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  • Capracottesi decorati al merito della Repubblica dal 1991

    Paolo Di Vito nominato ufficiale. L'Ordine al merito della Repubblica italiana è il più alto degli ordini della Repubblica italiana, i cui colori sono il verde e il rosso. Il presidente della Repubblica italiana è il capo dell'Ordine, retto da un consiglio composto di un cancelliere e sedici membri, con sede a Roma. L'Ordine, che sostituisce i soppressi ordini sabaudi, è stato istituito il 3 marzo 1951 con lo scopo di «ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell'economia e nell'impegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici e umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari». Le onoreficenze odierne di primo grado sono le seguenti: cavaliere, ufficiale, commendatore, grande ufficiale, cavaliere di gran croce e cavaliere di gran croce decorato di gran cordone. A nessuno può essere conferita, per la prima volta, un'onorificenza di grado superiore a quella di cavaliere, se non in alcuni casi particolari espressamente stabiliti dalla legge. Con riferimento ai cittadini di Capracotta, abbiamo almeno 28 personaggi decorati al merito della Repubblica dopo il 1° gennaio 1991, data a partire dalla quale sono disponibili i dati online . Il primo capracottese fu infatti insignito il 2 giugno 1992 dal presidente Oscar Luigi Scalfaro: si tratta del generale Aldo Di Ianni, seguito a sei mesi di distanza da Pasquale Di Ianni. Sotto Scalfaro, poi, vi furono altri 10 capracottesi insigniti: nel 1993 il colonnello Ottaviano Di Nucci (nominato ufficiale tre anni dopo), nel 1994 Antonio Mendozzi ed Ines Lucia Di Rienzo, l'anno successivo Gioacchino Di Nucci e Nello Buzzelli, nel 1996 il prof. Michele Potena, il tenente Vincenzo Evangelista, Antonietta Battista, l'architetta Vincenza Trotta e Mario Sozio. Sotto la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi fu invece decorato ufficiale nel 1999 Aldo Di Ianni, quindi il pittore Giovanni Leo Paglione (1917-2004) al quale, dopo esser stato nominato cavaliere il 2 giugno 2003, venne conferita postuma, un anno e mezzo dopo, l'onoreficenza di commendatore. Il presidente Giorgio Napolitano conferì 7 riconoscimenti, a partire da Giuseppe Perruzzi e Paolo Di Vito, nominati cavalieri della Repubblica il 27 dicembre 2006, cui seguì Bruno Dell'Armi nel 2007, Amato Nicola Di Tanna nel 2009 ed Antonio Liberatore nel 2013. Napolitano firmò poi il decreto di concessione della cosiddetta Stella della solidarietà italiana - destinata a chi ha acquisito particolari benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e collaborazione tra l'Italia ed altri Paesi – a Giovanni Franceschelli ed Ernesto Di Tella (1937-2010). Demetrio Mendozzi nominato cavaliere. Con specifico riferimento ai Maestri del Lavoro, abbiamo Pietro Sammarone, nato a Roma ma decisamente capracottese, che il 27 aprile 2016 è stato decorato con la Stella per il lavoro svolto presso la FCA Fiat Chrysler Automobiles S.p.A. di Piedimonte San Germano. Arrivando ai giorni nostri, il presidente Sergio Mattarella ha finora conferito 8 onoreficenze al merito della Repubbica a cittadini capracottesi. Il 2 giugno 2015 è stato difatti nominato cavaliere l'ex sindaco di Capracotta Antonio Vincenzo Monaco, seguito nel 2017 dal fisico Ruggero Maria Santilli (cavaliere dell'Ordine della Stella d'Italia), l'anno successivo da Maria Di Rienzo e, nel 2020, da Demetrio Mendozzi, «dato il pluriennale impegno di umana solidarietà a favore del prossimo con le sue numerose donazioni di sangue e plasma». A dicembre 2018, infine, il generale Gioacchino Di Nucci è stato nominato cavaliere ufficiale della Repubblica. Stesso riconoscimento per Paolo Di Vito, residente in Emilia-Romagna, insignito l'11 giugno 2021 dal prefetto Francesca Ferrandino «per la sua costante attività di volontariato svolta sul territorio del comune e della regione». L'ultimo capracottese, in ordine di tempo, ad aver ricevuto una medaglia, è il dott. Michele Notario, che il 27 dicembre 2023 è stato insignito al merito della Repubblica Italiana quale «simbolo della lotta al Covid nella Provincia di Isernia». Francesco Mendozzi

  • Storia dell'organo (I)

    L'organo della basilica di Valère in Sion. Dagli albori al XIV secolo e qualche appunto di organaria Ormai penso sia acclarato che traggo un gran divertimento nel fare un po' di divulgazione su tutto ciò che circonda il mondo dell'organo, strumento ancora poco conosciuto anche in ambienti musicali e, molto spesso, ritenuto a torto noioso. Gli specialisti del settore mi perdoneranno le eccessive e banali semplificazioni: è solo il divertissement di un appassionato organista liturgico e perfino di provincia, ma credo che talvolta si debba uscire dalle torri di avorio, in cui lo studio specifico ed approfondito involontariamente rinchiude, per avvicinarsi al sentire comune. Penso che Conoscenza sia sterile senza Condivisione. Questo vale specialmente per l'organo, strumento musicale concepito fin dalle origini per avvicinarsi a più persone riunite e poi sfruttato nell'esaltare e completare le celebrazioni dedicate allo Spirito: pertanto un patrimonio di tutti. Non di rado, durante le ore che dedico allo studio in Cattedrale, molte visitatori o fedeli si fermano ad ascoltare chiedendo poi informazioni sui brani, sul loro significato, la contestualizzazione, e descrizioni circa lo strumento. Frequentemente rapiti dallo schiudersi di un mondo per molti del tutto sconosciuto, auspicano la realizzazione di stagioni concertistiche più interattive per una migliore godibilità dei brani presentati: una mano alzata per fare domande può far miracoli. Semplicemente, allora, tutto questo diventa un gettare dei piccoli semi di "ignoranza" che facciano germogliare la pianta della «Curiosità che a sua volta è madre della Scienza» (G. B. Vico). Le attuali possibilità del web consentono poi ad esecutori e ascoltatori ricerche che un tempo erano impensabili: chi vuole può facilmente alimentare la propria voglia di Sapere che di sicuro partorirà la Meraviglia. Personalmente, cosa che mi è accaduta anche cercando ulteriori fonti di studio per stendere queste banali righe, continuo a meravigliarmi... Non abbiamo la più pallida idea del momento in cui, nel corso della Storia, un essere umano scoprì che un flusso laminare di aria portato a scontrarsi trasversalmente con una struttura tubolare, una canna o un osso cavo, generasse un suono. Proprio in quel momento nasceva il flauto e tutti gli strumenti ad esso collegati. Altra scoperta: accorciando o allungando il tubo la nota diventava più acuta o più bassa e lo stesso effetto si otteneva praticando dei fori lungo il tubo e occludendoli o aprendoli con la punta delle dita. Effetto analogo si otteneva tappando l'estremità del tubo: il suono diventava molto più basso come fosse emesso da una canna lunga il doppio. Praticamente lo stesso effetto che Pitagora (VI sec. a.C.) studiò facendo risuonare una corda tesa e variandone la lunghezza, scoprendo così le note musicali e i rapporti matematici che le collegano tra di loro. Nel Museo nazionale della Slovenia è conservato quello che è ritenuto lo strumento più antico del mondo: un flauto, realizzato da un uomo di Neanderthal, ricavato da un osso di orso delle caverne e datato ad almeno 60.000 anni fa. Mettendo più canne insieme di varia lunghezza decrescente si ottenne il flauto di Pan. Modificando poi ciascuna canna con la bocca del flauto diritto e aggiungendo un sistema di valvole (ventilabri) che facevano affluire il flusso di aria (vento) in ognuna tramite un apposito comando si ottenne il primo organo della Storia. La prima descrizione ufficiale di un organo appartiene a Marco Vitruvio Pollione famosissimo architetto e scrittore (I sec. a.C.). Nelle sue opere parla di uno strumento detto hydraulos , cioè ad "aria-acqua". Il vento che faceva risuonare le canne era infatti prodotto da una caduta di un getto d'acqua in un recipiente cavo forzando l'aria ad uscirne. Una rudimentale tastiera o un sistema di leve aprivano e chiudevano i ventilabri. Secondo Vitruvio inventore ne fu l'egizio Ctesibio di Alessandria (III sec. a.C.) e risulta fosse uno strumento più concepito per la ricerca scientifica che per effettivo impiego musicale. Vitruvio descrive anche un sistema di selezione delle sonorità assimilabile agli odierni registri. Tuttavia occorre tener conto anche di altre testimonianze. Documenti ebraici medievali e disegni descrivono uno strumento molto semplice chiamato mashrokitha (suono sibilante) ovvero un insieme di canne azionate da tasti che si suonava soffiandoci dentro. Tale oggetto viene menzionato in Daniele almeno in quattro punti. Da notare che la stesura definitiva del testo ebraico risale al V sec. a.C. e quindi almeno 200 anni prima della invenzione di Ctesibio. Quindi occorre prestare attenzione alle varie traduzioni operate nel corso dei secoli tra ebraico, greco e latino e alla stessa scelta dei termini operata dai traduttori anche alla luce di ciò che loro consideravano probabile od opinabile. Così il termine "Ugav" viene tradotto ora come "flauto" ora come "organo" ed è presente in Giobbe, Daniele, Genesi e Salmo 150 e comunque ricondotto ad una origine Caldea ed Egizia. Avraham Ben David Portaleone (1542-1612), medico e filosofo, parla di tale magrefah , strumento a canne orizzontali alimentato a mantici usato nelle cerimonie del Tempio ma tale oggetto non viene menzionato nella Bibbia. Altri scrittori tra il XVII e XIX secolo descrivono con tanto di disegni uno strumento sempre a canne ma non disposte in progressione ma a coppie poiché probabilmente suonate insieme per formare accordi di accompagnamento al canto ascrivendolo comunque alla religiosità del Tempio. La confusione dei termini nel corso delle varie traduzioni e trascrizioni appare chiara se analizziamo il salmo 136 ( Super Flumina ) che sulla prigionia in Babilonia (sec. VII-VI a.C.). Gli ebrei che in segno di lutto e ricordando i tempi trascorsi di Gerusalemme riportano che «(sui salici nel mezzo del fiume) appendemmo le nostre cetre/arpe/strumenti» ma il testo della Settanta dice «suspendimus organa nostra»: era difficile per il traduttore pensare che degli organi (portativi) potessero essere appesi agli alberi oppure si supponeva che a quei tempi non esistessero tali strumenti? La diffusione nel bacino del Mediterraneo fu una ovvia conseguenza, accelerata dalla conquista romana. L'organo viene descritto come impiegato nelle celebrazioni del tempio di Delfi nel I sec. a.C., pur se ancora non conosciuto a Roma secondo alcuni autori. Cicerone (75 a.C.) infatti lo descrive dopo averne visto un esemplare durante un viaggio in Asia Minore. Ma successivamente Svetonio (67 d.C.) racconta di Nerone a far dimostrazione di uno strumento suonandolo personalmente. In quel tempo sempre alimentato a caduta di acqua e ancora denominato hydraulos o hydra era di due tipi: uno grande di almeno dieci registri, perlopiù ance, dal suono forte ed impiegato negli anfiteatri, e un altro più piccolo costituito da canne ad anima dal suono più dolce per uso privato. Con la denominazione di "canne ad anima" si intendono le strutture tubolari dove il vento entrato nel piede conico posto alla base viene stoppato da una lamina trasversale detta "anima" e forzato nella zona della bocca a passare attraverso una fessura (luce) posta tra anima e labbro inferiore con flusso laminare. La lama d'aria andando ad urtare con la parte superiore della bocca (dente) inizia a vibrare generando il suono. Meccanismo tipico del fischietto. La lunghezza della canna ne determina la nota emessa. Nelle canne ad ancia invece è una linguetta metallica (ancia) a vibrare al passaggio dell'aria creando il suono. Variando la lunghezza della parte vibrante varierà l'altezza della nota. Il padiglione, come nelle trombe, ne aggiungerà il "colore". Considerando che ogni a ogni nota (ogni tasto) corrisponde una canna avremo una fila di canne dal suono più basso a quello più acuto. Tale fila si chiamerà registro. Aumentando il numero dei registri aumenteranno le file di canne. La base su cui poggiano le canne viene chiamata "somiere" e nel suo cuore (secreta) il vento attende l'apertura dei ventilabri, azionati dai tasti tramiti appositi tiranti e leveraggi (catenacciatura) per fluire nelle canne. Ad Aquincum in Ungheria durante degli scavi archeologici in un sito romano venne ritrovato e riprodotto uno strumento con canne ad anima distribuite su quattro registri e tastiera di tredici. Questa volta l'alimentazione era tramite mantici azionati manualmente. Ovviamente l'alimentazione a mantice, nel corso del tempo, risultò più efficiente rispetto alla caduta d'acqua specie aumentando le dimensioni degli strumenti. Senza escludere i danni che potevano derivare dall'umidità. Da una targa con dedica posta su di esso fu possibile effettuarne la datazione al III sec d.C. Le invasioni barbariche determinarono la scomparsa della cultura dell'organo nell'Impero di Occidente. La tradizione continuò nell'Impero di Oriente e le cronache riportano la fama di Bisanzio nel secolo VIII per l'arte della costruzione degli organi. Nel 757 Costantino Copronimo V fece dono di un organo a Pipino il Breve: fu collocato nella chiesa di Saint-Corneille de Compiègne, mentre l'imperatrice Irina ne fece dono di un altro al figlio di Pipino: Carlo Magno, organo che risuonò durante la sua incoronazione. Tuttavia l'uso liturgico rimase confinato alla Chiesa cattolica romana, peraltro con autorizzazione attribuita a Papa Vitaliano (657-670), mentre nell'area ortodossa fu sempre considerato come strumento profano. Distinguiamo allora due tipologie fondamentali di organi: il "portativo", a cassetta, con poche canne montate suonato con una mano mentre l'altra azionava il mantice e con dimensioni tali da essere portato a tracolla o addirittura alla cintola e, se possibile, appoggiato su un banco. Il "positivo" invece più grande poiché "posato" a terra e suonato a due mani dall'organista mentre un altro addetto ne azionava i mantici. I monasteri, luogo di studio e di ampliamento delle conoscenze anche matematiche, fisiche e tecnologiche ne furono poi incubatrici del perfezionamento e sviluppo sistematico insieme alle campane. Si studiò anche il comportamento della fonica in base ai vari materiali costruttivi. Se le chiese romaniche potevano essere allietate da positivi di non eccessiva "stazza", le grandi cattedrali gotiche richiesero strumenti più grandi. A partire da IX secolo abbiamo testimonianze di strumenti positivi dalle cospicue dimensioni definiti Blockwerk : più registri risuonanti tutti insieme oppure differenziati con un registro di sonorità bassa (Principale) ed uno di forte generale (Tutti). Le tastiere erano costituite da leve molto simili ai tasti dei carillon dei grandi campanili nordici e come questi venivano azionate con i pugni. Leve che poi divennero bottoni. Frequentemente l'organista con una mano suonava la melodia sul "concerto di campanelli" mentre con l'altra azionava le leve che emettendo il suono fisso fungevano da accompagnamento. Suono fisso che sovente accompagnava anche il coro. Il Blockwerk della Cattedrale di Winchester costruito intorno al 950 disponeva di ben 400 canne suonate da due organisti ed alimentate da 26 mantici azionati da 70 uomini. L'evoluzione tecnologica fu importante anche in questo settore: nel 1779 per alimentare le circa 850 canne del Principalone della Chiesa Madre di Capracotta vennero realizzati tre mantici azionati da 2-3 addetti. Sarà a partire dal X secolo che la tastiera assumerà la forma che conosciamo oggi, dai ventuno tasti iniziali per elaborare ed accompagnare tutti i modi del gregoriano divenne via via più estesa. Nel XI secolo comparve la pedaliera. Usata fondamentalmente per note lunghe e basse di accompagnamento, e di pochi tasti, era costantemente collegata tramite tiranti alla tastiera (da quel momento definita come "manuale") e priva di registri propri. La pedaliera avrà successivamente uno sviluppo strepitoso diventando tastiera a tutti gli effetti (fino a 32 pedali) e corpo d'organo autonomo con registri propri. Attualmente è in corso un piano quinquennale di studio e ricostruzione e riproduzione di un organo ritrovato sepolto nella Basilica della Natività a Betlemme. Donato dai Crociati prestò servizio per tutto il XII secolo per poi essere sepolto in una cassa di legno nella Basilica onde preservarlo dalla distruzione durante la conquista musulmana della città. Un organo "congelato" nel tempo e forse unico strumento rimasto di quell'epoca che potrebbe far maggiore luce sulle sonorità di allora e sulla prassi esecutiva. Nel 1270 Goffredo vescovo di Brescia ordinò la costruzione di uno dei primi organi famosi d'Italia ormai diventata cuore pulsante di una scuola costruttiva che si sarebbe diffusa alla Francia ed alla Germania. Famosi anche gli organisti tra cui Francesco Landini (1325-1397), detto "il Cieco degli Organi". La sua lapide tombale in San Lorenzo a Firenze lo mostra sostenente il suo portativo. Dante Alighieri (XIII-XIV sec.) ci conferma ulteriormente, nel IX Canto del Purgatorio, l'uso liturgico dell'organo: «Quando a cantar con organi si stea, ch'or sì, or no s'intendon le parole», descrivendoci così anche la pratica del canto in alternatim : verso gregoriano cantato dalla schola alternato a versetto suonato dall'organo. L'organo di Norlland, costruito tra il 1370 e il 1400 sull'isola di Gotland ed oggi conservato presso il Museo Nazionale di Stoccolma, è lo strumento più antico che si sia conservato anche se purtroppo solo per la parte meccanica. L'organo viene menzionato nelle funzioni anche nei "Fioretti di san Francesco" (XIV sec.): «ho udito tutto l'ufficio e il sonar d'organi che ivi s'è fatto». La realizzazione di questi strumenti era diventata scienza a tutti gli effetti: al 1440 risale il trattato di organologia di Henri Arnault di Zwolle. Anche oggi tabelle apposite illustrano le misure per ciascuna canna e ciascun registro tenendo conto dei materiali, della tipologia delle parti sonore e delle caratteristiche dell'ambiente in cui verrà collocato, nonché la progettazione per la disposizione della struttura e dei meccanismi. Il tutto poi rapportato alla tradizione e alle peculiarità di ogni casa organaria: ogni organo è pertanto un'opera unica! Architetti e Maestri del legno poi interagiscono con l'organaro nella realizzazione e decorazione della cassa. Conosciuto oggi come scienziato, pittore ed inventore, Leonardo da Vinci (1452-1519) era famoso e richiesto nelle corti specialmente per la sua abilità di musicista e compositore, particolarmente virtuoso nel suonare la lira. Tra i primi ad usare il pentagramma, nel Codice di Madrid ci ha lasciato la progettazione di ben tre organi "sperimentali". L'"organo continuo", dove l'organista con una serie di leve e carrucole poteva in tutta autonomia azionare i mantici; l'"organo di carta", una fisarmonica ante litteram con le canne al posto delle attuali ance; l'"organo ad acqua", dove, cadendo in ogni singola canna, era la stessa acqua, muovendo la colonna d'aria, a far risuonare lo strumento. Parleremo ancora in altra sede di Leonardo e delle sue sperimentazioni musicali. Dal XV secolo osserviamo la comparsa degli "organi maggiori": grandi strumenti ad installazione fissa e posti in apposite cantorie a balconata o a "nido di rondine" e contrapposti agli "organi di coro", positivi più piccoli generalmente collocati nel transetto o comunque nei pressi dell'altare maggiore, talora anche in cantorie più ridotte, ed utilizzati per accompagnare il canto delle corali. Ma sono arrivati a noi anche disegni e miniature dove positivi sono montati su carri per essere trasportati durante feste e processioni. In un "nido di rondine" in controfacciata, con la cassa e le portelle dipinte, fa mostra di sé l'organo della Basilica di Valère in Sion (Svizzera) considerato lo strumento più antico al mondo ancora funzionante. Costruito nel 1435 ha subìto vari rimaneggiamenti fino al più recente restauro che lo ha riportato quasi alle condizioni originali. Manuale unico di 49 tasti con prima ottava e pedaliera " a scavezza " (o corta) e nove registri rimaneggiati e installati nel XV secolo, mentre tre erano i registri originali disposti su una tastiera di 31 note e senza pedaliera. A San Petronio in Bologna è conservato, perfettamente funzionante, l'organo più antico d'Italia, costruito da Lorenzo da Prato nel 1475. Giungiamo così al Rinascimento che segnerà l'inizio della vera grande avventura dell'organo e dei grandi organisti. Da qui ogni Nazione, ogni Confessione, ogni Etnia ed ogni stile compositivo connoteranno con i propri caratteri la costruzione degli strumenti in maniera più sistematica. Appuntamento allora per far svolazzare altra "polvere di cantoria" storica e guardare insieme ancora un pochino di organaria, per capire meglio quali sono, a grandi linee, le caratteristiche di queste complesse ma affascinanti macchine musicali... Francesco Di Nardo

