio compagno - La mano gialla", Düsseldorf. è anche socio fondatore e membro del direttivo di alcune associazioni italo-tedesche e cofondatore e membro del consiglio di amministrazione della fondazione per le settimane internazionali contro il razzismo. R: – È evidente come per tutta la vita ho tenuto i contatti con il mondo del lavoro in Germania ma anche con i sindacati italiani. D: – La sua è una storia importante riconosciuta con il conferimento, lo scorso anno, della Croce di Merito, una rarissima onorificenza assegnata dal Presidente della Repubblica Federale Tedesca al valore soprattutto per il suo impegno come Presidente dell'associazione "La mano gialla". Ci spiega di cosa si occupa la sua associazione? R: – Non posso negare che la Croce al Merito mi abbia fatto un grandissimo piacere. Mi è stato detto che dal 1949, anno in cui fu creata, è stata conferita solo a circa lo 0,2% della popolazione tedesca. La mano gialla è il nostro stemma: la scritta sulla mano significa "Non toccare il mio compagno". L'associazione nazionale fondata dal Movimento giovanile dei Sindacati Tedeschi esiste in Germania dal 1986. È una delle prime associazioni di questo genere. Essa ha origine in Francia dove fu fondata il 1984 con il nome: "SOS Racisme - Touche pas à mon pote". Trapiantata anche in Germania l'associazione è sostenuta dalla Confederazione dei Sindacati Tedeschi (DGB) e gli otto sindacati di categoria affiliati come pure dai circa 1800 soci sostenitori, tra cui ministri, deputati e altre personalità della società tedesca. Come soci sostenitori abbiamo anche il movimento giovanile del sindacato austriaco (ÖGB) in più un'azienda italiana di Milano ed una turca. Io ne sono Presidente dal 2008. Insieme ai Sindacati Tedeschi e ad altre forze democratiche lottiamo contro la xenofobia, il razzismo e l'estremismo. Lavoriamo per una società umana che rispetti la diversità, l'integrazione e che crei pari opportunità e cultura. Il razzismo esiste purtroppo dovunque: quello contro gli italiani era più accentuato negli anni di prima immigrazione (1960-70), oggi è rivolto più verso i musulmani e i rifugiati. Credo che l'impegno sociale sia l'elemento portante della società e continuerò sempre a lottare contro il razzismo e il populismo di destra e battermi per i diritti umani e la democrazia. Nel discorso di ringraziamento alla cerimonia del premio ho ribadito quello in cui credo: l'esempio. Ho esortato tutti i presenti a dare l'esempio sulla via dell'integrazione. Moltissimi dei soci sostenitori dell'associazione lo diventano così, valutando il nostro operato, ascoltando quel che abbiamo da dire e comprendendo quanto sia fondamentale percorrere questa strada per creare una società più giusta. D: – Le faccio ora una domanda più specifica: l'immigrazione nel corso dei decenni è cambiata o è un fenomeno che resta sempre uguale a sé? R: – È cambiata moltissimo. Prima ad esempio l'immigrazione in Germania era puramente di manodopera ed era regolata secondo accordi bilaterali risalenti al 1955. Gli aspiranti erano raccolti a Verona, dove subivano tre giorni di visite mediche scrupolosissime: raggi, controllo ai polmoni, controlli di tutti i generi, perfino ai denti: se non ottenevi un certificato di salute e robusta costituzione non entravi. Era una trafila umiliante, ma allora era così, era la regola. Invece ora abbiamo l'Europa unita, che è una grande risorsa, una conquista di grande valore. Ci si sposta senza problemi per cercare lavoro e conoscenza, le frontiere non ci fermano più. Con queste premesse però si è verificato un fenomeno diverso: l'immigrazione di manovalanza è sempre minore, a differenza del personale qualificato e specializzato che cerca qui una svolta per la propria carriera. Poi ci sono i profughi, ma questa è un'immigrazione diversa. La costituzione tedesca garantisce il diritto di asilo a chi ne ha diritto e quindi si deve cercare di integrare queste persone, ma questa emigrazione "di fuga" ha fatto cambiare il modo di pensare della gente e il loro concetto di politica: in tutta Europa le forze xenofobe fomentano l'odio contro questo tipo di immigrati e parlano di invasione. Fermiamoci a pensare un attimo però: la mia generazione ha vissuto e sta vivendo in un'Europa senza conflitti bellici. Noi viviamo in un buon periodo, pacificamente e in un contesto in cui possiamo crescere culturalmente. Certo i problemi esistono e vanno risolti, specialmente quelli sociali. Ma in generale possiamo dire che siamo fortunati e la gente, ed in modo particolare i giovani, dovrebbero capirlo. La destra invece fa leva sulle paure della gente. Non offre alternative, visioni di collaborazione, ma mina la fiducia. Cita Trump e Salvini e il loro: «Prima veniamo noi!». Se non c'è unità e rispetto per le persone non si progredisce, ma per ottenerli bisogna educare la gente. Dobbiamo fare formazione politica nelle aziende e nelle scuole. Ad esempio, da poco abbiamo accordi con un'azienda chimica e una di trasporti per fare corsi di prevenzione dove formiamo i giovani e i professionisti. Ancor più questo andrebbe fatto nelle scuole. D: – La nostra speranza sono i giovani quindi? Come per tutti i cambiamenti dobbiamo agire su di loro? R: – Sì. Dobbiamo iniziare dalle scuole. Noi essendo un'organizzazione del sindacato, con i rappresentanti sindacali e i membri delle commissioni interne stiamo lavorando in questo senso sia nelle aziende che nelle scuole professionali, ma bisogna coinvolgere anche tutte le altre scuole perché se ne parli e si possa capire. D: – Lei parla spesso di discriminazione tra i discriminati. È davvero possibile che chi è stato emarginato surclassi e odi chi vive ora la stessa situazione che loro hanno subito? Perché? R: – Lo dico da sempre e la trasmissione di Gad Lerner "La difesa della razza" lo conferma ampiamente. Lerner al Bar Italia '90 e ai cancelli della Ford di Colonia parla con alcuni vecchi lavoratori italiani delle prime ondate migratorie e con gli operai di oggi: molti sono arrabbiati contro i nuovi immigrati. «Non vogliono fare sacrifici, non rispettano le regole, sono sfaticati: noi non eravamo così», dicono. È un dato di fatto che molti italiani di prima generazione in Germania detestino i nuovi immigrati. Che questa gente viene da guerre e fame non lo considerano; loro scappano per necessità. Io affermo sempre che nessuno lascia il proprio Paese con piacere se non ne è obbligato, neanche loro che vennero alla fine degli anni '50-inizi '60 lo fecero. Ma gli xenofobi qui fanno leva sull'esasperazione e molti di loro affermano di essere razzisti senza vergognarsene. D: – Da cosa nasce tutto questo odio? R: – Principalmente perché si sentono minacciati nella loro esistenza. I nuovi immigrati, i profughi sono potenziali concorrenti in più per chi è in cerca di lavoro o di case ad affitto economico. Non sono visti come colleghi o pari grado, ma come rivali. Seppure loro stessi abbiano subito o subiscano angherie, non sono solidali con i nuovi venuti e li trattano ancor peggio di quanto siano stati trattati loro. Per di più esiste da anni ormai un discorso mediatico e politico negativo sulla religione islamica e i musulmani. L'Islam viene visto soprattutto come pericolo, come fonte di criminalità e terrorismo. Questa visione stereotipata e negativa fa crescere le paure e fa sorgere l'odio, separa invece di unire la società e anche tra gli italiani ci sono questi risentimenti islamofobici. Purtroppo, le difficoltà per alcuni ci sono anche in un Paese stabile come la Germania e questo non si deve nascondere, ma il messaggio che deve passare è che il passato non si deve ripetere. Gli immigrati di prima generazione devono ricordare come essi non siano stati accolti a braccia aperte e contribuire a migliorare la situazione per i nuovi arrivati. Noi lotteremo sempre affinché i diritti umani vengano rispettati. Monia Rota Fonte: https://lombardinelmondo.org/.
