LETTERATURA CAPRACOTTESE
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
GARE DI SCI A CAPRACOTTA
Istituto Nazionae Luce (1929)
"Gare di sci a Capracotta"
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
IL RATTO DI BECKENBAUER
Flop TV (2009)
"La villa di lato"
di Maccio Capatonda (1978)
VIRGILIO JUAN
CASTIGLIONE
Le arie popolari musicate da artisti capracottesi
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
ALFONSO
FALCONI
NUNZIO
BACCARI
(1666-1738)
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- Rivediamo il film di una vita: Marco Potena
Marco Potena (1925-2009). Milano. Ad un certo punto smette di parlare, guarda oltre i vetri della sua casa in via Vincenzo Monti, assorto. «Ma guarda cosa mi fa ricordare», sussurra. Il signor Marco Potena, nato a Capracotta il 2 marzo 1925, di professione imprenditore (la Comaver è un'impresa di manutenzioni industriali con un'ottantina di dipendenti), sposato da quattro anni con Sara, una bella signora scozzese, stava ricordando una lontana giornata del 1943, quando, a piedi nudi sulla neve, è corso a salvare un centinaio di agnellini chiusi in una masseria di Capracotta durante un bombardamento a tappeto. «Ho fatto in tempo a farli uscire prima che il tetto saltasse per aria. Ne ho salvati una cinquantina». Il volto è abbronzato, gli occhi chiari si illuminano ogni volta che qualche flash back risorge dagli anni a riportarlo indietro, quando era uno scavezzacollo pieno di forza e di candore, capace delle cose più incredibili pur di saziare la sua voglia di neve. Cominciamo dall'inizio. Il "ciak, si gira" lo dà la memoria, compagna di cose belle e brutte. L'azione si svolge a Capracotta. Il paese è sullo spartiacque appenninico molisano. Nelle giornate terse, da una aprte si vede l'Adriatico, dall'altra il Tirreno. In paese i cinquemile abitanti diventano la metà in inverno. Scappano a svernare i pastori e i boscaioli, i carbonai scendono a valle dove bruciano le cataste di legno per ricavarne torba. Rimangono soltanto i pochi notabili, qualche professionista e gli artigiani. Uno di questi è Domenico Potena, di professione ramaio. Mette al mondo tre maschi e una femmina. Il primo dei maschi è Marco. Domanda: – Che tipo era suo padre? Risposta: – Gli piaceva moltissimo la montagna e la neve anche se non ha mai messo un paio di sci. D: – Ma chi ha portato gli sci a Capracotta? R: – Il maestro Paglione, nel 1914. Era stato per un viaggio di studi nel nord Europa e aveva visto usare sulla neve questi due assi. Ci sono in giro ancora delle foto di lui, il maestro di tutti i bambini di Capracotta, che posa con i due sci e l'unico bastone che si usava a quei tempi. D: – E i suoi primi sci? R: – Venivano ritagliati dai nostri falegnami dal tronco del faggio, con la curva della sparola già sagomata. I primi li ho messi che avevo tre anni, con le cinghie di cuoio a far da attacchi. Ho continuato a sciare soltanto fondo naturalmente, fino alla guerra quando i tedeschi hanno fatto "terra bruciata" a Capracotta e il paese si è spopolato, seminando i suoi abitanti in giro per l'Italia. D: – E la famiglia Potena? R: – Mio padre ci aveva trasferiti a Napoli già nel '35. Fu lì che quattro anni dopo conobbi il gioielliere Gianni Rumiz, un ricco napoletano appassionato di sci. Quando seppe che ero di Capracotta mi portò subito alla Gioventù Italiana del Littorio. Per noi era un periodo di tempi grami e a me non pareva vero di fare gli allenamenti collegiali a Selva di Valgardena e a Cortina. Insieme all'élite della nobiltà partenopea c'ero anch'io, un ragazzo