  • Storia dell'organo (II)

    Siamo tutti in ballo, siamo sul più bello. In un acquarello che scolorirà... [Toquinho, "Acquarello", 1983] Interno e catenacciatura di un grande organo storico nordeuropeo. Prima di affrontare ulteriormente la storia dell'organo sarà bene presentare alcuni concetti di arte organaria per rendere più comprensibile questa chiacchierata. Ovviamente gran parte dei riferimenti sono addotti agli strumenti storici: l'epoca moderna ha portato ad una certa omogeneizzazione nella realizzazione degli organi per favorire un eclettismo esecutivo. Ai raffinati cultori e addetti ai lavori che staranno sicuramente storcendo il naso ricordo ancora che queste righe vogliono essere solo una semplice esposizione divulgativa dedicata ai profani e che pertanto in alcuni punti tende a opportune semplificazioni per avvicinare alla conoscenza di un meraviglioso prodigio dell'intelletto umano. Amare la propria passione significa, per chi scrive, cercare di farne dono agli altri. Michel de Notre-Dame, conosciuto come veggente, era in realtà un famoso e bravo medico. Egli convertì il suo cognome in Nostradamus facendo credere che ne fosse la latinizzazione. In realtà intendeva segretamente "Nostra Damus", cioè "diamo ciò che è nostro", offriamo le nostre (mie poche) conoscenze. E cercando di divulgare si è piacevolmente costretti a studiare ulteriormente. Aggiungo altre piccole informazioni a completamento del precedente capitolo: Pezzi di alcuni hydraulos sono stati rinvenuti anche negli scavi di Pompei ma, causa la devastazione indotta della nube piroclastica che si sprigionò durante l'eruzione, si sono rivelati insufficienti per una ricostruzione o un completo valore descrittivo. Polluce, coevo dell'imperatore Adriano, descrive la presenza contemporanea di sue strumenti a canne uno alimentato ad acqua che definisce « flauto tirrenico » ed uno azionato da mantici. Anche Giuliano l'Apostata (331-363) fa menzione dell'organo a canne. Nel basamento dell'obelisco di Teodosio il Grande (347-395) sono raffigurati due strumenti, di cui uno è sicuramente un hydraulos , mentre l'altro molto probabilmente un portativo a mantice. Nel III secolo compare la prima definizione di organum e a partire dal IV secolo scompare la menzione degli hydraulos nelle cronache. Saranno le invasioni barbariche a far scomparire la cultura dell'organo nelle terre di Occidente e, quando se ne riprese la costruzione, i primi esemplari ricomparsi nel Medioevo, erano più rozzi di quelli dell'epoca imperiale. Anno 826: Baldrico conte del Friuli conduce alla corte di Aquisgrana il prete e organaro Giorgio di Venezia per far costruire un organo « more Gr æ corum » . Ludovico il Pio, imperatore, volle che il costruttore rimanesse a corte per molto tempo e probabilmente dando origine così alla scuola organara nordeuropea. Anno 872: papa Giovanni VIII fa richiesta all'imperatore di Baviera di inviargli un organo ed un bravo organista e costruttore per istruire i chierici romani nella pratica musicale. IX secolo: prime tracce di trattati sullo studio e costruzione delle canne, tuttavia il concetto di ridurre i diametri di un registro (fila di canne) mano a mano che ne diminuisce l'altezza per mantenere un timbro sonoro uniforme sarà definitivamente acquisito solo a partire dal XIV secolo. Compare così anche la definizione della misura della lunghezza delle canne tramite il "piede organaro" pari a 30,48 cm. Così anche la definizione del registro: dire che un registro, cioè una fila di canne, è di 8 piedi si intende che la canna più bassa ha suddetta lunghezza, un registro di 4 piedi avrà questa lunghezza alla prima canna e suonerà una ottava più acuta rispetto al precedente: se la canna di 8 piedi è un Do la canna di 4 piedi sarà un Do ma un ottava più acuta (otto infatti sono le note da Do1 a Do2) e un 2 piedi un Do3 e quindi di due ottave più acuto (15 note di distanza). Inversamente se il registro è di 16 piedi la prima canna suonerà una ottava più bassa di quella da 8. Un registro di 2 e 2/3 emetterà alla prima canna un Sol2 (cioè una "quinta") oppure si definirà come XII : da Do1 al Sol2 ci sono dodici note. Una XVII sarà un Mi3 e quindi un registro "di terza". Ecco che la classificazione dei registri diventa comprensibile anche ai profani. Allora il 4 piedi sarà chiamato anche VIII e il 2 piedi XV, 1 piede XXII e via così... I registri non risuonanti sulla nota reale del tasto (XII – XVII – XIX – XXVI – XXXIII ecc.) vengono chiamati "mutazioni" e, come vedremo, sono di estrema importanza nella geometria sonora. Anno 1450, Chiesa di S. Nicola ad Utrecht: nascita primo strumento con registro autonomo alla pedaliera (Tromba). Si pongono le basi per lo sviluppo della pedaliera come registro autonomo. A partire dal XV secolo le figure dell'organista e dell'organaro, salvo eccezioni, tendono a dividersi pur mantenendo una stretta collaborazione nella progettazione e ricerca fonica. Gli organi possono essere classificati in: Organi portativi: strumenti di piccole dimensioni da potersi trasportare facilmente, alcuni anche a tracolla, come le odierne fisarmoniche, di poche canne e suonati con una sola mano mentre con l'altra si aziona il mantice. Altri portativi sono un po' più grandi e possono essere appoggiati su stativi o tavoli e suonati con due mani con un addetto ai piccoli mantici. Organi positivi: strumenti a sede fissa, di dimensioni più estese e da usarsi nei grandi ambienti. Posizionati accanto all'altare o al coro. Tuttavia se tali strumenti nelle prime chiese romaniche erano di sufficiente forza sonora le cattedrali gotiche e le grandi basiliche richiesero strumenti di dimensioni maggiori a partire dal XIV secolo e posizionati in apposite cantorie: appunto gli "organi maggiori". La definizione di positivo, negli strumenti nordici, passò successivamente a quel corpo dell'organo maggiore rivolto verso la navata, integrato nella balaustra della cantoria, più vicino all'assemblea. I veri positivi dedicati al canto corale vennero allora collocati generalmente nei transetti e si chiamarono "organi di coro". Tra i positivi e i portativi potremmo inserire gli organi "a baule" con due o tre registri, dedicati all'accompagnamento dell'orchestra in funzione di "continuo" o al canto del coro. Organi processionali: da usarsi per il canto nelle processioni e trasportati spesso su appositi carri trainati da animali da soma, come ci mostrano molte miniature e disegni. Organi maggiori: di cui abbiamo parlato e di dimensioni spesso veramente ragguardevoli. Installazioni di organi furono e sono praticate anche in appartamenti privati con varie finalità come anche nei teatri (strumenti molto particolari) e negli auditorium. Anche se l'estetica e a bellezza delle casse vengono celebrate ed ammirate per la finezza delle decorazioni e della struttura architettonica pochi sanno che tale aspetto risponde anche ad una funzione simbolica. Se nella fonica e nella potenza sonora l'organo rappresenta la trasposizione terrena dei cori angelici inneggianti al Creatore come anche, grazie ai rapporti matematici, armonici e fisici del suono la diretta emanazione di Dio, così la struttura architettonica e decorativa conferiscono maestosità e regalità al coro angelico sceso in terra e il posizionamento nelle grandi cantorie è il punto allegoricamente privilegiato per far discendere la lode a Dio verso l'Assemblea e contemporaneamente innalzandola verso il cielo. Pertanto dal recupero delle tradizioni classiche compaiono le casse medievali "a torre" di varia altezza con linee geometriche rette e spesso ornate di merlature. Nel Rinascimento le torri vengono modificate con colonne, trabeazioni e timpani tesi a imitare gli antichi templi greci ma anche, grazie ai campi di canne posti a cuspide, a rappresentare l'archetipo del tempio cristiano con le sue navate. Il barocco amplificherà tale simbologia arricchendola di cimase, angeli musicanti e festanti in un tripudio di elementi floreali e vegetali. La presenza di grandi portelloni di chiusura, arricchite da pitture pregevoli, aumenta il senso di sacra regalità e mistero specie nel loro lento e maestoso aprirsi prima che il suono riempia le navate. In alcuni strumenti si è voluto ravvedere anche un significato simbolico nel numero delle canne di facciata e nella loro disposizione richiamanti a versetti sacri o numeri a carattere biblico. Quindi azione sonora e visiva tesa alla elevazione dello spirito e al rallegrare gli animi ma anche spingendo al timor di Dio ed alla meditazione. Solo così possiamo comprendere come gli antichi Blockwerk avessero solo la sonorità del "forte", cioè tutti i registri in azione e di come sia ancora importante il suo diretto discendente: il "ripieno". I cori angelici cantano la Gloria di Dio con forza e a gran voce: « Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia Gloria ad altri né il mio onore agli idoli » (Isaia 42,8), con buona pace dei pii avventori che vorrebbero poter chiacchierare in chiesa senza il fastidio dell'organo. La stessa collocazione degli strumenti risponde oltre alle esigenze foniche anche a significato allegorico: ai lati dell'altare, nelle cantorie dei transetti, in controfacciata. La disposizione in abside sopra il coro richiedeva e richiede un accurato studio architettonico per evitare equivoci ed effetti visivi spiritualmente sgradevoli: è l'Altare, il Corpo del Cristo, il centro del Tempio, che deve essere glorificato. L'organo ne tesse la lode. Le canne vengono classificate in: Canne ad Anima. Sono le classiche canne che possiamo osservare nelle facciate. Realizzate in metallo o legno (o in alcuni casi letteralmente con quello che passava il convento come ad esempio il famoso "organo dei bidoni" di cui abbiamo parlato), sono dei veri e propri fischietti. Il vento entrato dal piede viene forzato da una lamina trasversale interna a fluire attraverso una fessura posta in basso sulla bocca della canna tra il bordo della lamina e il labbro inferiore e ad impattare contro il labbro superiore (o dente) creando delle turbolenze che danno origine al suono. La lunghezza della canna determina l'altezza del suono. Questa lamina è detta anima e dà nome alla tipologia delle canne. Va aggiunto che nell'anima della canna maggiore generalmente l'organaro incideva il suo nome e la data di costruzione prima di saldare le parti della canna. Il segreto veniva così conservato nel tempo. Questa consuetudine è presente anche nel nostro amato "Principalone": durante il restauro del 2000 quando dissaldando per il restauro le strutture della canna maggiore di facciata (Do2 del registro di Principale '16) è comparso il nome del costruttore e di cui ne abbiamo documentazione fotografica conservata negli archivi della Chiesa Madre. Una osservazione del M° Prof. Claudio Brizi, docente di Organo al Conservatorio "F. Morlacchi" di Perugia, durante una delle nostre chiacchierate (per me anche inconsce lezioni) mi ha particolarmente colpito: l'organaro dona simbolicamente la sua voce allo strumento e sa che tale voce rimarrà nel tempo anche secoli dopo la sua morte. Scrivendo il suo nome sull'anima della canna maggiore affida al tempo ed alla sua creatura la sua anima, la sua voce, chiuse nel segreto della canna maggiore ma parte fondante della sorgente del suono. Canne ad ancia. In tali canne il suono è prodotto dalla vibrazione di una linguetta metallica, l'ancia, posta su una canalina bloccate in un raccordo alla base della canna (il noce). Una gruccia metallica regola la lunghezza della parte vibrante e di conseguenza la nota. La restante parte: il padiglione (o risuonatore) conferisce il timbro al suono a seconda della forma e del materiale di costruzione. Avremo così tromba, oboe, cromorno, regale, bombarda, clarone, fagotto ecc.. Ovviamente non parliamo di sonorità ad imitazione dell'orchestra ma di nomi utilizzati per evidenziare le varie caratteristiche e "colori" del suono da esse emesso. La canne ad anima vengono classificate in base al materiale di costruzione: Principale: canne con alta percentuale di stagno. Di suono argentino, chiaro e vivace. È la voce caratteristica dell'organo e con i registri più acuti costituisce la sonorità tipica dell'organo: il ripieno. Una miscela di file di canne disposte in registri in "ottava" e registri di mutazione (generalmente in "quinta") verso l'acuto. Per esempio: Principale '8 – VIII – XV – XIX – XXII – XXVI – XXIX. Altro registro tipico è dato dalla miscela di mutazione in quinta (XII) e terza (XVII) da associare alla base di principale e VIII: la "sesquialtera" voce caratteristica ed amata dagli organisti nordici molto usata nei grandi corali barocchi. Canne di principale possono essere costruite anche in legno e la evoluzione verso il basso dà origine ai "contrabassi". Alcuni autori descrivono il gruppo delle canne di Principale in un organo come "piramide maschile". Canne di principale a diametro più stretto danno un suono frizzante e dolce: vengono definite "violeggianti" (viola, gamba, salicionale ecc.). Anche in questo caso riferirsi alla sonorità dell'orchestra potrebbe rivelarsi un abbaglio. Flauto: aumento della percentuale di piombo. Il suono è dolce, rotondo e vellutato. Anche nei flauti si creano più file acute e anche in mutazione: la miscela di registri in quinta e terza origina il "cornetto", sonorità tipica dell'organo francese: con una piccola forzatura potremmo considerarlo come l'equivalente in flauto della Sesquialtera che viene realizzata invece con delle canne di principale. Il gruppo dei flauti di uno strumento viene definito "piramide femminile". I flauti possono essere realizzati anche in legno e una loro variante viene definita "bordoni". L'aria che tramite le canne genera il suono viene definita "vento" ed era prodotta dai mantici sostituiti oggi da ventilatori elettrici o da motori elettrici azionanti il sistema dei mantici che talvolta per le grandi dimensioni degli strumenti erano posti in un apposito locale. La produzione del vento deve essere costante e non subire cali che darebbero effetti sonori sgradevoli, quindi fungono anche da riserva e stabilizzatori della costanza del vento. Molti autori riportano che J. S. Bach, severo collaudatore, « smontava tutti i tasti per vedere se i polmoni dell'organo fossero buoni » . In realtà Bach suonava inserendo tutti registri per verificare se i mantici riuscissero a sostenere un tale enorme consumo, mentre gli organari costruttori, sicuramente accanto a lui, sudavano freddo. Dai mantici all'organo l'aria fluisce in condotte (portavento) le cui giunture spesso sono guarnite da finissima pelle per evitare la trasmissione di vibrazioni allo strumento. La pressione del vento, peraltro relativamente bassa, viene espressa in millimetri d'acqua. Il somiere è il cuore pulsante dello strumento. Al suo interno tramite un sistema complesso di valvole (ventilabri) il vento passa in delle canaline poste al di sotto delle canne. Su ogni canalina posano le canne che suonano la stessa nota di ogni registro così il ventilabro, azionato dal tasto tramite un meccanismo o un circuito elettrico ne fa accedere il vento . ulteriori valvole, presenti nelle canaline ed azionate dal registro (in questo caso si intende il comando posto accanto alla tastiera) seleziona quale o quali delle tante file canne dovrà suonare. La parte più interna del somiere ove sono presenti questi meccanismi si chiama "secreta" ed anche questa è una sede ove ritroviamo le firme dei costruttori, dei restauratori ma anche dei bigliettini a sfondo umoristico o derisorio. Anche vecchi attrezzi dimenticati o lasciati per un uso futuro e mai recuperati. Non da ultimo: le sigillature delle secrete spesso venivano riparate in passato sfruttando pezzi di vecchie pergamene e vecchi codici che, distaccati e accuratamente restaurati, si sono rivelati testi unici e di grande importanza storica e letteraria. Gli organi diventati così anche delle capsule del tempo. La complessa rete di leve e tiranti (negli strumenti a trasmissione meccanica) che dai tasti portano il comando ai ventilabri viene chiamata "catenacciatura". Accordatura: regolazione della lunghezza della canna per calibrare l'altezza corretta della nota emessa partendo da una nota di riferimento detta "corista" generalmente il La 3 (nella musica moderna ad una frequenza di 440 Hz) e ad una temperatura prestabilita: l'organo infatti subisce alterazioni anche sensibili dell'accordatura a seconda del variare di umidità e temperatura dell’ambiente in cui è collocato. Intonazione: insieme degli accorgimenti che vengono messi in opera per una corretta e ottimale emissione del suono, transitorio di attacco (lo "sputo" della canna), uniformità del suono per ogni registro, regolazione degli armonici. Questa operazione viene effettuata anche in fase di montaggio o rimontaggio in sede e richiede anche settimane per un singolo strumento. Se siete stati così coraggiosi e pazienti ad arrivare fin qui senza coltivare idee malvage nei miei confronti, potremmo continuare, nei prossimi giorni, il viaggio nel mondo dell'organo e scoprire come l'organo si sia diffuso acquisendo la voce delle genti e delle etnie di riferimento, testimone storico, culturale e geografico. Non sanza fatiga si giunge al fine... [Girolamo Frescobaldi, Libro II delle Toccate] Francesco Di Nardo