- L'altare ligneo della Chiesa di Santa Maria di Loreto
Fu certamente per meglio esternare la loro devozione alla Protettrice dei viandanti, la Madonna di Loreto, che i pastori, proprio in quel luogo ove sostavano con gli armenti prima di partire «per condurli a svernare ai bassi piani al principio dell’autunno» e «al ritorno sul finire della primavera», vollero nel 1622 noviter ampliare l'«ecclesia antiquissime constructa» con lo stesso fervore religioso. Nel 1664, come si rileva da una tavoletta prima inchiodata sul lato destro dell'altare ed ora conservata altrove, i pochi scampati alla terribile pestilenza dell'estate 1656 e alla devastazione operata da una compagnia di 104 briganti nell'anno successivo eressero questo meraviglioso altare ligneo. L'opera, per il suo disegno architettonico, è una delle più importanti della regione perché adotta uno schema a quattro colonne. Frontalmente sono collocate due colonne tortili di palese gusto beniniano, con la parte inferiore cilindrica coperta da grottesche e girali. Di lato, appoggiate su mensole, due colonne corinzie intagliate nella parte bassa con fregi che si richiamano a quelli delle colonne centrali, con alto timpano che ricorda alla lontana una trabeazione dorica. Nel 1735, durante il rifacimento della chiesa realizzato dalla Confraternita, con il ricavato dalla vendita di mille pecore, duecento vacche ed alcuni terreni, si trasformò la parte inferiore con una ricca mensa in marmo, decorata nel paliotto con uno stupendo intarsio in marmi pregiati, di chiara eco napoletana. Nell'altare, destinato a contenere la sola statua venerata della Madonna di Loreto, opera lignea del 1633, si dette molta importanza anche alla decorazione dell'imbotte dell'arco, che è cassetto nato con rosoni. La nicchia, poi, si compone di elementi classici, come le volute orientaleggianti per il ridondare di complicati intagli che accrescono il valore di tale opera senza peraltro turbarne la scansione comparativa. Struttura dell'altare in legno intarsiato e dorato di m. 3,20 x 2,70, realizzato nel 1664. Conservazione: è stata rimaneggiata la parte superiore, il bambino del gruppo santuario è stato sostituito, perché rubato. Orazio Ciummo Fonte: O. Ciummo, Altari lignei nel Molise, Il Ponte Italo-Americano, New York 2008.
- Una patacca da Agnone, anzi da Capracotta... anzi da Pietrabbondante
Otto anni fa Enzo Delli Quadri apriva le danze attorno alla patacca di Agnone e Luciano Scarpitti faceva una bella sintesi sullo stato dell'arte in quel momento. Poi arrivava la perizia di Pietro Mastronardi e la vita per gli Inglesi si complicava. Crollava il mito di Francesco Saverio Cremonese che, sindaco di Agnone, trafficava con il suo compare di cresima, il barone Giandomenico Falconi di Capracotta, per fare un colpo internazionale a spese degli Inglesi. Infine Giuseppe Ciaramella scopriva il carteggio del Museo Archeologico di Napoli che dimostrava che nel 1932 il Ministero sapeva benissimo che l'originale stava ancora in Agnone e che era necessario che si procedesse all'acquisto dai legittimi proprietari che erano gli Amicarelli-D'Onofrio. Antonino Di Iorio, Paolo Nuvoli, Bruno Paglione hanno ripetutamente gridato allo scandalo della disinformazione archeologica di Pietrabbondante ma si continua a far finta di niente per non urtare la suscettibilità dei baroni che sulla patacca di Londra hanno costruito una credibilità internazionale. Sono passati otto anni. I misteri ormai sono tutti svelati. Paola Di Giannantonio ha chiarito finalmente anche gran parte dei significati che si nascondono dietro quest'elenco di cerimonie ed ora resta solo il desiderio che al prezioso reperto venga dato il rilievo che merita. Il Molise non può perdere altro tempo e la tavola di bronzo deve essere restituita alla comunità di Pietrabbondante che ne è la storica e legittima destinataria. Sarebbe bello se la Regione mettesse da parte le polemiche e avviasse le trattative per acquistarla dagli attuali proprietari D'Onofrio. Ogni giorno che passa il suo valore monetario aumenta. Nell'Ottocento la patacca fu venduta da Saverio Cremonese al trafficante Alessandro Castellani che la rifilò a British Museum per quattromila lire, che allora era una cifra! Gli Amicarelli-D'Onofrio continuano legittimamente a possedere l'originale che oggi vale centinaia di migliaia di euro... Più tempo passerà e maggiore sarà il suo valore! Franco Valente
- Noè Ciccorelli, il primo campione di sci
Caro zio Noè, per renderti partecipe della ricorrenza dello Sci Club di Capracotta, vorrei rivivere oggi con te alcuni dei momenti più belli, e gli episodi più significativi della tua attività sportiva sugli sci che, negli successivi al primo dopoguerra, hai onorato con le tue prestazioni e portato lustro ed onori allo Sci Club. L'intensa passione per lo sci era a te connaturata, ed hai voluto coltivarla anche dopo gli anni della tua giovinezza, come quando, sulle amate nevi di Capracotta, hai accompagnato i miei primi passi sulla neve, mentre da bambino ti osservavo danzare sugli sci con profonda ammirazione. I tuoi premurosi insegnamenti ricorrono ancora nei miei pensieri quando mi parlavi di telemark e kristiania, parole a me sconosciute che evocavano nella mia fantasia misteriosi paesi lontani. Anche sugli sci hai voluto trasportare il senso del bello e dello stile che ha contraddistinto la tua vita: sei stato infatti uno stilista molto attento ed esigente del tuo amato sport, allora agli albori, di cui fosti un audace pioniere nella pratica sia della discesa che del fondo. La scarsa documentazione sopravvissuta alla tragedia dell'ultima guerra, mi permette di rievocare un breve profilo della tua attività agonistica, ed alcuni episodi salienti che si ritrovano nei giornali del tempo che ho potuto rintracciare. Sei certamente stato il primo sciatore capracottese di valore che negli anni '20 seppe affermare il suo primato, sia in ambito locale che regionale, con successi e prestazioni sempre ad alto livello, proponendo il nome di Capracotta anche in competizioni nazionali alle quali partecipasti nelle più note località alpine. Memorabili sono rimaste le aspre contese ed i confronti serrati con le squadre degli Sci Club di Rivisondoli, Roccaraso, Rocca di Mezzo che mal sopportavano che le tue vittorie togliessero loro la scena, soprattutto negli anni in cui, alla presenza di importanti settori della borghesia e della stessa Casa Reale, prese l'avvio lo sviluppo turistico di Roccaraso e delle zone limitrofe. Il più significativo dei tuoi numerosi trofei è indubbiamente legato alla conquista dell'alloro regionale di campione d'Abruzzo individuale che, con una magnifica vittoria su un folto gruppo di concorrenti, tra cui il famoso ed imbattuto Bavona, ti aggiudicasti sulle nevi di Ovindoli il 13 e 14 febbraio del 1928, coronando un sogno che ti era sfuggito, per una sfortunata circostanza, l'anno prima. La stampa dette il dovuto risalto alla tua impresa. Ma il saluto più bello al neocampione fu portato dall'avv. Franco Ciampitti, presidente dell'Ente per il Turismo, giornalista sportivo, tuo grande ammiratore ed amico, nonché capracottese di adozione, che volle inviarti l'affettuoso telegramma, che, nella sua versione originale così recita: Tutte valli Italia cantino tua grande gloria plaudendo tenace meraviglioso purissimo campione. Franco. Antonio Angelaccio Fonte: T. Paolone (a cura di), 1914-2014: cento anni di sport. Cronache e storia dello Sci Club Capracotta, Volturnia, Isernia 2015.
