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  • Polvere di cantoria: musica dallo spazio

    Il problema oggi non è l'energia nucleare ma il cuore dell'uomo. [A. Einstein] L'immenso, ed in eterna costruzione, edificio della storia dell'uomo si innalza su eventi straordinari e grandiosi nel bene e nel male, pietre angolari ed architravi il cui ricordo ha riempito archivi e biblioteche segnando profondamente l’animo dei posteri. Ma tra un bulino e l’altro, infiniti piccoli sassolini e granelli di malta si aggiungono, quasi ignorati, ad armonizzane la struttura: eventi quotidiani, accadimenti locali. Molti verranno dimenticati ma non per questo non sono mai esistiti. Altri saranno sporadicamente ricordati ma, pur se piccoli, segneranno l'animo di chi saprà mai interpretarli. Questa è la descrizione di come, accanto ad una architrave, un grano di malta possa far sorridere e scaldare il cuore e di come l'animo umano possa avere curiose uscite. Ah, dimenticavo! Anche questa è una storia di Natale... Bambino degli anni '60, ero affascinato e rapito, al punto di essere preso per i fondelli dai miei amici - brutti affettuosi e indimenticabili bastardi, ancora non vi ho perdonato, ma vi voglio bene lo stesso! - dagli eventi umani e tecnologici che connotavano quella fantastica avventura che fu la corsa allo spazio e la instancabile disputa tra U.S.A. e U.R.S.S. per il predominio di quella che fu definita l'ultima frontiera (e che Star Trek mi perdoni). Se con Jurij Gagarin i sovietici erano stati i primi a lanciare un uomo nello spazio, gli statunitensi miravano alla conquista della Luna. In particolare le missioni statunitensi Gemini , precedute dal programma Mercury , furono importanti per lo studio delle attività veicolari ed extraveicolari umane in preparazione alle missioni Apollo : lo studio teorico delle dinamiche e dei fenomeni possibili in assenza di atmosfera e di gravità veniva via via messo alla prova e verificato sul campo. La moderna tecnologia elettronica, la cibernetica e la miniaturizzazione stavano nascendo in quel momento. La missione Gemini 6 , con gli astronauti Walter Schirra (di origini sarde), comandante, e Thomas Stafford, era stata concepita per manovre di rendez-vous e successivo aggancio con un veicolo bersaglio GATV-6 Atlas-AGENA. Tuttavia, il lancio degli astronauti, previsto per il 25 ottobre 1965, fu annullato a pochi secondi dalla partenza, a causa del malfunzionamento del veicolo bersaglio poco prima sparato verso l'orbita col conseguente e necessario comando di autodistruzione. La missione rimase pertanto congelata e si passò alla programmazione del programma Gemini 7 con Jim Lovell (il futuro comandante della celebre missione Apollo 13 ) e Frank Borman (che comandò Apollo 8 , la prima navicella ad orbitare attorno alla Luna). Il compito di Gemini 7 era anche quello di verificare le attività umane extraveicolari e sperimentare le manovre di autovestizione dei piloti con le tute di volo in alternanza a quelle spaziali. Si pensò tuttavia anche al recupero di Gemini 6 : l'idea fu quella di svolgere manovre di rendez-vous tra le due capsule con un lancio quasi in contemporanea e la missione rivestì una tale importanza da essere annunciata personalmente dal presidente degli U.S.A. Lyndon Johnson. Il 7 dicembre 1965 Gemini 7 si alzò dalla rampa di lancio, seguita il 15 dicembre da Gemini 6A (così fu rinominata Gemini 6 ). L'avventura si presentava estremamente complessa: il centro di controllo di Houston doveva seguire in contemporanea due navicelle, le relative comunicazioni e le telemetrie. Gemini 6A , giunta in orbita cominciò ad eseguire dei "giri di danza" attorno a Gemini 7 , portandosi anche a circa 30 cm di distanza muso a muso! In questa ultima manovra gli astronauti potevano vedersi direttamente dagli oblò e, alla domanda di Lovell da Gemini 7 : «Com’è il panorama?», Schirra da Gemini 6A rispose: «Pessima! Se guardo dal finestrino vedo le vostre due brutte facce!». Questa manovra fu molto importante: già nel 1963 i sovietici avevano svolto un rendez-vous con le navicelle Vostok , ma tale incontro era sto possibile tramite appositi calcoli balistici al momento del lancio: nel caso Gemini 7/6A , per la prima volte le capsule si muovevano comandate direttamente dai piloti. Terminato il suo compito, Gemini 6A si apprestava al rientro, quando, con estrema angoscia, il direttore di volo ad Houston e con tutti gli operatori quasi in preda al panico, sentì dagli altoparlanti la voce di Schirra: «Houston, abbiamo appena avvistato un oggetto volante non identificato! Orbita attorno alla terra tracciando una rotta da nord a sud, non sembra intenzionato a rientrare! L'U.F.O. è formato da un modulo di comando principale con davanti altri otto moduli più piccoli ed il pilota è vestito di rosso e ci sta salutando! Fermi tutti! Sta cercando di segnalarci qualcosa!» A quel punto un suono di campanelli si diffuse dagli altoparlanti e contemporaneamente una armonica a bocca intonava "Jingle bells"... "Jingle bells" fu composta nel 1857 per la festa del Ringraziamento da James Lord Pierpont e pubblicata con il nome "One horse open sleigh". Ispirata alle corse delle slitte che nel XIX secolo si tenevano nel Massachussets, soltanto nel 1859 assunse il nome attuale diventando il celeberrimo canto di Natale. I due astronauti buontemponi avevano nascosto armonica e campanelli nel piccolo bagaglio per gli effetti personali: Schirra l'armonica e Stafford i campanelli, adducendo successivamente di aver evitato semplicemente di cantare poiché stonati come due granchi. Oggi i due strumenti sono conservati allo Smithsonian Air and Space Museum come testimoni dei primi strumenti musicali portati in orbita e della prima musica venuta dallo spazio. Il 16 dicembre 1965 Gemini 6A ammarò nell'Oceano Atlantico e fu recuperata dalla portaerei USS WASP dopo 16 orbite per un totale di 694.415 km, percorsi all'altezza media di 280 km. Walter "Wally" Schirra, classe 1923, fu pilota da combattimento della US Navy e poi pilota collaudatore, partecipò anche alla missione Apollo 7 . Lasciò il servizio presso la N.A.S.A. pochi giorni prima che nel luglio 1969 Apollo 11 partisse per la Luna. È scomparso nel 2007, e nel 2009 ha dato il nome alla nave militare USNS Wally Schirra, classe Lewis & Clarck , dedicata agli esploratori. Thomas Stafford (1930-2024) fu comandante di Gemini 9 insieme a Eugene Cernan e poi comandante di Apollo 10 , prova generale di Apollo 11 . Fece parte anche dell'equipaggio della missione congiunta Apollo-Soyuz nel 1975. Come ho detto, un granello di malta, una canzoncina dallo spazio, due spiritosoni in orbita e una crisi d'ansia di un direttore di volo a terra ma, pensandoci bene, un raggio di umanità, di calore e di sentimento anche nel freddo tecnologico di una missione spaziale. La vita ha valore grazie ai sentimenti, alle emozioni, al pianto. [A. Merini] Francesco Di Nardo

  • La solitudine e la forza dell'Italia interna

    Panorama estivo di Monte Capraro (foto: A. Semplici). Sono 13 milioni di italiani, vivono sul 60% del territorio nazionale, lontano dalle grandi città, abitano montagne e colline. Le chiamano Aree Interne e una «strategia nazionale» le condanna a uno «spopolamento irreversibile». Così non è: per la prima volta, gli abitanti della montagna sono cresciuti. I paesi si ribellano a un destino già scritto e rivendicano, con sindaci e vescovi in prima fila, il diritto a un futuro. Ho passato tre mesi a Capracotta. Alto Molise, sul confine con l'Abruzzo. Il secondo comune più alto degli Appennini. 1.421 metri. Un'Italia che più interna non si può. 750 residenti, ma se chiedi in giro confessano: «Saremo meno di quattrocento a vivere qui tutto l'anno». Fa freddo a Capracotta, un gran freddo, arrivano venti gelidi dai Balcani. I paesani rivendicano il record mondiale della nevicata in un solo giorno: 256 centimetri di neve in 18 ore nel marzo del 2015. Primato mai riconosciuto ufficialmente. Il monumento più importante del paese è per lo «spazzaneve», anzi per uno snow fighter arrivato in questa montagna nel 1950, dono dei capracottesi che erano emigrati a New York. Ben conoscevano i sei mesi di isolamento negli inverni appenninici. Qui, nel 1914, fu fondato uno dei più vecchi sciclub italiani. È ancora ben vivo. L'altro monumento, appena fuori dal paese, è dedicato a chi è emigrato. Nei primi anni '50, qui vivevano poco meno di quattromila persone. A migliaia se ne sono andati. Capracotta ha una sua celebrità: ha un ruolo in film storici con Alberto Sordi e Vittorio De Sica, Erenst Hemingway fece apparire il paese in Addio alle armi , e poche settimane fa il poeta Franco Arminio invitava il governo a riunirsi in questo Alto Molise. Raccolgo voci del paese: l'ortolano, come ogni anno, minaccia di chiudere il suo negozio, ma, come sempre, non lo farà, chiude anche il più fornito tra i negozi di alimentari. Ci sono due forni a Capracotta, ma il pane arriva dai paesi vicini. Ci sono tutte le classi (pluriclassi) fino alla terza media, ventitré bambini e ragazzini in tutto: tre alla scuola dell'infanzia, tre in prima elementare. Quest'anno, in sette finiranno le medie e gli alunni diminuiranno di colpo. C'è la farmacia, un medico, un bancomat nell'ufficio postale, quattro corse di bus al giorno (nei mesi delle scuole) verso Isernia, il capoluogo di provincia. C'è un parroco. Il pronto soccorso più vicino è a 25 minuti di distanza. Ma se hai qualcosa di grave, meglio andare direttamente a Isernia, poco meno di un'ora di viaggio. Non va poi così male: la metà degli italiani dichiara di avere difficoltà a raggiungere un pronto soccorso. Tre milioni e 400 mila persone (soprattutto in Val d'Aosta, Basilicata, Calabria e Sardegna) vivono a più di mezz'ora da un pronto soccorso. Fra il 2018 e il 2023, dicono alla presentazione del rapporto Montagne del 2025, ha chiuso, nelle aree «periferiche», il 28% delle filiali bancarie.  Lo scorso marzo il «Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud», un ex-ministero che ora è un dipartimento della Presidenza del Consiglio, ha pubblicato il Piano Strategico per le Aree Interne. A pagina 45, obiettivo 4, viene annunciata la condanna all'eutanasia di un «numero non trascurabile» di territori «marginali»: si afferma che è possibile solo «accompagnarli in un percorso di spopolamento irreversibile». Si arrabbia Candido Paglione, sindaco di Capracotta: «Non esistono comunità da accompagnare a un funerale. C'è un futuro possibile. Il declino non è una condizione eterna, non è una dannazione». Ad agosto hanno alzato la voce anche i vescovi italiani che operano in queste geografie quasi dimenticate: riuniti a Benevento, in 139 scrivono al governo e al Parlamento. Le prime righe della loro lettera sono una fotografia sconsolata: parlano delle disuguaglianze, di «nuove solitudini e dolorosi abbandoni» di questi territori. Ma è solo un momento, c'è una reazione, un impegno, «s'impone una diversa narrazione della realtà». Le Aree Interne (dovremmo trovare un altro nome, questo è troppo sbrigativo) sono quasi il 60% dell'Italia, 13 milioni di abitanti (poco meno di un quarto della popolazione). Il 92% (!) dei prodotti alimentari di eccellenza italiani (le Dop, gli Igp, i presidi SlowFood) proviene da queste terre. Come il 70% dei migliori vini italiani. Il sindaco di Capracotta ha un moto di orgoglio: «Io non sono solo il sindaco di settecento abitanti, sono anche il primo cittadino di due milioni di alberi». Come a dire: le pianure, i luoghi urbani, densamente abitati, hanno bisogno della montagna, delle colline, dei boschi. «Solo se si ha cura della montagna, nelle città di pianura si può dormire con tranquillità». «Non ci rassegniamo», dice (e immagino il suo sguardo) Felice Accrocca, arcivescovo di Benevento. I vescovi conoscono bene queste terre interne: le parrocchie sono una delle poche realtà diffuse capillarmente su tutto il territorio nazionale. E hanno ragione a non rassegnarsi. Lo scorso maggio, l'Uncem, l'Unione Nazionale dei Comuni Montani pubblica il suo ponderoso, quasi ottocento pagine, rapporto sulla Montagna italiana, una fotografia dettagliata dei territori di 3471 comuni. Una evidente «periferia» instabile, con la necessità di cure continue: 2.934 comuni convivono con il rischio di frane e, nella maggioranza di questi piccoli centri, il pericolo è considerato «elevato». Eppure, tra il 2019 e il 2023, per la prima volta, la popolazione delle montagne è cresciuta. Centomila abitanti in più. Pochi, ma il segnale di una sorta di inversione di tendenza. Non solo: il 75% di questi nuovi abitanti sono italiani, «e sono giovani», dice Marco Bussone, piemontese, presidente dell'Uncem. Molti hanno meno di 40 anni, sono coppie, hanno bambini. Vero è che l'Italia è divisa in due: la popolazione montana cresce a nord di Umbria e Marche e lungo l’arco alpino, continua a diminuire al sud, anche se in percentuale molto più ridotta rispetto al passato. «Dobbiamo smetterla di parlare di marginalità, di spopolamento, dobbiamo darci da fare per sconfiggere la paura di sentirci male e non avere un medico – alza la voce il sindaco Paglione –. Voglio vedere accese le luci nelle case del paese». Ho un «conflitto di interessi» in questo articolo. Mia figlia, nata a Firenze, vissuta per il mondo, è una dei nuovi abitanti di Capracotta. Questa estate ha messo al mondo uno dei due neonati del paese. Ve n'è un terzo, ma la famiglia vive a L'Aquila. Ho camminato a lungo per le sue strade e salito i gradini delle sue molte scalinate. E non ho visto, tranne che nel mese di agosto, molte luci accese nelle case. Con i mezzi pubblici è fatica e tempo per raggiungere questa montagna. A volte mi è parso impossibile. Il capoluogo del Molise, Campobasso, in questi mesi, è il solo capoluogo di regione senza un treno che lo raggiunga. Per andare fino a L'Aquila, 190 chilometri, con bus e treni, ci vogliono quasi sei ore. Capracotta non è solo su questa frontiera tra solitudine e nuove vitalità, tra il rischio reale dell'abbandono e il desiderio di un «neopopolamento». Leggo che a Cabella Ligure, comune della bellissima e isolata Val Borbera, regione dell'estremo sud-est piemontese, non c'è alcun medico di base. Leggo un'intervista al vicesindaco, Vittorio Demicheli, ex-dirigente sanitario: «Se hai bisogno di una prescrizione e non sai usare le mail, devi fare almeno trenta chilometri prima di trovare chi possa scrivertela». Nell'alto Veneto, montagne bellunesi, don Fabiano Del Favero, 42 anni, ha lasciato questa estate le sue cinque parrocchie, 64 frazioni, dieci chiese e mille e settecento abitanti, dispersi tra i mille e i mille e quattrocento metri di altezza. Don Fabiano, conosciuto come «il parroco della montagna», non è andato poi molto lontano: da luglio è già al lavoro nelle sette comunità parrocchiali attorno a Longarone. Un sacerdote per più parrocchie. Capace di dire alla domenica tre messe in tre paesi diversi e più o meno lontani. L'entusiasmo di un giovane prete sconfigge la fatica e la solitudine invernale di queste terre. Leggo sul «Corriere della Sera» la storia della scuola di Parrano, cinquecento abitanti in provincia di Terni. Qui comune e scuola sono riusciti a realizzare una preziosa esperienza di scuola diffusa, ma Cinzia Meatta, preside dell'istituto omnicompresivo del territorio, avverte: «Se non ci concedono un insegnante part-time dovremo chiudere la scuola dell'infanzia». Non deve essere arrivato se, su Internet, leggo, nello stesso giorno in cui l'articolo è stato pubblicato, che la scuola quest’anno non ha riaperto. I bambini dovranno andare altrove «e così fra tre anni dovremo chiudere anche le elementari». Credo che il sindaco Valentino Filippetti sia preoccupato, la sua amministrazione aveva ottenuto piccoli, grandi successi: grazie a decisioni coraggiose (banda larga, trasporto gratuito verso la stazione, sgravi fiscali sugli affitti) a Parrano sono venuti a vivere 45 abitanti in più. Rimarranno se non ci sono più le scuole? Andrea Semplici Fonte: https://messaggerosantantonio.it/ , 23 settembre 2025.

  • Nei borghi montani del Molise l'estate tra natura ed e-commerce

    La postina Irma Orlando consegna un pacco a Loreto Beniamino. Come ogni estate, Capracotta si ripopola. Ormai da anni, infatti, grazie alla sua aria pura e al suo patrimonio ambientale, Capracotta - in provincia di Isernia - è una meta privilegiata del turismo non solo invernale ma anche estivo. Ad accorgersi concretamente del primo aumento della popolazione durante i mesi estivi è anche Irma Orlando, da tre anni portalettere a Capracotta. « Forse a causa del gran caldo – osserva Irma - mi sembra di poter dire che i flussi turistici raggiungono già in questi giorni un livello superiore rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. In ogni caso, a luglio e agosto per me c'è sempre un gran bel da fare, soprattutto in conseguenza del considerevole aumento degli acquisti on line sulle piattaforme e-commerce. La popolazione, infatti, nel periodo estivo si quadruplica e sono moltissimi i turisti che si trattengono per un periodo prolungato e per questo motivo scelgono di farsi recapitare pacchi e pacchetti presso i loro indirizzi estivi » . Se i tempi delle cartoline e dei "tanti saluti da Capracotta" sono lontani, oggi sono dunque i pacchi, soprattutto quelli acquistati online, ad essere il prodotto più consegnato dalla portalettere Irma. Nei mesi di luglio e agosto a Capracotta le consegne registrano addirittura un incremento medio del 50% rispetto agli altri mesi dell'anno. I "nuovi" destinatari vengono soprattutto dalle grandi città italiane: « Roma e Milano su tutte – dice la postina, che ormai conosce tutti, o quasi –, seguite da Firenze e Padova. Ma arrivano anche dall'estero, con Francia, Germania e Svizzera in testa. Proprio l'altro giorno mi è capitato di consegnare un pacco a una persona appena arrivata in paese: una bella sorpresa per lui e anche per me, che l'ho trovato al primo tentativo di recapito » . Irma, che oltre a Capracotta consegna anche a Pescopennataro e Roccasicura, lavora in Poste dal 2001 ed è di Agnone, dove ha sede il presidio di distribuzione della zona, che ha competenza in dodici comuni. Con i suoi 1.421 metri sul livello del mare, Capracotta è il comune più alto del Molise. Un territorio non semplice, soprattutto in inverno quando le nevicate sono abbondanti e le strade non sempre pulite, e dove spesso la toponomastica è nemica dei portalettere: « In alcuni casi – continua la portalettere – le strade e i numeri civici riportati su lettere e pacchi non corrispondono con la realtà, in altri mancano le cassette fuori le abitazioni e i nominativi sul campanello. Fortunatamente riesco a sopperire a queste carenze grazie alla grande disponibilità dei residenti, che mi danno una mano. E quando anche per loro è complicato individuare alcuni destinatari che sembrano introvabili, chiedo aiuto a Tiziano » . Tiziano Rosignoli, oggi in pensione, è stato lo storico portalettere di Capracotta: oltre quarant'anni di onoratissimo servizio, dal 1981 al 2022, prima di "cedere" il posto a Irma. È anche, da circa trent'anni, il dinamico presidente della Pro Loco di Capracotta, che conta 220 soci, molti dei quali tornano in estate. « Anche se in pensione – sorride Irma – quando ho bisogno di qualcosa Tiziano c'è sempre, sia come ex collega che conosce tutti i campanelli di Capracotta sia per il suo ruolo nella società. Chi meglio di lui » . Chi questa estate torna a Capracotta, troverà due novità: un ufficio postale completamente rinnovato e con nuovi servizi grazie al progetto Polis e il nuovo ATM Postamat, caratterizzato da velocità nelle operazioni, facilità di fruizione, possibilità di prelievi cardless e numerosi servizi in automatico, come il pagamento dei bollettini. Fonte: https://tgposte.poste.it/ , 19 agosto 2025.