  • Febbraio 1956: l'episodio di gelo e neve più importante dal dopoguerra

    Dopo quella del 1929, l'altra memorabile ondata di gelo e neve del Novecento a scala nazionale si verifica nel febbraio 1956. La sua durata è più breve, poco più di tre settimane anziché due mesi, in ogni caso rimane tuttora l'episodio freddo più significativo dal secondo dopoguerra. Tutto comincia a fine gennaio con la formazione di una grande massa di aria gelida nella regione tra Russia, Finlandia e Paesi Baltici, che poi tra il 1 o e il 2 febbraio raggiunge l'Italia richiamata da una depressione sul Tirreno. La bora rinforza, nevica sotto forma di tormenta sulle pianure del Nord-Est, dell'Emilia-Romagna, sulle coste adriatiche, ma si imbiancano lievemente anche la Riviera ligure di Ponente e il centro di Roma. Tornato il sereno, le temperature minime scendono intorno a -15 °C nelle zone padane più fredde. Ma l'apice dell'evento viene raggiunto verso metà febbraio a seguito di ulteriori irruzioni di venti nord-orientali. Il versante adriatico è abbondantemente innevato fino alle coste con spessori di 20-40 centimetri a Pescara, un metro e più sulle Murge, e (con il concorso di accumuli creati dal vento) anche oltre 2-3 metri in località appenniniche di Abruzzo e Molise, come Capracotta in provincia di Isernia (1.421 m), note per la loro estrema nevosità dovuta all'esposizione ai venti freddi balcanici. L'interruzione delle comunicazioni stradali e ferroviarie isola per molti giorni decine di paesi negli entroterra, non solo della Penisola, ma anche della Sardegna, lasciando gli abitanti a corto di viveri e combustibile. Il 7-8 febbraio alcuni centimetri di neve imbiancano località in cui il fenomeno è assai raro, come Cagliari, Palermo, Catania, Agrigento e perfino l'isola di Linosa, a metà distanza tra la Sicilia continentale e la Tunisia. Il giorno 9 l'osservatorio del Collegio Romano registra 10 centimetri di neve al suolo (Mangianti e Beltrano 1991), poi tra il 10 e l'11 ne cadono 35 a Torino e 46 a Modena, con temperature ampiamente sotto 0 °C anche nelle ore diurne (a Piacenza il termometro non sale mai sopra lo zero per ben 12 giorni consecutivi, dall'8 al 19 febbraio). I rasserenamenti nelle notti tra il 13 e il 16, fanno registrare in numerose località del Nord temperature che tutt'oggi sono in assoluto le più rigide del periodo successivo almeno al gelo del gennaio 1947, se non a quello del febbraio 1929, con minime di -26,2 °C a Anzola dell'Emilia, tra Bologna e Modena (tuttora il valore più basso ufficialmente noto nella pianura dell'Emilia-Romagna), -26 °C a Lombriasco, nel Torinese, -23,4 °C all'Istituto di Risicoltura di Vercelli, -21,8 °C a Torino-Caselle, -17,3 °C al Collegio Alberoni di Piacenza, -15,6 °C a Milano-Linate, -14,6 °C a Trieste. Al Centro, costituiscono dei primati per il solo mese di febbraio i -12,6 °C di Pescara aeroporto (stazione con dati dal 1947) e i -11,4 °C di Firenze-Peretola (dati dal 1931), mentre i -6,0 °C del Collegio Romano eguagliano il record ultrasecolare del 23 gennaio 1869. Al Sud e sulle isole già nella prima decade si erano stabiliti dei primati di freddo tuttora insuperati per febbraio (-3,2 °C a Cagliari-Elmas, la cui serie inizia nel 1932) o per qualunque mese dell'anno (0,0 °C a Pantelleria, stazione attiva dal 1951). Congelano tratti del Po, del Tanaro, dell'Arno, sebbene in modo meno esteso e duraturo rispetto al 1929. Se nelle campagne e in montagna le condizioni sono assai severe per la popolazione, in città non va molto meglio: "La Stampa" del 17 febbraio segnala che a Torino «migliaia di famiglie sono senz'acqua, senza gas e senza riscaldamento». Dopo la metà del mese le temperature si fanno meno glaciali ma, con l'apporto di umidità marittima, si verificano nevicate. A Roma altri 8 centimetri di neve cadono tra il 17 e il 18 febbraio. Il freddo e la frequenza degli episodi nevosi di quel mese nella capitale rimarranno impressi nella memoria collettiva, tanto che, a distanza di oltre un trentennio, li ritroviamo immortalati anche nel brano La nevicata del '56 scritto dalla sceneggiatrice romana Carla Vistarini per Mia Martini, nel 1990. A Imperia copiose fioccate si susseguono quotidianamente dal 19 al 23 portando il totale mensile di neve fresca a 44 centimetri, valore che rende febbraio 1956 il mese più nevoso della serie di dati dal 1876 a oggi. Date le temperature rigide la pianura Padana rimane estesamente innevata per un mese intero (all'Istituto agrario Zanelli di Reggio Emilia, dal 31 gennaio al 29 febbraio), fino a che, a inizio marzo, la grande massa di aria fredda in Europa viene sostituita da correnti piú tiepide che riportano le temperature diurne sopra i 10-15 °C in tutte le pianure e coste. Tuttavia un sussulto freddo notevole per la stagione si verifica ancora intorno al 10 marzo, sempre sotto venti da nord-est: nuove bufere di neve investono gli Appennini, tra l'11 e il 12 anche il centro di Roma torna a imbiancarsi (2 centimetri al Collegio Romano) e il derby Roma-Lazio allo stadio Olimpico viene rinviato. Per la capitale è una delle nevicate più tardive dell'ultimo secolo, superata solo dalla spruzzata avvenuta una settimana più avanti nel calendario il 18 marzo 1985, tra tuoni e lampi. Quello del 1956 risulta il febbraio piú rigido del periodo successivo al 1900 a Torino (con temperatura media mensile di -3,0 °C), a Milano (-2,2 °C), Modena (-3,5 °C) e Roma (3,3 °C), mentre nelle serie storiche di Piacenza e Venezia primeggia il febbraio 1929. In ogni caso l'episodio di fine anni Venti lo supera ovunque per la sua maggiore durata che coinvolse anche gennaio. Luca Mercalli Fonte: L. Mercalli, Breve storia del clima in Italia. Dall'ultima glaciazione al riscaldamento globale , Einaudi, Torino 2025.

  • Antonio Sammarone: con la "e" o con la "i"?

    Antonio Sammarone (1896-1965). Mio nonno nacque nel 1896 a Maschito, in provincia di Potenza, in Basilicata, anche se tutta la sua famiglia viveva a Capracotta, un piccolo paese tra gli Appennini, in provincia di Isernia, in Molise. I suoi genitori erano pastori e, come tutti, transumanti: in determinate stagioni, scendevano in terre più fertili a far pascolare i loro animali. Ecco perché Antonio è nato il 21 luglio in Basilicata, a sud della regione d'origine della sua famiglia. Arrivò a 5 anni in Argentina a bordo della nave "Duchessa di Genova" assieme alla madre Filomena Di Lorenzo e a tre fratelli: Celestino, di 9 anni, Carmen di 7 e Maria Domenica di 3 anni. Era il 1901. Qui li aspettava il padre Salvatore, da cui sarebbero nati altri sei figli. Si stabilirono nel distretto di Loberia e si dedicarono al lavoro rurale, così come facevano in Italia. La legge 1420 permise ad Antonio di completare l'istruzione primaria. Amava leggere, in particolare un romanzo inglese scritto alla fine del XVII secolo e tradotto in spagnolo, "Oscar e Amanda", di Regina Maria Roche, da cui attinse i nomi di due delle sue figlie: Amanda e Malvina. Nel 1922 Antonio sposò Mariana Etcheverry, figlia di baschi e originaria di Juan N. Fernández, distretto di Necochea. Ebbero dodici figli. Ogni volta che nasceva un bambino, Mariana gli chiedeva di dargli un certo nome, ma quando Antonio lo registrava all'anagrafe, gliene aggiungeva un altro. Ad ognuno dei dodici figli diede un secondo nome che iniziava con la lettera "a": Amanda Zulema, Daniel Antonio, Anìbal Oscar, Clavel Artemio, Carol Harold, Violeta Anabela, Malvina Alida, Azucena Elizabet, Franklin Ariosto, Lirio Abel, Pensamiento Alberto e Ada Eva. Il suo amore per i fiori è evidente anche nella scelta di alcuni nomi (Violet, Clavel, Azucena, Pensamiento e Lirio). Nel 1931 era nato il loro quinto figlio e, quando Antonio si recò in paese per registrarlo, lesse sul giornale "Crítica" una notizia riguardante il re Carlo di Romania, così il bambino venne chiamato Carol Sammaroni, col cognome che terminava in "i" o in "e", a seconda di come lo trascriveva l'ufficiale dello stato civile. Vi erano quindi bambini col cognome Sammaroni ed altri col cognome Sammarone. «Uscivamo da scuola, tornavamo a casa per bere una tazza di mate e poi portavamo gli animali a pascolare in un campo vicino. Nel pomeriggio, quando vedevamo il nonno che piantava davanti casa un lungo bastone con un panno rosso legato all'estremità, tornavamo indietro», racconta Clavel. «Il nonno preparava gli spaghetti la domenica, un uovo a persona, e li impastava lui stesso», diceva Carol. Morì nel 1965. Ho conosciuto mio nonno solo tramite mio padre Carol, che aveva continuato a coltivare le usanze tradizionali come la casa di campagna, il pollaio e la pasta della domenica. Forse essere un insegnante di storia mi ha reso, in un certo senso, custode della storia della mia famiglia, alla ricerca di aneddoti, fotografie, luoghi e ricordi. Conservo l'enorme foglio che servì da passaporto a Filomena Di Lorenzo, con i tratti distintivi che la descrivono come una donna minuta, di 36 anni, una contadina di Capracotta in viaggio con i suoi quattro figli verso una nuova vita in America. Evangelina Sammaroni (trad. di Francesco Mendozzi) Fonte: E. Sammaroni e S. Suffredini, Raíces tanas: testimonios de vida , Biblos, Buenos Aires 2025.

  • Un ricordo di Alessandro De Renzis

    Alessandro De Renzis (1939-2024) nella sua Capracotta. Un anno fa perdevamo Alessandro De Renzis, magistrato di alto profilo, un giurista che, nel corso dei decenni, è diventato una pietra miliare nel campo del diritto condominiale, tanto che i suoi manuali hanno oggettivamente fatto letteratura. Ringraziamo con tutta la nostra gratitudine Letteratura Capracottese APS per questo omaggio al nostro caro papà. Naturalmente il ringraziamento proviene anche da mamma che è molto commossa. Sono date importanti quelle che scandiscono alcune tappe della vita: lasciare andare chi si è tanto amato è straziante ma il ricordo mantiene vive le persone nel cuore di chi le ha amate e nel cuore di chi le ha conosciute. Papà era tanto legato a Capracotta sino a custodire, nel suo cuore e nella sua mente, tutto ciò che aveva appreso da un popolo e da una cultura intessuta di semplicità e di autenticità. Da lui abbiamo appreso il vero progressismo che si condensa in una sola frase: amare l’uomo e rispettarne la sua autenticità . Da lui abbiamo appreso il desiderio di essere rispettosi dell’ambiente: da piccoli ci portava a Prato Gentile per "raccogliere le cartacce" come diceva Lui. Noi eravamo un po' riluttanti e credevamo anche che fosse ingiusto “raccogliere le cartacce” gettate da altri su un prato meraviglioso. Ma quale insegnamento si racchiude dentro a questo semplice gesto? Papà ci ha insegnato, a modo suo, la responsabilità di tutti verso tutti . Uno dei capisaldi della dottrina sociale della Chiesa, ci ha insegnato che nessuno è estraneo al destino dell’altro. Ed ancora, come non ricordare le Sue spiegazioni sul ritrovamento delle cose smarrite! Da piccola trovai un soldino per la strada; eravamo io e lui, avevo più o meno cinque anni e ricordo con precisione la sua spiegazione degli articoli del codice civile sul ritrovamento delle cose smarrite. La procedura che Lui minuziosamente mi spiegò fu utile per farmi capire che non ci si appropria di ciò che non ci appartiene. Lezioni di diritto privato per impartire il senso civico! È questo il senso della parola EDUCARE. Noi siamo grati di ciò che abbiamo ricevuto e speriamo anche di avere dato, ma desideriamo condividere con Voi questo ricordo perché Papà così avrebbe desiderato. La Sua Capracotta e la Sua gente la portava nel cuore tanto che, in fin di vita, ha voluto che io scrivessi per suo conto degli appunti su Francesco Di Lullo, figlio di Albino e di Lucia Ianiro, nato a Capracotta il 24 luglio del 1921. In quegli ultimi giorni della Sua vita, Papà voleva rileggere, quasi con una ostinazione insensata, le lettere di quel frate cappuccino molto legato alla Sua famiglia. È stato un modo per rinsaldare i legami con la Sua Terra e per resistere alla sofferenza di un male che ti sta portando via. Non è possibile elencare tutto ciò che un padre insegna ai propri figli ma è possibile custodire il ricordo di ciò che un Padre ha lasciato come germe di vita alla moglie, ai figli, agli amici, al suo Paese. Ecco perché Vi ringraziamo di questo prezioso dono che ci avete fatto. Maria Luisa De Renzis (a nome di Michela, Enrico, Maria, Luca, Alessandro e Ludovica)

  • Relazione sulla gita sociale a Pompei

    Foto di gruppo nel foro di Pompeii (foto: S. Conti). Sabato 17 maggio è stata una giornata bellissima: 53 capracottesi in gita a Pompei, dove abbiamo imparato tanta storia, visitato luoghi unici al mondo e fatto comunità. È stata una giornata sfiancante ma ricca di allegria e di rimandi a Capracotta. Lo scopo della gita sociale, infatti, era quello di toccare con mano sia l'antica città di Pompeii, il cui primo nucleo venne fondato dagli Osci, che il Pontificio Santuario di Pompei, a cui i duchi di Capracotta avevano partecipato con le opere e col fattivo aiuto nella raccolta dei fondi. Partiti alle 6:00 con una temperatura di appena 2 °C da Capracotta, siamo giunti all'ingresso degli scavi archeologici della cittadina campana alle 9:15, dove la guida dott.ssa Francesca Liotti ci ha accolti e divisi in due gruppi, visto che le guide non possono accompagnare gruppi superiori alle 35 persone. All'interno della città romana, abbiamo visitato alcune delle cose più significative, dall'anfiteatro alla praedia (complesso residenziale) di Giulia Felice e di Ottavio Quartione, fino a quella della Venere in Conchiglia, giungendo al foro ed alle sue terme non prima di aver percorso via dell'Abbondanza con le sue "boutique" dell'epoca. Dopo oltre 2 ore di visita guidata, siamo stati liberi di girare per Pompeii in lungo e in largo, visitando la casa della Fontana Piccola e quella degli Amanti, il Teatro Grande e la casa delle Nozze d'Argento. Consumato un pranzo - chi al sacco chi in pizzeria - è stata la volta del celeberrimo Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, dove ho brevemente illustrato ai partecipanti gli aneddoti che lo legano a Capracotta, a partire dal dott. Antonio Cardarelli (imparentato col nostro Luigi Campanelli), il luminare che aveva certificato l'inguaribilità della giovanissima Clorinda Lucarelli, colei che per prima ottenne un miracolo per intercessione della Madonna del Rosario, dando il via all'edificazione del grande tempio pompeiano. Si è parlato anche di come il beato Bartolo Longo, dopo una vita dissoluta, divenne il massimo propugnatore del santuario e di come, «per mezzo dell'ottimo Duca di Capracotta, con cui stringemmo fraterna amicizia, avemmo la ventura di conoscere le pie e nobili persone», le quali, con le proprie risorse finanziarie, aiutarono di fatto l'ampliamento del santuario, rendendolo ricco e meraviglioso. Interessante anche l'aneddoto che riguarda la statua di 3, 25 metri della Vergine posta sul culmine della facciata e realizzata nel 1903 dallo scultore Gaetano Chiaromonte, lo stesso che nel 1912 fuse il busto di Emanuele Gianturco che oggi sorveglia l'omonima piazza capracottese. Purtroppo, a causa di lavori di manutenzione, non ci è stato possibile salire sul campanile del santuario, da cui si gode una vista magnifica sull'intera valle di Pompei e del Vesuvio, e dove avremmo potuto ammirare le 8 campane fuse dalla Fonderia Marinelli di Agnone. Nel frattempo, diverse persone hanno partecipato alla Santa Messa delle 16:00 presso l'altare maggiore. Alle 17:45 abbiamo ripreso la strada per Capracotta, giungendovi alle 20:30, stanchi ma felici, con gli occhi colmi di cose belle. Ecco una galleria di fotografie realizzate da Mario Ianiro all'interno della città di Pompeii. Il prossimo viaggio, come anticipato a tutti, è previsto per settembre 2025 e si svolgerà probabilmente nella città de L'Aquila e nei suoi dintorni. Francesco Mendozzi