- Leo Paglione: la realizzazione di un sogno (III)
Lo studio era situato al primo piano di una casa di via Marconi, sopra un forno per la panificazione. Uno stanzone illuminato da una finestra - di cui una pesante tenda regolava l'intensità della luce - e da un lucernario. Al centro della stanza torreggiava un mastodontico cavalletto con a fianco un tavolo pieno di tubi di colori, pennelli, spatole, righelli e tante piccole ciotole di porcellana bianca sul fondo delle quali sedimenti colorati donavano all'insieme una nota piacevole. Un tavolo più grande, accostato ad una parete e pieno di grossi fogli di carta, forse disegni, faceva anche da sostegno ad un busto di gesso di Bruto. Su una delle sedie impagliate, un manichino, quasi a grandezza d'uomo, giaceva a pancia in giù con braccia e gambe penzoloni. Pochi dipinti appesi alle pareti, moltissimi invece quelli poggiati a terra a più file ed accostati al muro. A tutto questo si aggiungeva il penetrante odore di acquaragia, colle e vernici esalante da ogni oggetto di quell'ambiente. Un giovane, pressappoco della sua età, rimasto educatamente a distanza, su invito di Trivisonno si avvicinò e, con una cordiale stretta di mano si presentò. Si chiamava Domenico Petrone, appassionato di disegno come disse e, come aggiunse poi il Maestro, molto bravo nell'intaglio del legno. Con lui Leo avrebbe stabilito una duratura amicizia. Si trattenne a lungo nello studio. Andò via solo dopo essersi assicurato di poter tornare il mattino successivo. Se ne andò via correndo, ansioso di raccontare al fratello le emozioni provate. Era contento: ora avrebbe potuto guardare al futuro con fiducia, uno spiraglio si era aperto, i suoi sogni si sarebbero potuti realizzare. Con questo animo nuovo, cominciò a frequentare lo studio di Trivisonno. Poteva entrare quando voleva, lo studio era sempre aperto. Avido di osservare, seguiva incantato il lavoro del Maestro e quando questi usciva, lui restava, a disegnare, per esercitare la mano e fermare sulla carta tutto ciò che trovava interessante e di suo gusto. Suo modello preferito era il manichino che disegnò in varie pose e da diverse angolazioni. Ma dopo un paio di mesi circa dal suo arrivo nello studio, Leo avvertì la sensazione che il Maestro volesse dirgli qualcosa e che non osava farlo. Non si era sbagliato: un pomeriggio, mentre passeggiavano in piazza Pepe, dinanzi al caffè Lupacchioli, ad un certo punto della conversazione, senza un motivo, Trivisonno si interruppe, si fermò e, assumendo un atteggiamento grave, guardandolo negli occhi, senza mezzi termini, come - lo avrebbe scoperto dopo - era nella sua natura, gli esternò la sua inquietudine ed il suo cruccio: non poteva tenerlo ancora con sé senza remunerazione se prima non si fosse reso conto delle sue attitudini alla pittura, perché, se non ne avesse trovate, suo algrado si sarebbe visto costretto ad allontanarlo. E questo per non doversi in seguito rimproverare di avergli fatto perdere tempo inutilmente. Lo avrebbe perciò sottoposto ad una prova. Al termine di questo discorso, fatto tutto d'un fiato, mentre Trivisonno si doleva di aver dovuto parlare con durezza al giovane, quello invece gliene era grato. Durante quei mesi, sempre per la sua invincibile timidezza, anche quando se ne era presentata l'occasione, non era riuscito a comunicare al Maestro la sua passione per il disegno e la pittura né gli aveva mai mostrato qualcuno dei tanti schizzi e disegni fatti e conservati, alcuni dei quali proprio nel suo studio durante le sue frequenti assenze. Ora però, con sicurezza, rispose che era pronto per la prova, anche subito. Senza indugiare, invitando il giovane a seguirlo, il pittore si incamminò con passo deciso verso lo studio e, una volta giuntovi, afferrato il busto di Bruto, lo porse a Leo dicendogli di disegnarlo a matita sul foglio di carta che gli andava porgendo. Gli dava mezz'ora di tempo. Detto questo se ne andò. Leo era tranquillo: quel busto lo aveva già disegnato più volte. C'era solo un problema, il tempo: mezz'ora era davvero poco per eseguire un lavoro impegnativo. E tuttavia, conferendo maggiore sveltezza alla già agile mano, dopo aver delimitato i contorni, con varia intensità del segno, che da sottilisimo, appena percettibile in alcuni punti, diventava intenso e profondo, infittendolo con allineamenti paralleli e con incroci, ottenne risultati così ricchi di chiaroscuro da conferire al disegno una terza dimensione. Senza avvedersene, Leo stava trasferendo a carta ogni sua pur sottile intenzione, ogni impeto, ogni trasalimento: da quella prova dipendeva il suo destino. Quei segni che stava tracciando con forza quasi rabbiosa, esprimevano le sue gioie, le sue ambizioni, i suoi passati dolori e le speranze, tutto il suo entusiasmo per la vita che gli era stata concessa. Aveva terminato quando, dal rumore dei passi, capì che il Maestro stava rientrando. Rimase seduto aspettando che si avvicinasse, e quando se lo sentì accanto si girò verso di lui per cogliere, dalle espressioni del volto, l'esito della prova. Trivisonno, solitamente pallido, era diventato rosso e con gli occhi spalancati, immobile, dopo aver guardato a lungo il disegno rimasto sul tavolo, schiarendosi la voce, disse: – Su, continua! E Leo ebbe la certezza che la sua ostinatezza e la sua fede avevano vinto: sarebbe diventato pittore. Michele Praitano Fonte: M. Venturoli e M. Praitano, G. Leo Paglione, Palladino, Campobasso 1999.
- Leo Paglione: la realizzazione di un sogno (II)
In questo stato d'animo corse a mostrare il giornale al maestro, il quale, vedendolo così eccitato, tentò di convincerlo di aver preso un abbaglio, che quello era un lavoro da poco. Ma Leo ormai aveva deciso: sarebbe arrivato a Trivisonno, a qualunque costo. Era la fine dell'autunno e, siccome di solito nei mesi invernali non c'era lavoro, disse al pittore che desiderava tornare a casa per qualche tempo, ma quegli, intuendo che se fosse partito non l'avrebbe più rivisto, gli negò il consenso. Senza scoraggiarsi Leo, al verde com'era per non avere mai ricevuto una paga, si fece prestare cinque lire da un arrotino amico di famiglia che risiedeva a Termoli, e il giorno dopo era a Campobasso, ospite del fratello bastaio che, sposato, viveva ormai nel capoluogo. Appena ambientato nel nuovo asilo, si recò nella Cattedrale per vedere dal vero l'affresco che tanto lo aveva affascinato: un'"Ultima cena". Imponente! La figura del Cristo irradiato di luce divina, al centro della scena; intorno una moltitudine di figure, tutto un mondo di discepoli, personaggi biblici; sulla sinistra, verso il basso, il re-sacerdote Melchisedec nell'atto di offrire il pane e il vino al Signore; sulla destra, Malachia rivolto sdegnoso ad un gruppo di sacerdoti, e, in alto, la figura dell'Eterno Padre in estatica beatitudine, lo inebriarono, lo mandarono in visibilio. Il giovane guardava il tutto rapito, e dai mutevoli atteggiamenti manifestava emozioni, stupore, interrogativi, quasi avesse stabilito con quei personaggi un muto appassionato colloquio. Staccato lo sguardo dall'affresco, dopo un tempo difficile da calcolare, guardando attorno, vide un altro affresco che entrando non aveva potuto notare posto com'era sulla porta d'ingresso. Rappresentava "La moltiplicazione dei pani e dei pesci": un tema grandioso. Genialmente concepito dal giovane artista, sebbene interrotto dal vuoto della porta, l'affresco non perdeva nulla della sua grandiosità: il Cristo in atto di dispensare il cibo, i discepoli e tutti gli altri personaggi raffigurati sembravano veri, vivi e palpitanti. Nel tempo venne a sapere che, volendo il pittore lasciare su questo dipinto un'impronta del suo tempo, aveva dato ai vari personaggi le proprie sembianze, quelle dei suoi familiari e di alcuni amici campobassani. Leo, tentando di immaginare l'ispirazione dell'artista, non era più spettatore ma attore. Era il mistero della luce dell'arte a suscitare in lui quelle sensazioni sospese tra realtà e sogno, tra verità e immaginazione. Fu un acuto dolore al collo a farlo tornare alla realtà. Uscì dalla chiesa stordito e con una certezza: avrebbe incontrato Trivisonno e lo avrebbe avuto come masetro. Intanto i giorni passavano ed egli, per non essere di peso al fratello che l'ospitava, lavorava con lui e però sempre pensando ed aspettando il momento opportuno per farsi conoscere dal Trivisonno. Un giorno, da voci circolanti nella città, venne a sapere che le autorità ecclesiastiche, soddisfatte dei lavori eseguiti dal Trivisonno nella Cattedrale, avevano deciso di affidare a lui il compito di completarne la veste pittorica, anche perché erano rimasti colpiti dal suo grande amore per l'arte ispirata a motivi religiosi. La parete da affrescare questa volta sarebbe stata quella della cappella del Rosario. Vennero montate le impalcature, sistemati i diffusori di luci ed il pittore, aiutato dal muratore che gli avrebbe preparato l'arriccio e l'intonaco, dette inizio al lavoro. Il giovane Paglione, che da giorni aspettava impaziente, entrato con i fedeli nella Cattedrale, giunto vicino all'impalcatura, furtivamente si infilò otto le tavole e, attraverso qualche spiraglio, cominciò a sbirciare l'artista intento al lavoro. Finché rimase immobile, la sua presenza non venne notata, ma spostandosi per vedere meglio, provocò un rumore che richiamò l'attenzione del pittore, il quale, avvedendosi della sua presenza, gli intimò ruvidamente di allontanarsi. Leo scappò via impaurito, deluso, sconfitto... ma non vinto! Tanto che il giorno dopo tornò ancora e così fece nei giorni successivi prendendosi tranquillamente sgridate e mugugni, finché il pittore, visto che il ragazzo guardava e osservava in assoluto silenzio, ne accettò la presenza. Era il primo passo, la prima conquista. E infatti, qualche giorno dopo, mentre attraversava la "Villetta Flora" si trovò quasi di fronte il Maestro fermo davanti al negozio di colori del padre, in atteggiamento di persona grave e pensosa. Qualcosa gli disse che quello era il momento buono per affrontarlo, sicché corse a chiamare il fratello per farsi accompagnare e presentare, finalmente, la sua richiesta al Maestro. Parlò il maggiore e, purtroppo, ottenne un rifiuto: il pittore non poteva permettersi di assumere un ragazzo nel suo studio perché non aveva da corrispondergli una mercede... Era la fine di un sogno. Leo si stava allontanando lentamente quasi in lacrime, quando si sentì chiamare: il buon Trivisonno aveva colto la profonda delusione del ragazzo, e, volendolo rincuorare e non trovando parole adeguate, lo invitò a visitare il suo studio. Michele Praitano Fonte: M. Venturoli e M. Praitano, G. Leo Paglione, Palladino, Campobasso 1999.