  • Nel Sannio mistico (II)

    La festa dei muli e del legno Capracotta, gennaio. Ora io vi racconterò la festa dei muli e del legno a Capracotta Sannitica, perché possiate raccogliere il soffio di poesia italiota che ancora vive in alcune sue terre ed in alcune sue allegorie mistiche, necessarie ad impersonare ed a concretare le astrazioni della fede e le tendenze dei popoli. A Capracotta, si sa, vi è una Chiesa Madre. Io non posso dire che sia un monumento nazionale. Troppe cose elette dicono gli orizzonti e l'altitudine del paese montano più eccelso dell'Appennino e del Sannio e perciò sfuggono le piccole vanità del mondo in pietra, in metallo o in istoffa che affaticano dei loro tormenti i sogni ed i decaloghi della bellezza. Dirò che la Chiesa Madre è bella per ciò che non pensano quei di Capracotta che elogiano un battistero barocco del Seicento pregevole ed una S. Elisabetta del Colombo, che li onora della sua visitazione viva ed umana come la parola non detta che ha da un secolo sulle labbra. Bella, perché ha una triste aria sopravvissuta e posa su un bastione del Medioevo a sghembo che pare la radice d'un castello abbattuto ed è chiusa da un portale nudo ed austero tutto coperto di piccole croci di legno. E che cosa sono? Il segno di ogni Giovedì Santo da quando fu costruita. Ora l'uso è cessato perché pareva vecchio o pareva troppo invecchiare. Ma la predilezione dei Capracottesi non è la Chiesa Madre. Vi è sempre il fanatismo leggendario delle divote leggende campestri. In solitudine, fuor d'ogni rango umano, che attrae nei paesi nostri la semplicità e l'ardore delle genti. A Capracotta è la cappella della Madonna di Loreto. Piccola cappella a un miglio dal paese, ricca d'antichi censi armantizii. Dietro l'altare, al tirar d'una cortina che la cela alla curiosità quotidiana degli sguardi, una Madonna con la sua aria di idolo immobile, senz'altra espressione che la vanità dei suoi colori e dei suoi voti d'oro e d'argento, metallica nello sguardo, nel diadema, nelle collane innumerevoli... Eppure essa appare difforme tozza e disanimata perché custodisce e cela un simbolo. Il suo corpo è un tronco d'albero. Essa apparve ai mistici delle leggende col volto divino che raggiava su un legno abbattuto della foresta umiliata e confusa col fossile vegetale che è il pane di tutti i focolari montanini. Trasportata alla Chiesa Madre la pia immagine ritornò alla boscaglia eletta, in essa consustanziata, perché nelle sue membra arboree i montanari venerassero la prima preclara sorgente dei loro beni, "il legno della foresta". Sul tronco leggendario, quindi, la Vergine fu costrutta dalla vita in su e la sua ricca veste, d'azzurro ingioiellata dalle stelle dei voti mistici, ancora cela il vecchio legno benedetto. Laudato sia frate legno Veramente umile prezioso e casto, come l'acqua. L'8 settembre con la Madonna è consacrata la sua festa. Ogni tre anni a sera la vergine arborea viene presa e portata come nel dì lontano della leggenda alla Chiesa Madre. Lì i Re Magi del tempio le donano la nuvola d'incenso e preci clamanti, e trombe argentee d'organo, e miti, accorate elegie religiose che la fanno vivere per tre giorni in un tremito di luci e di commozioni. Pare allora un poco impallidita, la buona e prosperosa Madonna di Loreto, e ricorda le sue origini trascendentali col turbamento che deve fare vergini e portentose tutte le linfe della sua consacrata carne vegetale. Ma desidera, ed è palese, di ritornare laggiù al suo angolo diletto, vicino al respiro remoto della selva, vigilata solo dall'eremita che è il suo sagrestano. D'inverno i boschi olimpici intorno a lei s'inghirlandano di neve e le raffiche dei venti disfanno le ghirlande e le portano trasvolando intorno al suo trono. La prece più penetrante al suo cuore di fibra arborea è certo quell'ululo smisurato che fa la tramontana passando sul suo altare. Grida la sua virtù e plora per il suo sacrificio d'umiltà che fa moltiplicare le radici, i rami e le foglie e rende le linfe generose come vini fermentati e gommose e possenti le resine rigeneratrici dell'aria. È quella la sua vera festa ed il suo regno glorioso. L'inverno. Essa brilla allora, col suo corpo transustanziato nella specie del legno sacro, ardendo in ogni focolare, suddivisa in tante lingue di calore benefico, commista nella ricca porpora della brace, volatizzata nei vapori umidi e caldi delle brode piccanti e delle farine intrise per il nutrimento, l'inabolibile pena della carne... Brilla e consola, fertile e gaudiosa come il pane delle foreste, frate legno veramente umile, prezioso e casto. Laudato sia... La grande orazione animale Dicevo che la Madonnina desidera ritornare alla sua funzione. Bisogna, dopo la visita trionfale al paese, bisogna che torni alla sua pace di buona massaia boschereccia a raccogliere il saluto delle mandre che partiranno fra breve. E poiché ha benedetto in sé stessa frate legno bisogna che benedica ancora i buoni muli, domestici della montagna, i fedeli e caparbii amici dell'uomo che trasportano sui bei carri di Capracotta, tatuati d'ocra e di nero, le foreste recise. Nessuno più di essi potrebbe intendere la vita come un peso, poiché non vi è un sol braccio di legno della montagna che non sentano premere sui loro destini e sulle loro maglie vibranti dei muscoli generosi. E perciò bisogna che la Madonna li contempli, li compatisca e faccia fertile e saggia la loro opera e la loro genitura. Si spiega così, nella teoria dei muli bardati di glorie festive che la scortano nel ritorno alla Cappella, la grande orazione animale. È d'una portentosa bellezza. Alla sera del terzo giorno della festa la Madonna viene ripresa ed esce dalla Chiesa Madre claudicante nell'ondeggiare della folla ammantellata di brune bende monastiche. Fa già freddo... E il vespero è asciutto ma cortese ed il bel cielo d'opale insanguinato di violenza dal tramonto è già quasi svanito su Capracotta. Le prime stelle spuntano dietro la Maiella, piccoline e modeste, perché i lumi della terra ardano in gloria. La moltitudine occhiuta ed angosciosa dei muli disposta in fitto semicerchio intorno la Chiesa attende la Madonna. Cavalcati dai loro padrosi, vellosi come fauni antichi, i belli animali cocciuti e gagliardi scalpitano insofferenti. I suoni ed i canti li eccitano, la luce delle fiaccole rompe il cerchio assiduo della loro ombrosità taciturna. Ma nessuno perde il suo ordine nella processione, nessuno interrompe con la brutalità del suo diniego, la dignità rappresentativa della devota coorte alla Gloriosa, che ritorna al suo asilo boschereccio. Ed ora essa va innanzi e si ferma dinanzi a tutte le case che espongono un piccolo tavolo decorato ed illuminato dov'è pronto l'obolo, il voto, il segno della grazia ricevuta. La sua tunica azzurra diventa un umile ed espressivo bazar di orecchini, collane e pendagli d'oro, delle pie femminelle. In ognuno di essi non brilla che la gemma della lagrima mansueta con la quale è offerto il dono. E dietro, dopo il clero e le cantatrici, si svolge la processione dei muli. Ognuno rappresenta una casa, una stirpe ed ha la sua veste parata. Un paradosso del grottesco Il paradosso del grottesco li fa quasi elementi attoniti di uno degli antichi misteri delle spente religioni druidiche. Poiché hanno per basto le coperte di seta preziose delle vecchie arche cospicue del paese o i folti panni tessuti dalle donne di Capracotta, tinti di vivaci fuochi erborei, ed alle orecchie che squassano indomiti per il fastidio, pendono fiori di carta e i brelocchi d'oro delle più fauste goliere nuziali, la coda spiovente è stretta da fazzoletti smaglianti di seta e bende di lino. Le spose mettono ad alcuni le mantiglie candide dei loro epitalami rustici, polpute di cifre e ghirigori ricamati, ed essi acquistano allora un'aria speciosa di bonzi orientali. La sera dà il senso già sacro delle sue ombre fluttuanti. E le fiaccole accese da ogni cavaliere brillano l'intatto fuoco odoroso della resina, ed ogni fiamma si piega ansiosa e fumosa nel corso del vento. Nelle luci i volti s'impietriscono e si impiccioliscono e nell'ardore fanatico che cresce i canti diventano acuti e tristi come gridi. I muli passano, ritmando il passo, colla lentezza cadenzata dei cammini mistici e così falsati di vanità, eroi comici della commedia umana, portano dietro la Vergine la dignità del loro sforzo quotidiano contenuto in aspri nitriti, la nobiltà del loro spirito imperfetto, consustanziato e fedele alla vita ed all'opera dell'uomo, come l'elemento primo del grande segreto che li lega, forse nella medesima origine e nella medesima tristezza animale... Forse, chi sa! Io non lo so, certo. Bisognerebbe domandarlo alla buona Madonna arborea di Loreto capracottese che sa così bene il valore delle umili cose primordiali. Lina Pietravalle Fonte: L. Pietravalle, Nel Sannio mistico , in «La Lettura», XXIV:1, Corriere della Sera, Milano, 1 gennaio 1924.

  • Polvere di cantoria: l'organo dei Crociati

    Il tempo non è altro che la corrente in cui sto pescando. [H. D. Thoreau] L'argomento di questa volta si basa su una notizia che, riportata in un capitolo precedente come interessante ma curiosa informazione storica, ha invece subìto recentissimamente una evoluzione a dir poco entusiasmante. Ma, come in altre volte, ormai avvezzi ad indossare i panni di viaggiatori del tempo, raccontiamola seguendo il corso degli eventi. Ci troviamo in Francia dentro una bottega artigiana durante l'XI secolo. I maestri organari stanno completando un organo che presto accompagnerà la liturgia ed il canto gregoriano. Da poco questi strumenti, venuti secoli prima da Oriente, sono ufficialmente entrati con alta dignità nel servizio liturgico. Pitture allegoriche ed affreschi mostrano come il vecchio modo di esaltare la preghiera cantata, fatto di strumenti a corda e percussioni, stia cedendo il passo all'organo: rappresentazione sonora e visiva in terra dei cori angelici e ponte tra il soffio vitale divino con le sue celesti armonie ed il respiro della Sua creatura umana tramutantesi in voce. La nebbia del tempo ci impedisce di capire la sua primeva collocazione, ma intorno al XII secolo, caricato probabilmente su una nave, seguì le armate crociate per giungere come dono alla Chiesa della Natività in Betlemme per prestare servizio durante le funzioni quotidiane accompagnando, a lungo, il canto dei chierici e dei cavalieri. Purtroppo, con la caduta di San Giovanni d'Acri nella primavera del 1291 nelle mani dei soldati mamelucchi si concluse la grande avventura crociata in Oriente e fu sancita la fine del Regno di Gerusalemme mentre in sequenza caddero a mano a mano tutte le roccaforti in mano agli europei. Ultimi a crollare con l'inizio del XIV secolo e scacciati dall'isola di Ruad loro ultimo presidio, furono i cavalieri templari la cui regola vietava la resa. E l'organo dei crociati di Betlemme? I chierici latini agostiniani che lo avevano in custodia prima di essere espulsi dalla regione lo avevano smontato e seppellito sotto il giardino della basilica insieme a delle campane e oggetti liturgici, probabilmente sperando in un ritorno. Il tempo, spesso guaritore ma anche fonte di oblìo passò lentamente e di questo tesoro si persero tracce e memoria. Ma nel 1906 uno scavo condotto dagli archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum portà alla luce le casse contenti le 222 canne di questo strumento insieme al carillon di campane e agli accessori liturgici. Trasportato al Convento della Flagellazione, sede dello Studium, non ricevette una particolare attenzione (tanto per cambiare...) da parte del mondo accademico affrontando un altro secolo di anonimato nella polvere. Ma nel 2019, David Catalunya, musicologo e ricercatore dell'Università di Oxford ebbe modo di rintracciare una nota manoscritta che faceva menzione dell'organo. Questa scoperta diede origine al progetto "Resound: l'organo dei crociati", finanziato dal Consiglio europeo della Ricerca e coordinato dall'Istituto complutense di Scienze musicali il cui scopo prefissato fu il restauro delle canne e la costruzione di una replica dello strumento dopo accurata analisi delle parti autentiche da parte dell'organaro olandese Winold van der Puten. Quindi uno strumento che strappa il primato di antichità conservata all'organo del Santuario di Valère nel cantone svizzero del Vallese risalente al 1435 e perfettamente funzionante. Sarebbe tutto finito così ma (tenetevi forte!) il 20 maggio del 2025 avvenne qualcosa di straordinario: un gruppo di canne in corso di studio fu trovato perfettamente integro, e, mentre i ricercatori si sentivano parte di un sogno, suonanti senza alcun intervento di restauro, «come se fossero state costruite il giorno prima»! Sono state montate pertanto in una cassa riproducente la fattura degli armadi d'organo tipici dell'epoca con leve a manetta al posto dei tasti come allora d’uso e il 9 settembre 2025 a Gerusalemme presso il Convento di S. Salvatore, sede della Custodia di Terra Santa, l'organo «congelato nel tempo» ha fatto ufficialmente ascoltare la sua voce dopo oltre ottocento anni di silenzio. Qui il link per ascoltare la registrazione di questa audizione ed altre informazioni sull'argomento. Secondo il prof. Catalunya siamo davanti ad una sonorità chiara e piena, completamente differente da quella degli strumenti rinascimentali o moderni. Personalmente, mio umile parere, un suono arcaico e dolcemente misterioso, richiamante calde notti di deserti d'Oriente profumate di incenso, mentre armature di cavalieri, inginocchiati in preghiera, scintillano alla luce tremolante delle candele. Eppure, contemporaneamente, un richiamo materno come da una vita antica già vissuta e impressa nel profondo dell'anima. Tuttavia la presenza nel ritrovamento anche del carillon di campane mostra come, molto probabilmente, organo e campane suonassero insieme come abbiamo osservato durante l'esplorazione dell'organo medievale e rinascimentale: altro argomento di studio in corso di approfondimento. Possiamo quindi constatare questo momento impressionante dove arte, storia, divino e suono si fondono gettando una ulteriore lama di luce sull'interpretazione e lo studio della musica di quei tempi. L'eternità è innamorata delle opere del tempo. [W. Blake] Francesco Di Nardo

  • Amarcord: "Capracotta il mio paese" di Michele Conti

    Questo libro, dedicato a tutti i capracottesi e non solo, Michele lo pubblicò in occasione del suo 80° compleanno, raccontando della sua infanzia, dei sacrifici dei suoi familiari e suoi, del lavoro del padre, dei suoi studi e dei suoi molteplici impegni, partendo da quelli politici locali, iniziati con i giovani amici Carmine Di Ianni e Vittorio Giuliano. Incarichi amministrativi, civili, sociali e sportivi, il tutto sempre impregnato dal suo viscerale attaccamento al "suo" paese, Capracotta! Tra i molti episodi, documenti riprodotti e fatti da Michele raccontati nel libro, mi sforzerò di parlare solo di capitoli analitici e profetici della situazione complessiva di Capracotta, della nostra montagna e dell'Alto Molise. Nel capitolo III, partendo dalla impietosa ma realistica situazione demografica di Capracotta, che però può essere riferita, secondo me, a tutto l'Alto Molise, il "tracollo" parte dai dati negativi dei rapporti nati/morti, giovani/anziani, ragazzi/vecchi, immigrati/emigrati. Michele scriveva che molto hanno contribuito allo spopolamento della nostra zona errate scelte di politica generale, regionale e locale. Soffermandomi alla situazione locale, anche secondo me, un primo colpo mortale alla nostra zona è stato inferto dalla (praticamente) chiusura dell'ospedale di Agnone, con le negative conseguenze anagrafiche, occupazionali, commerciali, lavorative, scolastiche, sociali e di prospettiva. Bisogna però ammettere che il Molise, con i suoi circa 300.000 abitanti effettivi, non poteva e non doveva permettersi di avere e manutenere 7 U.S.L., 7 ospedali e una decina di comunità montane, con altrettanti presidenti, consigli di amministrazione e centinaia di consiglieri. Queste scelte sono state e sono funzionali solo alla politica partitica locale e non al servizio dei molisani e del loro futuro. Vero è che un ospedale che non doveva essere sacrificato per motivi ragionieristici, era quello di Agnone: ospedale di zona disagiata (montagna e neve) che ora ha il pronto soccorso e l'ospedale più vicino (Isernia) a circa 50 km, accorpando invece ospedali vicini tra loro. Si tenga presente che anche molti comuni della Provincia di Chieti, si servivano dell'ospedale di Agnone! Molti si sono spesi per la sua sopravvivenza, ma tutto è risultato inutile contro scelte centrali. Il colmo dei colmi delle errate scelte regionali e locali è stato raggiunto, alcuni anni fa, approvando la realizzazione di un nuovo ospedale in Agnone! La realizzazione di tale struttura è iniziata ed è andata avanti mettendola in piedi senza completarla e abbandonandola, divenendo una delle tante opere pubbliche incompiute d'Italia, un'altra "cattedrale nel deserto" costata decine di milioni di denaro pubblico. Intanto, alcuni anni fa, si verificò un altro evento negativo, dovuto forse a errori di progettazione più che a forze della natura: la chiusura, per motivi di sicurezza, del viadotto Agnone-Castiglione M.M.-Chieti. Tale chiusura ha fortemente ridotto il flusso sanitario, scolastico, economico-commerciale tra i paesi abruzzesi e Agnone, con danni difficilmente recuperabili per l'intera zona. Molti comuni nostri e del Chietino a noi vicini non raggiungono i 1.000 abitanti, cominciando da Capracotta, mentre il problema dei costi per la gestione dei servizi essenzali e della sopravvivenza continua ad aumentare. Agnone, che fino a qualche decennio fa contava circa 10.000 abitanti, oggi è sceso sotto la soglia dei 5.000 residenti e la discesa, purtroppo, non dà segnali di arrestarsi. C'è ancora chi sostiene che il Molise dovrebbe ricongiungersi all'Abruzzo, tornando ad essere una unica regione, per sopravvivere, senza però considerare la critica situazione dei piccoli comuni, nostri e anche abruzzesi, specie quelli con noi confinanti, la scarsa attenzione loro riservata da Chieti, la criticità della viabilità e le distanze, per cui l'Alto Molise potrebbe diventare la periferia della periferia chietina! Un altro capitolo di questo libro, da analizzare anche se solo sinteticamente, è il capitolo IV: "Quale futuro?". Michele parlava della situazione attuale (2015) e di prospettiva di vari settori vitali per la sopravvivenza dei piccoli paesi: la scuola, in primis, con rischi di accorpamenti in zona più accessibile, con conseguenze negative dal punto di vista sociale e umano per la sopravvivenza di un paese. Michele scriveva: «La mancata presenza in un paese di un maestro, di un insegnante, di un professore, comporterà un ulteriore impoverimento quantitativo e qualitativo della popolazione e della vita sociale e continuerà sempre più a prospettarsi la strada dell'emigrazione». Da qualche anno pare che anche la neve sia "emigrata"! Esaminando altri aspetti critici della situazione: quali la sanità, Michele auspicava la permanenza dell'ospedale di Agnone; per la mobilità, che è una necessità altomolisana ed essenziale di tutti i giorni, l'auspicio era per un miglioramento della nostra viabilità finalizzato al rafforzamento del trasporto pubblico su strada e in ferrovia. Purtroppo oggi ognuno di noi può constatare la situazione attuale di questi settori vitali per la sopravvivenza dei piccoli comuni. Io mi domando: ma le province esistono ancora? Quella di Isernia, che ci riguarda, è viva o no? Michele, inoltre, parlava della situazione locale relativa ai boschi, ai pascoli, all'acqua, agli impianti sportivi, all'aria e al panorama, dando anche alcuni consigli per il futuro. Infine, Michele scrive che «per un paese di montagna un'agricoltura senza turismo non ha prospettive di sviluppo, ma è vero anche il contrario: un turismo senza agricoltura, senza prodotti tipici, non ha futuro». Condivido pienamente! Nelle "Considerazioni finali" Michele diceva: «In montagna non si può vivere di eventi, occorre continuità... La vita presente, invece, deve essere vivace e continua per tutto l'anno, per tutte le stagioni». Ciò è vero e, a mio modesto parere, si potrebbe anche sostenere che non si può sopravvivere puntando solo sull'affollamento dei 30 giorni d'agosto e su sporadici ritorni in occasione di festività religiose paesane! Ma oggi temo che il corpo mortale finale, noi, il Molise e tutto il Meridione, lo riceveremo con l'applicazione della legge sull'autonomia finanziaria differenziata, vecchio pallino della Lega, ma votata dall'attuale governo di destra. Chiedo scusa agli autori dei libri esaminati, ai loro parenti e ai lettori, di questo mio "Amarcord" realizzato in forma artigianale, manoscritto da me con grafia condizionata dalle cataratte. Per saperne di più bisognerebbe leggerlo! Tonino Serafini