  • Relazione sul centenario delle croci di maggio

    Parte del gruppo alla croce del Procoio (foto: A. Monaco). Sabato 3 maggio abbiamo rispettato con amore e dedizione il centenario delle "croci di maggio" di Capracotta. Un'escursione da oltre 14 chilometri ci ha infatti portati dapprima al Procoio, dove abbiamo letto le parole di Aldo Trotta in omaggio a suo nonno Carmine, con cui abbiamo raccontato ai 18 partecipanti la storia di quella croce, il suo realizzatore, il contesto storico nel quale è stata innalzata. Poi, dopo aver visto posti splendidi quali il Trione, il Tiro a Segno e la Fossata (dove abbiamo avuto sentore di un incontro con un lupo), siamo saliti alla Forcatura, dove il sempre allegro Giovanni Monaco ci ha raccontato la storia di Giacomo Di Tanna e Colomba Merola, i quali, dopo la visita in sogno della Madonna di Loreto, decisero di erigere quella grossa croce, cambiando per sempre la storia di quel luogo. Parte del gruppo alla croce della Forcatura (foto: A. Monaco). Il primo tratto del percorso ci ha visti impegnati nel raggiungere lo Iaccio del Procoio da piazza Emanuele Gianturco, dopo aver visitato la Fonte Fredda ed averne raccontato brevemente la storia. Superata la nuova Fonte del Procoio, abbiamo guadagnato il più grande stazzo antico di Capracotta, dove ancor oggi è possibile rinvenire i resti di quella che era una vera e propria cittadella pastorale. Di fronte all'omonima croce, abbiamo deciso di leggere un frammento del racconto "La croce del nonno Carmine", pubblicato dal dott. Aldo Trotta nella sua raccolta "L'altalena dei ricordi", in cui è scritto della: [...] splendida croce di ferro battuto che mio nonno paterno Carmine vi aveva fatto collocare, in data 3 maggio 1925, come risulta dalla piccola targa ricordo. Si trova nella cosiddetta zona del Precuórie : che significa "stazzo per le pecore", forse un'antica struttura stabilmente presente accanto alla sorgente della Fonte Fredda; tuttora visibile, specie all'alba e al tramonto, anche dalle finestre della nostra casa, è stata e rimane tuttora un punto di riferimento e di sosta per chiunque si trovi a passare da quei viottoli. Purtroppo, non ho avuto la fortuna di conoscere il nonno Carmine e quindi non avevo mai saputo granché della sua iniziativa né, tantomeno, se ci fossero state ragioni precise per la scelta di quella data; molto superficialmente anzi, avevo sempre ritenuto che fosse del tutto casuale fino a quando, finalmente, ho avuto la curiosità di documentarmi e confesso di essere rimasto sorpreso per quanto ho scoperto. Ignoravo che, fino agli anni '60 e al pontificato di papa Giovanni XXIII, fossero due i giorni di memoria liturgica dedicati alla Santa Croce: rispettivamente il 3 maggio e il 14 settembre, e di esse io conoscevo solo quest'ultima; la prima festività, attualmente cancellata, corrispondeva storicamente al "Ritrovamento della Croce", mentre la seconda, quella rimasta in calendario, è tuttora nota come "Esaltazione della Croce". Così, in un crescendo di emozioni, ho appreso dell'antichissima tradizione definita "Le croci di maggio" [...] non è verosimile che a Capracotta le spighe di grano fossero già alte in primavera, ma quella data non era certo fortuita per il nonno, che certamente conosceva la tradizione delle croci votive nei campi per implorare il buon esito delle coltivazioni: tanto più in una stagione a maggior rischio di grandine o di gelate tardive che potevano vanificare un intero anno di lavoro e di attesa. [...] si trattava di croci rudimentali intagliate nel legno dagli stessi agricoltori e non destinate a durare nel tempo: di solito venivano abbellite con rami di ulivo benedetti nella domenica delle Palme e duravano fino al momento del raccolto ma, specialmente in alta collina o in montagna, ogni anno si riutilizzavano le stesse croci di ferro: cosa quantomai problematica nel nostro territorio. Così si comprende la decisione del nonno di collocare stabilmente una croce votiva non proprio nei campi coltivati, ma lungo il sentiero da percorrere; assai più scontata, invece, la sua scelta dell'artigiano cui affidarne la costruzione, perché fu certamente il caro zio Michele Trotta, un vero artista del ferro battuto. Parte del gruppo presso la Fonte del Procoio (foto: F. Mendozzi). Tornati alla Fonte del Procoio, siamo scesi sulla strada provinciale per Agnone e, da lì, attraverso il Vallone dei Vagli, sulla strada del Verrino, fino a toccare il fondo del Tiro a Segno, dove abbiamo raccontato la storia della più antica associazione sportiva di Capracotta e di come quel prezioso luogo fosse diventato prima poligono militare e, dopo l'8 settembre 1943, di come abbia rivestito un ruolo inaspettato nella mancata rappresaglia di Guastra ( qui ). Da lì abbiamo imboccato l'antica Strada di Vallesorda - con cui i nostri contadini raggiungevano quotidianamente i campi di Pietralearda, delle Fossata, dei Cimenti, degli Iacciotti, del Pusaturo e dell'Ara Petracca - che abbiamo lasciato poco dopo la Fonte di Zio Berardino per risalire sulla strada provinciale Montesangrina e quindi imboccare la via brecciata della Crocetta, il cui toponimo è nato proprio un secolo fa, all'indomani dell'erezione della "croce di maggio" delle famiglie Di Tanna-Merola: prima di allora, infatti, quel luogo era detto Forcatura. Parte del gruppo oltre la Fossata Grande (foto: W. Di Lorenzo). Giunti alla Crocetta, ha preso la parola Giovanni Monaco, pronipote di quel Giacomo Di Tanna, classe 1880, che nel 1925, dopo aver sognato per tre volte la Madonna di Loreto, riuscì ad innalzare una croce in Suo onore. La tradizione orale della sua famiglia vuole infatti che sin dal 1923 il bisnonno Giacomo avesse sognato la Vergine Maria, la Quale gli intimò: [...] di costruire una croce in un punto di Capracotta da cui si possano vedere tre paesi: Capracotta, Agnone e Vastogirardi. E aggiunge che questa croce doveva essere finanziata da lui [...] e da una certa signora Colomba, benestante. Nei giorni successivi il nostro protagonista si premura di raccontare il sogno alle altre due persone coinvolte. Mucc' e la signora Colomba sono d'accordo per realizzare la richiesta ma il sacerdote tentenna e, mese dopo mese, alla fine non se ne fa niente. [...] se non sarà eretta la croce i danni saranno maggiori. Mucc' si premura di andare da Colomba a raccontare il sogno e questa voltai due si attivano per installare una croce di ferro alta circa due metri in un punto da cui in teoria si dovrebbero vedere i tre paesi anche se attualmente questa vista è interdetta, essendo la zona per una parte circondata da alberi. Dopo il piacevolissimo racconto di Giovanni Monaco, abbiamo posto l'accento sulla diversità realizzativa delle due croci di maggio, giacché quella del Procoio è decisamente più piccola di quella della Forcatura, ed inoltre la seconda, sull'asse orizzontale, porta i segni tradizionali della Passione di Gesù Cristo, tanto che il prof. Sebastiano Paglione ci ha spiegato quale simbologia si celi dietro i sette "attributi" della croce, che vanno a descrivere il completamento della missione divina. Un momento del racconto di Giovanni Monaco (foto: A. Monaco). Sabato 3 maggio abbiamo cercato di rendere omaggio alla società contadina della Capracotta che fu, quella dei nostri avi, per i quali le croci di maggio erano speranza, augurio, benedizione. Al contempo, abbiamo visitato luoghi insperati del nostro territorio che tanti nemmeno conoscevano. Durante l'escursione per celebrare il "secolo delle croci di maggio", insomma, siamo stati guidati da uno spirito di fratellanza e condivisione, con cui abbiamo rinsaldato la nostra capracottesità . Soprattutto in quest'epoca "liquida", conoscere la propria storia e quella del proprio popolo non è esercizio di stile, ma prova estrema di concretezza. Francesco Mendozzi

  • Il secolo delle croci di maggio

    La locandina dell'escursione del 3 maggio 2025. Sabato 3 maggio ricorre il centenario di due croci di campagna erette sul suolo capracottese: quella del Procoio, innalzata da Carmine Trotta, e quella della Forcatura, voluta da Giacomo Di Tanna e dalla famiglia Merola, entrambe inaugurate il 3 maggio 1925, probabilmente per rispettare l'antica tradizione delle "croci di maggio", con cui si celebrava la scoperta della croce di Gesù Cristo e, allo stesso tempo, si chiedeva la protezione divina per il raccolto. Giacché quello degli itinerari storici è un nostro obiettivo statutario, abbiamo pensato di commemorare questo anniversario secolare con una lunga escursione (oltre 10 km) che toccherà entrambe le croci. Durante l'escursione avremo modo di leggere il racconto del dott. Aldo Trotta sul nonno Carmine, mentre dalla viva voce di Giacomo Di Tanna ascolteremo la storia di suo nonno Muccio. L'escursione muoverà alle ore 8:00 da piazza Emanuele Gianturco, e, restando il più fedeli possibile all'antica rete stradale contadina, ci dirigeremo alla Fonte Fredda e quindi al Procoio, da dove scenderemo verso il Trione per imboccare la cosiddetta "Strada di Vallesorda", che, dopo la Fonte di Zio Berardino, infine lasceremo per guadagnare il Coppo della Crocetta. Consiglio direttivo di Letteratura Capracottese APS

  • Capracotta, 25 aprile 2025: le storie di Emilio, Fiore, Gaspare e Rodolfo

    Il gruppo davanti alla croce di Fiore De Renzis (foto: T. Colacillo). Venerdì 25 aprile 2025 la nostra Associazione ha organizzato con successo una lunga passeggiata escursionistica tra la Difesa e il Vallone delle Incotte per raccontare ed omaggiare quattro capracottesi che, con storie diverse, hanno perso la vita per cause direttamente connesse alla Seconda guerra mondiale e al nazifascismo. Innanzitutto ci siamo recati sulla vecchia croce in ferro che ricorda il luogo in cui morì Adamo Fiore De Renzis (classe 1899), la cui vita, sulla base delle ricerche condotte da Vincenzino Di Nardo e Antonio D'Andrea, fu tragica. Nel 1910, il padre Emilio, da cui proviene il soprannome di famiglia Meglióne , morì a 45 anni di peritonite, dopo che egli stesso si eviscerò con un coltello per non sentire i dolori lancinanti all'addome. Una sorella, Antonietta, morì a 17 anni, nel 1920, a seguito dello sparo partito per «pura e vera disgrazia» - a detta dei cronitsi dell'epoca - dalla pistola di un carabiniere in casa loro. La sorella minore Maria Loreta morì invece nel '22, ad appena 16 anni, probabilmente di malattia. Fiore era sposato con Giovannina Serlenga, che gli diede quattro figli. La maggiore, Antonietta - che portava il nome di sua zia morta adolescente - è l'unica della famiglia a sopravvivergli. Si sposò nel 1950 ma di lei non abbiamo notizie, per cui quasi sicuramente lasciò molto presto il paese. Gli altri figli di Fiore completano il rosario tragico della sua esistenza. Maria Rosa - che portava il nome di sua nonna - morì nel 1940 a 10 anni; l’ultimogenito Lucio, invece, era morto infante nel 1934; sei mesi dopo era morta anche la moglie Giovannina, a soli 43 anni. Al momento dei fatti, dunque, Fiore viveva con la figlia sedicenne Antonietta e col figlio undicenne Emilio - che portava il nome del nonno -, al quale stava insegnando il mestiere del capraio, ossia radunare al mattino le circa duecento capre che vivevano nelle case dei capracottesi e guidarle al pascolo, dunque riportarle al tramonto in paese. È il 20 novembre 1943 quando Fiore ed Emilio perdono la vita. La maggior parte delle testimonianze parlò di una mina, altri parlarono di una granata inesplosa, altri ancora di un colpo di artiglieria partito dall'Oltresangro. A quel tempo, infatti, i Tedeschi avevano ormai lasciato Capracotta da diversi giorni e si erano attestati sulle montagne di fronte, lasciando che la valle del Sangro diventasse la "terra di nessuno" della linea Gustav. Fiore ed Emilio De Renzis, però, vanno considerate vittime dirette della Seconda guerra mondiale e forse proprio dei nazifascisti, in quanto questa strada era stata minata da un gruppo di fascisti appartenenti alla neonata Repubblica Sociale Italiana. Il cosiddetto Gruppo Ceccacci fu un manipolo di nuotatori paracadutisti, avanguradia della Decima Flottiglia Mas, che, di notte, si paracadutava in territorio nemico per effettuare operazioni di sabotaggio che rallentassero l'avanzata degli Alleati. A Capracotta operò la squadriglia formata da Remo Tonin, Benito Buratti e Tiberio Zanardo, i quali confermarono nel 1995 di essere entrati di notte in territorio capracottese e di aver piazzato delle mine sulla strada per Castel di Sangro. Essi parlarono di azioni compiute nel gennaio 1944 ma dai loro racconti, stranamente, non emerge un dato importante, quello delle strade bloccate dalla neve, che tra dicembre e gennaio cadde copiosissima, per cui è possibile che abbiano confuso la data. Ad ogni modo, le strade erano allora sterrate, e il modus operandi di questi camerati era quello di scavare grosse buche al centro della carreggiata, piazzarvi l'ordigno esplosivo e quindi ricoprirlo di terra. Per nascondere la terra smossa, erano solerti nel ricreare a mano la continuità dei solchi dei mezzi che vi erano transitati sopra. Il 20 novembre 1943 Fiore ed Emilio De Renzis saltarono in aria probabilmente su una di queste mine, tanto che la croce posta a ricordo dell'evento sta a due passi dalla strada provinciale. I capracottesi seppero dello loro morte perché quella sera le capre tornarono da sole in paese. La loro storia, a mio avviso, vista da Capracotta, merita la stessa attenzione di quella che aveva colpito due settimane prima la famiglia Fiadino e che siamo andati a raccontare presso il cosiddetto casotto di Nunna Rosa. Il gruppo presso il casotto di Nunna Rosa (foto: T. Colacillo). Infatti, dopo un lungo sentiero che, dalla croce di Fiore De Renzis, tocca la Fonte Sambuco, la Fonte Nascosta, il Vallone delle Incotte ed il casotto di Magnapatane, eretto nel 1940, siamo giunti a quello di Nunna Rosa, dove ho tentato di riscostruire una breve cronistoria dei fatti che portarono, il 4 novembre 1943, all'uccisione di Rodolfo e Gasperino Fiadino, aiutandomi col memoriale di William Parker, col libro di Eleonora Di Nucci e col romanzo di Eugenio Corti "I poveri cristi" del 1951. Presso quel tugurio ormai abbandonato - e che meriterebbe una doverosa valorizzazione -, abbiamo rivissuto la fuga rocambolesca da Sulmona degli 8 evasi neozelandesi, l'incontro con la famiglia Fiadino, l'accoglienza presso la famiglia Falconi-Jaselli, il primo rifugio presso l'eremo di San Luca, la delazione del cittadino santangiolese, il secondo lungo nascondiglio presso il casotto di Nunna Rosa e, infine, la deleteria fiducia accordata ad un «siciliano zoppo» che si rivelerà fatale per tutti. I neozelandesi torneranno ad essere prigionieri di guerra dei Tedeschi mentre i fratelli Fiadino subiranno un processo farsa che costerà la vita a due di essi. La festa della Liberazione, dunque, ha per Capracotta un sapore dolceamaro. Da un lato è la festa della ritrovata libertà, della fine delle atrocità che costarono al paese la morte, la distruzione, lo sfollamento; dall'altro è la triste presa di coscienza di un popolo di aver perso figli, case e dignità. Ad ottant'anni da quegli eventi, con la nostra passeggiata escursionistica abbiamo tentato di rendere più consapevoli le persone circa la storia collettiva che le riguarda, in quanto «la storia non si fa signorile a tavolino», giacché «la libertà [è] un doveroso pericolo». Francesco Mendozzi