- Leo Paglione: la realizzazione di un sogno (I)
Chi oggi, partendo da Campobasso con un'auto di media cilindrata, volesse recarsi a Capracotta, la nostra ridente, frequentata stazione climatica estiva e invernale, potrebbe giungervi in meno di novanta minuti. La strada, ottimamente bitumata e con curve ben tracciate, grazie anche a viadotti e gallerie, non fa avvertire al viaggiatore il sensibile sbalzo d'altitudine che lo porta a 1.421 metri. Della vecchia "provinciale 70", restano solo le bellezze del mutevole paesaggio montagnoso ed il suggestivo attraversamento del bosco di Staffoli. Ma settant'anni fa non era così. Tortuosa, con ripide salite ed il fondo di solo pietrisco, quella via sottoponeva le rudimentali auto del tempo e i malcapitati viaggiatori a sforzi tali da scoraggiare i meno intrepidi, in particolar modo nella lunga stagione invernale quando le nevicate, allora così abbondanti da superare i due metri, paralizzavano la vita di quei luoghi. Per giorni e giorni, nel "paese dei carbonai", non si poteva uscire dalle case sepolte dalla neve, il cui interno era illuminato da lampade ad olio dato che l'energia elettrica mancava, a volte, anche per mesi. Il riscaldamento, poi, era affidato al camino, almeno fino a quando la bufera, facendo traboccare il fumo, non costringeva gli abitanti a rifugiarsi nelle stalle per evitare il soffocamento. In una di queste modeste dimore abitava Pasquale Paglione. Uomo mite per natura, vi aveva messo su famiglia, allevato due figli ma la mancanza di lavoro lo aveva costretto ad emigrare in America dove rimase nove anni. Era lì allo scoppio della Prima guerra mondiale e prestando fede alle voci, false peraltro, secondo le quali agli italiani che non si fossero iscritti nei quadri dell'esercito non sarebbe stato mai più consentito il rientro in patria, ingenuamente si affrettò ad arruolarsi e di conseguenza partecipò alle operazioni di guerra per tutti e quattro gli anni della durata del conflitto. Tornato finalmente a casa, si ritrovò con moglie, tre figli a carico ed un quarto in arrivo e senz'altra possibilità di lavoro che la pastorizia. L'accettò. Col solo rammarico di dover trascorrere la maggior parte dell'anno lontano dalla famiglia per via della transumanza, il trasferimento stagionale delle greggi. Per il resto, pur nella povertà, viveva tranquillo. I figli crescevano buoni e consapevoli: il primo imparava già il mestiere di bastaio - lavoro allora richiesto -, il secondo e il terzo frequentavano le elementari. Quest'ultimo, Giovanni Leo, aveva due passioni: lo sci e il disegno. In disegno a scuola era un vero portento, ma la maestra purtroppo non apprezzava quelle sue qualità. Fu un giovane talento, invece, un certo Ottorino Conti, chiamato a sostituire la maestra in permesso per malattia, a rilevarne le doti native e la spiccata inclinazione artistica. Conosciuta l'assoluta indigenza nella quale versava la famiglia, non potendo rinnegare la sua intuizione e rischiare di tradire una promessa dell'arte, si risolse a scrivere una lettera al direttore dell'Accademia del Disegno di Napoli spiegandogli il caso. Quel a lettera doveva essere davvero convincente e il dirigente dell'ateneo napoletano rispose subito offrendo al ragazzo l'ammissione gratuita all'Accademia. Restava però, purtroppo e irrisolvibile, il problema del sostentamento. Gli anni intanto passavano e Leo, finito che ebbe le scuole elementari, doveva decidersi ad imparare un mestiere. Fu così che, anche se di malavoglia, si unì al fratello maggiore che, come abbiamo già detto, lavorava in una bottega di bastaio. Ma quel lavoro non gli piaceva, lo rattristava, lo sentiva più faticoso di quanto realmente fosse. E intanto sognava. Sognava di poter disegnare e dipingere, di poter un giorno creare opere simili a quelle che guardava estasiato sulle poche e modeste riproduzioni d'arte che gli capitavano tra le mani, sulle quali restava in contemplazione per ore prima di tentare di riprodurle a matita su fogli di carta che poi conservava gelosamente. Aveva poco più di quindici anni quando, avendo saputo di un bravo pittore che viveva a Termoli - del quale non ricorda più il nome - fu subito preso dalla smania di andarlo a trovare. Fu tanto fermo in questa sua decisione che i fratelli più grandi non se la sentirono di rifiutargli il loro aiuto. Si recò così a Termoli, conobbe il pittore e ottenne di poter restare con lui. Ma al piacere iniziale di veder avviata la realizzazione del suo sogno, ben presto subentrò la delusione. Il pittore era mediocre. I suoi lavori erano ben lontani da quelli tante volte ammirati sulle illustrazioni e tanto intensamente da averli sempre impressi nella mente. Questi non avevano forza, non suscitavano emozioni. Che insegnamento avrebbe potuto averne? Ciò nonostante decise di rimanere: era meglio che niente e poi... qualcosa poteva sempre accadere. Ed infatti, dopo qualche tempo, qualcosa accadde. Un giorno gli capitò tra le mani la pagina di un giornale molisano che riportava la fotografia di un affresco eseguito da un giovane pittore campobassano, Amedeo Trivisonno, nella Cattedrale della sua città. Il ragazzo ebbe un sussulto. Quello era il tipo di pittura che gli appariva nei sogni: quella forza nelle figure, quelle espressioni nei volti, quei cieli, quell'insieme carico di tensioni. E poi un affresco in una chiesa lo vedeva già come una importante lezione sui valori dello spirito in nome dell'arte, un libro aperto a rappresentare la divulgazione di un'idea. Quello era un vero artista, perché la costruzione di un'opera come la sua poteva scaturire solo da immaginazione, osservazione e fervida preghiera, oltre che da maestria nel disegno e nella pittura. Michele Praitano Fonte: M. Venturoli e M. Praitano, G. Leo Paglione, Palladino, Campobasso 1999.
- Amore e gelosia (XLII)
XLII "Però... Non mi deve trovare che lo aspetto qua fuori al buffet... Ci faccio una brutta figura... ora mi allontano, anzi vado a fare il biglietto per Napoli e rientro in stazione. Lui sarà uscito dal bar e penserà che io sto appena giungendo... sì, meglio così"... Ed Elisa si avviò verso la biglietteria, vi giunse e fece un biglietto per Napoli, poi rientrò verso la partenza dei treni. Una piccola folla si era formata sulla banchina e la giovane dovette farsi largo quasi a spinta: il diretto era in arrivo e tutti si accalcavano per non perderlo. Non era più possibile vedere o farsi vedere: non era stata una buona idea quella di allontanarsi. A peggiorare le cose, ecco che un sibilo prolungato si diffuse nell'aria, seguito da uno sbuffo inconfondibile: il treno stava entrando in stazione e il vapore liberato nell'aria stava inondando tutta la banchina. Non c'era molto da poter fare: o tornare indietro o salire sul treno, doveva decidere, adesso e subito... Salvatore udì il sibilo e si riscosse: stava ascoltando il professor Califano che si era rivelato un vero affabulatore: gli stava parlando della canzone napoletana e in proposito aveva grandi idee... – Il treno! È giunto, devo prenderlo... Professore scusatemi, nun me dite niente, ma mò me ne devo andare, parlamme meglio n'ata vota... grazie per il caffè e la sfugliatella... – Iate, iate, maestro! È stato un onore per me, un grande onore! E quanne venite a Nocera a trovare la bella donna Elisa, se ci incontriamo posso... – Ma certo, professore, certo... ma ora devo... – e senza aggiungere altro il poeta uscì dal buffet e si ritrovò tra la calca in attesa come lui di salire sul treno. Il convoglio entrò finalmente in stazione rallentando tra stridii di freni e continui sbuffi di vapore che uscivano dalla locomotiva. La gente si tirò indietro per non essere investita dai getti caldi e le varie vetture di prima, seconda e di terza classe sfilarono sempre più lentamente fino a fermarsi definitivamente con un sussulto. Le porte si aprirono e i viaggiatori provenienti da Salerno e Cava diretti a Nocera presero a scendere: la ressa allora aumentò ancor più tramutandosi quasi in una vera e propria massa confusa. Ma era solo apparenza, l'ordine c'era e quando la folla si diradò rimasero solo i nuovi viaggiatori diretti verso Napoli o qualche stazione intermedia: ora bisognava salire. E don Salvatore così fece: dopo aver dato la precedenza alle donne, come era buona educazione fare a quei tempi, si inerpicò anche lui su per i gradini del vagone di seconda classe e infine si sedette. Pochi minuti e si udì un trillo sibilante: era il fischietto del capostazione che autorizzava il treno a partire... Lentamente, quasi con dispiacere e con fatica, il convoglio si rimise in moto, tutte le vetture seguirono la locomotiva che tirava, tirava ed emetteva vapore a tutta forza. Uscirono finalmente dalla stazione e anche il diretto, libero ormai dalla forza di inerzia che prima voleva trattenerlo, iniziò ora allegramente a prendere velocità. "Un'oretta al massimo e sono a Napoli", pensò don Salvatore, mentre si accomodava in una delle poltrone a tre posti della seconda classe. Si guardò intorno: il vagone era pieno, era stato fortunato a trovare posto, e nel corridoio c'era anche qualcuno in piedi. "Bene, mi farò una piccola dormitina e il tempo passerà più velocemente... Però, la sfogliata era davvero buona, e anche il caffè! 'A prossima vota faccio nu cartoccio pe mammà"... Francesco Caso