di Capracotta con le pezze sul sedere. D: – Le prime gare? R: – Per tutta la guerra naturalmente non se ne è parlato. Abbiamo ripreso a sciare seriamente subito dopo, con i militari americani di stanza a Napoli. Usavamo un carro da guerra a sei ruote per andare a Roccaraso. Ci mettevamo cinque ore per arrivarci. Coprivamo il carro con un telone e facevamo delle panche di legno per sederci. Cose dell'altro mondo... D: – E poi? R: – Nel '49 a Madonna di Campiglio c'erano i campionati universitari. La mattina ho fatto la gara di fondo, 15 chilometri. Verso la metà mi si sono rotti gli sci. Incontro il "Piro" Pirovano che era in gara con me. Io ero arrabbiatissimo. Lui si è fermato molto sportivamente e mi ha portato in una casetta dove abbiamo inchiodato le parti rotte dello sci, almeno per finire la gara. Nel primo pomeriggio abbiamo provato la discesa libera sullo Spinale. Ho fatto una caduta paurosa e ho rotto gli sci. Verso sera c'era il salto per la combinata. Non avevo mai saltato in vita mia. E ho rotto gli sci. Tre paia di sci rotti in un giorno solo. L'accompagnatore era disperato. D: – Chi era? R: – L'ennesimo nobile partenopeo, Giustiniano Incarnati. D: – Ma oltre a sciare lavorava o no? R: – Già nel '43 mi ero impiegato come disegnatore ai cantieri navali di Castellamare. Poi nel '50 sono passato alla raffineria Mobiloil di Napoli. D: – Aveva anche imparato a fare discesa... R: – Allo Stelvio con Gino Seghi, il fratello di Celina. La discesa libera era fatta per me, l'adoravo. Da giovane avevo un coraggio da leone, la forza e il peso giusto per fare la libera. Di solito quando non cadevo vincevo. D: – È accaduto spesso? R: – Dal '53 al '59 non ricordo nemmeno quanti campionati zonali ho vinto. D: – E di campionati italiani? R: – Beh, quelli mai, però ho fatto dei numeri. D: – Ad esempio? R: – A Cortina, campionati italiani assoluti del 1953. Non avevo soldi. Contavo di piazzarmi abbastanza bene per avere diritto ai rimborsi spese. Ma sulla Stratofana in discesa libera ho fatto una caduta bestiale. Il gigante non era andato meglio. Restava il salto dal trampolino dello Zuel. Il regolamento diceva che a chi partecipasse alla gara di salto il rimborso spese spettava di diritto. Ho fatto il salto. Ma quello non era il trampolino di Capracotta o di Campiglio. Era lungo 90 metri. D: – Naturalmente non aveva mai provato... R: – Mai. Ma dovevo pur tornare a Napoli. Devo ammettere che mi tremavano un po' le gambe. Mi ero fatto prestare un paio di sci da salto da un falegname cortinese. Salendo il trampolino avevo incontrato un saltatore di allore, Nicolaucich. «Fai pipì – mi disse – vedrai che la paura passa». Io eseguii volentieri ma la fifa rimase sempre blu. Comunque mi sono buttato. 48 metri ho saltato. Sono atterrato... in qualche maniera. Ero praticamente una spelatura ambulante, il sangue delle ferite si raggrumava subito per il freddo. Ma il primo salto era valido. D: – Perché, ne doveva fare un altro? R: – Per forza. C'erano cinquemila persone a vedermi. Quando annunciarono: per la seconda volta «Salta Marco Potena di Capracotta» ci fu un'ovazione. Non credevano che ci avrei riprovato. Sepp Bräd, il direttore agonistico degli azzurri voleva impedirmelo. Ma il pagamento delle spese d'albergo e il viaggio di treno in terza classe erano troppo importanti per me. Altro salto, altra caduta, altra botta. Ma in fondo ero contento... D: – Si dice anche che lei abbia fatto una staffetta di fondo da solo. È vero? R: – Beh, non proprio. Feci la prima e la terza frazione, due anni dopo Cortina ai campionati