  • Storia dell'organo (XII)

    L'Organ²/ASLSP di John Cage. Ci sono giorni in cui, spuntata dal nulla, la mia infanzia mi sale veloce sulle spalle, mi stringe i capelli brizzolati fra le manine e sorridendo mi dice: « Non è cambiato nulla. Io e te non ci lasceremo mai ». [F. Caramagna] L'uomo ha la assurda capacità di mandare "in vacca" tutto quello che di buono riesce a creare, e così avviene per il web, dove gran parte di quello che gira si riduce ad un cumulo di stupidaggini e di immondizia contrabbandata per cultura: un tempo patrimonio effimero delle frequentazioni da osteria, come ebbe a dire Umberto Eco. Tuttavia la potenza comunicativa e divulgativa messa a disposizione, come mai avvenuto prima, ci consente di acquisire oggi informazioni e documenti che giacevano sepolti o dimenticati in archivi, musei o realtà locali, così anche pure notizie recentissime e ancora poco diffuse. Non da ultimo spartiti e gemme musicali che fanno la gioia anche degli organisti e adatte alla attività liturgica e concertistica. Così, se speravate di esservi salvati dalle curiosità sul mondo dell'organo, vi devo dare una brutta notizia: rassegnatevi, c'è ancora altra carne sul fuoco... o, quantomeno, dopo la gnuóglia , facciamoci una bella scarpetta! Abbiamo visto come in molte occasioni l'organo fosse considerato anche come strumento ludico, e qualche volta con lo scopo di funzionare anche in piccoli ambienti. Pertanto, erano necessari strumenti non solo di ridotte dimensioni ma anche leggeri per poter essere trasportati facilmente. Purtroppo, la lega metallica o lo stesso legno con cui venivano e vengono costruite le canne hanno un peso consistente e organi anche con uno o due registri non sono molto facili da spostare o trasportare. Ecco allora che l'inventiva prese il sopravvento mediante l'adozione di canne costruite con strati sovrapposti di cartone laminato. Sappiamo che una idea simile era stata concepita e disegnata dallo stesso Leonardo da Vinci e un inventario dei beni in possesso di Lorenzo de' Medici, redatto nel 1492, riporta un «orghano de carta impastata». Siamo anche in possesso di una lettera con la quale Isabella d'Este (1474-1539), marchesa di Mantova, richiede al suo corrispondente da Venezia, Lorenzo Gosnago da Pavia, la costruzione di uno strumento da appartamento con canne di cartone, il cui suono era allora ritenuto «tanto celestiale da commuovere anche gli dei». Curiosamente Lorenzo Gosnago era un conoscente di Leonardo da Vinci e di sua fattura, datato 1494, nel Museo Corrier a Venezia è conservato l'unico organo con le canne di cartone giunto fino a noi. Attualmente è ridotto al silenzio poiché parte della dotazione fonica è andata perduta ma le canne di mostra e tutto il somiere con la consolle, arricchite da incisioni in greco e latino, sono in perfetto stato di conservazione. Ma se riusciamo ad ascoltare le voci provenienti dal passato, possiamo prevedere le note di un organo che si produrranno nel futuro! John Cage (1912-1992), musicista e teorico musicale, scrisse nel 1985 un brano per pianoforte della durata variabile dai 20 ai 70 minuti poi trascritto per organo nel 1987. Tuttavia, incuriosito da come l'organo potesse tenere estremamente a lungo qualsiasi nota, nel 1997 un comitato di musicisti elaborò una evoluzione di tale sonata con il progetto Organ² /ASLSP (il più lento possibile). A tale scopo, dopo la costruzione di un apposito organo, oltreché estremamente resistente e protetto da una campana di vetro per attutire il suono continuo, all'interno della Chiesa di S. Burchardt ad Halberstadt, in Germania, il 5 settembre 2001 l'avventura è iniziata con l'esecuzione della durata prevista di 639 anni e che si concluderà il 5 settembre 2640! La sonata è cominciata con una pausa di circa un anno e mezzo e che ha introdotto un primo accordo il 5 luglio 2003 a cui ha fatto seguito un nuovo accordo il 5 luglio 2005. Mediamente, un cambio di nota ogni uno o due anni. All'interno della chiesa un calendario segnala le date dei successivi cambi di nota. Dei pesanti sacchi di sabbia appesi ai pedali (in funzione di tasti) li tengono premuti garantendo la durata del suono. Lo studio, legato al concetto di estrema lentezza in musica, tende anche alla esplorazione delle attese di vita di un organo. In altre sedi, molti organisti si sono invece dedicati ad una esecuzione umana e dal vivo del brano: il record mondiale attualmente è detenuto da Francesco Pio Gennarelli con una performance durata 25 ore con partenza alle 14:10 del 4 maggio 2025 nella Middlesex University, in Inghilterra. Il video integrale è disponibile su YouTube. Altra curiosità la possiamo trovare osservando l'organo della Cattedrale di Notre Dame a Losanna, in Svizzera. Nel 1996 le autorità cantonali avevano deciso la sostituzione del vecchio strumento e nel 1998 l'incarico per la costruzione fu affidato alla bottega dell'americano C. B. Fisk (Massachusetts), primo statunitense a lavorare in Europa, mentre il disegno architettonico fu commissionato all'italiano Giorgetto Giugiaro: primo strumento al mondo ad essere concepito da un designer. Nel 2003, con il costo di 5 milioni di franchi, fu inaugurato il nuovo poderoso strumento di oltre settemila canne, comandato da una consolle elettronica in navata e da una consolle meccanica in cantoria. Dovendo riunire in sé le caratteristiche di tutti gli strumenti europei e per renderlo adatto alla interpretazione di qualsiasi brano di ogni epoca, si preferì un organaro non europeo e che, a detta dei committenti, inevitabilmente avrebbe impresso lo stile costruttivo delle proprie origini e della propria scuola, inoltre il tocco estetico, esclusivamente originale, affidato ad un designer celebre nel settore automobilistico, avrebbe dato lustro alla struttura. 150mila le ore degli esperti dedicate alla progettazione con un cantiere costituito da esperti di almeno mezza dozzina di paesi. Lascio a voi, sia addetti ai lavori che profani, giudicare se tante anime e caratteristiche artistico-storiche possano efficacemente convergere in una sola: eclettismo e versatilità o identità storica, filologia o praticità divulgativa, bellezza artistica o ostentazione? In ogni caso un unicum emozionante. Ma adesso vedremo che l'organo è come i jeans: sta bene con tutto... A differenza dei nostri climi dove alla chiusura di una chiesa, e purtroppo spesso anche se rimane aperta, gli strumenti cadono di frequente nell'abbandono e nel degrado, nel migliore dei casi, o demoliti e vandalizzati, nel peggiore, in altre latitudini se ne tenta comunque un recupero ed una valorizzazione. Nel Regno Unito è sorto un movimento: il Pin Up for Pipe Organs , dedito al ripristino di questi strumenti, e sono tanti, crudelmente condannati al silenzio. Vengono pertanto acquisiti, smontati e ricostruiti in sedi dove possano nuovamente far ascoltare la propria voce. Ad esempio nella stazione ferroviaria di London Bridge un organo in stile vittoriano del 1880 fa risuonare le sue 250 canne distribuite su un manuale ed una pedaliera di 30 note. Ma gli organi nelle stazioni non sono affatto rari e comunque legati, come spesso abbiamo visto e dalla notte dei tempi, ad una funzione simbolica e commemorativa: a Leopoli, in Ucraina, un organo della chiesa riformata, devastato dai bombardamenti, è stato ricostruito nella stazione ferroviaria utilizzando, per integrare le parti mancanti, le lamiere ed i rottami dei missili russi caduti sulla città: risuona ogni pomeriggio in concerti dedicati ai reduci, ai feriti di guerra e ai cittadini. Uno strumento progettato per la Stazione Centrale di Milano come testimone della incredibile passione italiana per l'organo è infatti rimasto solo sulla carta... In Oriente - per la precisione a Taiwan, nella stazione di Kaohsiung - uno strumento automatico a pianta circolare di fattura ungherese, dotato di 4 registri reali e tredici combinazioni sonore fa ascoltare la sua voce ai passeggeri in attesa nel salone centrale. Suonabile anche da consolle, è dotato anche di elementi caratteristici come una canna da locomotiva, un tamburo taiwanese, una marimba ed un gong: opera n° 179 della Pécsi Orgonaépítő Manufaktúra , anno 2025. Restando in Oriente, ma passando dallo sferragliare dei treni alla pace silenziosa della contemplazione, restiamo sbigottiti apprendendo che nel tempio buddista Sin di Tsukiji Hongwanji di Kyoto un organo Walcker, donato dalla Società di Promozione del Buddismo Bukkjo Dendro Kjokai nel 1970, troneggia nella sala di preghiera principale. Torniamo negli U.S.A.: con le sue 28.762 canne distribuite su 465 registri, sei manuali e pedaliera ed il peso di 287 tonnellate, l'organo Wanameker sorge nella sala centrale a sette piani dei magazzini Macy's a Philadelphia. Originariamente costruito per l'Esposizione universale di St. Louis del 1904, con la configurazione sinfonica americana e quindi in stile orchestrale, raggiunse un costo talmente esorbitante da mettere in crisi finanziaria uno dei suoi fondatori. Successivamente destinato al Kansas City Convention Center fu causa del fallimento della Los Angeles Art Company cui era affidata la gestione. Rimasto in magazzino fino al 1909 fu acquisito dalla Wanamaker per il suo enorme centro commerciale divenuto poi Macy's . Furono necessari 13 vagoni ferroviari per portarlo a destinazione e in tale occasione subì il primo dei tanti ampliamenti effettuati nel corso degli oltre 100 anni della sua esistenza, fatta di concerti giornalieri ed audizioni speciali spesso presentando sinfonie trascritte o composte ad hoc. L'attuale maestoso prospetto dorato risale all'aggiornamento del 2019. Al momento i magazzini Macy's hanno cessato le attività ed il destino di questo mastodonte è incerto ma essendo protetto come monumento storico nazionale non può essere smontato trasferito. Per sentire l'assoluto, mi basta una musica d'organo, l'odore di incenso e un tramonto da ammirare... [F. Caramagna] E non finisce qui... Francesco Di Nardo

  • Cronache dall'Italia nascosta: la letteratura capracottese

    «Udrete, o giovani, non di rado lamentare che il Molise è dimenticato, e di tale oblio dar ogni colpa ai suoi rappresentanti politici. Ebbene, siano o no questi in colpa, ciascuno domandi anzitutto a sé medesimo: me ne ricordo io sempre del Molise?» [F. D'Ovidio] La più piccola regione italiana è la Val d'Aosta: un coriandolo. Poi c'è il Molise, pigiato tra Puglia, Campania, Lazio e Abruzzo, la regione più giovane del Paese dal punto di vista amministrativo, separata dall'Abruzzo con legge approvata da Camera e Senato il 16 dicembre 1963, festeggiata a Campobasso con allegri brindisi negli uffici e nelle case e con una grande fiaccolata all'aperto, a dispetto del vento gelido e della temperatura sotto zero. In Molise abitano meno di 300mila abitanti. Città come Bari e Catania sono più popolose dell'intera regione. Il nome dei Frentani e della tribù sannitica dei Pentri, i due popoli italici che abitarono anticamente il territorio del Molise, resta sconosciuto alla stragrande maggioranza degli italiani. Non capita praticamente mai d'incontrare qualcuno che racconti di un viaggio di lavoro in Molise o di una vacanza estiva trascorsa a Isernia, a Campobasso o in località della costa come Termoli, Campomarino o Petacciato. Il Molise è la più misteriosa e appartata tra le regioni. C'è chi dice che non esiste, eppure su Internet si può perdere qualche ora scavando tra i documenti raccolti in uno dei siti più ricchi, accurati e completi dedicati a un territorio che si possano trovare sul web italiano: www.letteraturacapracottese.com . Il sito, per di più, non è dedicato al Molise nella sua interezza, ma a un singolo paese, Capracotta, in provincia d'Isernia, dove vivono appena 769 persone. La formula Letteratura capracottese ricorda certe narrazioni di Roberto Bolaño, dove si racconta di tradizioni letterarie inventate, come il realvisceralismo o gli scrittori di fede nazista in America. La letteratura di Capracotta, invece, in un certo senso è data, esiste. Situato a quota 1.421 metri, Capracotta è uno dei paesi più alti della catena appenninica. In inverno la temperatura scende sotto lo zero, le tormente di neve sono frequenti e spesso il paese rimane sepolto sotto una magica coltre bianca. C'è chi da un giorno all'altro, con la porta ostruita dalla neve fresca, è costretto a uscire di casa passando per le finestre. Nella vicina Monte Capraro è in funzione una seggiovia e a Prato Gentile è praticato lo sci di fondo, introdotto a Capracotta all'inizio del Novecento, quando la gente del luogo lo chiamava scecruà , che in dialetto significa «scivolare». Nel marzo del 2015 il paese venne sommerso da una nevicata da Guinness dei primati: 256 centimetri nell'arco di 24 ore! Il sito www.letteraturacapracottese.com ordina e raccoglie il più disparato materiale su Capracotta. Ci sono le foto storiche divise per categorie: «Il paese», «Il popolo», «La fatica», «La fede», «La guerra», «La natura», «La neve», «La pezzata» (la sagra di Capracotta). Immortalati col fucile a tracolla, con gli sci ai piedi, dritti sopra uno sperone di roccia come in un western, di fronte a una selvaggia cascata o seduti in un salottino gozzaniano, i capracottesi e le capracottesi sembrano nati per posare davanti all'obiettivo. Possiedono una vanità e un carisma naturali, distinzione, orgoglio e un velo d'ironia sofisticato e moderno. Il sito mette in fila una sequenza di personaggi dimenticati legati a Capracotta. Siamo di fronte allo spirito di una civiltà, non alle briciole e ai ghiaccioli di una contrada remota e infreddolita. Nell'elenco figurano un certo Stanislao Falconi, avvocato generale presso la Corte di Cassazione durante il Regno delle Due Sicilie, il corriere postale Giacomo Paglione, abituato a trasportare la posta nel tratto Capracotta-Scalo Carovilli facendosi eroicamente largo tra la neve abbondante, l'eminente studioso di selvicoltura Giuseppe Di Tella, lo sciatore Noè Ciccorelli, la scrittrice Elvira Santilli, il dotto arciprete Agostino Bonanotte, il deputato del Regno d'Italia Tommaso Mosca e il calciatore Erasmo Iacovone, scomparso prematuramente nel 1978 e pianto da tutta la squadra del Taranto. La sezione più ricca è quella dedicata ai rapporti tra Capracotta e la letteratura. Il cappellano narrato in "Addio alle armi" di Ernest Hemingway era di Capracotta. È lui che invita il tenente Frederic a visitare prima o poi il suo paese natale. Durante una solitaria vacanza a Capracotta, Amelia Rosselli scrisse 22 poesie raccolte in "Serie ospedaliera. 1963-1965". Tommaso Labranca invece pronunciò il nome di Capracotta in un'intervista, ma solo per deridere certi lavoratori del proletariato intellettuale emigrati a Milano, che avevano il vezzo di guardare la città dall'alto in basso, quando «magari» disse Labranca «arrivano da Capracotta». Francesco Mendozzi, fondatore del sito, ha dichiarato in un'intervista che www.letteraturacapracottese.com è servito a spronare molti abitanti del paese a scrivere, a mettere su carta «gli aneddoti più singolari, la tradizione orale della propria famiglia, con la speranza di salvare l'identità del luogo e, al contempo, di farne letteratura: ad oggi ho pubblicato - o aiutato a pubblicare - oltre 10 libri, nonché diverse decine di articoli di storia, folklore, narrativa, finanche poesia, che finiscono tanto online quanto nel "Bollettino della Letteratura Capracottese", una rivista che stampo in 50 copie e che distribuisco ogni mese». Ivan Carozzi Fonte: I. Carozzi, Cronache dall'Italia nascosta , Blackie, Milano 2025.