- Sebastiano Di Rienzo
Presiedere l'Accademia dei sartori, la più antica associazione al mondo dedicata all'abbigliamento, non è cosa da poco. La prestigiosa istituzione ha oltre quattro secoli di esistenza alle spalle, essendo nata nel 1575. L'attuale Accademia nazionale dei sartori, che dal 1947 riunisce circa 250 maestri del "su misura", trae infatti origine e tradizione dall'antica Università dei sartori voluta da Papa Gregorio VIII poco dopo la metà del cinquecento, mentre Torquato Tasso terminava i venti canti della "Gerusalemme liberata" e il Veronese iniziava gli affreschi di Palazzo Ducale a Venezia. Altro che grandi opere e ponte sullo Stretto. Ecco perché Sebastiano Di Rienzo, capracottese a Roma ma anche cittadino del mondo, da anni presidente del prestigioso convivio, è di diritto uno dei molisani che fanno massimo onore alla sua terra. Se la sartoria è un'arte, il Molise, attraverso un alto numero di sartori che hanno saputo trasmettere la propria creatività a questo mondo elitario, ha contribuito non poco alla sua crescita e alla sua affermazione. A livello mondiale. Perché la scuola italiana della sartoria su misura è conosciuta ed apprezzata in tutto il pianeta: per politici che hanno segnato la storia (è il caso di Gorbaciov ma anche di Tito), per attori che hanno vinto premi Oscar, per scienziati di fama (è l'esempio di Dulbecco) il concetto dell'abito cucito a mano è stato sempre legato ad una dimensione di prestigio e di esclusività. Molti molisani hanno lasciato la propria terra con ditale e aghi. Riuscendo poi ad affermarsi in tutto lo Stivale e nel mondo. Capracotta vanta una tradizione unica in tal senso: il caposcuola della sartoria italiana su misura, Ciro Giuliano, era originario proprio del centro altomolisano. Sebastiano Di Rienzo è uno dei suoi degni discendenti. Perché molti capracottesi, anche a Roma, svolgono l'attività di sarto. Con successo. Quando taglio e cucito fanno grande il "Made in Italy" Entrare nel suo laboratorio è un'emozione. Sebastiano Di Rienzo, originario di Capracotta, ci accoglie nel suo studio-atelier tra modelli e la pila di riviste e foto accumulate in quasi quarant'anni di attività di sarto-stilista. Oltre ad aprire il suo atelier (moda donna) e il suo studio di modellistica, ha creato rapporti con le signore più prestigiose del mondo, estendendo il suo lavoro all'insegnamento. Di Rienzo, infatti, è docente di modellistica all'Istituto europeo di design a Roma da venti anni. Segretario nazionale dell’Accademia dei Sartori e segretario generale dell’Accademia mondiale dei sartori, è riuscito - è il caso di dirlo - a "ritagliarsi" un ruolo di prestigio nel panorama della moda italiana e internazionale vantando anche una serie di pubblicazioni: "Tecnica della moda", "Professione moda" e "Moda nell'industria". Di Rienzo è anche collaboratore della rivista "Tutto Motori" sulla quale cura una rubrica di moda e costume. A lui sono state dedicate tre tesi di laurea, segno che professionalità e talento gli hanno permesso di essere annoverato tra i migliori sarti del nostro Paese. Intervista a Sebastiano Di Rienzo Domanda: – Di Rienzo, com'è nata la sua passione per la moda? Da dove ha mosso i primi passi? Riposta: – All'età di dieci anni e mezzo avevo già finito le scuole elementari. Fu la mia famiglia ad indirizzarmi verso la sartoria. Mia nonna disse: «Il ragazzo è delicato, gli facciamo fare il sarto». L'apprendistato l'ho fatto presso Giovanni Borrelli, conosciuto come il migliore. Una lunga gavetta culminata a ventidue anni con l'assunzione, in qualità di tagliatore modellista, dal noto stilista Valentino. Lessi un'inserzione su un giornale e così mi presentai nelle case di moda più prestigiose ma fu Valentino a volermi prima come capogruppo. Da lui sono stato tre anni e mezzo, poi ho creato una mia attività. Ma prima dell'esperienza romana c'è stata un'altra importante avventura, quella a Como, come apprendista nel 1957 nell'atelier di Angelo Casale di Bojano. È stato lì che mi sono avvicinato alla moda femminile perché la moglie di Casale confezionava vestiti per donne e io la aiutavo. Sempre perché avevo un particolare tocco, quella grazia che in genere i ragazzi non avevano. D: – La mantella capracottese, il "cappotto a ruota", il tabarro. Sono tutti termini coniati da lei ed assunti a livello nazionale, persino al "Maurizio Costanzo Show"... R: – Il tabarro capracottese (che ci mostra provandolo) sarà uno degli oggetti di una mostra che il museo d'arte moderna di Villa Giulia esporrà insieme ai libri. D: – Poi l'incontro con la cultura orientale, la Cina. Come definirebbe questo incontro? R: – Tutto è iniziato nel 2002, quando ero presidente dell'Accademia dei Sartori. Fui contattato dal Comune di Tianjin, il porto di Pechino, e da allora è iniziato un sodalizio che continua ancora oggi e che ha permesso all'Accademia dei Sartori di esportare il binomio creatività e qualità in un Paese che sta cercando di occidentalizzarsi ma che risulta essere molto lontano, per cultura e tradizione, dai livelli raggiunti dalla moda italiana. Oggi circa l'8% dei cinesi è ricchissimo, contrariamente a quello che si pensa. I cinesi puntano a crescere soprattutto nell'oreficeria e nella sartoria, ma per farlo hanno bisogno di ispirarsi a modelli che non hanno nel loro Paese. Sono molto corteggiato dall'associazione degli industria dell'abbigliamento di Tianjin, che è l'unico vero insediamento italiano in Cina, che vorrebbe aprire un negozio con il mio marchio. Dal 2002 ad oggi sono stato in Cina sette volte, tre nell'ultimo anno. Segno che questa partnership è destinata a cementarsi. Ho portato il Molise anche lì, visto che la mia regione è sempre nel mio cuore. Ho organizzato l'elezione di Miss Capracotta, un vero e proprio concorso di bellezza, cercando di veicolare il concetto di intreccio di culture e di tradizioni. Ogni volta che mi reco in Cina, resto senza parole di fronte alla loro cultura, al loro senso di ospitalità. Credo che per l'Italia e per l'Europa oggi la Cina rappresenti una risorsa importante. D: – Deve essere una bella soddisfazione per lei, aver esportato addirittura in Cina uno stile, la sua moda. Ma quanto è stata influenzata dalla cultura orientale? R: – Sono orgoglioso di essermi fatto portatore di un scambio di culture anche grazie all'importante contributo di Maria Luisa Fratamico, di origine molisana, che cura i miei rapporti con la Cina. Oltre ad aver studiato in Cina, Maria Luisa è una grande appassionata della cultura cinese e conoscitrice delle loro attività industriali. Tornando all'influenza della cultura sui miei abiti, inevitabilmente in qualche creazione si nota un influsso orientale, di forme. Gli abiti esprimono sempre una sensazione, parlano delle esperienze che si fanno, evocano immagini che restano impresse nella mente. Come è capitato, ad esempio quando, per realizzare un abito, l'ispirazione mi è venuta dal titolo di un giornale che paragonava gli ultimi giorni di papa Wojtyla ad un angelo muto. Beh, quelle parole mi hanno evocato un'immagine che io poi ho trasformato in creazione. Dalla Cina, alla Thailandia, passando per l'Arabia Saudita e il Kuwait, New York, Barcellona e Atene, Di Rienzo ha portato nel mondo passato, presente e futuro in un mix esplosivo che ne esalta l'eleganza, lo stile inconfondibile, inossidabile con il trascorrere del tempo. Un viaggio che lo ha condotto a vivere il periodo più esaltante del nostro Paese - gli anni Sessanta - quelli che Di Rienzo ricorda «non volgari, quando la gente era semplice» e che oggi rivivono nelle sue creazioni. Saranno oggetto di una sfilata di cui è ancora tutto top secret. E di cui non potremo non parlare nella prossima puntata di questa affascinante avventura tra il gusto del bello. Ida Santilli e Giampiero Castellotti Fonte: https://www.forchecaudine.com/, 11 settembre 2019.