universitari, a Sestola. Mancava un frazionista e allora, sotto falso nome ho corso io. D: – Inutile chiederle se scia ancora... R: – Appena arrivato a Milano, nel '59, ho cercato un punto di appoggio sulla neve e ho comperato un appartamento a Cervinia. Quattro anni fa ho subito un bruttissimo incidente stradale. Mi hanno rimesso insieme tutto il bacino e mi avevano detto che non c'era più niente da fare con lo sci. Siamo matti? Mi sono trattenuto per un paio di stagioni, ho fatto molto nuoto, a Positano, poi molto fondo e adesso, appena posso, scappo a Cervinia a sciare. D: – E a Capracotta non torna più? R: – Certo che ci torno, quando il lavoro me lo consente. Anche lì ho una casa. Quando la giornata è bella è un posto meraviglioso, si vedono sette provincie, si vede il Vesuvio, si vede persino la costa dalmata. Marco Potena ha concluso il replay della sua vita. L'ultimo fotogramma è forse il più bello, il matrimonio con Sara quattro anni fa. L'ha conosciuta nel '61 sulle piste di Cervinia, un "fidanzamento" e quasi vent'anni prima di poter finalmente stare insieme. «Io cerco di tenerlo a freno – dice la signora Potena – ma... purtroppo piace anche a me sciare». È decisamente un film a lieto fine. E, dopo aver conosciuto il personaggio, non è difficile pensare a qualche riedizione. Roberto Della Torre Fonte: R. Della Torre, Amarcord. Rivediamo il film di una vita. Personaggio ed interprete: Marco Potena , in «Sciare», XVII:225-226, 1° marzo 1981.
- Il culto di san Sebastiano a Capracotta
Per affrontare in modo esauriente ed organico la questione del culto di san Sebastiano a Capracotta, a mio avviso, è bene cominciare da quel che sappiamo, per poi integrare le notizie consolidatesi negli anni con ciò che ho scoperto con la ricerca d'archivio. Le domande a cui cercherò di rispondere sono formalmente tre: Perché san Sebastiano è il patrono di Capracotta? Da quando san Sebastiano è il patrono di Capracotta? Perché lo festeggiamo il 13 luglio? Agiografia di san Sebastiano Sebastiano nacque a Narbona, in Gallia, da un funzionario romano e da una donna milanese. Nonostante fosse cristiano, fu inviato a Roma come guardia pretoria degli imperatori Diocleziano e Massimiliano, poiché era esperto nella fabbricazione e nell'uso delle armi. Credendosi immune dalle persecuzioni, Sebastiano cominciò a visitare i detenuti cristiani per recar loro un briciolo di conforto. Tale azione, tuttavia, apparve provocatoria agli occhi di Diocleziano al punto che venne tratto in arresto e processato. Il racconto della sua Passio , redatto da Arnobio il Giovane nel V secolo - e che persino "L'Osservatore Romano" non esita a definire «fantasioso» - tramanda il seguente dialogo fra accusatore ed imputato: – Io ti ho posto tra i grandi, dandoti libero accesso al mio palazzo, tu ordisci trame contro la mia salute e rechi pure ingiurie agli dèi dello Stato? – Ho sempre pregato Cristo per la tua salute e per la sicurezza dello Stato in tutto l'impero ho sempre adorato il Dio che è nei cieli. Sebastiano si rifiutò di abiurare alla propria fede e l'imperatore ordinò che fosse giustiziato secondo la condanna riservata agli ufficiali militari: il supplizio delle frecce. Era il 288 quando, al teatro Flavio (poi conosciuto come Colosseo), gli arcieri lo legarono ad un palo e gli scagliarono un certo numero di frecce. Giacché il condannato sembrava morto, lo abbandonarono sul luogo dell'esecuzione. Tuttavia, una matrona romana di nome Irene si accorse che Sebastiano era ancora vivo: lo slegò, lo portò in casa propria e lo curò amorevolmente. Quando