  • Relazione sulla gita sociale a L'Aquila

    Foto di gruppo presso le Grotte di Stiffe. Sabato 20 settembre è stata un'ennesima bellissima giornata: 54 capracottesi in gita a L'Aquila e alle Grotte di Stiffe, luoghi meravigliosi nei quali abbiamo imparato tanta storia, fatto esperienze uniche al mondo e consolidato la nostra comunità. È stata una giornata impegnativa ma ricca di allegria. Lo scopo formale della gita era quello di riannodare i fili dell'ex convento di S. Michele nel quale, tra la fine del '600 e i primi del '700, visse e predicò fra' Gabriele da Capracotta, colui che, oltre ad essere un monaco francescano, fu anche un abile mastro nell'arte della calcara , poiché fu proprio lui a ricostrure le fondamenta del refettorio all'indomani del violento terremoto del 1703. Purtroppo, il convento dei cappuccini è stato interamente fagocitato dal Palazzo dell'Emiciclo, che oggi ospita il Consiglio regionale dell'Abruzzo. Partiti alle 5:30 con una temperatura di 18 °C da Capracotta, siamo giunti alla stazione ferroviaria de L'Aquila alle 9:00, dove la guida dott.ssa Carla Canali ci ha accolti ed accompagnati prima alla monumentale Fontana delle 99 cannelle, raccontandoci l'influsso "toscano" della città abruzzese, poi alla Basilica di S. Maria di Collemaggio, dove, oltre all'arte, abbiamo toccato con mano il corpo del "nostro" papa, Celestino V, il molisano Pietro Angelerio. Usciti dalla basilica, ci siamo recati in centro città, dove abbiamo visitato prima l'elegante Basilica di S. Bernardino e poi il Forte Spagnolo. Dopo un pranzo al sacco consumato tra le strade e i vicoli del capoluogo d'Abruzzo, dove abbiamo incontrato tanti compaesani lì residenti, siamo risaliti sul pullman per raggiungere il territorio di S. Demetrio ne' Vestini, dove avevamo prenotato per le 16:00 una visita wild nelle misconosciute e strabilianti Grotte di Stiffe, la cui temperatura interna è di 9 °C. Indossati i caschetti da speleologo, siamo stati guidati negli anfratti di questa grotta carsica, creata dal lavorio del rio Gamberale, a sua volta originato dall'inghiottitoio del Pozzo Caldaio. Inutile dire che si è trattato di un'esperienza unica e affascinante. Come da programma, alle 17:30 abbiamo ripreso la strada per Capracotta, giungendovi alle 20:30, stanchi ma felici, con gli occhi colmi di cose belle e certi di aver assicurato una cosa niente affatto scontata: la socialità. Ecco una galleria di fotografie realizzate dai partecipanti. Il prossimo viaggio, come anticipato a tutti, è previsto per aprile 2026 e si svolgerà probabilmente nel Gargano. Francesco Mendozzi

  • Derby di Capracotta: edizione 1

    La foto di rito con entrambe le squadre. Sabato 13 settembre 2025, sul terreno di gioco del campo comunale "Erasmo Iacovone", è andata in scena l'edizione 1 del Derby di Capracotta. L'anno scorso, l'edizione 0 dell'evento fu vinta dalla squadra di Sant'Antonio. Il derby capracottese rievoca vecchie "battaglie sportive popolari", quando si passava dal giocare per le strade del paese al farlo su un rettangolo di gioco regolamentare. La partita è stata ricca di ribaltamenti di fronte, con le due squadre che non hanno mollato fino alla fine. Primo tempo pieno di occasioni da rete per il San Giovanni che si è portato in vantaggio con Italo Mosca. Il pareggio del Sant'Antonio è arrivato dopo un'azione personale di Sebastiano Fiadino (1-1). Nella ripresa, ancora Mosca ha riportato il San Giovanni in vantaggio (2-1). A quel punto, Sant'Antonio ha prima pareggiato i conti con una punizione calciata da Luigi Di Luozzo (2-2) e poi Mattia Carlini ha realizzato un gol da cineteca per portare avanti i suoi (3-2). La squadra del San Giovanni, sbilanciandosi in avanti, ha dato modo al Sant'Antonio di creare ulteriori occasioni da gol neutralizzate dagli estremi portieri avversari. Il San Giovanni, dopo svariati tentativi, è venuto fuori. Italo Mosca ha riequilibrato nuovamente il risultato (3-3) e Alfredo Di Tella ha segnato la rete del 3-4. Ma non è finita qui. Ancora Mosca - poker per lui - ha siglato il 3-5. Il Sant'Antonio non si è dato per vinto e, a un minuto dalla fine, Alessio Paglione in mischia ha buttato dentro il pallone del 4-5. Risultato finale 4-5 per San Giovanni, che pareggia i conti nell'albo d'oro dell'eterna "rivalità calcistica" tra i due rioni di Capracotta. La consegna della coppa da parte dell'assessore allo sport Pierino Di Tella ha dato il via ai festeggiamenti della squadra di San Giovanni. Lo ribadisco, come già fatto lo scorso anno: la più grande vittoria della giornata resta la tribuna dello "Iacovone" piena di gente e vedere due squadre capracottesi sul proprio campo da gioco. Ricordiamo che quest'anno Capracotta ha ospitato il Campobasso F.C. per il suo ritiro estivo. Un ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato all'evento e si sono impegnati affinché tutto andasse per il meglio. Nestore Sammarone

  • Mio nonno Gaetano Di Rienzo

    Gaetano Di Rienzo con la sua famiglia. Come tutti i capracottesi, mio nonno Gaetano Di Rienzo svolgeva il lavoro di bracciante con la buona stagione e quello di carbonaio per il resto dell'anno. Spesso lontano dalla famiglia, svernava in Puglia, dove lavorava con la famiglia Magnapésce . Ho dei bei ricordi di lui, un nonno affettuoso e brontolone, con un cuore grande, che amava tutti i nipoti allo stesso modo. Durante la guerra subì, come del resto la maggioranza della popolazione, lo sfollamento, che portò lui a Lucera (per motivi di lavoro) e il resto della famiglia a Biccari, sempre in Puglia. Tornato a Capracotta alla fine del conflitto, trovò solo miseria e desolazione. Non aveva più la casa nel quartiere di San Giovanni perché i Tedeschi l'avevano rasa al suolo. Negli anni '60 decise di emigrare, per garantire alla sua numerosa famiglia un futuro migliore. Si trasferì quindi a Tivoli, e lì trovò lavoro in una fungaia, proprio vicino all'ingresso di Villa Adriana. Ma un brutto incidente automobilistico (fu investito da una vettura) gli precluse l'uso della mano sinistra e quasi del tutto quello della gamba sinistra. In quel periodo, tra l'altro, l'assicurazione per la responsabilità civile non era obbligatoria e così, per ingenuità o per buon cuore, mio nonno non chiese alcun indennizzo. Ricordo che dopo l'incidente, a causa dei problemi di motilità, nonno Gaetano visse con noi un paio di mesi poiché abitavamo al primo piano. Egli era tuttavia molto abile nel realizzare bastoni, che costruiva e regalava con orgoglio. Nella stagione primaverile, poi, ci portava sempre una busta piena di cassèlle (cicoria). Nascondeva, nella tasca dei suoi pantaloni, delle monetine da 5 e 10 lire, che puntualmente ci regalava. Ricordo benissimo le interminabili partite a scopa che facevamo assieme, in cui il più delle volte, a mia insaputa, mi lasciava vincere. Porto nel cuore un rimorso che non riesco a perdonarmi. Quasi ogni mattina gli radevo la barba, ma un giorno, non so perché, non volli farlo; lui mi guardò e, con aria bonaria, mi disse solo: «Mascalzone!». La mattina dopo ripartii per Roma, per tornare al lavoro. La sera stessa mi giunse la notizia che nonno Gaetano era morto. Scoppiai a piangere per la vergogna e questa cosa tuttora mi fa male... Magari potessi tornare indietro solo per un attimo! Credo tuttavia che egli mi avesse perdonato. Mio nonno morì l'11 settembre 1978 e in tanti dissero che, alcuni giorni prima, al passaggio della processione in onore della Madonna di Loreto, avesse chiesto alla Vergine Maria: – Madonna, fàmme murì alla casa méja! La Madonna lo aveva accontentato. Nicola Carnevale

  • Ragazzo di Gaza

    Perché piangi ragazzo e asciughi il tuo viso dal dolore sgorgato da vene innocenti di tanti fratelli? Non sei felice per quartieri distrutti ch'intorno a te fanno corona? Non senti il buon profumo acre della morte che incombe sui vivi? Non gioisci per la tua casa abbattuta, per le città annientate, per la terra vermiglia nutrita dalla fine di bambini appena socchiusi alla vita, per tante madri piangenti, per inconsolabili vegliardi mai stati attori di tanta, triste tragedia? E le orecchie, dimmi, le tue orecchie non aspettano ansiose il rumore delle bombe, dei missili e degli aerei forieri artoci di morti infinite? Finalmente... esile il tuo corpo scende le braccia sterili, cadenti sulle gambe che più non sorreggono lo stele rinsecchito, mentre gli occhi, al di fuori delle orbite, restano l'unico segno della vita: grato all'Ebreo, ammira pure la spianata che sarà meta di allegrie, di potenti che godranno ed apriranno bottiglie di champagne sopra fosse comuni ove nemmen l'anima più si ribella! Ma... che dico? cosa vaneggio al mio ragazzo di Gaza? No!... No!... No!... Detergi per me le lagrime e fa' che solo due perle, due perle solamente, restino in bilico su due bellissime pupille affinché io possa rubarle da tanto scempio per portarle via; portarle via lontano e chiuderle in scrigno di cristallo che possa per sempre ricordarmi un ragazzo solitario che piangeva, che piangeva da eroe! Ugo D'Onofrio

  • Polvere di cantoria: libera me Domine

    Il Cristo morto nella Chiesa Madre di Capracotta. ...quia pulvis es... La comparsa della "Messa da requiem" risale al II secolo d.C., seppur diversificata in base alle esigenze regionali e modificata da vari editti codificanti come nel rito gallico, il rito celtico, quello ambrosiano ed aquileiese, senza trascurare anche la Chiesa d'Oriente. La richiesta di un messale, attribuito a san Gregorio, fatta da Carlo Magno a papa Adriano, diede inizio ad un processo di unificazione del rito che ebbe compimento nelle sedute del Concilio di Trento (1563). Tuttavia, la prima testimonianza certa di un rito funebre risale al X secolo. Ottone da Cluny, abate benedettino, stabilì che la messa per onorare tutti i defunti dovesse esser celebrata il 2 novembre. Il gregoriano fu la prima base monodica su cui si svilupparono le sequenze cantate. Curiosamente, per molti secoli, la polifonia fu tenuta lontana dalla funzione riservata ai morti: un rito così severo e solenne non era ritenuto adatto ad essere celebrato con un insieme di voci reputate più consone per i momenti di gioia o festivi. La prima messa polifonica a noi giunta risale al XV secolo ad opera di Johannes Ockeghem, anche se si hanno testimonianze indirette della esistenza di tali composizioni in un periodo precedente, come il testamento di Guillame Dufay (1474) che disponeva, per le proprie esequie, l'esecuzione della messa polifonica da lui composta, oggi andata perduta. Le parti cantate vennero così stabilite: Kyrie Gradale ( requiem æ ternam ) Tratto ( absolve me Domine ) Sequenza ( dies ir æ ) Offertorio ( Domine Jesu Christe ) Sanctus Agnus Dei Communio ( lux æ terna ) Responsorio ( libera me Domine ) Molti autori si dedicarono alla composizione di messe da requiem, tra cui Mozart e Verdi, anche se tali opere vanno considerate come musica sacra, ma non strettamente liturgica. Il "Libera me Domine", come "Pie Jesu" e "In Paradisum", venivano considerati esterni alla messa vera e propria e spesso eseguiti all'atto della sepoltura. In particolare, il "Libera me Domine" non fa più parte del canone ufficiale della Chiesa cattolica, ma non ne è stato strettamente rimosso e può essere eseguito ad libitum come parte tradizione musicale della Chiesa Apostolica Romana. Come abbiamo visto, è il responsorio recitato accanto al feretro o all'atto della sepoltura. Il testo è la invocazione a Dio nella sua pietà al momento del giudizio universale. Il coro o i recitanti si sostituiscono al defunto per elevare una drammatica e terrorizzata preghiera. La versione capracottese, parte finale della Missa pro defunctis , è caduta purtroppo in disuso. Si diparte da una tonalità in sol minore con brevissime discese in fa maggiore usato come "tonalità parallela". L'andamento melodico è a scatti, come singhiozzi intrisi di paura, alternando parti cantate a fraseggi in recitativo. Siamo davanti ad un impressionante tentativo di musica figurativa come si evince nel dum veneris cantato con una melodia discendente e severa tesa a visualizzare simbolicamente la discesa del Giudice Supremo nel terrore dei malvagi. Dura sarà la sentenza e fortemente amaro sarà quel terribile giorno della punizione durissima: la morte eterna, il Nulla. Assente nel testo ufficiale, il Kyrie conclusivo richiama l'invocazione alla pietà già elevata nel canto introduttivo della funzione. Ma l'accordo di chiusura è in cadenza "piccarda", cioè un rassicurante accordo di sol maggiore come a far intravedere la Speranza, l'arrivo della Misericordia di Dio, non solo giudice implacabile, ma anche Padre. La registrazione è stata effettuata l'8 agosto 2025 sul nostro "Principalone" ed è dedicata a tutti i musici che hanno fatto parte della storia della cappella musicale della Chiesa Madre e che ci hanno preceduto nel cammino. Diventeremo cenere: Le più carine, cipria I più puliti, talco I più utili, farina I più buoni, parmigiano grattugiato I più stupidi, segatura I più superficiali, zucchero a velo I più rilassati, sabbia I più agitati, cocaina I più colti, polvere del tempo... ...ed io, polvere di cantoria! Francesco Di Nardo

  • «La Chiesa Madrice sotto il titolo dell'Assuntione»