- La Chiesa
Il rione della Chiesa non si riconosce quasi più da come era una volta, prima della ricostruzione. Era il nucleo originario del paese, chiamato la "Terra Vecchia", delimitato da una parte dalla torre e dall'altra dalla chiesa stessa. Un agglomerato di casupole, con i tetti ricoperti dalle lisce, strette l'una all'altra come per sostenersi, da buone sorelle, nella buona e nell'avversa sorte. Quelle soprastanti si elevavano a strapiombo sul dirupo roccioso, i "Ritagli", ed erano, come punte avanzate di uno schieramento, le più esposte ai rigori dell'inverno. Andavano dal campanile, presso il quale c'era il negozio di zi Lollo Carbone e la bottega dell'orologiaio, fino alla farmacia di don Filiberto. Esse facevano da riparo alle altre più in dentro ed anche al piccolo spiazzo in pendenza di fianco alla Chiesa. Correvano tra la prima e le altre file di case due anguste viuzze, via San Sebastiano e via Carfagna, dove la neve d'inverno rimaneva a lungo ghiacciata, anche fino ad aprile, se non veniva rimossa a colpi di piccone. Quando rugghiava la tormenta, pareva che le povere case rabbrividissero anch'esse come i loro occupanti. Fortuna che avessero a baluardo e protezione la torre e la chiesa! La torre la ritroveremo più avanti, almeno in effige. La chiesa è lì con la sua bella facciata barocca di pietra bianca del Monte, a cui il tempo ha donato una lieve patina color ambra chiara. In quegli anni lontani sopra alla Chiesa c'era tanta gente. La spina del piccolo borgo era la via Carfagna. Essa, partendo dalla torre, saliva in leggero pendio fino alla chiesa. Lì, nelle giornate di sole, sferruzzavano le vecchiette, sedute sulla soglia di casa; ai loro piedi c'era sempre un folto gruppo di marmocchi, indaffarati nei loro trastulli. Uscivano dal forno di Gaetano il fornaio le donne coi canestri pieni di grossi pani freschi, che spandevano all’intorno il loro fragrante profumo. Nelle occasioni, Gaetano sfornava pizze di pandispagna, taralli, ciambelle e allora i bambocci si appostavano lì davanti, sgranando gli occhi e dilatando le narici. Giù per la scalinata di San Vincenzo aveva il suo povero abituro Antonino di Rucchètte. Lui e la moglie la sera, appena l'imbrunire, spegnevano per risparmio il fuoco del camino e si rintanavano nel letto, al buio, non potendo permettersi il lusso della luce elettrica. La mattina presto se ne andavano al lavoro, in campagna. Pappascióne Pappascióne scendeva dalla sua stamberga sopra alla Chiesa, vicino a Tore il calzolaio, col volto atteggiato ad un eterno sorriso e i due grossi denti superiori sporgenti, armato di ramazza. Procedeva piano, masticando un tozzo di pane. Arrivato giù sulla strada, cominciava a ramazzare, muovendosi a piccoli passi e dimenandosi sui fianchi per via di quei suoi poveri piedi deformi. Spazzava con zelo, caricava la carretta, lasciava la ramazza per accorrere alla chiamata della guardia municipale. Laborioso, di animo semplice e buono, Pappascióne non si rifiutava mai, se qualcuno gli richiedeva qualche lavoro fuori servizio. La mercede? Un bicchiere: tutto lì. E sul volto sempre quel suo sorriso beato, un po' incantato, da uomo semplice e buono. Lucia di Milione Da via Carfagna scendiamo alla "Rufa di Milione". Qui troviamo Lucia con la mamma Marosa e la sorella Irene. La loro casa consisteva in un povero cucinino con le pareti annerite dal fumo e un paio di stanzette col soffitto e il pavimento a travature di legno con quattro tavole inchiodate sopra, sempre traballanti. Irene aveva adibito a sala - così diceva lei - una delle camere, quella del fratello Fiore e del nipotino Emilio, che avevano lasciato tragicamente la vita fra i peri e i carpini fasciati d'edera della Difesa. Nelle giornate d'inverno - così lunghe per lei - mentre Irene accudiva alle faccende di casa, Lucia, se non era in chiesa alle funzioni o in casa dei vicini, se ne stava accanto al fuoco, mezza imbarbogita. Ai lavori domestici era riluttante, perché essa non era fatta per la casa. Il suo ambiente, il suo humus, per così dire, era la campagna. Alle prime avvisaglie della primavera non la trattenevi più. Si preparava e correva a fare un sopralluogo. Esplorato il terreno, cominciava le sortite quotidiane in cerca delle primizie che la campagna, ormai risorta, le poteva offrire. Si metteva un pezzo di pane, quando c'era, nel fazzolettone e se ne andava. Pasqualino il fornaio spesso la vedeva passare di buon'ora e quando s'accorgeva che Lucia era a secco, le faceva segno di entrare. Come per una tacita intesa, essa prendeva il fazzolettone per una cocca e lo scrollava. Sorridendo Pasqualino provvedeva. E Lucia andava. Veniva prima il turno delle cicorie e delle casselle dal sapore forte e amarognolo, poi dei teneri boccarossi, dei tanni, dei cicorioni; più tardi c'erano le fragole, i lamponi, i funghi, specialmente i funghi. Conosceva tutte le fungaie degne di questo nome, e tutte le specialità. I preferiti erano i prataioli con il loro cappello bianco lucente e le lamelle marrone, che sapevano di sole, di aria, di prati verdi. Un giorno la incontravano sopra alla Piana del Monte, un altro giorno alle Matasse Nere, un altro alla Valrapina in cerca di fiori di camomilla e di malvone. A sera tornava stanca ma con un'aria di contentezza diffusa sul volto abbronzato, e andava nelle case ad offrire, per qualche soldo o per qualche cosa in natura, le sue raccolte del giorno. Quando l'amica natura, stanca di donare a Lucia di Milione le sue cose, si preparava al sonno invernale, l'infaticabile cercatrice le strappava, tra sbuffi di vento e scrosci di pioggia, rametti di agrifoglio e di vischio per il presepio dei bimbi. Una mattina Lucia, Irene e Marosa se ne andarono per ceppe su a Monte Campo. Nel fazzolettone non c'era niente perché la madia era vuota. Fecero il loro bel fascio, se lo misero sul capo e presero a scendere. Lucia si lamentava per i crampi allo stomaco. Giù a Santa Lucia, buttò il fascio e sconfinò nel primo terreno coltivato a patate, a portata di... piedi, e ne fece una grembiulata. Appena a casa, lessarono le patate e le mangiarono; uno stimolo per l'appetito di Lucia, che riprese a lamentarsi. – Roba rubata non ha mai saziato – esclamò allora Marosa e, preso lo scialle, corse dai proprietari del campo invaso. – Sono venuta a confessarmi – disse e raccontò tutto e finalmente si sentì l'anima leggera. Quelli, gran brava gente, si dettero pena e vollero che Marosa accettasse del pane e le dissero che se ripassavano vicino al loro terreno, potevano cogliersi, senza complimenti, le patate che volevano. Venne anche per Lucia di Milione la stagione del riposo. Stanca, piena di acciacchi, seduta accanto al grande camino, nero di dentro e di fuori, sognava le verdi radure dietro alla Selletta, i lamponi rosso-vino sopra alle Macerie, le fungaie delle Coste della Cerreta, ricche di prataioli. Paganini Paganini abitava sopra a San Vincenzo, nella piazzetta che allora portava il nome di Calzella Carfagna, il generale di origine capracottese, che, come ricorda don Luigi nel suo libro, partecipò nel 1529, come capitano generale dell'artiglieria imperiale di Carlo V, all'assedio di Firenze e di Volterra, ove perse la vita. La casa di Costantino Giuliano si distingueva un po' dalle altre della Chiesa per il discreto fastigio che le derivava dall’essere stata una casa di benestanti, forse di nobili. A pianterreno c'era un piccolo negozio di alimentari dove trovavi comare Gemma, affabile e premurosa. Al piano superiore, la sala aveva l'aspetto di un piccolo laboratorio. Attrezzi da lavoro e aggeggi vari un po' dappertutto. Paganini era in un certo senso il factotum del paese. Addetto al servizio idrico e al sevizio meteorologico, si intendeva di tutto: di elettricità, di orologeria, di rubinetteria, perfino di auto. Non si tirava mai indietro, sempre pronto ad intervenire per prestare la sua opera, spesso gratuita. Si faceva benvolere da tutti per il tratto onesto, cordiale, signorile. Nei pomeriggi invernali scendeva dagli amici e dai compari della via Nuova e si tratteneva conversando amabilmente fino a tarda sera, centellinando un bicchiere di vino, che egli