Diocleziano si rivide comparire innanzi colui che aveva condannato a morte, dopo un iniziale sbigottimento, ordinò ai soldati di ucciderlo una seconda volta, stavolta a bastonate, sul Colle Palatino, e poi di gettare il corpo nella Cloaca Maxima - la più antica e tuttora funzionante fogna di Roma - affinché nessuno potesse ritrovarne le spoglie. Sebastiano stavolta morì per davvero ma comparve in sogno alla vedova Lucina, un'altra donna romana, indicandole dove avrebbe potuto rinvenire il cadavere. Ella recuperò il corpo e lo seppellì nelle catacombe sulla via Appia dove, nel IV secolo, papa Damaso farà costruire una basilica dapprima intitolata a Pietro e Paolo e successivamente al martire Sebastiano, come risulta dall'autorevole Depositio martyrium del 354. San Sebastiano e la peste del 1656 Il culto di san Sebastiano è stato sempre molto vivo in Italia e in Europa, ma è soltanto a partire dal 1656, in occasione della peste, che in tante regioni - soprattutto nel viceregno di Napoli, dove uccise 240.000 persone - san Sebastiano cominciò ad essere invocato in qualità di protettore contro questa letale malattia infettiva, poiché il popolo paragonava le ferite causategli dalle frecce ai bubboni della peste . Inoltre, tradizione voleva che l'intercessione del Santo era stata salvifica durante la peste del 680 a Roma. Per quanto riguarda specificatamente Capracotta, invece, dobbiamo tenere a mente quattro date ed altrettante informazioni ricavate dalla documentazione archivistica fin qui nota, proveniente dal "Libro delle memorie", conservato presso il Comune di Capracotta e compilato, a partire dal 1742, dal cancelliere Nicola Mosca. La prima data è il 1548. Da un punto di vista meramente toponomastico, nell'inventario delle rendite della Chiesa di S. Antonio Abate, figura « un pezzo di terra a S. Sebastiano di tomola quattro in circa »; non è dato sapere dove fosse situata esattamente la contrada di S. Sebastiano ma, giacché viene inserita tra i Vagli e le Fossata, potrebbe corrispondere all'area del Trione. L'ipotesi trova conferma nell'inventario « delli territorij dell'Arcipretato » del 1660, dove questa località è nuovamente menzionata quale confine di un terreno che si estendeva fino al mulino sul torrente Verrino. Di certo, laddove esiste un toponimo legato ad un santo, esiste pure un culto legato a quel santo. La seconda data è l'11 aprile 1671, quando il perito Antonio Cafaro, incaricato di realizzare una stima del feudo di Capracotta - dopo che questo era stato incamerato dal Fisco perché la precedente feudataria, Faustina d'Evoli, era morta senza discendenti -, firma una relazione in cui descrive, tra le altre, la Chiesa di S. Giovanni, che allora era intitolata anche ai Ss. Sebastiano e Rocco, « la quale è jus patronato del Barone, l'entrata della quale consiste in territorij, che rendono da docati 35 ogn'anno ». È lecito pensare che, a differenza di tutte le altre, questa chiesa possedesse dei terreni profittevoli in virtù della peste di 15 anni prima, con molti cittadini capracottesi che, scampati al morbo, vollero ringraziare i martiri Sebastiano e Rocco, entrambi invocati contro le pestilenze, con donazioni terriere . Nell'apprezzo feudale di Cafaro, inoltre, sono menzionati anche i 22 ducati che l'Università di Capracotta versa al clero per « le processioni delle feste solenni di S. Sebastiano, e S. Margarita, e messe che si dicono [...] nelli quattro mesi d'estate, per commodità de' pastori, et altra gente di campagna ». Questo fa capire come, dopo la Madonna, festeggiata il 15 agosto