  • Viteliù - Promesse

    Quella mattina Marzio Stazio si era alzato prima dell'alba come accadeva solo nei giorni dedicati ai viaggi o agli eventi eccezionali. La luce del sole, che iniziava appena a colorare l'orizzonte, prometteva di illuminare per lui una giornata memorabile e l'eccitazione non gli aveva permesso di dormire più a lungo. Il giovane si era sciacquato appena gli occhi con l'acqua fresca della conca e con gesti frettolosi aveva iniziato a cercare gli abiti nella semioscurità. Li aveva trovati facilmente lì, dove sua madre li aveva sistemati la sera prima; erano i suoi abiti nuovi adatti per montare a cavallo: il regalo più bello mai ricevuto. Fu preso da un'euforia difficile da controllare che raggiunse il culmine quando calzò gli stivali nuovi, fatti dal migliore artigiano di Roma. Si sentì come un semidio in grado di domare tutti i cavalli del mondo e di cavalcare persino Pegasus. Non alto, ma robusto, un fisico non proprio latino il suo, di certo originale fra i giovani di Roma. Era forte e in salute. Anche bello; a sentire la governante di casa il più bel giovane di Roma. "Il mio dio greco" diceva di lui la madre Livia, "bello come una statua di Fidia". Erano queste le parole con le quali la donna aveva sempre rassicurato Marzio che fin da piccolo aveva domandato alla madre il perché della sua diversità dalla maggior parte dei suoi compagni di giochi. Capelli nerissimi e crespi, le sopracciglia folte e una barba che si annunciava precoce e ispida tradivano origini lontane dalla città dei sette colli e dalle genti della stessa campagna romana. I suoi erano lineamenti decisi, a tratti di una certa durezza, appena ingentiliti dalle attenzioni delle donne di famiglia. In questo il giovane sembrava somigliare a sua madre, una donna dall'aspetto fiero, gli occhi nerissimi e la pelle bruna. Originale e affascinante era invece il suo sorriso, che iniziava da un angolo solo della bocca per aprirsi e scoprire i denti bianchi; e poi quelle labbra carnose che piacevano tanto alle ragazze di Roma. Da qualche tempo, Marzio sentiva sempre più espliciti e ammirati i commenti delle giovani donne. Le ragazze e le armi erano le sue passioni più sfrenate. Ma ce n'era un'altra ancor più forte che sembrava essere nata con lui: i cavalli. E oggi sarebbe successa la cosa cui teneva di più! L'addestratore Mikolaus, lo schiavo macedone che nel suo paese era stato un famoso maestro di equitazione, gli avrebbe permesso finalmente di montare Arco, il cavallo acquistato per lui dal padre nell'autunno precedente. Grazie al suo fisico atletico e alle gambe forti, Marzio risultava abile in vari sport, ma era nell'equitazione che eccelleva, sovrastando tutti i suoi coetanei. Sui cavalli sembrava essere nato. Arco era il sogno che si era realizzato: il più bel soggetto che egli avrebbe potuto desiderare. Il mantello baio scuro, la criniera folta e lunghissima d'un nero corvino, i colori che in un cavallo Marzio aveva ammirato fin da bambino, insieme alla maestosa incollatura facevano del giovane stallone una delle cavalcature più belle tra quelle possedute da qualunque giovane delle famiglie patrizie di Roma. Un animale di rara bellezza, fiero nell'aspetto e dal gran temperamento ora vicino a compiere i tre anni e dunque nell'età giusta per essere montato. Proveniva dai monti della Tolfa, nella Tuscia inferiore, da un allevatore che importava stalloni africani dalla Cirenaica per accoppiarli alle rustiche fattrici di quella terra. In pochi anni il suo allevamento era diventato il più noto a Roma; molti milites equites del rinato esercito repubblicano si vantavano di aver acquistato un cavallo da lui. Arco era il più bello mai visto da molto tempo a Roma. Durante le lunghe giornate dedicate alla doma e all'addestramento dello splendido animale, Marzio aveva potuto leggere chiaramente l'invidia anche sui volti degli amici più stretti. Suo padre aveva ricevuto anche diverse allettanti richieste di acquisto, sempre negate soprattutto per la ferma opposizione del giovane. Da giorni aveva insistito per poterlo cavalcare. E il giorno precedente, nonostante l'addestramento non fosse completato, Mikolaus aveva finalmente ceduto. L'avrebbe montato! Il primo pensiero di Marzio, non appena sveglio, era dunque corso veloce come il vento alla fattoria appena fuori le mura di Roma che custodiva quel sogno marrone scuro vestito da cavallo. Un pensiero fisso che lo accompagnò all'uscita della stanza avvolta ancora dalla penombra. Il giovane pregustava già le "parate" cui avrebbe dato vita in groppa a quello splendore davanti alla nobiltà romana, alla gioventù e soprattutto davanti a lei, Lucilla Cornelia Rufa! Un tuffo al cuore lo distolse improvvisamente dai pensieri sul destriero. Quel nome... quel volto! Marzio si fermò solo un attimo, lo sguardo perso nell'immagine che si era formata nella sua mente. Quasi aveva dimenticato l'appuntamento! Egli non aveva dormito granché quella notte, come altre notti durante quella settimana, anche per un altro motivo. Lucilla Cornelia alla quale si era dichiarato un mese prima e che da qualche giorno aveva accettato la sua corte, oggi lo avrebbe incontrato con la promessa del primo bacio. Si erano già visti diverse volte parlando a lungo e guardandosi tutto il tempo negli occhi. Pochi giorni per la nascita di un nuovo amore. Un sentimento travolgente, di un'intensità mai provata da entrambi. Per tutti e due era il primo innamoramento e come ogni amore che nasce sulla terra, era fatto di sorrisi, sguardi e rossori di lei; i batticuore, le carezze tentate del ragazzo e i baci negati da Lucilla, le promesse, i giuramenti, i sogni e le speranze e le paure di ogni coppia innamorata. Le mani che si sfioravano furtivamente ogni volta che, passeggiando, pensavano di essere al riparo da sguardi indiscreti. A far da complice era la splendida primavera di Roma nella quale i tepori, profumi e colori sembravano proprio invitare tutti gli esseri all'amore. Erano due fiori che sbocciavano sul sangue e sulla violenza del recente terribile passato di Roma. Questo pensava persino la nutrice della ragazza sorvegliante, spesso impaziente, degli incontri. Era il parere anche della madre di lei che, segretamente informata dall'anziana serva, non si era opposta a quell'amore nascente. Del resto Marzio apparteneva a una buona famiglia della nuova borghesia di origine italica, classe media di quella che era ormai la città più potente del mondo e che dopo la fine delle guerre intestine aveva ripreso ad accettare nel suo seno nuovi ricchi, nuove lingue e culture. Marzio avrebbe dunque incontrato Lucilla Cornelia nel pomeriggio di quel giorno di primavera e l'avrebbe baciata! Il pensiero lo scosse. Si affrettò a uscire da casa, non senza passare prima a dare un bacio sul viso dell'adorata madre Livia, il cui sorriso, nell'ombra della stanza, egli non vide. Uscito per strada il giovane vide a levante il cielo colorato da un'aurora particolarmente intensa, rossa, da sembrare il riflesso delle sue due passioni. Si diresse verso Porta Capena già affollata dal via vai dei commercianti intenti al rito dedicato a Mercurio. A poca distanza dalla fonte sacra al dio alato egli corse incontro a Ullovidio Celto, il giovane che aveva conosciuto da ragazzino, fin dai primi mesi della sua permanenza a Roma e la cui amicizia lo aveva aiutato ad ambientarsi in una città completamente diversa dalla cittadina di provincia dove aveva passato la sua prima infanzia. Un ragazzone, corpulento e tuttavia agile, più alto di una spanna rispetto a lui. I capelli chiari e gli occhi azzurri ne tradivano l'origine gallica: dei Galli Senoni aveva, oltre al fisico, anche la pelle chiara, la forza e il carattere generoso e gioviale. Era figlio di un possidente della Gallia inferiore che aveva seguito Siila come militare prima in Oriente e poi nella guerra civile contro Mario. Per i suoi servigi era stato ampiamente ricompensato dal Dittatore durante il cui dominio aveva deciso di trasferirsi a Roma. Lì aveva tentato con un certo successo la scalata sociale approfittando anche dei larghi vuoti lasciati dall'era delle proscrizioni. – Te la stai facendo addosso. Confessa! – gli urlò Ullovidio in faccia non appena lo vide. – Quante risate mi farò quando quel diavolo scuro ti avrà sbattuto col culo a terra... Ah ah ah – e giù una sonora risata e una possente pacca sulle spalle di Marzio che si piegò sulle gambe, ma reagì ridendo. – Tutta invidia – disse soltanto, mentre abbracciava l'amico e si toccava la spalla dolorante. I due giovani uscirono dalla città con passo svelto, a tratti correndo. – Arco non mi farà del male – disse Marzio serio, – non è un animale cattivo. Non ha opposto alcuna ribellione alla doma. E focoso sì, ma non è cattivo... – C'è voluta tutta la bravura di Mikolaus a imbrigliare il fuoco che ha dentro quel cavallo – ribatté l'amico nel suo latino impastato dal rotondo accento senone, – ma ha anche lui la sua dignità. Quando si accorgerà che vogliono farlo montare da un asino... vedrai che sgroppate! E tu... che salti! Ah ah ah! Ancora una sonora risata che contagiò anche stavolta Marzio. – A proposito di monta, oggi è doppia eh? Stalloni e giumente, sai che divertimento! E giù una pacca sulla schiena più forte della prima. Marzio questa volta reagì male. – Lascia stare Lucilla, Ullovidio! Su di lei non voglio che scherzi, te l'ho detto mille volte! Quando fai così, diventi odioso! – Scusa, scusa! – Ma il risolino rimasto sul viso del ragazzone non sapeva certo di pentimento. Affrettarono ancor di più il passo, mentre le mura della città erano già distanti alle loro spalle. Due giovani della nuova Roma, Marzio e Ullovidio, accomunati dal fatto di non essere di stirpe latina. Forse proprio per questo avevano immediatamente legato quando si erano conosciuti: era successo sette anni prima, appena dopo l'arrivo di Marzio a Roma con la sua famiglia. Anche Ullovidio aveva dovuto superare lo stesso trauma: trovarsi improvvisamente in quella città da straniero. Era bastato poco tempo e ora erano due giovani Romani nel pieno fulgore della loro gioventù. Come molti dei loro amici si sentivano, ed erano, dei privilegiati al centro del mondo. La vita sorrideva, tutto concorreva ad alimentare l'ottimismo e la voglia di vivere. Marzio in particolare si sentiva, quella mattina, il ragazzo più fortunato della terra. Il fato, sotto le doppie sembianze di uno splendido stallone baio scuro e del viso bellissimo della sua innamorata, pareva volesse sorridergli all'infinito. Volarono verso la masseria del fattore cui erano affidati i campi e gli animali della famiglia degli Stazi. Vi giunsero in pochi minuti. La casa e le stalle li accolsero già rischiarate dal sole che nasceva dietro le colline a est. Mikolaus era nel ricovero ad accudire Arco. Li salutò con un rimprovero. – Ho dato io l'avena e il fieno al tuo cavallo – esclamò rivolto verso Marzio. – Se aspettava te, sarebbe morto di fame. Come al solito! – Ma... ma Mikolaus, il sole non è ancora spuntato – balbettò il giovane. – E poi, Ullovidio... – Eh, no! Non provare a incolpare a me – intervenne l'amico. – Io ero a Porta Capena che era ancora buio... – Quando sarai in guerra, non ci sarà tempo di dormire! – interruppe Mikolaus duro, sempre rivolto a Marzio. – E se il cavallo non sarà stato nutrito a sufficienza ben prima dell'alba, tu sarai solo un uomo che morirà prima degli altri! Il tono era deciso, lo sguardo fisso negli occhi del ragazzo. L'addestratore macedone faceva bene il mestiere per cui era mantenuto in vita dalla famiglia degli Stazi e conosceva il suo dovere. Educare il giovane all'uso del cavallo in guerra voleva dire imporgli regole ferree, comportamenti che tutti i popoli che usavano gli equini nel combattimento conoscevano bene. Lo schiavo sapeva di essere spesso più severo di quanto fosse necessario, ma sapeva anche bene quanto ciò fosse necessario con gli adolescenti benestanti che gli erano affidati. Ragazzi sempre troppo inclini a considerare il cavallo come un mezzo di trasporto o simbolo dello status sociale, senza diritti e senza anima. – La salute del tuo cavallo deve starti più a cuore che non la tua salute – disse senza ammorbidire affatto il tono e guardandolo sempre in viso. – In battaglia la forza del tuo cavallo è la tua forza. Il benessere di Arco sarà la tua salvezza, non lo capisci? Quando sarai ferito e inseguito, la tua vita dipenderà solo da quanto veloce e a lungo saprà correre il tuo destriero. Staccò lo sguardo dal ragazzo per togliere il secchio dal muso dello stallone che invece avrebbe voluto continuare a pulire con la lingua ciò che di avena e crusca bagnata era rimasto nel fondo. Allungò il collo fin dove potè poi rinunciò, e le sue attenzioni si rivolsero verso il fieno nella mangiatoia. Scartò con il muso a destra e a sinistra le parti meno golose e affondò la bocca al centro del mucchio fino a raggiungere i semi sulla pietra della mangiatoia. La criniera folta e corvina copriva per intero la testa abbassata dell'animale. – Arco è il più bel soggetto che io abbia mai domato – riprese con calma Mikolaus, – e dire che ne ho visti migliaia di cavalli nella mia stalla. Devi saperlo meritare ragazzo! Dimostrami che sei alla sua altezza! – Lo guardò di nuovo dritto negli occhi porgendogli brusca e striglia. Marzio e Ullovidio, in silenzio, spazzolarono a lungo il pelo dello stallone. – Tutto comincia dalla pulizia del cavallo – diceva sempre Mikolaus – e continua dalla confidenza che si deve avere con lui. Quasi tutti possono montare un cavallo, ma pochi riescono ad averlo come amico della vita. Confidenza, fiducia, rispetto. Il cavallo non ti deve temere, ma amare; deve vederti come il suo protettore e la fonte della sua sicurezza. Le parole dell'addestratore risuonavano nella mente di Marzio a ogni colpo di striglia. – Devi essere colui che gli porta il cibo, lo massaggia con la brusca e lo fa star bene. Devi essere il rifugio delle sue paure, chi lo accarezza nei momenti di tensione. Solo così si fiderà di te, solo così potrai chiedergli di non arretrare davanti al fuoco, alle grida e agli orrori della battaglia. Solo conquistando la sua fiducia egli si scaglierà per te contro il muro di lance della fanteria per scompaginarne le fila. Il tuo cavallo saprà ripagarti, sarà mille volte più generoso di quanto tu non lo sia stato con lui e correrà fino a farsi scoppiare il cuore quando si tratterà di salvare la tua vita. – Devi passare più tempo con lui che con le ragazze e con i tuoi amici! – disse sottovoce Marzio rivolto all'amico come ripassando ad alta voce una lezione del maestro che si era allontanato di poco. – Mikolaus forse ha ragione, ma tra Arco e Lucilla la scelta non è facile, non trovi? – Risero di gusto, ma per pochi secondi. Tornarono subito seri, continuando le operazioni di preparazione che durarono ancora diversi minuti. A un certo punto l'addestratore decise che fosse sufficiente. Una pacca sulla spalla del cavallo e un'altra su quella di Marzio furono il segno che la pulizia era finita e che era il momento delle briglie. – Un cavallo può portarti fino ai confini del mondo se saprai capirlo e rispettarlo –, insistette Mikolaus che impiegava ogni momento della presenza del giovane accanto a Arco per ripetere i suoi consigli senza smettere neanche un momento di insegnargli qualcosa. – Devi osservarlo sempre, cercare di capire ogni giorno come sta dai segni che il suo fisico sa darti. I due giovani si scambiarono un fugace sorriso d'intesa sempre attenti a non farsi vedere da Mikolaus per il quale nutrivano il massimo rispetto conoscendone il valore, ma anche la severità. – Il pelo lucido è sintomo di salute, l'opaco ti dirà che ha problemi, anche seri. E lo zoccolo? Osserva lo zoccolo... – Mikolaus invitò Marzio a sollevare la zampa posteriore destra del cavallo e a guardare la parte inferiore del piede. – Non deve crescere in eccesso e sotto non deve essere mai nero. Il nero vorrà dire che è marcio, lo saprai anche dalla puzza. Allora dovrai provvedere a una stalla più asciutta e a una lettiera con la paglia pulita e più abbondante. Un cavallo senza piedi sani è inservibile. – Maestro – disse Marzio lasciando la zampa e avvicinandosi alla testa dello splendido animale, – è vero che i cavalli parlano con le orecchie? – Osserva sempre attentamente il tuo cavallo – continuò Mikolaus come non avesse ascoltato la domanda, – guarda tutto di lui. Stai attento a che il suo occhio sia sempre vivace, e che la testa sia sempre ben portata. Uno stallone deve tenerla sempre alta e fiera. Diversamente è cattivo segno. Se mangia malvolentieri, apri la sua bocca e osserva che non abbia denti da limare o punte di biada nelle gengive... Impara a guardare il tuo cavallo, ragazzo. Amalo e Arco ti porterà fino ai confini del mondo, ti ho detto. Sì, i cavalli parlano e non solo con le orecchie. Ma ora è tardi, preparati a montare e non farmi pentire di essere il tuo maestro. Finalmente aveva sorriso. Marzio e Ullovidio cercarono a lungo di far indossare il morso ad Arco, ma il giovane cavallo non voleva saperne di accettare il ferro in bocca né di smettere di mangiare il fieno. A stento i due riuscivano a fargli alzare la testa che ad ogni tentativo rituffava nel mucchio odoroso. Era la prima volta che avevano a che fare con un giovane stallone dal carattere tanto diverso dai cavalli anziani accuditi fino a quel giorno. Mikolaus li guardava da lontano senza intervenire. Fu Ullovidio a dare i primi segni d'impazienza. Afferrò con forza la testa del cavallo e tentò di premere nervosamente il ferro contro i denti serrati dell'animale, che scosse violentemente il capo e fece cadere morso e briglie a terra. Il ragazzone perse la pazienza e fece per alzare una mano sul cavallo. Fu allora che lo schiavo macedone intervenne. – Fermati! Non è così che devi fare! – gridò Mikolaus avvicinandosi in fretta. – Mai picchiarlo! È un cavallo giovane! Guardò Ullovidio fisso negli occhi, lo sguardo duro a pochi centimetri di distanza dal suo volto. – Non provarci mai più! Così lo rovini! Si calmò. – Mai, il dolore mai. In questo modo il morso gli ricorderebbe una sofferenza fisica e una punizione. Così gli sarà sgradevole per sempre. Non otterrai che lotte ogni volta che dovrai farglielo indossare! E sarà sempre peggio. Dai a me. Lo schiavo prese le briglie e si allontanò di pochi metri. Tornò con un contenitore di terracotta. V'immerse il dito più volte e spalmò il miele così prelevato sul metallo del morso. Si avvicinò a Arco che alzò docilmente la testa e annusò il ferro. Leccò il miele, ma non aprì la bocca per accettare l'imboccatura. Allora Mikolaus introdusse dolcemente un pollice nella piega della bocca del cavallo che si aprì così da far entrare il morso. Per nulla turbato il puledro prese a masticarlo leccando contemporaneamente con la lingua il resto del miele. – Nessuno ha diritto di costringere un altro essere vivente a fare qualcosa con la violenza. Nessuno! – mormorò l'istruttore mentre completava l'operazione facendo passare le cinghie della testiera dietro le orecchie agganciandole alle rispettive fibbie. Carezzò il cavallo al centro della testa. – Così è la dolcezza che ricorderà ogni volta che gli presenterai il morso – disse, allontanandosi con il puledro che lo seguì docilmente fuori dalla stalla fino al rettangolo recintato. I due ragazzi si guardarono, stupiti e ammirati. Poi uscirono dalla stalla, ma solo Marzio entrò nel recinto. Era ormai giorno fatto e l'aria era carica di tutti i profumi della primavera di Roma. Per precauzione l'istruttore aveva sistemato le giumente in pascoli molto distanti in modo che il giovane stallone non ne fosse distratto o innervosito. Marzio aveva sempre dimostrato una grande capacità nel cavalcare. "Ma Arco è di un altro mondo" lo aveva sempre ammonito maestro Mikolaus. – Perciò stai attento – gli disse ora, poco prima di aiutarlo a salire – non strafare. Devi entrare in sintonia con lui, stare calmo e trasmettergli tranquillità e sicurezza. Non trattenerlo troppo in bocca, guidalo più con le gambe, come ti ho insegnato, che con le redini. E usa la voce, come mi hai sempre visto fare con lui. La voce è importante, lo rassicura e lo comanda. È un cavallo buono, ha accettato l'uomo, ma è giovane e ha tanto sangue nelle vene. Con la forza non otterresti che reazioni pericolose, soprattutto per te. E non usare maniere brusche. Rovineresti il mio lavoro di mesi. Sali! Gli sostenne la gamba sinistra e Marzio salì agilmente in groppa. Il cavallo volse la testa all'indietro fino a odorare una delle gambe del suo cavaliere, il secondo essere umano di cui sperimentava il peso sulla schiena. Marzio sentì il calore e la forza di quel corpo vigoroso fra le gambe. Sorrise, con quella sua strana maniera di farlo, con il sorriso che partiva da un solo angolo della bocca. Era senza sella e senza coperta così come il maestro aveva voluto. Fu colto da una scarica di emozione mista a timore reverenziale e strinse istintivamente le gambe alla ricerca di stabilità. Alla stretta il cavallo fece due rapidi passi avanti quasi volesse fuggire da qualcosa, tanto che l'istruttore fece appena in tempo a fermarlo prendendolo per la cavezza. – Piano, ragazzo, piano. Lui è sensibile, ha sangue. Una stretta così vuol dire farlo partire al galoppo... piano. Mollò la cavezza e lasciò a Marzio il comando dello stallone che iniziò a muoversi lungo la staccionata del rettangolo. Attimi d'emozione intensa per il giovane che non stava più nella pelle. Guardò Ullovidio con un sorriso fra i più larghi di tutta la sua vita, poi riprese a concentrarsi su Arco e le sue reazioni. – È stupendo maestro, è docile ai comandi, risponde come nessun altro! – È un cavallo superiore a tutti quelli che tu ed io abbiamo conosciuto – disse Mikolaus con soddisfazione, – un cavallo speciale, perciò trattalo bene. E non deconcentrarti! Arco rispondeva ai comandi che il suo cavaliere gli impartiva seguendo gli ordini di Mikolaus rimasto al centro del recinto. Ad ogni ordine seguiva una risposta positiva, perfetta. E l'entusiasmo di Marzio cresceva. Tutto gli sembrava più facile che con gli altri cavalli fino ad allora montati. L'istruttore comandò il trotto; alla richiesta di Marzio il cavallo eseguì con un'eleganza rara e movimenti rotondi e sontuosi. Marzio non credeva a ciò che sentiva sotto di sé: potenza ed eleganza in un unico essere. Ullovidio appoggiato alla staccionata aveva gli occhi sgranati. Il giovane partecipava sinceramente alla gioia dell'amico del cuore stupito dalla bellezza di quella scena. Entrambi non avevano sentito e visto nulla di simile. Altri esercizi e molte figure seguirono per oltre mezz'ora di lavoro e di entusiasmo crescente per Marzio. Mikolaus come sempre era attentissimo e correggeva il minimo errore del giovane. In cuor suo, aveva anche la conferma delle eccezionali doti naturali di Marzio come cavaliere: il miglior allievo di tutta la sua carriera. Ma questo non glielo avrebbe mai detto. – Maestro, posso farlo galoppare? – chiese a un certo punto il giovane il quale, nonostante la fatica, non stava più nella pelle. – No, per oggi può bastare così. Le cose vanno fatte gradatamente. – Ma maestro Mikolaus! Tutto è andato bene, Arco mi ha accettato. Lo hai preparato così bene! Vedrai che non ci saranno problemi, anche al galoppo. Ti prego, solo due giri di campo, ti prego... Mikolaus esitò, stava per pronunciare ancora il suo no quando fu Ullovidio a dire la sua. – Dai Mikolaus, facci vedere come galoppa Arco. Non vorrai privarci di un simile spettacolo! Cosa vuoi che succeda, sono entrambi tuoi allievi no? – Va bene – mormorò il macedone solleticato nel suo orgoglio – ma solo due giri. E adagio, capito? Per chiedergli il galoppo dagli i comandi giusti. Adagio e con calma. Potrebbe sgroppare. In quel caso stringi le gambe e afferra la criniera e allenta la pressione. Solo due giri, piano. Vai. Marzio sorrise a mezza bocca e riportò il cavallo lungo la staccionata. Passo, trotto e finalmente diede il comando del galoppo; iniziò un movimento non troppo veloce ma rotondo e cadenzato, da cavallo di razza. La testa incappucciata, gli occhi fissi in avanti, orecchie dritte e il nero della criniera che fluttuava nell'aria. L'entusiasmo del cavaliere si trasformò in euforia e mentre Ullovidio applaudiva ammirato, Marzio piantò con forza i talloni contro il costato di Arco che con un nitrito appena soffocato prima abbassò e scosse il capo accennando a una sgroppata poi aumentò di scatto la velocità. Il galoppo controllato si era trasformato in una corsa sfrenata. – Fino ai confini del mondo! – urlò il giovane facendo spaventare il cavallo che sgroppò ancora e prese a galoppare con maggior foga. Mikolaus infuriato urlava al giovane di fermare il cavallo. – Vi farete male, disgraziato, fermati! – Inutilmente. Marzio non lo sentì neppure. Diresse la testa del cavallo contro la staccionata dalla parte opposta del recinto e gridò: – E adesso vediamo come salti, figlio del vento! – dando ancora un colpo di tallone nelle costole di Arco. Nella sua corsa il giovane stallone non esitò un attimo: puntò l'ostacolo e, criniera al vento, lo saltò con una potenza tale da lasciar senza fiato anche lo sbigottito Mikolaus. La bocca di Ullovidio era aperta al massimo della possibilità delle sue mascelle. – Ullovidio, è come volare! – urlò ancora Marzio ancor prima che la sua cavalcatura posasse gli anteriori a terra dall'altra parte della staccionata. Non appena ciò accadde, il cavallo prese a sgroppare così forte, ripetutamente, tanto da sbalzare di groppa il suo cavaliere. Marzio fu proiettato in aria e ricadde battendo violentemente la schiena a terra a parecchi metri di distanza, mentre il cavallo proseguiva da solo la sua corsa, lanciando ripetuti calci al vento con entrambe le zampe posteriori. Atterrito, Mikolaus prese a correre verso l'allievo che non accennava a rialzarsi. Il corpo del giovane sembrava preso da spasmi. Ullovidio aveva fatto lo stesso e giunse per primo addosso a Marzio che, faccia all'aria, rìdeva senza sapersi trattenere. – È stato proprio come volare... – ripeteva sbellicandosi dalle risate. Ullovidio si riprese dallo spavento, ma non fece in tempo a insultare l'amico che arrivò Mikolaus. Questi, vista la scena, s'infuriò davvero, e nerbo alla mano, fece per frustare il ragazzo ancora disteso. Istintivamente Marzio si coprì il volto aspettandosi il colpo, ma la frustata si abbatté, violenta, a terra a pochi centimetri dalla sua spalla. Mikolaus era fuori di sé dalla rabbia. Continuava a percuotere il terreno con il nerbo gridando incomprensibili frasi in greco. Certamente insulti e parolacce. – Sei un incosciente, un pazzo, uno scellerato! – urlò finalmente in latino. – Avresti potuto ucciderti. E rovinare per sempre quell'animale che non meriti! Non lo monterai più, capito? Mai più! Era furioso. Marzio aveva temuto davvero di essere battuto dallo schiavo macedone; in quel momento si rese conto che lo avrebbe meritato. Bianco in viso, Ullovidio era rimasto tutto il tempo senza parole. – Adesso vai a riprendere quel cavallo, se ci riesci. Vai, incosciente pazzo di un giovane romano! Marzio si rialzò guardandosi intorno. Il cavallo era sparito. Forse lo aveva perso per sempre. Pensò con terrore a suo padre e all'inevitabile, dura, punizione che gli sarebbe capitata. Guardò Ullovidio che gli indicò la direzione nella quale Arco era corso ventre a terra. Percorse un miglio, poi due, accompagnato dall'amico che non sapeva se ridere o essere seriamente preoccupato. Infine videro Arco che pascolava non lontano da una fattoria. A pochi metri di distanza, in un recinto, alcune giumente osservavano attentamente il giovane stallone baio. Una di esse nitriva nervosa invitandolo con movimenti espliciti della parte posteriore del corpo. Era in calore. – Eccolo là – disse Ullovidio sollevato, – tale e quale il suo padrone. Si è fermato dalle femmine –. Scoppiò in una risata fragorosa. Rise molto di meno Marzio che, tra l'altro, ora accusava un forte dolore al fondoschiena e a una spalla. Cercò di avvicinarsi al suo cavallo ma questi, a ogni tentativo, fuggiva girando in circolo, coda alzata, collo e testa portati con fierezza. Il rumore di zoccoli e i nitriti avevano intanto attirato l'attenzione del contadino che abitava quella masseria. Alla scena, l'uomo chiamò Ullovidio. – Fategli vedere questo – disse al ragazzone tendendogli un secchio con un po' di avena dentro – e forse riuscirete a prenderlo. Marzio capì. Preso il secchio, iniziò a chiamare Arco in maniera sommessa alternando le parole a un lieve fischio. – Tieni bello, dai. Vieni. Vieni, Arco su... – E non guardarlo negli occhi! –, gridò da lontano il contadino evidentemente esperto di cavalli. Prima intimorito poi sempre meno nervoso, Arco fece avvicinare il giovane a pochi metri. – Ora voltagli le spalle e aspetta che si muova lui; mostragli sempre il secchio – disse ancora l'uomo sempre rivolto a Marzio. Il giovane eseguì. Non passò che un minuto e lo stalloncino si mosse verso il suo giovane padrone. Giuntogli vicino affondò il muso nel secchio dell'avena. Marzio lo prese dolcemente per la cavezza lasciandolo mangiare. – Che fellone – disse Ullovidio scuotendo la testa, ma rincuorato, – una così sontuosa bestia che si gioca la libertà per un pugno di biada! No, in questo non ti somiglia affatto! Nicola Mastronardi Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà , Itaca, Castel Bolognese 2012.