posava, tra un sorso e l'altro, sulla mensola del camino. Le ore volavano con compa' Costantino, narratore facondo e avvincente. Anche per questo vive nel ricordo e nel cuore di tutti. I sacrestani Dietro all'arco di Mercallò abitava Cianuccio il sacrestano, che dominava incontrastato in tutto il settore della chiesa. Faceva anche il calzolaio in un localuccio rimediato in casa del suocero, il vecchio sacrestano. Svelto, attivo, lo vedevi correre qua e là, sempre indaffarato, dalla sacrestia al coro, all'altare, ai banchi. Faceva di corsa persino la questua. Accorreva, solerte, ad ogni chiamata. Redarguiva i ragazzi ciarlieri e zittiva pure, con garbo, ma con fermezza, le donne petulanti. Quando era cattivo tempo, Cianuccio correva dall'Arciprete per accompagnarlo in Chiesa. Lo vedevi mentre lo sorreggeva, premuroso, lungo la scalinata sconnessa, ricoperta di ghiaccio, che menava su al sagrato. Quando se ne andò, lasciò un gran vuoto. Prese il suo posto Giustino, che faceva il decoratore. Fra un'attività e l'altra, Giustino, quando possibile, correva a farsi una partita a tressette, gioco in cui era ritenuto, e a ragione, un maestro. Se capitava, si faceva anche un bicchiere in compagnia, e cantava allora vecchie canzoni paesane con voce calda e accorata. Cantava anche in chiesa alla messa cantata, su all'organo, e all'Ufficio, quando le mansioni di sacrista glielo consentivano. Sempre pieno di garbo con tutti, si moveva tra le navate, silenzioso, discreto, a passi felpati. Domenica delle Palme I ragazzi si recano alla prima messa per presenziare alla benedizione delle palme. Aspettano fuori, sul sagrato, la distribuzione, vociando. Il sacrestano esce dalla chiesa con un gran fascio di ramoscelli d'olivo sotto il braccio e, agile, salta sulla base del pilastro, a destra della scalinata, per fare le cose a modo. La frotta chiassosa fa ressa intorno a lui. Tutti tendono le mani: «A me, Cianù, a me!»... Comincia la distribuzione, ma, ad un certo punto, quando il trambusto raggiunge il colmo, Cianuccio, persa le pazienza, impugna rapidamente una manciata di rami e cala colpi su colpi su chi capita capita. La gragnuola fa effetto. Ad acque calmate, riprende la distribuzione e tutti, pienamente soddisfatti, entrano in chiesa con le palme in mano per partecipare al rito della benedizione. Dopo la chiesa, i ragazzi corrono dai parenti e dagli amici di famiglia ad offrire generosamente il segno della pace, nella speranza, s’intende, che qualcuno di essi metta mano, con altrettanta generosità, al portazecchini. La Settimana Santa Il pomeriggio di mercoledì santo cominciava la scurdla. Per l'occasione tutti i ragazzi tiravano fuori i vecchi arnesi del fracasso: tic-tac, ranocchie, frarelli; si spendevano dai piuoli le cuccirelle, le regine dello schiamazzo. Nei giorni precedenti si facevano i preparativi e si affilavano, per così dire, i ferri del mestiere, e per tutte le strade era un continuo ticchettio di tic-tac, gracidare di ranocchie, gracchiare di frarelli. I ragazzi che ne erano sprovvisti correvano a scapicollo sotto a zi Vincenzo, papà Ciénze per tutti i bambini, per chiedergli, a nome delle mamme, i più piccoli una tic-tac, i più grandi una ranocchia; il frarello non era pane per i loro denti. E papà Ciénze, sempre di manica larga con i bambini, a nessuno negava una tic-tac; per la ranocchia, la cosa era meno facile perché per farla ci voleva tempo, ma non rimandava indietro nessuno con il muso lungo. L'atteso pomeriggio tutti davanti al sagrato a fare le prove. Cianuccio doveva fare buon viso questa volta. L'eco del frastuono arrivava in piazza e sinanche sopra al Colle. Poi la funzione cominciava e, al momento giusto, quando l'Arciprete dava il segnale, battendo tre colpi di pertica sul tappeto, davanti all'altare, scoppiava fragorosa, assordante, irrefrenabile, la scurdla. Anche le bambine facevano la loro parte con mazzetti di chiavi che facevano tintinnare velocemente. Le donne si turavano le orecchie e Cianuccio cercava di frenare l'impeto dei più scalmanati, allungando pure qualche scappellotto: quando ci voleva, ci voleva! Il rito, che probabilmente derivava dalle antiche sacre rappresentazioni e che voleva rievocare quel momento della Passione, quando Cristo fu legato alla colonna, insultato e percosso, si ripeteva tutti i pomeriggi fino al sabato santo. Il giovedì santo, a mezzogiorno, si legavano le campane in segno di lutto e da quel momento fino alla Gloria giravano per il paese le cuccirelle per dare gli avvisi sacri, ed ogni bambino, sentendole strepire per le vie, sognava di essere prescelto da Cianuccio il sacrestano per entrare a far parte del manipolo dei cuccirellari. Il sabato, al momento della Gloria, quando si scopriva il lenzuolo sull'altare e compariva Cristo risorto, la scurdla si ripeteva per l'ultima volta con rinnovato fragore. Mentre lo strepitio smoriva, si levava, alto e solenne, tra gli allunghi di zi Vincenzo l'organista, il canto della Resurrezione, accompagnato dall'organo aperto a tutto registro. Le note dell'inno calavano di tono e scendevano dolci e suadenti nell'animo, che si sentiva pervaso da quell'inesprimibile senso di pace che il mistero pasquale emanava. L'Ufficio domenicale La domenica, alla prima messa, si cantava l'Ufficio della Madonna. Ricordiamo. È una domenica d'inverno, con la neve. Il sacrestano ben presto, con l'aiuto di un ragazzo della Chiesa, prepara i grandi bracieri e accende la carbonella, che mette poi a sfocare sul sagrato. Alle otto cominciano ad arrivare i cantori, confratelli della Congregazione, avvolti nei grandi cappotti a ruota col colletto di astrakan, e siedono attorno ai due bracieri, chi di qua chi di là, a seconda del posto occupato nei cori. In attesa dell'inizio dell'Ufficio, si scambiano qualche parola sul tempo. Qualcuno prende la paletta in mano e assesta la carbonella, coprendola torno torno con la cenere calda e cercando, anche per una inconscia esigenza estetica, di rendere il mucchietto di brace quanto più possibile simile a un cono. All'arrivo del priore, aprono i vecchi libri ingialliti dell'Offizio della B. V. Maria e il rito comincia. Il priore recita la Salutazione e i cantori cominciano a salmodiare, cantando a cori alterni i versetti dei salmi e dei cantici. Intanto arriva qualche ragazzo e subito gli mettono in mano un libro dell'Ufficio, indicandogli la pagina e il versetto e incoraggiandolo ad unirsi al coro. Sperano i vecchi confratelli, così facendo, che la tradizione della congrega e dell’Ufficio si perpetui. Speranze vane... Alle antifone, il priore suona il campanello e un cantore, a turno, si alza e canta da solo. Poi i due cori riprendono. Eccoci alle Lezioni. La prima è lo stesso priore a cantarla, con voce chiara e intonata; le altre sono cantate dall’assistente o da uno dei cantori, sempre a turno. Il coro, unito risponde: amen. Siamo all'inno "O gloriosa Virginum": i due cori, al suono del campanello, si alzano e cantano un quaternario per ciascuno, con voce particolarmente patetica, ispirata. Poi, le Laudi. Quanto partecipato sentimento nel cantare le lodi della natura vivente e inanimata al Creatore! Il Cantico di Zaccaria è il capodopera dei vecchi cantori, confratelli della Congrega. I due cori cantano in piedi, all'unisono. Ce la mettono tutta. Il tono, si fa alto e vibrante. L'espressione dei volti è ispirata. Hanno certamente penetrato, essi, umili contadini e artigiani, l'intimo senso dei concetti espressi in quei mirabili versetti. Avvertono l'eterno ansito dell'uomo, del cristiano, per la giustizia e la santità; recepiscono il messaggio della salvezza; si rafforza nei loro cuori la speranza della misericordia. Con quanta passione la voce di Cenzitto Pettinicchio sovrasta le altre, pure così elevate e vibranti, ai versetti: «Illuminare his qui in tenebris sedent: ad dirigendos pedes nostros in viam pacis»... I canti si spengono. Nei cuori permane l'eco di quella invocazione che è anche una promessa: facci luce, Signore, e dirigi i nostri passi per le vie della pace. Domenico D'Andrea Fonte: D. D'Andrea, Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D'Andrea, Lainate 2016.