    Ci troviamo qui per onorare il 300° anniversario della consacrazione della Chiesa Madre di Capracotta, avvenuta, nonostante le traversie burocratiche, il 26 agosto 1725 per mano del vescovo Alfonso Mariconda: due anni prima, precisamente il 7 ottobre 1723, il vescovo capracottese Francesco Baccari aveva già consacrato l'altare maggiore. La domanda che penso sorga spontanea e a cui cercherò di dare risposta è questa: com'era fatta la chiesa di Capracotta prima del 1723? La scelta delle fonti Per rispondere a questa domanda dobbiamo affidarci alle poche fonti in nostro possesso, una delle quali è puramente grafica, e trattasi della tavola a colori realizzata nel 1675 da Tobiáš Masník, uno dei più influenti capi religiosi del protestantesimo ungherese. Egli fu incarcerato a Capracotta dal 4 maggio al 13 giugno 1675 e, durante quella prigionia, il reverendo Masník, assieme al compagno Ján Simonides, tratteggiò Capracotta così come gli era apparsa in quella primavera di 350 anni fa. La scena risulta occupata centralmente dal Santuario di S. Maria di Loreto, il luogo in cui avvenne l'arresto dei due preti evangelici, ma sulla destra vediamo un'ipotesi di quella che era la Chiesa Madre del tempo. In merito al carcere in cui erano rinchiusi, Simonides scrisse che «la nostra prigione [...] era già da un po' di anni che non la mettevano a posto: lo si poteva dedurre dalla grande sporcizia. Sopra la prigione c'era la cappella o – come la chiamavano – l' officium della Beata Vergine Assunta». Tuttavia, al di là di questa stringata informazione, la fonte primaria per sapere quali fossero le forme - non tanto architettoniche, quanto organizzative - della precedente chiesa capracottese è l'apprezzo feudale stilato da Donato Antonio Cafaro l'11 aprile 1671 e di cui abbiamo parlato nel precedente incontro sul culto di san Sebastiano. In quella perizia, infatti, è scritto che «nel mezzo dell'habitatione della d.a Terra vi è la Chiesa Madrice, sotto il titolo dell'Assuntione, consiste in una nave maggiore, e due laterali, con l'altare maggiore tutto indorato, dove si conserva il Ss.mo con custodia con coro dietro; à destra dell'entrare inferiore è un altro superiore, che viene à stare all'incontro la porta della Chiesa per commodità, e fresco per l'estate con organo parte dorato, Campanile à sinistra dell'entrare di pietra del Paese con quattro campane, la maggiore delle quali è di cantara dodeci di peso [960 kg]». Da questa prima testimonianza ricaviamo alcune informazioni importanti: innanzitutto che la chiesa era simile a quella attuale ma aveva due altari, uno maggiore, posto nel presbiterio, e uno secondario, situato nei pressi della porta d'ingresso, dove, a servizio della liturgia, stava anche un organo. Il campanile, ieri come oggi, era posizionato a sinistra dell'ingresso principale, tanto che sulla parte bassa è incisa la data del 1589, che verosimilmente è la data di conversione di una torre medievale in campanile. La data epigrafica del 1589 sul campanile di Capracotta. Ora, però, vediamo quale era l'organizzazione cultuale del tempio capracottese, e dirò subito che la primitiva chiesa madre di Capracotta constava di 23 cappelle o altari dedicati ad altrettanti culti, quasi tutti giuspatronali, termine che in diritto canonico si riferisce al complesso di privilegi e oneri attribuiti ai fondatori e ai loro eredi. In seguito alla ricostruzione della chiesa nel primo '700, gli altari si ridussero ai 12 attuali, quattro sulla sinistra, quattro sulla destra, due in fondo alle navate laterali, uno nella cappella della Visitazione e Morte, ed uno infine nella cappella di S. Filomena. Luigi Campanelli disse che questi altari «ebbero nuovi patroni [in] buona parte differenti da quelli elencati nella Relazione Cafaro del 1671». Per quel che mi compete, mi limiterò a raccontare qualcosa soltanto di quelle cappelle, di quegli altari e di quei culti andati perduti durante il processo di trasformazione della Chiesa Madre a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. La cappella del S. Rosario Nel suo apprezzo, Cafaro scrive che « a sinistra dell'entrare vicino l'altare maggiore è la Cappella dello Ss.mo Rosario con Confraternita, li Fratelli della quale tengono obligo di far cantare li Sabbati di ogni mese le litanie, e per ogni prima Domenica di ciasched'uno Mese una messa cantata, e pagano al Clero docati sei l'anno ». Grazie a don Elio Venditti, ho ritrovato la pergamena con cui, il 16 aprile 1583, era nata a Capracotta la Congregazione del S. Rosario. Era stato l'inquisitore Tommaso Zobbio da Brescia, vicario dell'intero Ordo fratrum prædicatorum domenicano, a scrivere « manu propria » la bella pergamena con cui concedeva licentia  alla Confraternita di Capracotta, sesta tra le congreghe allora presenti nel tessuto civile e religioso della nostra cittadina. Nel manoscritto venivano concessi vari privilegi alla nostra confraternita, tra cui l'erezione di una cappella « sub dicto titulo beatæ Mariæ de Rosario » (= sotto il titolo della Beata Vergine del Rosario) all'interno di questa chiesa e di un altare nella cappella della Madonna di Loreto, per interposizione del magister Giulio Nelli da Pistoia, frate minore che evidentemente operava allora a Capracotta. Inoltre, ai confratelli capracottesi « utriusque sexus » (= di entrambi i sessi) venivano confermate le grazie, i privilegi e le indulgenze dei fratelli del grande ordine domenicano. La licentia prevedeva pure l'istituzione a Capracotta della festa del Rosario, da celebrare la prima domenica d'ottobre, in vista della quale venivano richieste, per decreto di Gregorio XIII, opere d'indulgenza atte a commemorare la vittoria di Lepanto del 1571 contro i Turchi. Al contempo, veniva proibita l'immagine di san Domenico, procrastinando la decisione a quindici anni dopo, in quanto l'iconografia del santo doveva essere sottoposta a scrupolosa « recognitione » (= revisione). Infine, frate Tommaso dispose che oqniqualvolta un domenicano si fosse trovato a Capracotta o all'interno delle sue chiese, gli si sarebbero dovuti riconoscere i medesimi privilegi e indulgenze. L'affresco della battaglia di Lepanto, opera di Giovanni Leo Paglione. Segnalo che una statua della Madonna del Rosario era presente in questa chiesa fino ai primi anni '60 e segnalo pure che il suo Bambino venne “prestato” alla statua della Madonna di Loreto nel 1981 e fino al 2017. La cappella dell'Annunciazione Continuiamo con gli altari presenti nella primitiva chiesa. Cafaro scrive che « appresso è la Cappella della Ss.ma Annunziata della Famiglia de Ianni », che oggi rivive esclusivamente grazie al bell'affresco realizzato dal maestro Leo Paglione. Era dunque quella la prima cappella di giuspatronato menzionata ed apparteneva alla famiglia Di Ianni: probabilmente si tratta degli eredi di Giambattista Di Ianni, un grosso imprenditore che, nel primo Seicento, si stabilì a Canosa, giungendo ad affittare i suoi magazzini alla Cattedrale di S. Sabino. Forse, fu proprio in virtù di questo suo trasferimento in Puglia se, a fine secolo, il Capitolo della chiesa decise di non rinnovare l'altare dell'Annunciazione di Maria. La cappella dello Spirito Santo Proseguiamo: « appresso è la Cappella dello Spirito Santo della Famiglia Baccaro ». In questo caso si potrebbero raccontare tantissime storie legate ai Baccari, una delle famiglie più illustri del nostro paese, completamente estintasi dal tessuto di Capracotta. Tuttavia, sopravvive una certa suggestione relativa alla ex Cappella dello Spirito Santo. Difatti, se Agnone vanta eccezionali tempere sui soffitti lignei dell'ex convento di S. Francesco, Capracotta può dire la sua grazie a un soffitto ligneo di simile fattura che sovrasta il locale che porta al maestoso "Principalone". Il soffitto capracottese, meno raffinato ma più colorato di quello agnonese, ha un solo motivo iconografico: la colomba. Per la Bibbia questo uccello rappresenta lo Spirito Santo e possiede uno spessore simbolico assai ricco e profondo, rappresentando l'ipostasi cristiana più difficile da spiegare: lo Spirito Santo che è forza attiva di Dio all'opera. Una possibile conferma che quel soffitto fosse un tempo quello della Cappella dello Spirito Santo sta nel taglio subìto (con relativa rimodulazione dei pannelli), dimostrando che quella attuale non è la sua collocazione originaria. La famiglia Baccari, come anticipato, era talmente ricca da possedere un'altra cappella nella primitiva chiesa madre, quella di S. Caterina, protettrice dei mugnai. La cappella di S. Francesco Procedendo nella lettura della relazione Cafaro, si apprende che « appresso è la Cappella di S. Francesco della Famiglia di Renzo vicino il Fonte Battesimale ». In questo caso si è verificato un “trasloco” cultuale, con l'altare di S. Francesco d'Assisi che, dalla Chiesa Madre, è stato trasferito nella Chiesa di S. Antonio, dove tuttora resiste. La storia del francescanesimo a Capracotta è d'altronde molto lunga ed articolata, per cui meriterebbe un convegno ad hoc. Dirò soltanto che tanti di voi avranno notato, al civico 26 di via Roma, lo stemma dell' Ordo franciscanus sulla chiave di volta di un arco che in passato rappresentava l'ingresso a un edificio della confraternita di san Francesco. Esso rappresenta chiaramente due braccia che si incrociano davanti la croce: gli avambracci sono quello nudo di Cristo e quello col saio di Francesco, giunti da un sacro vincolo al crocifisso che ne sigilla l'unione. Lo stemma francescano sulla chiave di volta. La cappella dei Ss. Innocenti Da questo punto in poi i culti presenti nella vecchia chiesa madre di Capracotta cominciano a sbiadire davvero, e risultano quasi irrintracciabili nel terzo millennio, così come le famiglie che ne detenevano il giuspatronato. È il caso de « la Cappella delli Ss.ti Innocenti della Famiglia de Bucci »: i Santi Innocenti Martiri sono bambini di età inferiore ai due anni che vennero uccisi per ordine di Erode a Betlemme, nel tentativo di eliminare il neonato Gesù, come narrato nel Vangelo secondo Matteo. La Chiesa cattolica li commemora il 28 dicembre, ma non ho alcuna informazione in grado di legare la famiglia Di Bucci a questo antico culto. La cappella della Pietà Lo stesso discorso vale per « la Cappella della Pietà della Famiglia de' Renzi ». Anche in questo caso, come per san Francesco, è possibile che sia avvenuto un "trasloco" devozionale dalla Chiesa Madre alla Chiesa di S. Antonio, nei cui magazzini risiede l'unica timida testimonianza di questo culto, una modesta oleografia della Pietà risalente al XIX secolo, probabilmente copia di una ben più celebre tela di epoca barocca. La famiglia che ne deteneva il giuspatronato non va confusa con i De Renzis - che giungeranno a Capracotta solo nel 1887 - bensì trattasi probabilmente di un altro ramo dei Di Rienzo, proprio coloro che trasferirono nella Chiesa di S. Antonio l'altare di S. Francesco d'Assisi. La cappella di S. Leonardo « Appresso è quella di S. Lonardo della Famiglia Carfagna »: qui è notte fonda. Il fatto che la famiglia Carfagna, sul finire del Cinquecento, emigrò in massa verso altri paesi, è probabilmente il motivo per cui la cappella di S. Leonardo non venne riconfermata nella Chiesa Madre del Piazzoli. La cappella di S. Maria degli Angeli Anche « l'altare di S. Maria degli Angioli della Famiglia Tartaglia » è sparito tra le pieghe del tempo, il cui culto resta vivo solo in Agnone, precisamente a Fontesambuco, dove ogni anno, il 2 agosto, viene portata in processione una statua della Vergine Maria. La cappella di S. Carlo Avvicinandoci al presbiterio, leggiamo che « a destra dell'altare maggiore è la Cappella di S. Carlo, ch'è dell'Università ». Carlo Borromeo (1538-1584), nominato cardinale da Pio IV, fu arcivescovo di Milano durante i terribili mesi della peste del 1576-77, chiamata per l'appunto "peste di San Carlo". La presenza del suo culto non deve sorprendere, perché fu uno dei maggiori patrocinatori del Concilio di Trento, le cui riforme erano condivise dalle alte sfere diocesane di Trivento. Egli è inoltre il protettore dei seminaristi, il che fa supporre che nel Seicento, gli allievi del ginnasio francescano di Capracotta, lo invocassero in vista degli esami più duri. La memoria del suo culto resta impressa nel medaglione di destra sull'altare di S. Anna. La cappella della S. Trinità Prima di parlarvi del prossimo altare, dirò che dai regesti del notariato frentano del XVII secolo ho estratto un testamento davvero curioso, datato 10 aprile 1617 e firmato da Laura Carnevale di Capracotta, vedova di Marco Antonio Coccio di Sant'Angelo del Pesco. Nel suo testamento, Laura disponeva che alla sua morte gli eredi innalzassero nella chiesa madre di S. Angelo del Pesco una cappella dedicata alla Santissima Trinità. In realtà, però, Laura era alla seconda vedovanza, perché in prime nozze aveva sposato un capracottese, Lazzaro Di Bucci, che diversi anni prima aveva patrocinato una cappella nella chiesa di Capracotta. Nel suo testamento, però, la signora chiedeva l'annullamento della donazione fatta dal primo marito al clero di Capracotta, cioè quando Lazzaro Di Bucci aveva elargito 400 ducati a don Prospero Carfagna, canonico di S. Maria. Laura ne aveva già parlato col vescovo di Trivento, il francescano Paolo del Lago, e la sua richiesta era dettata dal fatto che « la volontà de Lazzaro de Buccio suo primo marito [...] di lasciare ogni cosa alla Chiesa non fu vero, atteso che li preti di Capracotta lo sedussero a far fare detta declaratione et fu ingannata ». Quasi certamente, fu per questo motivo che il clero non riservò un nuovo altare alla Trinità della famiglia Di Bucci. La cappella del Crocifisso Un altro esempio di scomparsa cultuale e familiare è quello della cappella « del Crocefisso, [che] fù della Famiglia Pede, hoggi dell'Università ». Se nel tardo Seicento il giuspatronato su quella cappella era passato all'Università di Capracotta, significa che i Pede aveva lasciato già da tempo il nostro paese. La cappelle mariane Ora arriviamo ad un punto particolare della narrazione, perché nella relazione Cafaro si legge che « nella nave maggiore sono quattro Cappelle, una delle quali è della famiglia Pettenicchio, sotto il titolo di S. Maria della Pietà, e S. Francesco de Paola ». Se il culto per questo francescano è rimasto vivo nei locali della ex congrega va invece sottolineata la questione inerente alle quattro cappelle posizionate nella navata centrale, facendo presagire forme architettoniche quantomai ampie, poiché se la primitiva chiesa madre, come detto in apertura, aveva anche due navate laterali, allora dobbiamo immaginarla grande almeno come quella attuale ed inoltre arricchita di cappelle e di altari sia lungo il perimetro che al centro del tempio stesso. Seguono poi altre tre cappelle con dedicazioni mariane: la prima era situata « più abasso, verso la porta è la Cappella della Famiglia di Maio sotto il titolo di S. Maria di Monte Vergine, et di S. Vito »; poi « all'incontro è la Cappella di S. Maria di Costantinopoli della Famiglia Carnevale »; ed infine « vi è un'altra sotto il titolo di S. Maria della Consolatione Juspatronato della Famiglia Carfagna, la maggior parte delle quali Cappelle sono indorate ». Tutte queste intitolazioni sono pressoché scomparse nel nulla. Riguardo alla prima delle tre possiamo ricordare che il capofamiglia Giuseppe Di Maio divenne nel 1701 governatore della Terra d'Iliceto, per cui, trasferendo l'intera famiglia a Deliceto, probabilmente non si vide riconfermare l'altare della Madonna di Montevergine. Conclusioni La Chiesa Madre di Capracotta. Concludendo, è possibile affermare che la primitiva chiesa madre di Capracotta rispecchiasse lo straordinario fervore religioso del XVI e XVII secolo, fervore che caratterizzò la Chiesa di Roma sia all'interno che all'esterno, e che nei fatti si tradusse nel desiderio di rinnovamento religioso, spingendosi fino al dissenso e alla riforma protestante. Sulle alture di Capracotta, invece, quella ricchezza di culti è testimone della ricchezza delle confraternite e di molte antiche famiglie del luogo – Baccari, Carfagna, Di Ianni, Di Maio, Pede, Pettinicchio, Tartaglia ecc. Tuttavia, la mancata riconferma dei culti e dei giuspatronati della vecchia chiesa, così come la comparsa di nuovi culti e giuspatronati nella Chiesa Madre odierna, testimonia anche il ricambio generazionale di queste famiglie, passate da un'economia puramente feudale ad una mercantile, prova ne siano gli stemmi araldici presenti oggi: Campanelli, Carugno, Castiglione, Conti, D'Andrea, Falconi, Mosca. La Chiesa Madre di Capracotta, insomma, trecento anni fa come oggi, è testimone attenta del dinamismo della nostra comunità. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, La chiesa collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Soc. Tip. Molisana, Campobasso 1926; L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Antoniana, Ferentino 1931; G. Carugno, La Chiesa Madre di Capracotta , S. Giorgio, Agnone 1986; C. Marciani, Regesti marciani: fondi del notariato e del decurionato di area frentana (secc. XVI-XIX) , voI. I, Japadre, L'Aquila 1987; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; E. Novi Chavarria e V. Cocozza, Comunità e territorio. Per una storia del Molise moderno attraverso gli apprezzi feudali (1593-1744) , Palladino, Campobasso 2015; G. Riva, La colomba, segno dello Spirito Santo , in «Avvenire», Milano, 5 giugno 2014; P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant'Ufficio ai tribunali di fede di Napoli: 1563-1625 , Ist. italiano per gli Studi filosofici, Napoli 2002; F. Valente, Luoghi antichi della Provincia di Isernia , Enne, Bari 2003.

  • Amarcord: "Sul filo della memoria" di Domenico D'Andrea

    Domenico ( Minguccio ) D'Andrea era il fratello anche di Concettina (cugini di mia moglie Antonia), parente di Marino D'Andrea, di cui era pure amico, e cugino di Edoardo Angelaccio. Domenico, dopo le elementari frequentate a Capracotta, va in Agnone, ospite di Edoardo, e frequenta la scuola media. A diciotto anni prende il diploma magistrale a Pescara, divenendo, dopo parecchi anni, molti incarichi e supplenze, maestro elementare di ruolo, insegnando, dopo tanti trasferimenti, anche a Capracotta. Più tardi si trasferisce, con la sua famiglia, a Roma, dove termina la sua carriera scolastica. Il periodo vissuto a Capracotta lascia in Domenico un profondo segno, da cui trarrà, in seguito, profonda ispirazione per i suoi racconti. La stesura dei suoi ricordi comincia - mi pare - proprio a Roma. Domenico scrive per diletto, i racconti portano varie date, sono scritti in diversi anni e sono relativi a circa duecento tra persone e personaggi capracottesi, arricchiti dagli "schizzi" particolari del suo paese, fatti da lui con inchiostro di china! Nel 1986 Domenico dedica alcune pagine a Marino D'Andrea, nel ventesimo anniversario della sua morte. Tutto il materiale da lui scritto viene, in seguito, custodito dalle sue figlie. Nel 2016 Ermanno, figlio di Marino, ottiene dalle figlie di Domenico i suoi scritti e provvede alla pubblicazione del libro, nel cinquantenario della morte di Marino. Molto di quanto sto dicendo l'ho desunto dalla presentazione al libro, scritta da Vincenzino Di Nardo ( Zi' Checco ), amico di Ermanno, il quale, tra l'altro, ha realizzato a Capracotta la casa di riposo per anziani "S. Maria di Loreto". Non potendo parlare di tutti i personaggi presentati nel libro, mi limito ad illustrarne solo due: Marino D'Andrea l'inventore ed Edoardo Angelaccio il novellatore. La prima storia, che è di uomini, di idee, di lavoro, di macchine, di sacrifici, di sconforti e di slanci, è tessuta con materiale di prima mano. Le lettere scritte da Marino a Peppina, prima da fidanzato e poi da marito, e a suo padre - zio Colitto -, esprimono sentimenti e raccontano fatti da lui vissuti mentre era molto impegnato nella realizzazione di una sua brillante idea, d'ordine meccanico, nel contatto diretto con le macchine ed i metalli. La storia è stata pubblicata in omaggio alla sua memoria, nel cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, con l'intento di ricercare le vie attraverso le quali egli pervenne ad attuare il suo geniale e ambizioso progetto. Marino fu l'inventore geniale di un congegno meccanico prodotto in proprio ed esportato in tutto il mondo! I tentativi di copiarlo, nei paesi asiatici, sono falliti! Quel congegno, adeguato e computerizzato, insieme ad altri brevetti della D'Andrea S.p.A. è sul mercato mondiale! Per quanto riguarda la seconda storia, in attesa dell'arrivo della televisione, a Capracotta, i bambini e non solo, invece di vedere "Carosello", ascoltavano il "novellatore". Lui era Edoardo Angelaccio, muratore, che, d'inverno, in paese, si riposava forzatamente. «Quando la tormenta ci tappava in casa – scrive Domenico – noi ragazzini non ci preoccupavamo, avendo la casa i suoi ampi spazi che ci permettevano di giocare a nascondino. Eravamo sette o otto fra cugini e cugine , tutti della prima età. Di rado il portone di casa si apriva e quando succedeva, si sentiva il pestare dei piedi per scrollarsi la neve dalle scarpe. Noi bambini accorrevamo per vedere chi fosse, sperando che si trattasse della persona tanto attesa: il novellatore » . Lui leggeva romanzi storici e cavallereschi da cui traeva materia per i suoi racconti. Quando "faulava" l'uditorio pendeva dalle sue labbra. Il fatto narrato, spesso, si riduceva a poca cosa, ma Edoardo sapeva abbellirlo e colorarlo. Appena arrivava, tutti eravamo felici, si attizzava il fuoco, si faceva cerchio e l'incanto cominciava. Quando Edoardo doveva andare via, fermava il racconto e diceva: – Lasciamolo dormire, domani riprenderemo a mente fresca. Tra le donne, la migliore novellatrice era Consiglia D'Andrea, cugina di Minguccio. Chiedo scusa agli autori dei libri esaminati, ai loro parenti e ai lettori, di questo mio "Amarcord" realizzato in forma artigianale, manoscritto da me con grafia condizionata dalle cataratte. Per saperne di più bisognerebbe leggerlo! Tonino Serafini

  • Amarcord: "I fiori del paradiso" di Domenico Di Nucci

    Domenico Di Nucci (anch'egli Minguccio) era un capracottese trapiatanto, da bambino, in Agnone, al contrario mio (agnonese trapiantato a Capracotta): entrambi fortemente legati al proprio paese di origine. Il libro "I fiori del paradiso" è pieno di nomi, fatti, foto e ricordi della infanzia di Domenico, delle sue difficoltà ad ambientarsi in Agnone, poi lo studio, la sua partecipazione alla vita giovanile agnonese, in seguito la laurea, l'insegnamento scolastico, il matrimonio e l'adattamento totale, scrivendo alcuni libri, compreso questo, in cui sono citate decine di parenti, antenati e collaterali, essendo i Di Nucci - si potrebbe dire - un clan! Minguccio va ricordato anche per essere stato, in età matura, il fondatore dell’associazione culturale "Amici di Capracotta". Tra le molte foto contenute nel libro in esame, voglio mostrarne una, oltre a quella del fiore che ha dato il nome all’opera, cioè il trasporto forzoso del corredo della sposa (la dódda ) dalla sua casa fino a quella dello sposo, non in canestri infiocchettati portati sulle teste di comari ed amiche, ma, a causa della neve che impedì il corteo, adagiata sulla traglia , una specie di slitta tirata da buoi infiocchettati. Il trasporto del corredo di zia Nina. La dódda  trasportata era quella di Nina, cugina di mia moglie Antonia, diretta alla Fundióne , a casa dello sposo Michele Di Nucci, zio di Minguccio. Franco Di Nucci, che ha scritto la prefazione al libro, parente di Domenico, anch'egli trapiantato in Agnone, dopo la laurea decise di continuare l'attività di famiglia: lavorare il latte. I suoi prodotti hanno vinto parecchi concorsi, anche internazionali. Franco ha realizzato, in Agnone, anche un moderno caseificio. Zio Mario Di Nucci, uno degli otto fratelli del padre di Domenico, da giovane fu incluso nella squadra nazionale di sci delle Fiamme Gialle. Per la sua bella carriera sportiva, Capracotta ha intestato a lui la pista di sci di fondo di Prato Gentile che ha ospitato gare nazionali ed internazionali. Chiedo scusa agli autori dei libri esaminati, ai loro parenti e ai lettori, di questo mio "Amarcord" realizzato in forma artigianale, manoscritto da me con grafia condizionata dalle cataratte. Per saperne di più bisognerebbe leggerlo! Tonino Serafini

  • Storia dell'organo (XI)