  • La "scurdela" di mezzanotte

    I sepolcri nella chiesa di Capracotta (foto: F. Mendozzi). Dopo la lunga Quaresima ecco che ci si preparava per la Pasqua. Il primo appuntamento importante era la Domenica delle Palme: dopo la messa e la benedizione, il sagrestano distribuiva sul sagrato della Chiesa ad ogni ragazzo la palma benedetta ossia un ramoscello di ulivo. Vestito a festa ogni ragazzo andava dai parenti, dai compari e dagli amici di famiglia a porgere gli auguri e consegnava un rametto di palma: in cambio riceveva qualche soldino. Era un invisibile e forte legame che teneva unite le famiglie e per evitare che dimenticassi qualcuno, mia madre la sera prima mi aiutava a ricordare i nomi di tutti coloro che avrei visitato il giorno dopo. Un rametto si riportava anche a casa e a volte serviva a rinfocolare una curiosa tradizione. Se c'era nella stalla una capra o una mucca prossima a partorire, si prendeva una foglia benedetta e si buttava sulla brace: se bruciava rivoltandosi allora il nascituro era un maschio, altrimenti era una femmina. Trascorsa la Domenica delle Palme, frequentavo più spesso la bottega di falegname di zio Giovanni Falcone (detto Sgammìne ), marito di mia zia Angiolina (detta Purziélla ), sorella di mia madre. Avevo bisogno che mi aggiustasse la vecchia raganèlla o che me ne facesse una nuova. La raganèlla era costituita da una piccola scatola, da un asse e da una o due ruote dentate che messe in rotazione dall'asse, facevano vibrare una striscia di legno che produceva un caratteristico suono. Le cuccerèlle invece erano formate da una tavola che aveva sulle due facce alcuni tondini di ferro mobili: un'apposita apertura serviva a tenerla in mano in verticale; ruotandola da una parte e dall'altra produceva un forte e cupo rumore. Dal Giovedì Santo per tutti i bambini cominciava uno strano divertimento riservato solo nei tre giorni di lutto religioso che precedevano la Pasqua. In Chiesa le croci degli altari venivano coperte e le campane non potevano annunciare le funzioni religiose. A gruppi bambini e ragazzi percorrevano tutte le strade di Capracotta annunciando le funzioni religiose facendo più rumore possibile con le raganèlle e le cuccerèlle . Il sabato santo a sera tutti a messa e noi bambini aspettavamo con impazienza, durante la messa solenne, la mezzanotte perché, non appena veniva scoperta la croce sull'altare maggiore, iniziava la scùrdela ed un rumore infernale riempiva la Chiesa: i piedi battuti sul pavimento, le raganèlle e le cuccerèlle che giravano al massimo contribuivano a creare un boato: era il terrificante ripetersi del momento della Resurrezione. Domenico Di Nucci Fonte: D. Di Nucci, I fiori del paradiso. Antologia di fatti e ricordi, storie, storielle, usi e costumi di un paese e di una famiglia , Tip. Cicchetti, Isernia 2005.

  • Capracotta, la capitale del fondo

    L'articolo del Corriere dello Sport su Capracotta. Capracotta. Il nome è certamente originale, un po' buffo e provoca, per dirla con Luigi Campanelli, appassionato storico di questo piccolo centro del Molise, «sollazzevoli motteggi al nostro arrivo tra i nuovi condiscepoli del ginnasio». Gli studi per spiegare l'etimologia e il significato del nome di questo paesino di 1.200 abitanti, situato in cima ad una delle montagne molisane, sono svariati e non risolvono la curiosità in modo certo. Sta di fatto che questo nome resta sicuramente impresso nella mente di chi viene a scoprire l'offerta di turismo per trascorrere vacanze serene e tranquille. Come restano indelebilmente memorizzate le immagini del paesaggio, delle valli, della gente. Capracotta offre la possibilità di vacanze a prezzi accessibili, ed è questo il punto di forza della piccola località turistica molisana. «Rispetto alla concorrenza di stazioni affermate e più grandi, riusciamo ad offrire una qualità dei servizi, dovuta praticamente alla cura ed alla dedizione verso il turista» dice subito Fernando Di Nucci, attivissimo assessore al turismo, che ha peraltro realizzato un bellissimo sito per i navigatori di internet ( www.capracotta.com ). Attenzione, è necessario digitare la desinenza "com" anziché "it" proprio perché l'originalissimo e simpatico nome di Capracotta era stato subito incamerato da chi fa la corsa alla registrazione dei siti. Fiore all'occhiello di questa stazione turistica è la pista "Mario Di Nucci" a Prato Gentile (1.573 m.), alle falde del Monte Campo, dove sono localizzati gli impianti per la pratica dello sci di fondo. Questa pista, regolarmente omologata dalla Fisi, è stata sede degli Assoluti di sci di fondo svoltisi qui nel 1997, nei quali trionfò la Belmondo che confidò agli ospitalissimi amministratori comunali di essere rimasta affascinata per la bellezza del paesaggio e la validità della pista di fondo che si sviluppa attraverso uno splendido bosco di faggi e di abeti, per una linghezza di circa 15 chilometri. La pista ha tre anelli di percorrenza, dei quali due per la pratica agonistica ed uno per quella turistica e per la fase di pre-riscaldamento degli atleti; l'impianto è costituito dallo stadio con le corsie di partenza e di arrivo per le gare individuali ed a staffetta, gli spogliatoi, spazi di preparazione e controllo dei materiali, la tribuna per il pubblico. Ed è proprio attraverso lo sci di fondo che l'assessorato al turismo di Capracotta vuole dare maggiore impulso all'attività turistica. «Siamo particolarmente preparati in materia, avendo ricevuto i complimenti dei responsabili Fisi in occasione dello svolgimento degli Assoluti del '97, per cui vorremmo portare da queste parti nuove competizioni a livello nazionale ed internazionale che solitamente si svolgono presso circuiti meglio pubblicizzati. La nostra struttura per la pratica dello sci di fondo è obiettivamente qualificata. Non mancano le strutture ricettive, in zona, e gli impianti sono rispondenti alle esigenze del turista, con due seggiovie ed una sciovia per risalire le piste che si snodano per oltre due chilometri», sottolinea Fernando Di Nucci. La bellezza di questo piccolo centro è costituita dal fatto che si può uscire con gli sci ai piedi da pensioni, residence ed alberghi, avviandosi verso gli impianti di risalita senza fare uso dell'automobile. Le offerte turistiche sono allettanti. Spiega ancora Di Nucci: «In periodo di alta stagione, la pensione completa vene offerta a meno di 500.000 lire, con una diminuzione del 20% nel periodo di bassa stagione, mentre un weekend costa 160.000 che diventano 200.000 con il nolo degli sci e l'acquisto dello ski-pass». Per gli amanti dello sci alpino e soprattutto di quello di fondo, questa località è veramente ideale. Peraltro offre pure la possibilità di brevi escursioni per andare a visitare l'interessante sito archeologico di Pietrabbondante oppure Agnone, bellissimo centro culturale. Da visitare a Capracotta, invece, la chiesa di Santa Maria Assunta, che sorge sulla parte più elevata del centro urbano, con le pregevoli opere di artigiani. Dal sacro al profano per sottolineare la "pezzata", sagra dell'agnello alla brace e della pecora bollita che si tiene annualmente la prima domenica di agosto nella splendida cornice del pianoro di Prato Gentile. Antonio Caggiano Fonte: A. Caggiano, Capracotta, la capitale del fondo , in «Corriere dello Sport», Roma, 7 dicembre 2000.

  • La "Gente di montagna" di Capracotta a Pozzale di Cadore

    Qua avéme nate e qua éma murì... La fotografia di Capracotta a Pozzale di Cadore. Susanna da Cortà è la curatrice del progetto "Gente di montagna", una passeggiata fotografica e sonora che è possibile vivere per le strade di Pozzale di Cadore (1.054 m s.l.m.), un piccolo paese delle Dolomiti bellunesi, amministrativamente ricadente nel comune di Pieve di Cadore. "Gente di montagna" è una mostra fotografica a cielo aperto con grandi fotografie affisse sui muri esterni delle case. Le oltre 100 foto raccontano di popoli di montagna di tutto il mondo. Durante un festival di musica popolare, la Cortà ha conosciuto Silvio Trotta dei Musicanti del Piccolo Borgo e, parlando con lui, ha pensato che «ci piacerebbe moltissimo avere una foto di Capracotta che rappresenta sicuramente nell'Italia centrale il vero paese di montagna». Sono stato dunque contattato dalla curatrice ed, onorato di tanta attenzione, ho offerto la mia completa disponibilità al progetto. Dopo aver compreso quale fosse il taglio della mostra e quali le caratteristiche più profonde, ho optato per una fotografia storica di Capracotta che definirei "epica", una foto che è in grado di raccontare la montagna con la neve, il popolo e la speranza del futuro, la tecnica e la religione. Proveniente dalla collezione di Sebastiano Sammarone, lo scatto è del 7 marzo 1950 e mostra il Capracotta-Clipper sulla strada provinciale Montesangrina. Sul gigantesco automezzo americano (giunto a Capracotta meno di 2 mesi prima), oltre al manovratore, vi sono altre 6 persone, perlopiù spalatori. Lo spazzaneve, infatti, sta aprendo la strada ad un'autocorriera stracolma di giovani. Quel torpedone proviene da Roma e trasporta i seminaristi dell'oratorio salesiano di Andria, guidato allora dal nostro don Carmelo Sciullo (1915-2018), che ovviamente è a capo del gruppo. La comitiva religiosa era infatti stata a Roma due giorni prima, il 5 marzo, per assistere alla «grandiosa apoteosi» della beatificazione di Domenico Savio, dopodiché, su insistenza del direttore Sciullo, si era diretta alla volta di Capracotta. Il cronista di quella spedizione scrisse che « è inutile qui ricordare le varie peripezie e la neve che ci salutò al primo apparire del più alto paese delle montagne dell'Appennino. Non da tralasciare nella cronaca il famoso spazzaneve americano che ci aiutò a raggiungere il tanto desiato paese ». Tornando alla mostra "Gente di montagna", la fotografia selezionata aveva bisogno di una parte audio, poiché ogni pannello deve prevedere un QR code grazie al quale sia possibile ascoltare una storia su quel determinato paese montano. Anche in questo caso, ho optato per una soluzione che rappresentasse pienamente la nostra gente, la sua indole mite, la vita di sacrifici, le difficoltà dell'inverno e l'innata allegrezza che la pervade. La scelta è caduta su Antonio Mendozzi " r'Amecùne ", del quale ho rubato uno spezzone dell'intervista resa ai microfoni Rai durante il programma "Bellitalia" del 1995. La grossa fotografia - con dimensioni 190x130 cm - è stata installata il 30 settembre scorso e, ad oggi, chiude il percorso espositivo di "Gente di montagna" in quel di Pozzale di Cadore, luogo incantato ed incantevole. La didascalia, scritta da me in italiano ed inglese e riportata sul lato basso della fotografia, recita: Capracotta, 7 marzo 1950, lo spazzaneve americano Walter Snow-Fighter apre la strada ad un pullman che trasporta seminaristi in visita al paese, archivio Sebastiano Sammarone. Capracotta, 7th March 1950, the American snowplow Walter Snow-Fighter clears the way for a bus carrying seminarians visiting the village, Sebastiano Sammarone archive. Il 13 novembre, finalmente, mi sono recato a Pozzale di Cadore per turismo. Era ora di pranzo e ho preferito non disturbare Susanna da Cortà. Assieme a mia moglie, però, abbiamo abbiamo fatto il giro completo di "Gente di montagna", prima di riprendere la strada di casa, felici di aver portato l'eco di Capracotta fin sulle Dolomiti... Francesco Mendozzi

  • Omaggio al sindaco Frank Costello

    Signor Presidente, per alcuni di noi il servizio pubblico è parte del nostro essere. Coloro che hanno scelto questa strada rinunciano a una parte della loro vita per il miglioramento della loro comunità. Nessuno esemplifica questo meglio del sindaco di Beverly Frank Costello. Per 6 decenni, il sindaco Costello ha dedicato disinteressatamente il suo tempo e il suo duro lavoro al suo Paese e alla sua comunità. A partire dalla Seconda guerra mondiale e continuando durante la guerra di Corea, questa Medaglia di Bronzo ha servito il suo Paese nell'esercito degli Stati Uniti, ritirandosi nel 1968 col grado di capitano. Dopo il suo eroico servizio militare, Frank Costello ha rivolto il suo talento alle esigenze locali. È stato eletto al consiglio comunale di Beverly nel 1968, una posizione che ricopre ancora oggi. Nel 1972, ha avuto successo nella corsa a sindaco ed è stato lealmente riconfermato in carica a ogni elezione. Sebbene questo possa sembrare sufficiente alla maggior parte delle persone, Frank Costello ha continuato a dare alla comunità. Ha ricoperto la carica di presidente della Beverly Sewerage Authority dal 1985, del City Planning Board per oltre 20 anni e di presidente della Burlington County League of Municipalities negli ultimi 12 anni. Inoltre, è stato presidente del Beverly City Democratic Party dal 1986 ed è stato presidente della New Jersey Mayors Association dal 1990 al 1996. Sebbene non apparteniamo allo stesso partito politico, so che i residenti di Beverly, repubblicani, democratici e indipendenti, potevano contare su Frank Costello per raggiungere i migliori interessi della comunità. A nome dei residenti della città di Beverly, del 3° Distretto congressuale e del popolo degli Stati Uniti, vorrei ringraziare il sindaco Frank Costello per la sua dedizione, lealtà ed instancabile sforzo nel servire la sua comunità e il suo Paese. Jim Saxton (trad. di Francesco Mendozzi) Fonte: J. Saxton, Tribute to Mayor Frank Costello , Congressional Record, CXLII:133, Trenton, 24 settembre 1996.