- Amore e gelosia (XLI)
XLI Un groppo alla gola si era formato ad Elisa: non c'era, era già partito! Era arrivata tardi, tutti i suoi sforzi vani, il rischio di capottare col carrozzino, il cavallo che stava per rompersi una zampa, niente! Ed ora? Che fare? Se ne stava lì sulla banchina del primo binario, ritta e ansante, tutta sudata e respirando a bocca aperta, incurante del fatto che i passeggeri del treno giunto sul secondo binario sbucavano dal sottopassaggio e la guardavano con un misto di stupore e di interrogativo: non erano anni quelli, in cui una giovane donna della buona borghesia potesse offrire uno spettacolo simile senza prestare il fianco ai «perché? Ma che succede? Che è accaduto?». Pian piano, Elisa si ricompose e si calmò: meglio uscire e andare a recuperare il birroccino per tornare a casa, lo aveva affidato ad un cocchiere che conosceva di vista, che stazionava quotidianamente fuori alla stazione e offriva i suoi servigi con la carrozza per portare a casa qualche passeggero. Mestamente imboccò il corridoio che portava all'uscita... Il caso! Il fato! Quanta parte gioca nella nostra vita? Tantissima, in ogni momento! Ci tiene in pugno e scherza e si diletta con i nostri destini di ignari mortali... Decidi di andare a fare una passeggiata, giù alle scale ti ricordi che hai dimenticato di prendere il telefonino. Allora ritorni su e perdi 5 minuti del tuo tempo, sufficienti, no anzi quelli giusti, perché quando tu ridiscendi, incontri nelle scale una persona che non vedevi da tanto tempo. Vi salutate cordialmente, vi trattenete ancora per qualche minuto, infine vai. Prendi l'autostrada. Dopo una decina di chilometri la fila: che è stato? Chiedi, chi sa, chi inventa, chi dice di sapere e non sa niente. Alla fine si sblocca e passi: ci sono volanti, autoambulanze, chiedi di nuovo: un grave incidente, due morti e feriti. Quando è accaduto? Non più di 20 minuti prima. Fai un rapido calcolo: sì, avresti potuto trovarti coinvolto anche tu se... Ecco, è quel se, se, se, che condiziona la nostra vita e decide... Sull'uscita della stazione compare la bella figura di Assuntina, la sua giovane cameriera. – Signurì, e che facite ccà? Elisa avrebbe voluto evitarla, ma non poteva, la ragazza le voleva un bene dell'anima. – No, niente, volevo vedere l'orario dei treni... Ma tu piuttosto che fai? – Uh, aggia ire a Scafati a fa' nu servizio, aggia piglia' 'o diretto. – Eh, ma lo hai perso ormai, è partito! – Nooo, m'ha ditte 'o capo stazione che porta 20 minuti di ritardo, mò faccio 'o biglietto e... Elisa non l'ascoltava più! E allora... e Salvatore? Dove stava? Rientrò di corsa nella stazione: niente, si guardava in giro e.... il buffet! Sì, doveva essere lì... Si accostò alla porta a vetri del bar e lo vide: stava mangiando una sfogliatella, e anche con grande piacere, e conversava col professore Califano. Entrare non poteva: era sconveniente oltremodo che una donna entrasse in un esercizio pubblico senza essere accompagnata da un uomo. Doveva solo aspettare... e l'avrebbe fatto, fino in fondo! Si diede un contegno e si mise a camminare sulla banchina, mentre intorno a lei la stazione ferveva degli arrivi e delle partenze... Era il 1910, i treni erano fondamentali nella vita della gente di quei tempi, e la stazione di Nocera era uno snodo cruciale. Francesco Caso
- Una serata sotto le stelle: tra miti e leggende
Quante volte abbiamo trascorso una serata estiva all'aria aperta? Quante volte ci siamo fermati, da soli o in compagnia, a contemplare quelle piccole lucine tremolanti che hanno fatto sognare e incuriosire donne e uomini di ogni epoca? Quante volte, volgendo lo sguardo verso l'alto, abbiamo passato ore e ore in attesa di vedere una "stella cadente" per poter esprimere un desidero? E quante volte abbiamo desiderato sapere qualcosa in più di questi abitanti luminosi che ci accompagnano nelle notti, giorno dopo giorno? Bene, in Molise si può! Perché oltre a tre grandi osservatori astronomici (Castelmauro, Capracotta e San Pietro Avellana) c'è chi, in estate, organizza eventi notturni alla scoperta non solo di nozioni tecniche e scientifiche ma anche di tutti quei miti e leggende che narrano di stelle, pianeti e costellazioni. È così che appassionati del settore, condividendo il sentimento degli amanti del cielo notturno, hanno ideato le "serate sotto le stelle" e le "serate (g)astronomiche"; occasioni che legano la conoscenza di un luogo, che sia un paese o un determinato sito, la degustazione di prodotti tipici e la scoperta delle costellazioni e delle tante storie a esse associate. Ed ecco che scopriamo che il Grande Carro e l'Orsa Maggiore non sono proprio la stessa cosa, dietro queste costellazioni ci sono leggende che vanno dagli antichi Greci (con una delle tante storie riguardanti Zeus) ai Romani, e impariamo anche che la Stella Polare, facente parte dell'Orsa Minore o del Piccolo Carro, la possiamo trovare partendo da un'altra costellazione. Raccontiamo, inoltre, di molte costellazioni che hanno storie e leggende intrecciate tra di loro, come quella riguardante Cassiopea, Cefeo, Andromeda, Perseo, Pegaso e la Balena. E poi, ancora, delle stelle cadenti (che non sono in realtà vere stelle) e dei pianeti, della nostra Luna fino a Giove e Saturno. E non si osserva Venere ma se ne parla soltanto perché, in realtà, è un "pianeta diurno", che si può ammirare solo all'alba e al tramonto; tant'è che nel Medioevo lo si indicava con due nomi differenti, immaginando che fossero due pianeti diversi: Lucifero quello dell'alba e Vespro quello del tramonto. Come detto, però, non ci sono solo le stelle; sì, perché in molte delle nostre serate, prima di alzare gli occhi al cielo ceniamo tutti insieme, approfittando di qualche agriturismo o ristorante della zona per degustare deliziosi prodotti tipici. A seguire, poi, andiamo alla scoperta di qualche sito particolare, spesso sconosciuto ai più, dove raccontiamo storie affascinanti, in modo da riservare una parte della serata alle curiosità legate alla cultura di un territorio, oltre che alla sua gastronomia. Questa parte è importante e doverosa, non solo perché ci teniamo enormemente a far conoscere e valorizzare il Molise ma anche perché tanti siti, soprattutto archeologici, hanno riferimenti stretti con la mitologia, tanto greca quanto romana. Non dimentichiamo infatti che noi molisani siamo stati prima Sanniti (con notevoli scambi con la Grecia), poi abbiamo vissuto la dominazione romana. Tutti i miti narrati durante le serate e tutte le divinità menzionate, dunque, sono strettamente legati alla religione e alle credenze dei nostri avi. Quello dell'astronomia è un "mondo" ricco di misteri, curiosità e incanto, un mondo che possiamo sentire più vicino grazie all'aiuto di specialisti del settore che ci aprono le porte dei luoghi dove si possono fare le osservazioni celesti più belle ed emozionanti. Uno dei luoghi più interessanti d'Italia da questo punto di vista è sicuramente Monte Mauro, nel piccolo comune di Castelmauro dove, nel 2007, è stato realizzato l'osservatorio astronomico Giovanni Boccardi. Lo potremmo definire un sito "prescelto", dato che ha livelli di inquinamento luminoso e di polveri sottili tra i più bassi della nostra penisola; ciò significa che è uno migliori dove poter scrutare l'infinito spazio che ci circonda. Per queste particolari e privilegiate caratteristiche, è stata prevista qui l'installazione del prototipo del telescopio più grande del mondo: il telescopio NGGT. Una tecnologia ultramoderna in grado di arricchire di valore il paesaggio circostante e capace di produrre energia che «può essere immessa in rete o ceduta» come afferma il suo inventore, il professore Dario Mancini. Un progetto che porta l'Italia a essere uno dei Paesi più all'avanguardia nella ricerca astronomica. Mentre attendiamo di poter ammirare il cielo stellato con il telescopio più potente del mondo, suggeriamo di prendere parte alle visite guidate e ai laboratori che si organizzano su prenotazione proprio presso l'osservatorio. Questi regalano a tutti l'attraente opportunità di osservare gli spettacoli celesti in tutta la loro bellezza: ammirare gli enormi crateri lunari, la suggestiva corsa di una cometa, le atmosfere dei pianeti, affascinanti nebulose e tanti altri spettacoli astrali. In questo modo si possono condividere le stesse intense emozioni del grande scienziato greco Tolomeo, che disse: «Se osservo le orbite circolari degli astri io non tocco più la terra con i piedi, e sono vicino a Zeus e mi nutro a piacere con ambrosia, la bevanda degli dei». Fonte: https://molise.guideslow.it/, 6 agosto 2021.
- Baùùù... Baùùù!
Carmine Fiadino, mio zio perché sposò Gina Di Nucci, sorella di mio padre, per molti anni guidò pullman di linea. Abitava con la sua famiglia in via Rione Grilli e logicamente parcheggiava il pullman ad una certa distanza dalla sua abitazione. Abitava nella casa popolare sita a sinistra della villa comunale; per molto tempo ogni mattina partiva da Capracotta alla ore 5 e puntualmente, quando arrivava all'altezza del vicolo prima dell'ex caserma dei Carabinieri, un grosso cane furiosamente abbaiava. Ze Càrmene non aveva paura dei cani e cercò in tutti i modi di avvicinarlo amichevolmente, anche buttandogli qualche osso o qualche pezzo di pane. Ma il cane restava sempre ostile; a volte si avvicinava troppo e così una mattina decise di fargli una sorpresa; si accovacciò prima dello spigolo, avvolto nel suo cappotto a ruota, e restò in attesa. Il cane, non vedendolo arrivare come al solito, non abbaiò, aspettando la sua apparizione; ad un certo momento si diresse verso il vicolo da dove abitualmente mio zio sbucava e, non appena oltrepassò lo spigolo, fu accolto da ze Càrmene che si alzò immediatamente, sbatté più volte le falde del cappotto a ruota e abbaiò più forte che poteva: – Baùùù... Baùùù! Il cane, spaventatissimo, fuggì precipitosamente e da quel giorno si mantenne a considerevole distanza, senza avere nemmeno il coraggio di abbaiare e se mio zio faceva finta di chinarsi si allontanava maggiormente. Domenico Di Nucci Fonte: D. Di Nucci, E mó vè maiie auanne! Pillole di saggezza popolare capracottese, PressUp, Settevene 2020.
