    L'organo degli eroi nella fortezza di Kufstein. Con me porto la chitarra e se la notte piangerò, una nenia di paese suonerò... ["Che sarà", 1971] Abbiamo visto quasi di veloce passaggio come nel Nord America il "culto" dell'organo, tranne rari casi non fece presa, come in Europa. Un esempio, ai nostri giorni, lo possiamo ravvedere nel film "Sister Act", dove il grazioso coro delle suore è accompagnato da una suora scatenata alla tastiera di un pianoforte mentre un poderoso strumento a canne langue nella polvere su una grande balconata: ottima coreografia, ma tutto lì. In verità questo succede anche in molte chiese italiane con splendidi strumenti abbandonati a far da tappezzeria in favore di tastiere elettroniche e sconcertanti schitarrate. La stessa figura dell'organista spesso viene presentata tramite la figura della stravagante vecchia maestra di musica del villaggio con l'apparecchio acustico e l'immancabile con vestito a fiori con il collo di pizzo ed un repertorio da far rizzare i capelli! Però la sensibilità nordamericana, più ad agio con il rock'n'roll che con la musica organistica, subì un deciso scossone anche grazie all'opera di Virgil Fox (1912-1980). Appassionato e virtuoso dell'organo fin dalla giovanissima età, studiò dapprima in USA sotto la guida del tedesco Wilhelm Middelschulte; poi, trasferitosi in Francia, ebbe come insegnanti anche Marcel Dupré e Louis Vierne. Fu il primo organista non europeo ad esibirsi in concerto nella Thomaskirche di Lipsia (che per gli organisti è l'equivalente della Basilica di S. Pietro per i cattolici) dove Bach fu Kantor fino alla sua morte e dov'è sepolto. Tornato in patria dopo un periodo come organista della Riverside Church di New York iniziò la carriera concertistica itinerante nei teatri e negli auditoria con un enorme organo elettronico Allen progettato su misura. Il format definito heavy organ si basava sulla esclusiva interpretazione delle opere di Bach associate ad un colossale light show , che portò la musica organistica ad essere un fenomeno di massa anche con esibizioni televisive come mai nessuno aveva fatto prima. Anche se le sue interpretazioni non furono mai considerate "ortodosse" sia come velocità esecutiva che con le registrazioni adottate, Fox aiutò l'organo americano, fino ad allora relegato a fenomeno teatrale e di impiego in liturgia su schemi romantici e fondamentalmente di accompagnamento, ad uscire da questo strano limbo anche grazie a continui scambi culturali che si svilupparono tra gli organari americani ed europei con la realizzazione di strumenti con struttura fonica più classica. Nonostante, o forse proprio per questo approccio quasi eretico all'organo, Virgil Fox raggiunse una notorietà pari a quella di Leonard Bernstein e Glenn Gould, apprezzato anche da chi non ci si aspetterebbe mai di vedere seduto in una sala da concerto. E con lui il mondo dell'organo. Dalla danza sfrenata dei pensieri che ogni tanto prendono il sopravvento nella mia quotidianità, spesso emerge il ricordo nostalgico delle escursioni giovanili nelle mattine estive di Capracotta, quando il sole caldo alzava dall'erba ormai secca il profumo dolciastro ed avvolgente dell’estate mentre il fruscio del vento faceva da sottofondo al ronzìo degli insetti e al suono quasi irriverente dei campanacci delle mucche scapelàte (sciolte). E puntualmente l'attenzione veniva richiamata dai soffusi rintocchi del campanile della Chiesa Madre. Mezzogiorno... appena ascoltato il segnale orario scandito dalla radiolina sul camino, zia Carmela la sagrestana, affacciatasi alla finestra della sua casa in cima alla Terra Vecchia, strattonava l'ormai proverbiale fune che, saldamente ancorata ad un angolo del davanzale, scavalcando la strada e la scalinata del sagrato, saliva vertiginosamente verso la cella frontale del campanile per collegarsi al batacchio della campana maggiore che così poteva far udire la sua voce nel circondario. I più anziani ricorderanno che allora il "ceppo" della campana maggiore era fatto di legno e verniciato di rosso. Contemporaneamente a migliaia di chilometri di distanza alla stessa ora a quel tempo, ma accade ancora oggi, il mezzogiorno era salutato dal suono di un organo! Che tu sia un abitante dedito al proprio lavoro, un viandante, un turista a zonzo per il paese, un escursionista immerso in una camminata nei boschi, a Kufstein in Austria e precisamente nel Tirolo, a mezzogiorno, e per almeno venti minuti, puoi ascoltare il suono dell’organo all’aperto più grande del mondo. La maestosa torre della fortezza di Kufstein ospita infatti uno strumento di 46 registri disposti su quattro manuali e pedaliera per un totale di 4.307 canne: die Heldenorgel (l'Organo degli Eroi). Fu costruito nel 1931 dall'organaro Oscar Walcker in memoria di tutti i caduti della Grande Guerra. Nelle giornate estive si può ascoltare anche alle 18:30 e la sua voce arriva chiara anche a dieci chilometri di distanza! Da ormai quasi cento anni gli organisti titolari propongono svariati pezzi classici e popolari ma ogni concerto termina rigorosamente con il brano "Der Güte Kamarad" (Il buon commilitone) chiamato anche "Ich hatte ein Kamaraden" (Io avevo un commilitone): nenia il cui testo fu scritto nel 1809 da Ludwig Uhland e musicata nel 1825 da Friedrich Silcher. Un'elegia commovente per commemorare la scomparsa di un commilitone caduto in battaglia e parte integrante delle tradizioni militari tedesche. Dal 2017 l'Organo degli Eroi è considerato patrimonio immateriale Unesco e nel 2021 è stato eletto "Strumento dell'anno" dal Consiglio musicale dei Paesi di lingua tedesca. Ma anche il regno del freddo ha il suo organo! Il liutaio Tim Linhardt, che del ghiaccio ha fatto il suo materiale preferito, ha realizzato in Svezia all'interno del Jukkasjärvi Ice Hotel un organo fatto con 57 canne di ghiaccio. Successivamente, poiché il calore delle luci e dei visitatori arrecavano danno allo strumento, l’organo è stato costruito in un apposito ice dome interamente scavato nel ghiaccio, fatto a doppio igloo, con fondo ribassato e con aperture sulle cupole per favorire l’uscita dell’aria calda e mantenere la temperatura costante a -5 °C. Le esibizione dell’organo di ghiaccio sono spesso accompagnate da tutta una orchestra di strumenti fatti ovviamente con il ghiaccio! Un ultimo salto ci porta ad attraversare l'Atlantico e tutti gli Stati Uniti. Inaugurata nel 2003 su progetto di Frank Gehry, la Walt Disney Concert Hall , progettata per essere una delle sale da concerto più belle del mondo, e la cui struttura e caratteristiche particolari ne fanno il simbolo della cultura di Los Angeles, ospita uno strumento di 6.134 canne. La forma curva ed il colore delle canne lignee da 16 piedi poste in facciata ne fanno uno degli organi più stravaganti del mondo. French Fries è il nomignolo attribuito a questo strumento con fattura fonica tedesca: le canne sopramenzionate infatti ricordano delle lunghissime ed enormi patatine fritte inclinate fino a 30°. Peraltro sembra che un gigantesco petardo sia esploso in cantoria dopo il passaggio di un uragano! L'effetto è veramente spettacolare: costruito da Manuel Rosales, è sicuramente all'altezza del nome del grande creatore dell'amatissimo Mickey Mouse! Non è tutto e non sarà mai tutto. Ogni tanto arriva o spunta una notizia su questo mondo meraviglioso che ha da sempre accompagnato la storia dell'uomo. Per questo, volutamente, ho omesso di citare la bibliografia che sarebbe enorme. Molti argomenti sono stati semplificati per una migliore comprensione dai parte dei profani a cui umilmente mi sono rivolto. Il web diventa, per chi vuole, un vasto territorio di "caccia" e i curiosi saranno accontentati e forse stimolati a cercare ancora. Io stesso in questi giorni passati a scrivere ho appreso informazioni che ignoravo totalmente e che immediatamente sono stato felice di condividere. E di questa attenzione ringrazio chi mi legge e "Letteratura Capracottese" che dà voce a queste scombiccherate righe. Francesco Di Nardo

  • Storia dell'organo (X)

    L'organo marino di Zara. Siate viandanti... [Vangelo di Tommaso] Ciascuno di noi, al di là del Credo e delle Confessioni, ha una personale idea di Dio, ma vi sareste mai avventurati nel pensare ad un Padreterno organista? Ebbene, c'è chi lo ha fatto! Athanasius Kircher (1601-1680) gesuita, professore di filosofia, matematica e fisica, studioso di lingue orientali, musicista ed inventore ebbe questa idea che espose nel colossale trattato "Musurgia Universalis" (1650) dove paragona tutto il cosmo ad un organo e dove ogni elemento in natura è interconnesso in una sinfonia divina. Nel trattato, che parte dalle origini della musica e si dipana in tutte le speculazioni sulla teoria musicale e sugli effetti della musica sull'animo umano, Kircher descrive Dio, Supremo Organista e Sommo Organaro, che costruisce dalle acque primordiali uno strumento di sei registri, ordinando la materia e il suono. Quindi con sei preludi, uno per ciascun giorno della Creazione, e suonato con l'apposito registro, dà origine a tutto l'universo. Questo trattato analizza inoltre tutti gli strumenti musicali, la diffusione del suono nelle stanze degli edifici e tutti gli stili compositivi, le sequenze musicali rapportate alle parole e ai ritmi e descrive una macchina ( arca musorithmica ) ad uso delle persone prive di conoscenze musicali che mediante combinazioni matematiche tuttavia consente di comporre inni sacri: un antesignano della musica digitale! Probabilmente, è dal pensiero di Kircher che molti autori hanno derivato il concetto di sacralità dell'organo poiché unico strumento riproducente il suono della Creazione. Aggiungerei che lo studio della matematica, della fisica e della filosofia era un bagaglio fondamentale per tutti i musicisti del passato: l'analisi dei brani del passato ci consente di osservarne l'andamento melodico ed armonico voluto dal compositore ma anche un linguaggio matematico e spesso visivo legato al simbolismo in essi racchiuso ma anche legato alla fisica dello strumento di destinazione. Per assurdo Leonardo da Vinci (1452-1519) era conosciuto e richiesto ai suoi tempi presso le corti più importanti più come musicista che come inventore e pittore e fu tra i primi compositori ad avvalersi della scrittura musicale su pentagramma. E matematica e fisica, oltre alle scienze umanistiche, un giovanissimo Johann Sebastian Bach (1685-1750) studiò durante la sua permanenza nel collegio di Lüneburg. Lo stesso Galileo Galilei (1564-1642) fu un importantissimo teorico musicale. Scienza ed arte hanno dato origine a musiche eterne: le spalle dei giganti su cui oggi ci innalziamo. E pare ci fossero anche organi lacustri... Tale notizia deriva dalla scoperta delle famose navi romane affondate nel lago di Nemi. Volute dall'imperatore Caligola (I° sec. d.C.) e recuperate nel XX secolo, si reputa fossero destinate ad un uso prettamente ludico e di intrattenimento per la corte imperiale, palazzi galleggianti dotati di soluzioni ingegneristiche di altissimo livello e materiali decorativi di squisita fattura. Tuttavia da alcuni spunti e tracce si sospetta potessero avere a bordo degli hydraulos , o strumenti a mantice, che, come abbiamo visto già in precedenza, erano molto diffusi nella Roma imperiale. Ma vi sono anche studi e pubblicazioni indicanti le stesse navi quali enormi organi idraulici, appendici della corte di Caligola e inseriti in uno spettacolare teatro naturale quale era ed è il lago. Interessantissima la ricostruzione del probabile sistema di alimentazione e funzionamento di questi mirabili "organi galleggianti". Purtroppo la damnatio memori æ seguente alla caduta dell'imperatore ne decretò l'abbandono o la distruzione e il conseguente affondamento. Aria, acqua, fuoco e terra: gli elementi primordiali della natura celebrati dai filosofi greci, ricorrenti anche nelle tavole astrologiche e nei trattati alchemici. L'aria è il soffio vitale onnipresente dell'organo e in passato l'acqua ne era parte del funzionamento. Ma vogliamo parlare del fuoco? Vi accontento subito! Il pirofono, o organo del fuoco, strumento di grande suggestione e variante ai canoni classici fu ideato dal fisico e musicista alsaziano Frédéric Kastner (1852-1882) e brevettato nel 1874. Consiste in una serie di canne di varia lunghezza, fatte di vetro, in cui la combustione di gas genera una serie di singole fiammelle che, premendo il tasto collegato a ciascuna canna, si frammentano creando così delle vibrazioni generanti il suono. Al rilascio del tasto la relativa fiammella torna ad essere unica e il suono si interrompe. Chi ha avuto modo di ascoltare questo strumento ha parlato di una esperienza stravagante fatta di suoni simili alla voce umana e di una bellezza eterea. Altri "strumenti" ad effetto prevalentemente teatrale e scenografico, e quindi di scarsissimo interesse musicale, sono costituiti da pochi tubi metallici che, azionando i tasti corrispondenti, fanno sprizzare delle fiammate in stile lanciafiamme mentre il suono viene generato mediante modalità che però nulla hanno a che fare con il fuoco. Torniamo verso la terra, la pietra... Nelle Luray Caverns (Virginia, USA) sorge il litofono, o grand stalacpipe organ : l'organo delle stalattiti! In questa caverna, scoperta nel 1878, gli studiosi osservarono che percuotendo delle stalattiti in alcune formazioni calcaree precise, venivano emesse delle vere e proprie note musicali. Durante un'escursione con la famiglia, Leland Sprinkle, matematico, ingegnere elettronico e musicista, ebbe l'idea di costruire uno strumento la cui consolle comandasse dei martelletti elettrici atti a colpire, senza recare danno, delle stalattiti accuratamente selezionate e calibrate. Con l'aiuto della Klam Organ Supply , tra il 1956 e il 1959 sorse questo stranissimo strumento che si distende su circa 14.000 metri quadrati nel sistema di grotte della Luray Cavern. L'acustica della caverna gioca un ruolo particolare nella diffusione del suono, simile a campane ovattate, che viene modulato ed amplificato con un effetto sonoro avvolgente e indimanticabile. Un organo a canne nella pietra viene menzionato dalle cronache italiane come in corso di realizzazione (2023) ad opera della Bottega Organaria Pinchi (Trevi) nella antica cava di Cursi (LE), trasformata in auditorium e laboratorio musicale. Il progetto, chiamato "Petra sonante", consiste in una torre di 35 metri di altezza contenente 234 canne dissimulate nei muri. È un organo "diffuso": interazione simbolica tra la storia della musica e il leggendario lavoro dei Maestri Cavatori che hanno reso possibile tutte le magnifiche strutture architettoniche leccesi. E quando l'organista è il mare? A Zara (Croazia) una curiosa struttura architettonica, posta sulla banchina nord del centro storico (Nova Riva) e a foggia di scalinata degradante verso il mare, nasconde 35 canne di diversa forma, lunghezza ed inclinazione. L'organo marino ( morske orgulje ) ha visto la luce nel 2005. Il moto ondoso dell'acqua, spostando l'aria, produce suoni continuamente diversi e modulati secondo sette accordi e cinque tonalità. I terminali delle canne (fatte di materiale sintetico) e la cassa armonica sono posti nei buchi del gradino più alto. Struttura analoga, ma un po' più grande e meno ordinata, sorge dal 1986 nella San Francisco Bay: il wave organ (organo delle onde), mentre a Blackpool (Regno Unito) si può ammirare l' high tide organ (l'organo dell'alta marea). Una torre di 15 metri traduce in musica le maree: in sostanze si attiva mano a mano che si alza il livello del mare fino al momento culminante: circa una o due ore prima che si completi l'alta marea. E quando il vento stesso vuol diventare "vento organario", ci viene in mente il singing ring tree di Burnley (Regno Unito), sui monti del Lancashire. Un sistema di canne in acciaio zincato, alto tre metri, saldate in orizzontale dalle più corte in basso alle più lunghe in alto e disposte a spirale sul piano trasversale. Costruito nel 2006 traduce in musica le raffiche di vento che in questi monti raggiungono anche velocità di 170 km/h. A Seattle (USA) il sound garden traduce in musica il moto ventoso con delle canne montate su dodici torri di acciaio e sfruttando il principio del flauto di Pan. Opera del 1982, si può definire il capostipite di tutti i sound gardens attualmente esistenti. Appuntamento per altre curiosità stravaganti e divertenti, ma nel frattempo... pensate a cosa succederebbe con un Monteforte Sound Tree , installato accanto al parco eolico di Capracotta, specialmente durante le nostre proverbiali bufere invernali! Cala il vento nella valle, la campana suona ancora, mentre il sole se ne va... [Schola Cantorum, 1975] Francesco Di Nardo

  • Relazione storica sulla chiesa matrice di Capracotta

    Elenco ufficiale degli abbonati Telecom del Comune di Capracotta (1995). Il mio ringraziamento va ai convenuti, alle autorità civili e religiose, all'Amministrazione comunale da cui ho ricevuto il graditissimo invito a parteciparVi questa breve e spero non noiosa dissertazione. Il ringraziamento più sentito, comunque, deve andare alla Telecom Italia la cui iniziativa è stata l'evento fonfamentale senza il quale questa serata non avrebbe mai avuto luogo. Salda sulla roccia stai, Chiesa dei miei padri, io, ramingo vado sempre per il mondo, simile a foglia staccata dal mio ramo. Sbattuto dai venti della vita, sogno l'intreccio delle tue radici come braccia di madre congiunte nell'attesa. Così un poeta capracottese (don Michele Di Lorenzo, NdR ) ebbe a dire della nostra bella Chiesa Madre ed oggi parleremo di essa consci del valore artistico, ma anche affettivo, di questi sacri luoghi certi che alla rinascita economica di un popolo deve necessariamente preludere la rinascita culturale intesa anche come memoria storica, pena lo svilimento di ogni sacrificio e la perdita di tutti i valori ed i punti di riferimento. La Chiesa Madre Collegiata di Capracotta sorge sulla parte più elevata del centro urbano, territorio chiamato dai locali "Terra Vecchia", cioè sede del primo insediamento di genti in questi luoghi. Tale nome risulta frequente presso le popolazioni molisane: Terravecchia è definito anche, ad esempio, il luogo sede del primo insediamento sannitico di S æ pinum. Con buona approssimazione l'area della attuale Chiesa fu sempre destinata ad uso sacro: la Chiesa rinascimentale che la precedette sorgeva sulla stessa roccia. Tracce di essa rimangono anche nell'attuale edificio: i portali del campanile, su uno dei quali si nota un pregevole bassorilievo raffigurante il Cristo albero della Vita; i muri adiacenti alla torre, sede della legnaia della Chiesa barocca, il portale della cappella della Visitazione, le muraglie interne dell'attuale campanile dove sono ancora presenti le antiche buche delle campane. Anche il Battistero, pregevole opera in noce decorato a foglie d'oro, restaurato nel 1980, ed il fonte battesimale in pietra locale sono sicuramente riconducibili alla chiesa arcaica. Nel libro delle memorie ci sembra di intuire un suggestivo episodio: il Consiglio della Università (così era allora definito il comune) si riunì sul luogo della erigenda Chiesa per stabilire il trasloco dello stemma in pietra di Capracotta dal vecchio al nuovo edificio stabilendone la collocazione nel sito dove ora lo ammiriamo: il pilastro posto a sinistra dell'altare maggiore. La chiesa diveniva pertanto non solo luogo delle funzioni sacre ma il custode del simbolo più alto di tutta una comunità e dunque tutrice delle sue tradizioni. Nel 1673 la chiesa antica disponeva di tre navate, un altare maggiore e venti altari collaterali, un organo in "parte dorato", un campanile con quattro campane ed era anch'essa dedicata all'Assunta. Due gli eventi scatenanti la ormai già presa decisione di un suo rinnova: la peste del 1656 che falciò 1.126 persone su una popolazione di circa 2.000 abitanti e l'invasione dei briganti del 9 luglio 1657 che, dopo aver saccheggiato l'intero paese, uccisero l'anziano sacerdote mentre celebrava la messa. Nacque così, su progetto del lombardo Carlo Piazzoli, il nuovo edificio barocco, a tre navate, lungo 35 metri e largo 18 al transetto, con una cupola la cui sommità venne posta a 15 metri e mezzo. Le mura risultarono spesse da uno a tre metri in arenaria e malta. Le capriate a sostegno del tetto costarono la distruzione di una intera foresta di abeti sita a nord del paese. La facciata, in pietra locale ai cui lati erano previste delle statue, come anche sul basamento previsto sopra le scale del sagrato, fu alta 9 metri e larga 20, orientata a sud-est. Venti metri il dislivello tra le mura ad ovest e i contrafforti posti ad est. Il primo altare maggiore venne benedetto nel 1723 mentre tutto l'edificio venne consacrato nel 1725. Il definitivo assetto architettonico tuttavia si compì tra il 1749 e il 1757. Gli artigiani Del Sole di Pescocostanzo realizzarono gli stucchi dorati in oro zecchino che però, deterioratosi, fu sostituito con porporina alla fine del XIX secolo. Il colore antico delle pareti fu azzurrino. Il tocco civettuolo venne dalle delicate figure degli angeli che, in numero di quaranta, fanno capolino da ogni dove, reggendo anche dei medaglioni dorati dedicati a vari santi. Gli altari del transetto, sullo stile del Borromini, dedicati all'Assunta ed a san Sebastiano, patrono della comunità, vennero realizzati il primo dal Piazzoli medesimo, e l'altro da Mattia Pizzella. Il Colombo, autore del gruppo ligneo della Visitazione, il cui disegno o modifica viene attribuito a Francesco Solimena, realizzò anche l'altare della Immacolata che è l'unico in legno. Altre opere pregevoli comparvero numerose, contrariamente alle affermazioni fatte da alcuni critici: il dipinto dell'Ultima Cena posto sotto l'organo ed anch'esso ricondotto al Solimena autore di un altro olio collocato sopra l'ingresso oggi purtroppo scomparso, il pregevolissimo coro ligneo dorato con i suoi 17 stalli, simbolo del benessere e dell'autorità del Collegio, l'olio del XVIII secolo posto sopra il battistero raffigurante sant'Anna con Maria bambina. Un cenno merita un delicato tondo ad olio conservato in Sacrestia raffigurante la Natività, sicuramente attribuibile ad autore locale del XVIII secolo, parte centrale di una tela più grande distrutta dal tempo, con figure dalle fattezze aggraziate, dolcemente illuminate dalla luce che si irradia dalla figura del bambinello. Una graziosa pittura floreale con colomba, allegoria dello Spirito Santo, compare al di sotto delle rozze e consunte scale di accesso alla cantoria. La definitiva consacrazione si svolse il 14 settembre 1725 dopo alterne vicissitudini con la curia triventina: l'allora vescovo non aveva perdonato alle confraternite capracottesi il fermo contrasto ai suoi tentativi di intromissione nella gestione dei cospicui patrimoni laici in loro possesso. Furono proprio questi patrimoni, messi insieme con notevole sforzo da tutta la comunità, che consentirono la costruzione della Chiesa e permisero la sua costante manutenzione e i continui abbellimenti. Il contrasto tra la curia e la parrocchia finì addirittura presso i tribunali di Napoli e di Madrid! Nel frattempo il novello altare venne benedetto il 23 dicembre del 1748. Il vescovo, benché messo alle strette anche dalla legge, proibì la consacrazione del fonte battesimale, si oppose alla benedizione dell'altare del santo patrono e, cosa inaudita, pose il veto all'uso delle cripte su cui poggiava l'edificio quali sepolture dei defunti. Il Campanelli, storico locale dei primi del Novecento, fa notare che allora il paese non disponeva di un cimitero. Questi veti vennero tolti nel 1749. Il contrato, tuttavia, terminò solo con l'avvento del nuovo vescovo. Nel 1754 l'officina di Biagio Salvati, napoletano, installò l'ennesimo altare maggiore, l'attuale, in marmo intarsiato con il tabernacolo sormontato da due angeli e il bellissimo paliotto raffigurante l'Assunta. La stessa mano realizzò anche la balaustra. Nel 1756 la Chiesa fu riconosciuta "Collegiata" e tale titolo, pur se effettivamente onorifico, durò con alterne vicende fino al 1867 quando con l'avvento del Regno d'Italia i patrimoni laici delle confraternite e del collegio vennero incamerati dallo Stato. Interessante, per i raffinati intenditori, è l'archivio storico delle pergamene: raccolta di bolle, atti, certificazioni di autenticità delle reliquie, corrispondenza tra la Collegiata e altre istituzioni, turnazione degli organisti e loro compensi per l'accompagnamento delle funzioni. Alcuni istromenti del XVI secolo sono scritti su pelle conciata. Cenno a parte merita l'organo. Costruito tra il 1750 e il 1779, dotato di 700 canne distribuite su dodici registri più contrabassi, è tra gli strumenti più pregevoli realizzati dalla famiglia D'Onofrio di Poggio Sannita. Ha forse inglobato in sé l'organo della chiesa arcaica. Altra ipotesi è che l'organo antico sia stato collocato nella cappella della Visitazione che infatti disponeva fino a tempi recenti di un proprio organo oggi scomparso. In particolare il progettista sarebbe Luca D'Onofrio che lo avrebbe battezzato con il nome di "Principalone" sia per le dimensioni che per la cospicua dotazione dei registri. Luca D'Onofrio avrebbe realizzato contemporaneamente anche il "medio", collocato nella Cattedrale di Trivento, ed il "principale", disposto nella chiesa di Poggio Sannita. I D'Onofrio realizzarono strumenti in Molise, Abruzzo, Campania e Puglia. La loro recente riscoperta ha permesso il recupero di strumenti di pregevolissima fattura e suono molto vivo. Il Principalone, in particolare, presenta una disposizione fonica particolarmente interessante dal punto di vista organologico, e potremmo definirlo uno degli strumenti più importanti dell'Italia Centrale. La cassa e la bella cantoria sono state realizzate da artigiani locali. Innumerevoli sono le generazioni di organisti, di cui è presente traccia sin dal 1645, che sì sono alternati alla consolle degli organi della Chiesa dell'Assunta e moltissime le composizioni di autori locali che si sono plasmarte sula disponibilità fonica di questi strumenti: non ultima la celebre "Pastorale" cara ai Capracottesi. L'antico organo pertanto si pone come opera d'arte forse la più bella di tutta la Collegiata, sicuramente la più grande, certamente l'ultima ancora da restaurare e conservare da un grave ed incombente degrado. In questa sede lanciamo l'ennesimo appello per una rapida risoluzione di questo annoso problema, tormentati anche da come si parli bene delle opere d'arte altrui e si tralasci di valorizzare quelle presenti in casa propria, confidando anche nell'aiuto che la Telecom ha iniziato ad offrirci con l'attuale iniziativa. La perdita della voce del Principalone rappresenterebbe, infatti il solito trionfo dell'indifferenza e della grassa ignoranza. Nel 1913 i nuovi restauri ristrutturarono l'antico pavimento in pietra rimuovendo le lapidi e gli ingressi alle sepolture ormai non più in uso. Le inumazioni, fino alla inaugurazione dell'attuale cimitero nel 1880, avvennero sotto il presbiterio per il Clero, sotto gli altari per le famiglie che li avevano in custodia, nelle fosse sotto le navate per il popolo. Nel 1880 era stato restaurato il campanile ma la cuspide venne realizzata in epoca più tarda; una curiosità: la cuspide provvisoria in lastre di piombo venne portata via dalla furia della bufera. Nel 1943 la chiesa, insieme a pochi altri edifici rimasti integri, accolse al suo interno le famiglie dei capracottesi cacciate via dalle loro abitazioni dall'incendio appiccato dalle truppe tedesche in ritirata. Il primo restauro moderno avvenne nel 1954 ed il successivo, nel 1983, ha dato alla chiesa il definitivo assetto. Per concludere due riflessioni. La prima è tratta dal Campanelli: « E un uguale dovere hanno pure i nostri conterranei. Essi, in paese o lontani, non devono dimenticare giammai... che il tempio ci rimane quale superbio retaggio di lavoro e di fede dei nostri antenati, lavoro e fede che non devono andare disfatti o logorati da ignobile trascuratezza dei tardi discendenti, questi che ben volentieri offrono ogni anno non trascurabili contributi a feste in onore dei santi prediletti, non lesineranno un lieve obolo in più per la chiesa che quei santi accoglie, e coloro che diligentemente vanno in giro a raccogliere quei contributi ricorderanno che sarà opera meritoria riservare una parte degli oboli ad un fondo che possa servire per nuove decorazioni della chiesa anziché profonderli tutti nel fumo degli spari, nelle strombazzature di bande, spesso negazione dell'armonia e nei vaniloquii gridati dal pulpito che lasciano il tempo che trovano ». La seconda è di chi vi parla. Vi abbiamo descritto i luoghi, elencato gli eventi, mostrato gli spazi. Ma non potremo mai riferirVi i pensieri, le gioie ed i dolori di una comunità che oggi corrono lungo i fili del telefono, ma che allora servirono a tenere insieme delle pietre e dei pezzi di legno per farne una chiesa. Testimone severo di quelle vicissitudini resta questo tempio consegnatoci dai nostri avi in quella eterna staffetta che è la vita. Se non saremo capaci di conservare e trasmettere a nostra volta questo testimone compromettendone, quindi, la sua corsa nella storia, forse non saremo maledetti ma non meriteremo neppure di essere ricordati. Francesco Di Nardo Fonte. F. Di Nardo, Presentazione elenco ufficiale degli abbonati al servizio telefonico della Provincia di Isernia , Capracotta, 23 settembre 1995.