sotto il titolo dell'Assunzione e l'8 settembre sotto il titolo di Loreto, il terzo culto più importante nella Capracotta seicentesca fosse proprio quello di san Sebastiano. La terza data fondamentale è il 13 luglio 1676: avendo acquistato il feudo di Capracotta il 29 ottobre 1674, Andrea Capece Piscicelli (1646-1684) ne diviene primo duca e, per presentarsi ai suoi sudditi, dona al clero locale, esattamente 20 anni dopo l'epidemia di peste, le reliquie di alcuni martiri cristiani del II e III secolo, contenute in un grosso reliquiario di legno. La quarta e ultima data importante è il 18 agosto 1742: giorno in cui il Capitolo riserva l'altare di destra della nuova Chiesa Madre, di fresco consacrata, all'Università di Capracotta per custodirvi « l'imagine del nostro Padrone S. Sebastiano, e Ss. Martiri Protettori », altare consacrato il 12 maggio 1749. Allo stato attuale, è questa la prima attestazione ufficiale in cui san Sebastiano figura inequivocabilmente quale patrono di Capracotta. Quest'ultima attestazione è particolarmente importante soprattutto perché certifica che anche i santi Martiri sono protettori di Capracotta. Queste notizie lasciano emergere con forza alcune ipotesi. Un qualche tipo di culto sebastianico esisteva a Capracotta già nel XVI secolo, come dimostra la toponomastica; tuttavia, l'epidemia di peste sembra aver propagato non soltanto il morbo ma anche il culto di san Sebastiano, giacché negli anni immediatamente successivi al 1656 si registra un exploit di donativi e contributi legati al Santo. Questa diffusione cultuale dovette essere particolarmente travolgente se si pensa che nel 1742, assieme ai Martiri, san Sebastiano è già, a tutti gli effetti, il patrono di Capracotta. Le reliquie di san Fabiano papa a Capracotta. Tuttavia, prima di concludere la parte relativa ai documenti che già conosciamo, dobbiamo risolvere la vexata quæstio su san Cristanziano. Qualcuno, infatti, ha creduto che il primo santo patrono di Capracotta fosse lo stesso di Agnone. Fu san Cristanziano il primo patrono di Capracotta? A mio avviso, è da rivedere completamente l'ipotesi secondo cui san Cristanziano fosse stato il protettore di Capracotta prima di san Sebastiano. Questa ipotesi, difatti, discende esclusivamente dalla trascrizione della "Notitia del glorioso S. Cristantiano nostro Protettore", un documento adespoto, anepigrafo e acronico (non ha autore, né proprietario, né data). In realtà, in quella notitia è semplicemente riproposta una breve storia della vita di san Cristanziano e di come, assieme a sant'Emidio (anch'egli venerato in Agnone), il suo culto si sia propagato dalle Marche alla Lombardia. Il busto di san Cristanziano in Agnone. Gli studiosi che, prima di me, si sono occupati del "Libro delle memorie", hanno ricondotto questa notitia al 1712, ma si sono certamente confusi con la data in cui Pietro Paolo Appiano stampò la vita di sant'Emidio. A ben vedere, a parte il fuorviante titolo, in quel documento non è scritto che Cristanziano fosse il protettore di Capracotta, né questa è mai menzionata; è invece lecito pensare che Nicola Mosca abbia trascritto quel documento per testimoniare ai posteri l'agiografia del santo patrono della vicina Agnone, che allora era uno dei centri più importanti del Contado di Molise. La notitia , molto probabilmente, risale al 1758, quando gli agnonesi, ignari del perché venerassero san Cristanziano, chiesero notizie in merito al vescovo di Trivento Giuseppe Pitocco, il quale a sua volta scrisse a Francesco Antonio Marcucci, storico di Ascoli. Fu così che