  • L'abisso di Francesco Paolo Potena in mostra a San Vito al Tagliamento (PN)

    L'inaugurazione della mostra "L'abisso. Storie di internati nei lager nazisti". Il 25 gennaio scorso si è tenuta l'inaugurazione della mostra "Nell'abisso. Storie di internati nei lager nazisti", curata dagli studenti delle classi 4 ª H e 5 ª E dei licei "Le Filandiere" di San Vito al Tagliamento (PN), in Friuli-Venezia Giulia. La mostra, divenuta un'iniziativa fissa all'interno della programmazione per il Giorno della Memoria, è stata ospitata all'interno dell'Antico Ospedale dei Battuti ed è rimasta aperta fino al 9 febbraio, raccogliendo storie, immagini e testimonianze in uno spazio che gli studenti hanno allestito con grande cura e sensibilità: un progetto che ogni anno permette agli studenti di approfondire i temi di questa importante ricorrenza per imparare ad esprimere creativamente i concetti e le emozioni che scaturiscono. Sono intervenuti all'inaugurazione il sindaco sanvitese Alberto Bernava, la dirigente de "Le Filandiere" Carla Bianchi, la consigliera dell'assemblea nazionale A.N.E.D. Alessandra Maieron, il presidente dell'A.N.P.I. locale Francesco Indrigo e i docenti che hanno coordinato il progetto. Il pannello di Potena. Tra i ragazzi e le ragazze che hanno dato vita alla mostra, spicca il nome di Francesca Paola Potena, pronipote di quel Francesco Paolo Potena che, tra il 27 e il 28 marzo 1945, fu tra i 130 internati italiani barbaramente uccisi dai nazisti nel massacro di Hildesheim. Francesca - figlia di Paolo e nipote diretta di Lorenzo, a sua volta figlio del sergente maggiore Potena - ha voluto rendere omaggio al suo avo, allestendo un'apposita sezione dedicata all'ancor poco conosciuto eccidio di Hildesheim. Quest'anno, infatti, ricorreva l'80° anniversario di quel tragico evento e le autorità della cittadina tedesca avevano invitato i discendenti del militare italiano a presenziare alla cerimonia, ma purtroppo nessuno si è potuto recare in Germania. Resta la memoria di un massacro che, a guerra quasi terminata, testimoniò al mondo quanto fosse infame e disumano il regime nazista e che, nello specifico, colpì al cuore una famiglia capracottese, togliendole ingiustamente un padre. Per questo motivo, ci tengo a diffondere il video in cui Francesca racconta la storia del suo bisnonno, nella speranza che arrivi alle orecchie di chi vorrebbe risolvere con la guerra ciò che dovrebbe risolversi con la diplomazia... Francesco Mendozzi

  • I sindaci di Capracotta

    Gentiluomini in ciaspole e sci in corso S. Antonio (foto: G. Paglione). Col dominio napoleonico, attraverso la legge n. 132 dell'8 agosto 1806 «sulla divisione ed amministrazione delle provincie del Regno», fu introdotto in Italia un sistema di organizzazione dei poteri locali a scala gerarchica e di tipo piramidale, che rispecchiava in tutto quello francese. Il territorio venne ripartito in dipartimenti, distretti, cantoni (elettorali) e comuni. Al dipartimento era preposto un prefetto, nominato dal ministro dell'Interno, al distretto un sottoprefetto e al comune un podestà che era al contempo capo dell'ente e delegato del Governo. Con la caduta di Napoleone e la conseguente Restaurazione, il nuovo sistema di organizzazione amministrativa fu generalmente mantenuto intatto, essendosi rivelato piuttosto efficiente. Il primo sindaco di Capracotta fu Giuseppe Mosca, eletto nel 1807 e rimasto in carica sei mesi, lasciando il posto a Vincenzo Di Tella. Quello attuale è invece Candido Paglione, eletto primo cittadino il 6 giugno 2016, dopo aver ricoperto la medesima carica nel quinquennio 1995-2000. In questi 212 anni di storia - ovvero dall'istituzione dei registri dello Stato civile, indipendenti da quelli parrocchiali - Capracotta conta 43 diversi sindaci in ben 62 elezioni amministrative, svoltesi con modalità molto diverse tra loro, dall'elezione in seno al consiglio di epoca borbonica, duosiciliana e sabauda alla gestione podestariale del regime fascista, fino al procedimeno elettorale democratico, nato dopo l'istituzione della Repubblica Italiana, basato sulla chiamata quinquennale. Il primo sindaco di cui ho testimonianza scritta è Domenico Castiglione, sindaco dal 1° gennaio al 31 dicembre 1811, che in una lettera dell'11 settembre riguardante i problemi alimentari di Capracotta, offriva all'intendente regio un quadro di profonda depressione del nostro paese: la netta prevalenza della pastorizia, l'assenza di vigne e di alberi da frutto, qualche lembo di terra a grano e mais «con poco frutto»; della patata dava invece un giudizio quasi entusiastico: «La raccolta è sempre buona – scriveva – e quindi si è assai moltiplicata», fungendo da cibo per la «gente volgare» e da ingrasso per i porci. Gli unici sindaci a compiere due mandati completi sono stati, nell'ordine, Ruggiero Conti, Luigi Campanelli, Gregorio Conti, Carmine Di Ianni, Mario Comegna e Antonio Vincenzo Monaco. Tuttavia, qualsiasi giudizio si voglia dare sui nostri sindaci passati, presenti e futuri, credo che il fatto di ricoprire la carica di primo cittadino di Capracotta debba essere vissuto come un onore smisurato. Per fini di consultazione, presento la lista completa dei sindaci della nostra cittadina dal 1807 ad oggi: Giuseppe Mosca (1807) Vincenzo Di Tella (1807-08) Giacomo Carugno (1808-10) Domenico Castiglione (1811-12) Giuseppe Di Ianni (1813-14) Domenico Conti (1814-15) Vincenzo Di Tella (1816-17) Giuseppe Mosca (1818-22) Leonardo Antonio Falconi (1822-25) Giuseppe Fantozzi (1825-26) Carlo Conti (1828-31) Bernardo Falconi (1831-34) Domenico Carugno (1834-36) Francesco Falconi (1837-40) Domenico Carugno (1840-43) Michelangelo Campanelli (1843-45) Berardino Conti (1846) Giuseppe Falconi (1846-49) Amatonicola Conti (1849-52) Gaetano Campanelli (1852-54) Giovanni Conti (1855-57) Croce Conti (1858-60) Amatonicola Conti (1860-62) Croce Conti (1862-67) Amatonicola Conti (1867-69) Ruggiero Conti (1870-74) Agostino Conti (1874-76) Ruggiero Conti (1876-85) Cesare Conti (1886-87) Agostino Conti (1887-89) Giangregorio Falconi (1890-95) Luigi Campanelli (1895-1904) Tommaso Conti (1904-05) Alfredo Di Ciò (1907) Agostino Santilli (1907-09) Alfredo Conti (1910-13) Amato Nicola Conti (1914-20) Alfredo Conti (1921-25) Gregorio Conti (1926-35) Ermanno Santilli (1935-36) Filiberto Castiglione (1937-43) Nicola Ianiro (1944-45) Salvatore Di Rienzo (1945-46) Gennaro Carnevale (1946-52) Nicola Ianiro (1952-1956) Vittorino Conti (1956-60) Carmine Di Ianni (1960-70) Michele Conti (1970-75) Mario Comegna (1975-85) Antonino Sozio (1985-90) Ciro Mendozzi (1990-95) Candido Paglione (1995-2000) Pasquale Di Nucci (2000-06) Antonio Vincenzo Monaco (2006-16) Candido Paglione (2016-oggi) Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: C. Felice, Il Sud tra mercati e contesto. Abruzzo e Molise dal Medioevo all'Unità , Angeli, Milano 1995; G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni , vol. III, Di Mauro, Cava de' Tirreni 1952; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , voll. I e II, Youcanprint, Tricase 2016-2017; A. Mosca, Monografia su Caprasalva (Capracotta) , Lampo, Campobasso 1966; N. Mosca, Libro delle memorie, o dei ricordi , Capracotta 1742-1947.

  • 24 marzo 1946: le mancate elezioni amministrative di Capracotta

    Il sindaco Gennaro Carnevale e lo stemma della Democrazia Cristiana. Le prime elezioni dell’Italia liberata si svolsero in cinque tornate: per usare le parole di un padre costituente, Giulio Andreotti, la «vera rivoluzione antifascista e democratica» iniziò il 10 marzo 1946, quando «venne restituita agli italiani l'arma del voto». Le elezioni per i consigli comunali di 5.722 comuni italiani – che riguardarono il 71,6% della popolazione – si svolsero il 10, 17, 24 e 31 marzo ed il 7 aprile. L'Italia avrebbe di lì a poco scelto la forma repubblicana ma, al tempo dei fatti che mi accingo a raccontare, il nostro Paese era ancora una monarchia, guidata dal vecchio e inadeguato Vittorio Emanuele III. Il Ministero dell'Interno paventò da subito problemi di ordine pubblico, visto che quelle del '46, le prime elezioni in tempo di pace, erano anche le prime da quando il fascismo era caduto, per cui era concreto il timore che la guerra civile che aveva lacerato il Paese si riversasse nei dintorni dei seggi elettorali. La tensione portò il ministro dell'Interno Giuseppe Romita, socialista, a reclutare circa 15.000 uomini, fra cui molti provenienti dai ranghi partigiani, tanto che sui giornali di destra si parlò di «una nuova forma di milizia». A parte alcuni pur gravi problemi in Toscana, Puglia e Calabria, l'esasperazione la si raggiunse soltanto in Sicilia, a causa del mai sopito separatismo. Tuttavia, le elezioni si svolsero in un clima più che accettabile e la partecipazione al voto, ovunque alta, si rivelò maggiore al Nord (85,4%) che non al Sud (78%) – numeri diversissimi da quelli odierni (62,2% nel 2024), anche se le elezioni amministrative hanno solitamente mostrato affluenze apprezzabili. Il dato elettorale definitivo del 1946 restituisce la fotografia di una nazione nettamente divisa: la Dc prevalse in 2.034 comuni eleggendo 36.635 consiglieri; le liste di sinistra ottennero circa 2.000 comuni ottenendo 36.508 seggi; nel mezzo tutte le altre sigle, dai liberali ai repubblicani, fino alle liste di destra. Capracotta e il suo capoluogo, Campobasso, rientrarono nella terza tornata elettorale, quella del 24 marzo 1946. A Capracotta, a fare le funzioni di sindaco vi era allora Salvatore Di Rienzo (figlio di Carmine), classe 1915, insediato l'anno prima dal Governo militare alleato per gestire provvisoriamente gli affari comunali, che riguardavano precipuamente la ricostruzione post-bellica. Nulla, dunque, avrebbe fatto presagire che Capracotta sarebbe diventato un caso nazionale, poiché le prime libere votazioni, di fatto, non ebbero luogo. Nonostante che le elezioni, stando alle note ufficiali del Ministero dell'Interno, si tennero «nella massima tranquillità» in tutto lo Stivale, «si apprende che nel comune di Capracotta, a causa della accertata assenza di molti elettori, le elezioni sono state rinviate a data da destinarsi». Sull'edizione del 26 marzo 1946 del "Giornale dell'Emilia" (il futuro "Resto del Carlino"), la redazione spiegò che «gli incidenti che si segnalano finora sono di scarsa entità. Il più singolare è quello accaduto a Capracotta (provincia di Campobasso) dove gli elettori [...] per ragioni sconosciute ma certamente di carattere locale non si sono presentati a votare. Capracotta è un paese di montagna, stazione di sport invernali. La popolazione si è allontanata dal paese in massa disperdendosi per la campagna. Il prefetto di Campobasso ha rinviato le elezioni a data da destinarsi». Per capire cosa fosse successo, bisogna rileggere la lettera spedita da Capracotta al quotidiano indipendente "Il Minuto" e da questo pubblicata il 30 marzo 1946 sotto un titolo decisamente satirico: "Le allegre elezioni di Capracotta". Il comunicato dell'anonimo corrispondente affermava che:  Secondo notizie ufficiali le elezioni, che dovevano svolgersi il 24 marzo sono state rinviate per la presunta assenza di un'alta percentuale di elettori. Nulla di meno esatto: la verità è che una cricca di fascisti locali, nella impossibilità di far trionfare la propria lista, a mezzo di un esposto con non poche firme apocrife, ha fatto presente al Ministro dell'Interno che i socialisti ed i comunisti di Capracotta (quali?) sono temporaneamente assenti per ragioni di lavoro. La popolazione di Capracotta è indignata per il provvedimento, notificato solo qualche ora prima dell'inizio delle elezioni. L'anonimo redattore, dunque, si diceva sicuro che a far "saltare" le elezioni per il nuovo Consiglio comunale di Capracotta fosse stata «una cricca di fascisti locali», la quale aveva presentato un esposto al Ministero dell'Interno per denunciare l'assenza in blocco dei socialisti e dei comunisti. Non appare più credibile che, se avessero avuto conto dell'assenza degli elettori di sinistra, i presunti fascisti avrebbero avuto gioco facile nel «far trionfare la propria lista»? E perché il corrispondente stesso si chiede, non senza un filo di sarcasmo, quali siano «i socialisti ed i comunisti di Capracotta», aumentando la confusione generata dal suo comunicato? Gregorio Conti e Filiberto Castiglione, podestà di Capracotta in guerra tra loro. Il candidato sindaco Dc Gennaro Carnevale (1899-1967), chimico di fama e farmacista di successo, pubblicò allora una controrisposta su "Il Molise" – «Organo indipendente del Movimento Regionale» – per spiegare la propria opinione a riguardo, giacché si desume che egli fu uno dei sostenitori del posticipo elettorale. Carnevale, infatti, era sicuramente addentro agli eventi politici locali del suo tempo e probabilmente conosceva anche chi si celava dietro l'anonima lettera spedita a "Il Minuto". Egli presumeva che a scrivere la missiva fosse stato «uno di quelli che al fascismo si iscrissero solo per convenienza personale, quando già si era capita la via che il fascismo avrebbe seguito, e quando coloro che al fascismo stesso avevano data da tempo la loro onesta adesione se ne allontanarono». La questione, quindi, appare tutta interna al defunto Pnf o, meglio, al Fascio di Capracotta, che fino a tre anni prima era stato dilaniato dalla battaglia interna tra i due podestà del paese, Gregorio Conti (1871-1943) e Filiberto Castiglione (1889-1973). Questa faida – che rimontava ad inizio '900 e che era definitivamente deflagrata in seno alla Banca di Capracotta, messa in liquidazione il 6 marzo 1937 – aveva diviso per decenni, in modo crudo e crudele, l'intera comunità capracottese, poiché ogni persona, ogni famiglia, ogni azienda, ogni istituzione (persino l'arciprete!), erano in qualche modo affiliate all'una o all'altra fazione. A questo volgare sistema di spartizione del potere cittadino venne dato il nome di quiŝtióne capracuttése  (questione capracottese). Ad ogni modo, nella quiŝtióne erano coinvolti tantissimi personaggi che avevano non solo aderito al fascismo – difficile dire chi per convenienza e chi per convinzione – ma, in virtù di detta adesione, avevano tenuto le redini amministrative ed economiche del paese, che allora contava poco meno di 4.000 abitanti. Il candidato sindaco Gennaro Carnevale, autoassoltosi dalle responsabilità fasciste in quanto autoinseritosi tra «coloro che al fascismo stesso avevano data da tempo la loro onesta adesione [e] se ne allontanarono», nel 1946 scrisse che «la lista degli elettori è di oltre 2.000 nomi [e] il numero degli elettori presenti il 24 marzo non raggiungeva la quarta parte; erano cioè presenti meno di 500 elettori». A queste parole possiamo dar credito sulla base di alcune specificità locali. Nel mese di marzo, infatti, circa metà degli uomini capracottesi era in Puglia per la transumanza invernale, per cui era fisicamente lontana dal seggio elettorale di appartenenza. Dobbiamo poi ricordare che agli inizi del 1946, ben prima del referendum del 2 giugno, la ricostruzione di Capracotta non era nemmeno cominciata, per cui molti di coloro che erano stati sfollati nel dicembre '44, non avevano fatto rientro in paese (e di certo non sarebbero rientrati d'inverno) per il semplice fatto che non avevano ancora una casa in cui stabilirsi. Le elezioni del 24 marzo 1946, insomma, furono il primo fallimentare banco di prova della politica locale democristiana alle prese col suffragio universale e con un'Italia che stava rapidamente cambiando, pur restando vittima di quei personaggi che, defilati, avevano fatto il bello e il cattivo tempo nel precedente regime. Carmine Di Ianni e don Michele Di Lorenzo. La gestione del Comune di Capracotta divenne un affare tutto interno alla Dc, in cui personaggi come Gennaro Carnevale, Nicola Ianiro (1899-1959) e Vittorino Conti (1916-1977) riproposero un correntismo intrapartitico che, a differenza di quello nazionale, aveva ben poco di idealistico. Quello strapotere democristiano, che non fece a meno di metodi autoritari, terminò nell'autunno del 1960, quando la lista dell'Abete, capitanata da un giovane avvocato capracottese, Carmine Di Ianni (1933-2003), a seguito di un risultato elettorale plebiscitario, sembrò rompere gli antichi gangli del potere locale, rimettendo Capracotta sulla strada della democrazia e della modernità. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: AcR, Come ieri si è votato , in «Giornale dell'Emilia», II:81, Bologna, 25 marzo 1946; AcR, La terza giornata elettorale nei risultati che si vanno delineando , in «Giornale dell'Emilia», II:82, Bologna, 26 marzo 1946; AcR, Le allegre elezioni di Capracotta , in «Il Minuto», II:82, Roma, 30 marzo 1946; G. Andreotti, Una forza , in «Il Popolo», III:73, Roma, 27 marzo 1946; P. L. Ballini, La rifondazione della democrazia nei Comuni: la legge elettorale amministrativa e le elezioni comunali del 1946 , in P. L. Ballini (a cura di),  Le autonomie locali. Dalla Resistenza alla I legislatura della Repubblica , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; G. Carnevale, La verità sulle elezioni di Capracotta , in «Il Molise», III:5, Roma, 20 aprile 1946; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; G. Saluppo, I Comuni molisani sotto il simbolo del Littorio. Amministrazioni, podestà e politica nella costruzxione del consenso , La Gazzetta, Campobasso 2015.