  • Il ritiro dei Lupi a Capracotta

    L'A.S.D. Capracotta con Luciano Zauri, allenatore del Campobasso F.C. Leggendo il titolo di questo articolo, in molti potrebbero pensare a una favola. Invece no, è tutto vero. Quest'anno, infatti, il Campobasso F.C. ha scelto Capracotta come sede del proprio ritiro. Più precisamente, gli allenamenti dei Lupi si sono tenuti al campo sportivo "Erasmo Iacovone", un gioiello in erba naturale a 1.421 m. s.l.m., dal 17 luglio al 1º agosto. I Lupi negli ultimi due anni hanno raggiunto una tranquilla salvezza nella stagione 2024/2025 in Serie C e due anni fa hanno vinto la Paule Scudetto Serie D 2023/2024, battendo il Trapani per 5-1 in finale. I rossoblù hanno alloggiato presso l'Hotel Monte Campo, situato alle pendici di Monte Campo da cui, appunto, prende il nome. Gli uomini di Mister Zauri hanno potuto svolgere allenamenti col fresco clima estivo capracottese, godendo della rigenerante aria pulita. Hanno, inoltre, partecipato a eventi organizzati dalla nostra Pro Loco, quali la Tavolata, dove hanno passato una serata in allegria e gustato i piatti dello chef Ermando Paglione presso il Bar Taccone. In più, il Campobasso F.C. ha strutturato un ricco calendario di eventi in paese. Coinvolgendo tutte le fasce di età in giochi e tornei di 1vs1 e 2vs2, svoltisi lungo corso Sant'Antonio. Il 25 luglio, inoltre, c'è stato un Q&A con Mister Zauri, moderato magistralmente da Pippo Venditti. Un incontro a cui il popolo capracottese ha partecipato in largo numero e dove l'allenatore dei Lupi ha riabbracciato, a distanza di molti anni, un amico delle giovanili dell'Atalanta, lo storico capitano dell'Olympia Agnonese Antonio Orlando. La nostra A.S.D. Capracotta è stata presente, per quanto possibile, a tutti gli eventi, supportando le iniziative. Il ritiro estivo è terminato il 1º agosto con l'amichevole contro il Bacigalupo Vasto, conclusasi 4-0 in favore dei Lupi. A timbrare il cartellino ci hanno pensato al 7′ Lombari, al 14′ Nocerino, al 24′ Bifulco e al 91′ La Monica. In conclusione, possiamo dire che Capracotta è stata una seconda casa per il Campobasso F.C. Auguriamo a loro il meglio per la stagione sportiva alle porte, sperando che questo ritiro estivo abbia poggiato le basi per un futuro radioso per gli uomini di Mister Zauri. Nestore Sammarone

  • Capracotta, estate 1961: la fine di un'epoca

    A Capracotta, fino ai primi anni Sessanta del secolo scorso, la maggior parte delle famiglie, anche non contadine, praticava la coltivazione del grano, patate e legumi in piccoli appezzamenti di terreno per proprio uso. In quel periodo, i terreni coltivabili ben delimitati da muri, siepi di pruno o filo spinato, erano raggiungibili solo a piedi attraverso piccoli e sassosi sentieri. Gli eventuali passaggi su terreni altrui (servitù) erano ridotti al minimo e gli sconfinamenti, soprattutto di animali, erano considerati violazioni gravi, causa della maggior parte dei litigi, quindi mentalità e struttura del territorio non avevano consentito l'uso di trattori, per cui tutto il ciclo produttivo dalla semina alla raccolta, compreso il trasporto dal campo, era svolto a mano con il solo ausilio di buoi e cavalli. Unica attività meccanizzata era la trebbiatura del grano, che avveniva in un'aia comune dove poteva operare una trebbiatrice. Solitamente l'aia comune era allestita in un terreno pendente tra la strada che porta ad Agnone e quella per prato Gentile a ridosso delle ultime case di allora, area attualmente del tutto costruita. Nei primi anni Sessanta, sia per le mutate condizioni economiche che per la forte immigrazione, le coltivazioni in genere si erano dimezzate rispetto a qualche anno prima, in particolare quella del grano finì improvvisamente del tutto nell'estate 1961, quando un incendio divampato nell'aia dove si era in attesa della trebbiatrice bruciò tutta la produzione. Nell'estate del 1961 avevo 16 anni. Come ogni anno, ero tornato a Capracotta per passare le vacanze e, quando necessario, aiutare mio nonno Carmine nelle sue attività di artigiano e contadino; in particolare c'era da mietere e trebbiare il grano seminato in un terreno in località Fonte del Cippo. Per la mietitura, quasi tutti si avvalevano di giovani contadini mietitori che ogni anno, nella terza decade di luglio, arrivavano a Capracotta. In attesa di un ingaggio si disponevano a gruppetti sulla lunga ed ampia scalinata che collega la strada principale alla piazza del comune; il mio compito era quello di accompagnare i mietitori al campo e poi portargli il pranzo a mezzogiorno, poi partecipare al trasporto dei covoni fino all'aia comune per costruire la manucchièra , ovvero un cumulo ordinato di covoni. L'undici agosto 1961, intorno a mezzogiorno, quando scoppiò l'incendio l'aia era un piccolo e disordinato villaggio dorato formato da tante manucchière di varie grandezze a mo' di casette con tetto spiovente. In attesa della trebbiatura, ogni giorno si era soliti andare a controllare la propria manucchièra , cosa che avevo fatto quel giorno prima di rientrare a casa per il pranzo. Quindi, poco prima di quel mezzogiorno, personalmente mi trovavo fuori casa, a meno di cento metri dall'aia, quando sentii gridare «Al fuoco!» e poi ripetere l'allarme a più voci, mentre un filo di fumo al centro dell'aia segnalava la zona dell'incendio che presto si estese. In pochi minuti tutto il quartiere si radunò nei pressi, con scene anche drammatiche di pianti, disperazione e di maledizioni. Fu subito tentato un improvvisato antincendio riempendo da casa mia e da quelle dei vicine dei tragni (secchi) d'acqua e poi con una catena umana fatti arrivare fino alla zona delle fiamme, ma tutto risultò palesemente inefficace. Dopo la confusione iniziale, il coordinamento delle attività fu assunto dal guardaboschi comunale; un primo concreto intervento fu quello di allestire un tiro di buoi e tracciare dei solchi taglia fuoco intorno all'aia. Nel frattempo, qualcuno dal Comune aveva telefonato ai vigili del fuoco di Agnone che, arrivati con un vecchio mezzo attrezzato di manichette e pompa, rese possibile collegare il vicino serbatoio d'acqua potabile del paese ed arrivare fino alle fiamme con un continuo getto d'acqua. Costatata l'impossibilità di spegnere le fiamme, le attività si concentrarono sul contenimento dell'incendio verso le case e successivamente verso i campi. A sera furono organizzate delle squadre di sorveglianza che restarono operative per un paio di giorni, fino a quando l'incendio fu dichiarato spento.  Un odore acre di grano tostato ristagnò sul quartiere per alcuni giorni e, nonostante la gravità dell'incendio, fortunatamente non ci fu nessun ferito. Il video dell'incendio realizzato da Marino D'Andrea. Causa dell'incendio Ufficialmente non è stata mai accertata, perché mai indagata, e dopo la disperazione iniziale, accettata dagli interessati come una fatalità, al pari di un evento naturale, causata da un incauto comportamento di qualcuno che aveva osato accendere una sigaretta. Succedeva che a mezzogiorno, quando l'aia si svuotava per il pranzo, i pochi che rimanevano erano soliti cercare un posto tranquillo per sedersi a terra all'ombra di una manucchièra , mangiare un boccone, fare un riposino ed i più audaci anche una fumatina. Secondo le ricostruzioni - o chiacchiere - fatte da chi aveva perso il raccolto, il fuoco era stato causato da un paesano non nominato e non accusato, che, dopo aver mangiato ed acceso una sigaretta, si fosse per un attimo addormentato, facendo cadere il mozzicone, facile innesco per la paglia sparsa a terra; subito svegliatosi, non in grado di risolvere la situazione, si era allontanato mettendosi in salvo. La delusione per la perdita del raccolto e le considerazioni economiche fatte in seguito, portarono alla conclusione che non era più conveniente continuare con le coltivazioni. Si ebbe così la completa fine per quella del grano ed una forte riduzione per le altre, con l'abbandono dei campi. A Capracotta finiva così l'epoca dell'agricoltura, oggi definita eroica, che aveva assicurato per secoli il sostentamento a tutta la comunità. Negli anni successivi, i campi abbandonati, trasformatosi in prati, hanno favorito l'allevamento intensivo di bovini ed ovini, unica attività attuale legata alla terra. Renato Di Rienzo

  • Storia dell'organo (IX)