  • "Piacere Molise" a Capracotta

    Il logo della mostra-mercato "Piacere Molise". Successo di visitatori nei primi tre giorni della mostra mercato, favorito anche dalla concomitanza del Ferragosto. Sembra veramente nata sotto una buona stella questa manifestazione che, ad onta dei soliti detrattori di casa nostra, ha trovato una collocazione ideale sia come periodo che come localizzazione. Il caldo particolarmente intenso che da qualche giorno avvolge l'intera regione, determina nella serata l'arrivo di boccheggianti curiosi che attratti dalla prospettiva di una fresca brezza ristoratrice che solo Capracotta può offrire grazie alla sua altitudine, restano poi inevitabilmente coinvolti dalla semplicità ed immediatezza con cui si accede alla mostra mercato, e da quanto è stato predisposto per rendere gradevole la permanenza, di alcune ore, nel piccolo centro altomolisano. Il piano bar a piazza Falconi e gli spettacoli al Belvedere sono affollatissimi. Si calcola, con stima prudenziale, che nelle prime giornate l'affluenza media sia stata di almeno 5.000 presenze al giorno. Gli stessi espositori sono soddisfatti non tanto del volume di affari conclusi, quanto delle prospettive future. Grazie a questa iniziativa della Camera di Commercio di Isernia, si sono finalmente gettate le basi per uno sviluppo, nel senso più ampio della parola, della presentazione e della commercializzazione dei prodotti tipici sia dell'artigiano che agroalimentari del Molise. Una strada a senso unico, questa, da percorrere necessariamente in tempi brevi, se si vogliono ottenere tangibili benefici in senso di immagine, approfittando delle occasioni favorevoli create da "Piacere Molise", non inficiate da strategie politiche di tipo assistenzialistico che hanno caratterizzato, per l'assenza di risultati positivi, tutte le azioni promozionali sviluppate negli ultimi decenni in regione. Partendo dal postulato che volere è potere, le forze imprenditoriali artigiane debbono tendere ad esprimersi al meglio nel contesto di un libero mercato del quale siamo entrati a far parte, quello europeo, in cui la concorrenza non è determinata necessariamente dal prezzo, ma può anche essere qualità superiore o inventiva, condizioni che i molisani sono pienamente e tecnicamente in grado di soddisfare. Da questo all'incremento delle forze di lavoro attualmente forzatamente inoperose e quindi ad un rilancio di attività produttive nelle zone interne, oggi tagliate fuori dalle grandi vie del commercio, il passo è breve. Continuano anche stasera, organizzate dall'A.R.E.S., le animazioni per i bambini al Belvedere, che sono riuscite validamente a diversificare le consuete abitudini al gioco. Grande anche l'attesa per la caccia al tesoro di giovedì pomeriggio, 19 agosto, che coinvolgerà l'intera Capracotta e terminerà con le premiazioni intorno alla mezzanotte. Numerosa ieri la partecipazione al torneo di tressette ad eliminazione diretta, che ha riscosso un successo quasi travolgente. Capracotta. La città ha accolto personalità ed ospiti, per l'inaugurazione della prima edizione di "Piacere Molise", in una giornata di sole splendido con un cielo di un azzurro incontaminato. La sobria architettura delle case dalle facciate linde, di colore appena appena grigio, la nota civettuola del colore dei gerani, lo sventolio delle tante bandiere tricolore, contribuiscono a trasmettere nel clima di festa un senso di ordine e pulizia. Gli stands allestiti per la manifestazione sono tutt'uno con il tessuto urbano, con case, bar, negozi, ove protagonisti attivi nel rendere viva e palpitante questa mostra sono gli abitanti e gli stessi visitatori. Proverbiale è l'ospitalità del luogo. Non sfugge però la'amrezza che questo paese serba per essere stato un po' sempre abbandonato, forse per troppo tempo. Aver scelto Capracotta come sede per ospitare questa prima edizione di "Piacere Molise" che ha, nei progetti, carattere itinerante, ha riempito di orgoglio gli abitanti, ed è proprio grazie alla proverbiale ospitalità che la presenza di circostanza, non molto gradita, di politici che non posseggono secondo l'opinione più diffusa, particolari meriti, è stata comunque accettata. Non bastano certamente il sole di pieno agosto ed una fiera per riscattare d'un colpo solitudine ed isolamento durati troppi anni. All'orgoglio si accompagnava l'incredulità, quasi si avvertisse, in una giornata di festa come questa, il pericolo incombente di un ennesimo inganno perpetrato all'Alto Molise e alla stessa Capracotta. I politici, agli occhi della gente comune, non sembrano più possedere il carisma di un tempo: la corte dei personaggi che di tale potere si alimentava è già visibilmente scemata. All'attuale iniquo sistema di vita si contrappone un futuro ancora più minaccioso. Lo sanno tutti che i tempi delle vacche grasse sono irrimediabilmente finiti, un banchetto al quale, purtroppo, aggiungono in molti con amarezza, la gente di queste montagne non ha mai partecipato. V. T. Fonte: V. T., 15 mila le presenze a Capracotta. Nei soli primi tre giorni "Piacere Molise" supera ogni aspettativa , in «Il Messaggero» , Roma, 17 agosto 1993.

  • Estasi

    Le ginestre di Agnone (foto: I. Vergara). Più non esisto qui mi perdo confuso nel tuo vento fra lamenti conosciuti che salgono dai salici del bosco che m'è amico. Là, oltre i confini dai suoni familiari ginestre gialle e profumate marcano l'asfalto del progresso con odori remoti fra l'incertezza di sguardi che si danno d'appresso appuntamento. Passo e... più non torno dal mondo vicino che m'attende. Ugo D'Onofrio

  • 27-28 marzo 1945: l'eccidio di Hildesheim

    Paolo Potena (1910-1945). Nostro padre si chiamava Francesco Paolo e nacque a Capracotta nell'anno 1910 da Leonardo e Maria Giuseppa Sozio. Terzo figlio dei sette: sei maschi ed una donna di nome Erenia, l'unica ancora vivente, di anni 89. Fu chiamato alle armi, per la prima volta, all'età di anni 21, ossia nel 1931 e rinviato in congedo provvisorio illimitato per aver due fratelli in servizio militare. Nell'anno 1939 fu richiamato alle armi per esigenze militari di carattere eccezionali e partì per l'Albania, alla quale l'Italia aveva dichiarato guerra. Nell'anno successivo (1940) ritornò per una breve licenza ma fu costretto a ripartire per la Grecia, perché l'Italia aveva dichiarato guerra anche a quest'ultima. Trascorse un lungo periodo tra la Grecia e l'Albania, interrotto da brevi ritorni a casa, e ai confini tra queste due nazioni si trovava il 3 settembre, insieme ad altri soldati italiani, sbandati e abbandonati, e senza ordini dal comando militare, perché Badoglio aveva firmato la resa dell'Italia con gli Inglesi e gli Americani. Tra il 9 e il 20 di settembre, invece, arrivarono i tedeschi che lo fecero prigioniero. Deportato in Germania, fu internato in un campo di concentramento, dove nostro padre incontra il compaesano Igino Paglione, destinati ai lavori forzati. I due lavorarono come internati militari in una miniera per l'estrazione del ferro: nostro padre all'aperto, mentre Igino era in miniera alla profondità di 120 metri. La miniera si trovava nella cittadina di Peine, da dove poi furono trasferiti in quella di Hildesheim, a nord della Germania, vicino ad Hannover. Il 22 marzo 1945 la città fu bombardata dagli Americani e dagli Inglesi e furono colpiti essenzialmente le vie di comunicazione e i depositi di cibo. Gli italiani internati furono chiamati a collaborare per aiutare i feriti, a dissotterrare i morti dalle macerie del bombardamento, a ripulire le strade. Nell'ambito di questi lavori, il 26 marzo, era la Settimana Santa, furono portati a sgomberare i resti di un magazzino di viveri della Gestapo. L'edificio era stato completamente distrutto ed i generi alimentari erano divenuti inservibili a causa dell'incendio. Per questo motivo, gli stessi soldati tedeschi che erano di guardia al deposito, avevano autorizzati gli abitanti del quartiere e gli internati militari italiani a prendere le scatolette di formaggio, visto che erano a digiuno da qualche giorno. Nel tardo pomeriggio i soldati italiani, mentre facevano ritorno ai loro alloggi, si imbatterono in pattuglie di polizia, Gestapo e SS, dalle quali vennero perquisiti, portando in prigione tutti coloro che furono trovati in possesso delle scatolette di formaggio, in base alla legge marziale allora in vigore per la quale ogni azione di "sciacallaggio" era punita con la morte. Nell'azione di controllo fu sorpreso anche nostro padre, il quale, pur essendo stato avvertito da qualche soldato della presenza della polizia, proseguì per la sua strada con le scatolette di formaggio in tasca, con la convinzione di non aver commesso nulla di male. Ma le sue buoni ragioni non fecero cambiare idea e comportamento alle SS e allo Gestapo, che lo presero e lo portarono, insieme ad altri, alle carceri che si trovavano vicino al cimitero. Dove, alcuni vi rimasero e fra essi, forse, anche nostro padre, accatastati nelle gabbie di ferro, altri furono portati sulla piazza del mercato della città. Ecco come il prof. Loreto Di Nucci, sulla rivista "Il Mulino", in "Ultimi fuochi di ferocia nazista. Il massacro degli internati militari italiani di Hildesheim nel marzo 1945" ricostruisce ciò che avvenne in piazza e poi nella prigione: Nella piazza del mercato, dove si era radunata una piccola folla plaudente, incominciarono le impiccagioni, con modalità raccapriccianti. I prigionieri venivano fatti sdraiare faccia a terra, in attesa di andare al patibolo. Quando arrivava il loro turno, prima dovevano partecipare al recupero della salma di chi li aveva preceduti e poi erano costretti a salire su un bidone alto sessanta centimetri. A questo punto, un funzionario della Gestapo, o lo stesso Huck (un componente delle autorità locali del regime nazionalsocialista) metteva loro un cappio intorno al collo, il bidone veniva spostato e iniziava l'agonia del condannato. Per velocizzare le operazioni, un aiutante del boia tirava i prigionieri per le gambe. Gli ultimi cadaveri vennero lasciati penzolare dalla forca, con un cartello in cui era scritto: "Chi saccheggia muore". Lorenzo Potena e Michele Potena Fonte: https://www.combattentiereduci.it/ , 28 marzo 2019.

  • A padre Placido

    Padre Placido da Capracotta ( 1882 - 1938) Ho scritto un'altra pagina, che avrà,   per me, valore, nel libro dei ricordi, aperto innanzi al cuore. Mi mostrerà continuo quel volto e la gentile voce di padre Placido in quel mattin d'aprile. Voce tanto simpatica quanto giusta e severa. Raccomandava sempre la pace e la preghiera. Pensai che un suo consiglio premevami sentire e, come s'io sapessi che lui dovea morire, volli ascoltarlo subito, quel "Padre" atteso tanto, senz'aspettar domenica. ma quel Giovedì Santo. Penultima giornata di sua santa missione! Chi sa quanto soffriva, spiegando la Passione. Si crede fece appello a tutta l'energia, per l'ultima sua predica, il dì dell'agonia. Andai dunque prestissimo ad aspettarlo in chiesa, con molta convinzione di una non breve attesa. Lo vidi invece subito passare, a me vicino, diretto alla preghiera, col suo devoto inchino. Guardavo attentamente quel volto, e la figura. La vera parte angelica di quella creatura febbricitante, pallido; pensai: quello che vede costui, continuamente è Paradiso e fede!... Chi sa la sua preghiera fin dove s'innalzava... Chi sa se allora l'angelo, la Stella, lo chiamava. Ed io tutto commosso lo contemplavo a fianco. Gli sorrideva l'anima, malgrado il corpo stanco pel suo diabete cronico. La sola medicina, per lui, era la predica, e volontà divina. Lunga fu la preghiera. Breve, per me, la scena... Poi sollevò la candida pupilla sua serena e vidi un po' sorridere quel sofferente viso, quell'anima di santo chiamata in Paradiso. La settimana dopo spirò questo signore, il cui suo nome caro, ci rimarrà nel cuore. Non ho mai visto piangere tutto un paese intero, ed io ne son convinto che più lo piange il clero. Maestro inarrivabile, di ferma convinzione, eletto per difendere la santa religione. Addio buon padre Placido, o meglio, santo dico, educator di popolo, sincero nostro amico. Quel tuo consiglio datomi l'ho già nel cuore inciso. Ed ora dall'eterna tua gloria, in Paradiso, in ogni tua preghiera ricordati di noi, di chi ne ha più bisogno e dei parenti tuoi. ( 1938 ) Nicola D'Andrea

  • Suggestioni del bosco: primavera

    Il Giardino della Flora appenninica in primavera (foto: F. Mendozzi). Il sole fattosi più dolce accarezza paterno ogni forma indebolita, l'invita a riaversi; s'infila delicato tra i fusti umidi fino alle radici per scuoterne il cuore. Anfratti gelati come forzieri conservano gioielli di neve che raggi più forti trasformano in grandi occhi liquidi. Il tepore rinnovato smuove la resistenza dei corpi freddi fino al risveglio quando braccia inerti di spavento si affidano all’aria, catturano la luce e vestendosi di gemme si colorano. Il suolo addolcito snoda legami precari, rompe silenzi forzati, apre varchi sbarrati a creature ridestate dal sonno che si affacciano prima timide e poi liete. Una linfa nuova corre nelle membra riavute e così in modo quasi impercettibile tènere foglie di giada e fiori di seta si aprono, mandano profumi tenui ma penetranti di sorpresa, si moltiplicano per incontenibile entusiasmo che si espande rapido a rallegrare tutto intorno, oltre il limite del bosco. Flora Di Rienzo

  • Un giorno nella vita della... famiglia Masciotra

    Michela Carnevale e la figlia, Lucia Masciotra, si apprestano a servire la pasta. Le due donne preparano quotidianamente a mano la pasta per i familiari. In talune regioni la pasta fatta a mano è ancora molto diffusa, in altre è ormai divenuta un piatto da buongustai, soppiantata dalla pasta prodotta industrialmente. Questa fotografia fa parte del volume "Un giorno nella vita dell'Italia", pubblicato nel 1990 dalla Rizzoli. Si tratta di un sorprendente fotolibro nato dopo che 100 famosi fotoreporter internazionali si erano dati appuntamento in Italia in un giorno X per immortalare il Belpaese da tutti i punti di vista, restituendo allo spettatore le 24 ore italiane d'un giorno qualsiasi. 100 grandi fotografi, sarebbero stati inviati in ogni angolo del nostro territorio nazionale, dove avrebbero dovuto eternarne gli attimi della vita politica, culturale, economica, artistica, naturale e sociale. La data prescelta dai direttori del progetto Jennifer Erwitt e Roy Rowan fu quella del 27 aprile 1990. Fu così che gli artisti atterrarono a Roma domenica 22 aprile, dopodiché ricevettero 50 rullini di pellicola Kodak e tutte le informazioni relative alla propria destinazione finale. Dopo una foto di gruppo scattata in Campidoglio ed un breve corso di fotografia tenuto ai giovani scolari romani, i fotografi partirono ognuno per la sua meta. Dalla mezzanotte del 26 fino alla mezzanotte del 27 aprile, sarebbero stati liberi di scattare fotografie. Tra le mete del progetto, fu scelta anche la vicina Agnone, dove venne inviato Nick Kelsh, nativo del North Dakota, un fotografo che aveva già pubblicato su "Time", "Life", "Newsweek", "National Geographic", "Forbes", "Fortune" e "Business Weeks", ottenendo numerosi premi. Nel 1986 egli aveva lasciato il "Philadelphia Inquirer" per fondare a Philadelphia, assieme ad altri, i Kelsh-Marr Studios, una società specializzata nella progettazione grafica e nella fotografia pubblicitaria per grandi gruppi industriali. Il suo reportage molisano per "Un giorno nella vita dell'Italia", però, più che sulle bellezze di Agnone si concentrò su una famiglia in particolare, quella dei Masciotra, con una fotografia relativa all'ora di pranzo ed un'altra per la cena, la cui didascalia recitava: È ora di cena a casa Carnevale. La famiglia divide pastiasciutta e vino con alcune guardie forestali, riconoscibili per le maglie grigie con strisce verdi sul braccio, che lavorano nei dintorni. Le guardie forestali, che dipendono dal Ministero dell'Agricoltura, svolgono anche compiti di polizia. In questa seconda fotografia di pagina 182, infatti, si vede una grossa tavolata composta dal guardaboschi Michele Beniamino re Brecciajuóle , a centro scena, assieme ai colleghi forestali di Ateleta e ad altri compaesani. Alla sua sinistra, infatti, siede Ermando Paglione Taccóne , mentre a capotavola sta Ferdinando Masciotra, marito della signora Michela, la quale, coi tipici grembiule ( mandèra ) e fazzoletto ( maccatùre ) sul capo, sta parlando coi commensali. Alla sua sinistra la figlia Lucia, invece, tiene in braccio il paffuto primogenito Simone Beniamino. Nick Kelsh, dunque, invece che starsene ad Agnone, trascorse la giornata in casa Masciotra, situata in territorio di Capracotta, al confine con Castel del Giudice, probabilmente il più bel casale ( massarìa ) della nostra campagna, per realizzare la sua campagna fotografica. Dopo aver pubblicato, nel 1996, "Naked Babes" - il suo fotolibro di maggior successo -, Kelsh è diventato anche un affermato insegnante di fotografia. Chissà se ricorda ancora quelle giornate trascorse in Alto Molise alla ricerca del soggetto ideale... Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: P. Ansaldo (a cura di), Un giorno nella vita dell'Italia , Rizzoli, Milano 1990.

  • Capracotta in gita a Pompei

    L'avevamo detto e l'abbiamo fatto. Per sabato 17 maggio abbiamo organizzato un secondo viaggio culturale, che ci porterà a Pompei (NA), dove nella mattinata visiteremo il parco archeologico, riconosciuto dall'Unesco "patrimonio dell'umanità", il cui nucleo originario venne fondato dagli Osci – una nostra vecchia conoscenza! – e nel pomeriggio faremo visita al Pontificio Santuario di Pompei, dove il fondatore Bartolo Longo (che a breve verrà canonizzato) si avvalse anche delle offerte dei duchi di Capracotta, i quali esportarono il culto della Madonna del Rosario di Pompei nel nostro paese, nella cui Chiesa di S. Antonio è possibile ammirare l’omonimo altare. Partiremo di buon'ora da Capracotta, su pullman gran turismo, alla volta di Pompei, dove arriveremo in tempo per conoscere le nostre bravissime guide, laureate in Archeologia, le quali ci porteranno per oltre 2 ore nei vicoli e nelle strade della città romana di Pompeii. Dopo un pranzo al sacco, nel primo pomeriggio ci recheremo al Santuario della Beata Vergine Maria del S. Rosario, dove chi vorrà, potrà assistere alla S. Messa delle 16:00 presso l'altare della Madonna. Gli altri avranno il tempo libero di conoscere le piazze e i negozi di Pompei città. È comunque possibile salire sul campanile del Santuario, da dove si gode una vista mozzafiato sulla Valle di Pompei, sul Golfo di Napoli e, nelle giornate più limpide, sulle isole di Capri e di Procida, le cosiddette "Perle del Golfo". Il prezzo della gita è di 50 €, riservato ai membri della nostra Associazione e comprensivo delle spese di viaggio, del biglietto nominale d'ingresso, delle guide professionali e del noleggio degli apparecchi audio. Ogni altra spesa va considerata a carico dei partecipanti. La caparra è di 20 € da consegnare a Francesco Mendozzi entro domenica 6 aprile, a cui potete chiedere informazioni circa i dettagli e le modalità di viaggio, oltre che eventuali riduzioni (al di sotto dei 25 anni, infatti, esistono degli sconti che diminuiscono sensibilmente il prezzo della gita). Forza, andiamo a scoprire Capracotta all'infuori di Capracotta: farlo insieme è veramente più bello! Consiglio direttivo di Letteratura Capracottese APS

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