    L'organo Britannic al Museo degli Automi musicali. Da qualche parte, qualcosa di incredibile attende di essere conosciuta... [C. Sagan] Come tutte le case del nostro paese, anche la nostra disponeva di una piccola stalla dove oltre alle galline ed alla capretta, il cui latte era fondamentale per i neonati in assenza del latte materno. C'era anche il maialino che rappresentava la fonte di sussistenza di tutta la famiglia per i lunghi mesi invernali. Papà mi raccontava sempre che, a causa di un ascesso perianale, il maialino di quel lontano anno della sua infanzia dimagriva a vista d'occhio. La fede, mista alla preoccupazione, con la consapevolezza che c'era poco da fare se non altro che affidarsi alla speranza portò tutti i componenti a riunirsi tutte le sere, prima di cena, nella recita del Rosario per invocare la guarigione del maialino. Peraltro, gli avanzi delle operazioni di norcineria, nel saggio conoscere che tutto è utile alla sussistenza, venivano comunque riuniti in una pietanza chiamata gnuóglia . Simile recupero avveniva anche a primavera, in altre zone agricole, raccogliendo insieme tutti gli avanzi dei legumi e cereali secchi in una unica zuppa, ma anche alcuni empori mischiavano tutti i fondi dei superalcolici in un'unica bevanda da vendere a prezzi estremamente accessibili. Gironzolando alla ricerca di informazioni per massacrarvi ben bene parlando del mondo dell'organo, mi sono imbattuto in notizie e racconti che avrebbero appesantito la già corposa esposizione che abbiamo affrontato. Tuttavia alcune notizie meritano comunque di essere riferite se non altro come semplici curiosità. Potrei chiamarle spigolature ma, dato che sono un paesano organista di provincia che non dimentica le proprie origini derivanti da cardatori di lana e calzolai beccatevi questa... gnuóglia di cantoria... Il guaio è che la gnuóglia rischia di essere più lunga della salsiccia! Gnuoglia di cantoria Un paragrafo a parte della storia dell'organo si è sviluppato in una lontana zona della Svizzera e in particolare nel Canton Gallo: il Toggenburg. La comparsa del pietismo (XVII sec.) come forma di dissenso dalla Chiesa riformata istituzionale portò ad una concezione della vita religiosa più intima, personale e vissuta tra le mura domestiche: ciascuno nella propria casa era chiamato a essere pastore e le funzioni svolte nelle abitazioni vennero ampiamente valorizzate. Se nelle case patrizie e nei palazzi nobiliari l'organo, tra il XVI e il XVIII era un accessorio indice di prestigio, benessere e cultura musicale, nelle abitazioni del Toggenburg, dove il pietismo fece particolare presa, gli Hausorgeln (organi di casa) furono strumenti di fede e preghiera nati per accompagnare il canto. Dotati di un solo manuale di 49 tasti su quattro ottave e quasi sempre senza pedaliera, disponevano da due a otto registri esclusivamente ad anima ed erano prevalentemente suonati da mani femminili diventando per forma, suono e decorazioni un fenomeno unico nel suo genere. Venivano costruiti dapprima da falegnami che poi si specializzarono esclusivamente in tale direzione diventando maestri organari di cui ancora viene celebrato il ricordo ed il nome. Attualmente il museo locale annovera almeno cento di questi curiosi manufatti. Nella progettazione dovevano essere considerati i bassi soffitti delle abitazioni e la struttura, rigorosamente ad armadio con spesso le portelle di chiusura, era anche smontabile in due sezioni: una superiore ed una inferiore. Un suono caldo ed avvolgente che fa riflettere su quali fossero le sonorità con cui gli autori prebachiani dovettero spesso confrontarsi. Tale fenomeno fu presente, anche se in misura più ridotta, nel Vallese ed in Alsazia. Anonimi rimasero invece i maestri decoratori: specialisti anche nell'abbellimento del mobilio casalingo e che vengono oggi ricordati e classificati mediante lo stile decorativo, i colori e i soggetti scelti per la decorazione. Va comunque ricordato che questi graziosi organi erano impiegati anche nelle cerimonie profane e nelle feste, laddove nelle nostre latitudini imperavano fisarmoniche e organetti dubbòtte . A partire dal 1750 l'organo tornò a stagliarsi nelle cantorie delle chiese ma il fenomeno durò fino quasi alla fine del XVIII secolo. Ma il mondo dell'organo riserva ancora moltissime sorprese e trovi organi laddove mai te lo aspetteresti. Agli inizi del XX secolo la rotta per il Nord America era caratterizzata dalla forte concorrenza tra la Cunard , compagnia di navigazione che tendeva a effettuare traversate atlantiche nel minor tempo, e la White Star Line , la cui politica era orientata al lusso. Fu così che vennero progettate le navi della classe "Olympic" che comprendeva tre piroscafi: RMS Olympic, RMS Titanic e RMS Britannic. A margine ricordo che, oltre al colore dei fumaioli, il criterio per riconoscere l'appartenenza di ogni nave a ciascuna flotta era il suffisso finale del nome: -ia (es. Mauritania) indicava le navi della Cunard; la particella -ic (es. Titanic) era propria della White Star Line . Mi sono chiesto se tali navi disponessero a bordo di organi a canne. La presenza di organi a canne a bordo dei piroscafi è ampiamente documentata circa le navi di compagnie minori o sui natanti adibiti a sala concerto galleggiante. Non sono disponibili prove documentali o fotografiche attestanti la presenza di un organo a bordo della RMS Olympic. Al contrario uno strumento ad azionamento meccanico con rullo di carta perforata oltrechè dotato di consolle con due manuali e pedaliera è conservato al Museum für Musikautomaten (Museo degli Automi musicali) di Seewen. Costruito dalla Welte Philarmonie di Friburgo nel 1916, era destinato in un primo tempo ad essere installato sul RMS Britannic. Un organo meccanico infatti, previsto nel progetto della nave, era ormai ritenuto perduto. Tuttavia i restauri del 2007 dello strumento conservato nel museo misero in evidenza le stampigliature di destinazione "Britanik" su alcune parti lignee nascoste, ma il RMS Britannic, varato nel 1915, fu destinato a diventare nave ospedale prima che la Welte potesse procedere al montaggio a bordo. Una serie di passaggi di collezione in collezione portò l'organo al museo di Seewen insieme al patrimonio unico di oltre 1.200 rulli perforati, testimonianze di un gusto musicale di altri tempi e dello stile esecutivo degli organisti di quell'epoca. Ma il Titanic? Ebbene al Siegfrieds Mechanisches Musikkabinett ( Museo musicale meccanico di Siegfried ) di Rüdesheim am Rhein è conservato un altro grande strumento automatico sempre opera della Welte che la leggenda vuole essere stato progettato e costruito per il RMS Titanic. Sappiamo che il RMS Titanic disponesse di ben cinque pianoforti a bordo di cui uno a coda. Ritardi nella costruzione ne impedirono l'installazione in tempo per il viaggio inaugurale del 10 aprile 1912, montaggio che venne previsto per una fase successiva, ma un Iceberg si mise in mezzo. Va detto che in questo caso non si hanno documentazioni certe al riguardo che possano confermare o sfatare la leggenda. Una nota riferisce che anche nel Deutsches Musikautomaten-Museum (Museo tedesco degli Strumenti meccanici) di Bruchsal, sia conservato uno strumento Welte destinato al RMS Titanic. Anche qui, purtroppo, mancano prove al riguardo tranne il fatto che l'alimentazione del motore è a corrente continua anziché alternata: tale alimentazione era proprio quella fornita dai generatori elettrici montati sui piroscafi in esercizio in quell'epoca. Dubbi sono stati sollevati inoltre sulla possibilità di sopravvivenza nel tempo di questi strumenti una volta a bordo: la salsedine e i movimenti impressi dal moto del mare avrebbero potuto influire negativamente sulle strutture foniche e portanti. E ancora il vento che da secoli fluisce nei somieri ci sussurra una leggenda: l'organo venuto dal mare... Nel XVII secolo una bottega organaria di Como ebbe l'incarico di costruire un organo da inviare ad Alessandria d'Egitto. Dopo le opportune prove lo strumento fu smontato, riposto in delle casse e imbarcato per essere spedito via mare. Ma una improvvisa e violenta tempesta lungo le coste della Puglia, mentre si accingeva ad affrontare il canale di Otranto, fece naufragare il galeone la cui carcassa si arenò lungo le coste salentine. I pescatori di una cittadina nelle vicinanze accorsero a portare soccorso non trovando purtroppo nessun superstite e aperte le casse e rendendosi conto di che strano e prezioso dono gli era capitato tra le mani, vollero che quell'organo venisse montato nella loro chiesa. Da allora, la cantoria della Chiesa di S. Nicola Magno a Salve (LE) sfoggia un prezioso e bellissimo strumento. In realtà lo strumento, opera del lombardo Giovan Battista Olgiati e del pugliese Tommaso Mauro su commissione del presbitero Francesco Maria Alemanni, fu completato nel 1628 durante la permanenza dell'Olgiati al Sud. Splendido esemplare di sincretismo tra la scuola lombarda e quella pugliese, è lo strumento più antico funzionante in terra di Puglia. Rimasto pressoché immodificato nel corso dei secoli ci fornisce un'importantissima testimonianza delle sonorità di quel periodo e di quanto fossero intensi gli scambi culturali ed artistici tra il Nord e il Sud dell'Italia. Al contrario, l'organo pugliese più antico giunto fino a noi risale al 1558 e risiede nella Cattedrale di Galatina (LE), ma attualmente è ridotto al silenzio. E, sempre cullati dal vento, ci facciamo trasportare verso Oriente sulle tracce di Marco Polo per raggiungere il Celeste Impero... Ancora oggi uno strumento molto popolare in Cina è lo sheng , ascritto alla classe degli organi a bocca e costituito da una base con canaletto dove poggiano delle canne di bamboo e molto simile allo shõ giapponese che da esso deriva. Alcuni documenti ci tramandano che nel 1271 presso la corte dell'imperatore, appartenente alla dinastia Yuan e discendente da Khublai Khan, esisteva uno strumento "positivo" in canne di bamboo ed azionato da tasti a leva con modalità di funzionamento e struttura simili ai nostri antichi blockwerk denominato xinlong sheng . Quasi sicuramente fu portato in dote da una etnia arabo-musulmana stabilitasi in Cina seguendo la Via della Seta e quindi sotto l'influenza della cultura occidentale. Il vento era fornito da mantici ma non poteva essere suonato in modo ufficiale presso la corte imperiale poiché costruito secondo il sistema tonale europeo. Sappiamo che successivamente un musicista di corte ne appose delle modifiche per ricondurre il progetto all'accordatura cinese e prese il nome di diantin sheng . Tuttavia non ebbe molto successo e si dovette aspettare il XIX secolo per vedere comparire i primi organi strutturati in foggia europea. Attualmente in Cina esistono circa cinquanta strumenti distribuiti tra auditoria, chiese e conservatori. Ma non è ancora tutto... Colui che cerca non smetta di cercare... [Vangelo di Tommaso] Francesco Di Nardo

  • Le campane della chiesa madre di Colletorto

    La campana della Chiesa di S. Giovanni Battista a Colletorto (CB). L'inventario Velasco dedica il paragrafo 5 alla « Porta maggiore e Campanile » . Nella sua descrizione l'arciprete testimonia che all'epoca il campanile non era ancora concluso e fornisce alcune dettagliate informazioni riguardo alle due campane in esso presenti. Infatti, oltre a notare il loro peso, ci informa riguardo al loro autore e alle scritte e immagini che recano impresse. Purtroppo, come avverte, la descrizione è limitata alla sola parte visibile dall'interno del campanile « per il periglio » di cadere. La campana grande aveva una immagine di santa Barbara, l'anno di realizzazione e una scritta in latino mentre la campana più piccola la data e la scritta "maestro Donat'Antonio di Capracotta di Casa Perillo Anno fecit". Almeno una delle due campane della chiesa madre venne dunque realizzata da un esponente di una famiglia di Capracotta specializzata nella fusione delle campane. I Perillo erano infatti dei mastri itineranti, si spostavano cioè nel luogo di destinazione delle campane per fonderle sul posto, di cui sono attestate diverse opere. Un Donato Antonio Perillo realizzò nel 1541 una delle cinque campane di San Germano a Cassino, suo figlio Nicola quella di Roio di Sangro nel 1556 e il nipote Donato Antonio quella dell'Assunta di Pietrabbondante nel 1571. L'autore delle campane di Colletorto dovrebbe essere il nipote ma la certezza può venire solamente dalla corretta lettura del testo, purtroppo lacunoso o di difficile decifrazione proprio nei punti più interessanti, oltre che ovviamente dalla analisi autoptica delle opere. Ma lasciamo la parola all'arciprete Velasco: S'ascende in Chiesa dalla Porta maggiore per sei gradini di pietra rustica nell'entrare il pavimento di mattoni di lunghezza piedi venti, di larghezza piedi nove, quali lunghezza e larghezza sono in un Atrietto che sostiene l'Edificio del Campanile tutto lavorato nel di fuori [...] di pietra rustica viva nella parte destra, al fine detto Atrietto male limita un altro gradino, similmente di pietra rustica lavorata. Sta situata la grada che s'ascende al campanile cioè nella prima lamia e sono gradini sette di pietra, quali finiti, si entra per una Porta e s'ascende altri diece gradini, che è il primo pavimento, perché il disegno di detto Campanile è rimasto imperfetto s'ascende colla seconda lamia seù pavimento per una grada di legname dove si giunge alla Planizie che stanno poste le due campane nei loro finestrino datate l’una grande e l'altra piccola. La grande di rotola sessanta [...] con una figura seù Imagine di santa Barbara dall'altra parte per il periglio non si puote osservare [...] La piccola di peso rotola quattrocento incirca d'altezza palmi tre ed un terzo di larghezza palmi due e mezzo col millesimo che dice maestro Donat'Antonio di Capracotta di Casa Perillo Anno fecit, il millesimo non si puot'accedere. La prospettiva della prima facciata di detto Campanile e Porta maggiore alla prima recinta è tutta di pietra rustica lavorata e similmente tutta di Angoli apparenti siti al fine della medesima pietra il restante di rustico. Sta ben catenato da tutti le quattro lati con sette catene nel di fuori di ferri apparenti. Per non essere totalmente completo vi sta un altro recinto similmente di pietra lavorata e dopo poco fabrica di rustico resta imperfetto sarà d'altezza palmi sessanta incirca di larghezza palmi vent'otto. La prospettiva di detta porta guarda al meridiale. Matteo De Girolamo

  • La "dódda" e il primo letto

    Suor Concetta Galasso, maestra indiscussa del ricamo. La dote La dódda (dote) era il complesso di beni, corredo e soldi, che una figlia doveva portare col matrimonio a suo marito. Mia madre, per esempio, portò una dote cospicua: corredo ricamato e ricco, guardaroba ben fornito, più 8.000 mila lire in denari, essendo lei unica femmina tra quattro maschi. Nel 1926 questa cifra era paragonabile a diversi milioni e voglio credere fermamente che mio padre l'abbia sposata (lei 16 anni, lui 23) per amore e non per interesse. La famiglia di mia madre era benestante e aveva fatto studiare la ragazza fino alla sesta (prima media). All'epoca non so dire quali fossero le usanze, perché non ero ancora nata, ma per i tempi più vicini a noi (50 anni fa) certamente posso raccontare quello che so, avendolo appreso da esperienze dirette. La prima pietra della dódda veniva posta il giorno della prima comunione, quando alla bambina vestita di bianco venivano regalate (con gioia della madre ma non con la sua) alcune scatole contenenti per lo più asciugamani, fazzolettini ricamati, pezze di stoffa da farci le federe, qualche servizio da tavola, un lenzuolo bianco, da ricamare eventualmente poi. La mamma apprezzava molto questi primi rudimenti, ai quali, nel corso degli anni, lei avrebbe aggiunto, un po' alla volta, il resto che non sarebbe stato poco. Così, un po' alla volta, il corredo cresceva e si accumulava nella càscia (cassapanca), con sacrificio per le famiglie meno abbienti, che con parsimonia e decoro provvedevano a tutte le necessità. Non c'erano leggi scritte, ma norme e regole sì, alle quali la famiglia doveva attenersi. Quando la ragazza si fidanzava, allora si intensificavano le spese, per colmare i vuoti che immancabilmente si erano creati negli anni. La ditta Coltorti, marchigiana, che commerciava in corredi, godeva presso le popolazioni dell'Alto Molise e del Chietino di grande prestigio. Il titolare passava dalle nostre parti due volte l'anno con mercanzie di ogni genere, sempre di prima scelta. Stava in albergo il tempo necessario, quindi cominciava il giro per le case interessate agli acquisti e, sul campionario, faceva scegliere, consigliava per la qualità e per il prezzo, mostrava, sciorinava, alla fine concludeva la vendita. Il pagamento era a rate non vincolate e comodamente dilazionate nel tempo. Vendeva anche vestaglie, camicie da notte, sottovesti e tutto ciò che poteva rendere leggiadro un corredo da sposa. Una volta io mi innamorai di una camicia da notte tutta sciù-sciù , trasparente come un velo. Mia madre fece opposizione all'acquisto e disse: – Ma con questa si vede tutto! E il sig. Coltorti rispose candidamente: – Signora, non deve vedere lei! La mamma arrossì e dovette arrendersi, povera donna, alla logica dell'uomo. Il primo letto Il lenzuolo più fine doveva essere ricamato, perché veniva messo sul letto nuziale come abbellimento per i visitatori curiosi. Allora pizzi di Cantù, tombolo, merletti, ricami finissimi erano eseguiti dalle maestre: ad Agnone correvano i nomi, tra gli altri, di Ida Rossi, Gina Lemme, le stesse suore dell'asilo; a Capracotta Lidia Sammarone, Giuseppina De Simone, Matilde Di Nucci, Giuliana Di Rienzo e le suore, tra cui la più brava di tutte era suor Concetta, di origine agnonese. Erano nomi mitici, veri geni dell'arte preziosa dell'intarsio e del ricamo. Al primo letto seguiva il secondo, pure lavorato, ma un po' di meno, poi il terzo e via di seguito gli altri. Il corredo più modesto partiva da sei capi; poi via via da dodici, da ventiquattro. Questi i numeri che indicavano le paia di lenzuola (matrimoniali e singole) presenti nella dódda , tutte ben rifinite con punto a giorno lungo la piega e federe a riporto. Quando il corredo era poca cosa, la gente, compresi i parenti dello sposo, diceva con disprezzo: – Quella si è sposata con una valigia! All'approssimarsi delle nozze il corredo veniva tirato fuori dai bauli, rinfrescato, stirato da donne esperte, poi esposto nella casa della sposa, perché tutti gli invitati potessero vederlo, apprezzarlo e valutarlo. Quando parlo di apprezzamenti voglio proprio dire ciò che la parola indica: i parenti dello sposo andavano a casa della sposa e davano a tutto il ben di Dio un valore in quantità, qualità, finezza. E sì che le camere utilizzate erano anche tre: nella prima erano esposte lenzuola (le ricamate in prima linea), servizi da tavola da sei e da dodici, con pizzi e ricami, asciugamani pregiati con cifre intrecciate, con scritte come «Lei» e «Lui», di lino o di fiandra, federe con angeli e saluti, come «Buongiorno» o «Buon riposo». Era, questa stanza, un po' la vetrina del corredo. Il resto veniva dopo: lenzuola, strofinacci, federe, servizi da tavola giornalieri, coperte (quella di primo letto era di seta, di broccato o fatta a mano con lunghe strisce ricamate o all'uncinetto), imbottite, termocoperte (non quelle elettriche), plaids, copriletti di piquet e poi tutto ciò che può servire in una casa; quindi, alzando gli occhi, si vedevano, appesi tutt'intorno, abiti, cappotti, giacche, vestaglie estive e invernali, camicie da notte, liseuses; in un angolo c'erano scarpe nuove, pantofole, babbucce dai colori tenui con i pompon, calze velate o di lana, mutande (anch'esse cucite a mano), sottovesti e tutto ciò che la vanità femminile esigeva unito alla praticità. A casa della madre della sposa rimanevano panni, pannucci, fasce, camiciole ( cacciamaniéglie ) che poi sarebbero state utilizzate al momento della nascita del nipotino. Molta della biancheria era tessuta a mano da donne solerti ed esperte in quest'arte antichissima che era stata tramandata di generazione in generazione con rito quasi sacro. Il telaio delle tessitrici occupava un posto importante nella casa e lì le donnette trascorrevano il tempo a ordire trame per stoffe più o meno pregiate. Parlando di queste cose, il pensiero va alla mitica Penelope, la regina di Itaca che aspettò 20 anni il suo sposo, tessendo di giorno e distessendo di notte una tela al termine della quale avrebbe dovuto sposare uno dei pretendenti alla sua persona e al regno. In attesa del suo assenso, questi avevano occupato la reggia e consumavano in pranzi e cene tutte le sostanze. La virtù della donna fu premiata: infine, quasi per miracolo, lo sposo tornò a casa e, per dirla col poeta, «baciò la sua petrosa Itaca Ulisse». Ma torniamo al corredo; lo abbiamo lasciato ancora in esposizione, con tutte le bellezze messe in mostra, tra cui spiccavano alcuni preziosi come l'anello col brillante, il collier, gli orecchini, la catenina della comare, una boccetta di profumo, un mazzolino di fiori secchi, una foto dei fidanzati incorniciata, un ciondolo d'oro. Più in là un vassoio con i confetti ricci di Carosella o di Orlando, una guantiera di bicchierini, grandi come ditali, dove offrire il rosolio, rigorosamente fatto in casa, liquore dai colori brillanti quali giallo, rosso, verde, paglierino, i cui ingredienti (le essenze) venivano acquistati nel negozio specializzato. Dopo l'esposizione, il corredo, non senza emozioni e qualche lacrima della mamma, veniva portato nella nuova casa e qui rimesso nei bauli dove sarebbe rimasto per il resto della vita e dove la sposa, poi moglie e madre, avrebbe prelevato ciò che di volta in volta fosse servito per la casa. Quasi a suggello del patto matrimoniale veniva stilata, alla presenza di testimoni dell'una e dell'altra parte, una nota che elencava i singoli capi portati in dote. La carta veniva sistemata, come ricevuta, in fondo al baule. Il trasporto da una casa all'altra veniva fatto da donne vestite con l'abito migliore per mezzo di canestri portati sulla testa e ricoperti da grossi fazzoletti fiorati di tìbba (pura lana colorata con tinte vegetali) che facevano anche loro parte del corredo. Come si può notare, il viaggio del corredo era lungo e costoso: a volte anche inutile, se per caso il matrimonio andava a monte o semplicemente la ragazza non si sposava perché "nessuno l'aveva voluta". Veri capitali rimasti chiusi e inutilizzati per anni e anni nelle soffitte. Poi la curiosità di qualche nipote avrebbe riportato alla luce questi capolavori, ingialliti, ammuffiti, ormai da utilizzare solo in parte, inutili come i sogni delle ragazze per le quali quel corredo era nato. A completezza dell'informazione va aggiunto che la ricevuta che veniva posta in fondo al baule si chiamava doddàrio ; come già detto essa veniva redatta da testimoni dell'una e dell'altra parte, ma a scriverla materialmente era una persona terza che "sapeva di lettere", cioè era in grado di scrivere con grafia leggibile e chiara. All'elenco dei beni vanno aggiunti i materassi, anch'essi a carico della sposa; dovevano essere quattro e tutti di lana. Ognuno portava con sé la fodera di ricambio. Come si può vedere il corredo era un vero e proprio salasso. Le famiglie tuttavia si accollavano tutte le spese e a volte dovevano provvedere anche ai mobili della camera da letto. Forse per questo motivo la nascita di una femmina non portava grande gioia nelle case. A Capracotta, tra gli abiti esposti col corredo, dovevano esserci anche il vestito della suocera e del suocero per le nozze del figlio, la camicia o il foulard per i cognati, tutta roba regalata, l'abito della futura sposa per le prime promesse, più quello da indossare otto giorni dopo le nozze, quando la coppia "riusciva" per andare alla messa cantata. Forse il '68 ha portato una ventata di aria fresca e ha fatto rinsavire le menti. Oggi certe consuetudini sopravvivono ancora, in misura ridotta, nei paesi più legati alle tradizioni, ma il grosso di queste inutili pantomime è sparito. Deo gratias. Pino Catalano Fonte: http://pinum.blogspot.com/, 20 ottobre 2020.

  • Voglia di quiete

    Murmure di vento, folate di schiuma, goccioline sospese nel cielo; piuma senza peso per aere volteggiare che fugge via lontano perduta fra i ricordi. Non vedo e non sento, soltanto pensieri sconnessi provenienti da lontano, appena percepibili, privi di cuore e di ragione. Prenderli sul palmo, interrogarli e chieder loro dell'intimo travaglio, del duro maglio che batte di continuo ed assottiglia le meningi: informe cestello di rame ridotto a sfoglia trasparente dall'abile artigiano. Basta vi prego! Lasciate riposar la mia pazzia e ponete fine al tormento. Essa chiede buio e silenzio, benefica quiete, riposo sul fluttuare di placido mare fino a gorgo insperato, improvviso e potente, che l'essere finalmente appaghi e lo culli a riposar sereno nel profondo degli abissi. Ugo D'Onofrio

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