quest'ultimo trasmise il testo della "Notitia del glorioso S. Cristantiano nostro Protettore" al vescovo di Trivento, ma tale risposta fu evidentemente intercettata dalla cancelleria di Capracotta. Trattandosi di un documento storico di una certa rilevanza, Nicola Mosca pensò bene di ricopiarlo sul "Libro delle memorie". In effetti, se si legge per intiero la notitia , dopo aver raccontato quanto fosse venerato san Cristanziano in Nord Italia, essa termina con una sentenza che lascia pochi dubbi: « Negli [...] Caraceni è una terra, che posseduta ne' tempi antichi dagl'Ascolani, ha un tempio nobile, e maestoso col titolo di due santi, Emidio, e Cristanziano loro protettori », riferendosi probabilmente ad Agnone, dove il locale duomo, intitolato a sant'Emidio, fu eretto dai mercanti di Ascoli Piceno. In aggiunta a questo, va detto che ancor oggi Sebastiano è un nome molto diffuso a Capracotta, tanto che ognuno di noi ha un genitore od un parente che porta questo nome, mentre quello di Cristanziano era insolito, per non dire irrintracciabile. Si pensi che tra i morti di peste dell'estate 1656, vi furono 8 Sebastiano e un solo Cristanziano. Rimontando ad epoche più remote, è possibile verificare un simile gap onomastico anche nella numerazione dei fuochi del 1561, quando il nome Sebastiano era già diffuso in paese mentre nessun capracottese si chiamava Cristanziano (o Cristinziano), elemento di certo non probante, ma che porta a pensare che quest'ultimo non fosse il patrono di Capracotta. Se poi ci avviciniamo ai nostri giorni, sul catasto onciario del 1743 vi sono ben 21 persone che portano il nome di Sebastiano e appena 4 quello di Cristanziano, perlopiù appartenenti a famiglie agnonesi trasferitesi a Capracotta, come i Del Papa. Alla luce di questi fatti, credo che la figura di san Cristanziano vada definitivamente espunta da qualsiasi studio futuro sui culti religiosi capracottesi. La data del 13 luglio Ora veniamo ai documenti inediti. Sappiamo che la memoria liturgica di san Sebastiano cade il 20 gennaio, ma per ovvi motivi climatici i capracottesi la festeggiano in estate. Almeno sin dal '900, la festa, che prevedeva una processione corale di 13 santi, venne fissata al 13 luglio, probabilmente per commemorare la donazione di reliquie che il duca Andrea Capece Piscicelli aveva compiuto in quel giorno del 1676. Oltre 30 anni fa la data è diventata mobile, spostata alla seconda domenica di luglio, poiché resta inveterato l'uso di far le feste « per commodità de' pastori », comodità che è oggi riservata ai tanti emigrati di ritorno. Dobbiamo fare delle ulteriori riflessioni sul giorno festivo del 13 luglio, che nascono dallo studio della pergamena originale con cui i "magnifici" Filippo del Baccaro e Domenico Pettinicchio, alla presenza dell'arciprete Pietro Paolo Carfagna e del sindaco Lorenzo Casciero, siglarono l'atto di donazione del Duca. In quel manoscritto si legge che « Sacras Reliquias de ord. ejusdem ex Alma Urbe Roma in dicta Terram Caprecotte vigi Pontificis facultatis translatas, et asportatas » (= le sacre reliquie del medesimo ordine furono traslate e portate da Roma a Capracotta per facoltà dell'autorità pontificia). Bisogna tuttavia precisare che le reliquie oggetto della donazione erano precipuamente quelle dei « Martyris Constantij, Faustini, Feliciani, et Aurelie » (= martiri Costanzo, Faustino, Feliciano e Aurelia), anche se dietro i vetrini se ne scorgono molte altre, come quelle di papa Fabiano, Benedetto, Giustina, Donata, papa Pio e Ilario, le cui spoglie furono rinvenute proprio nel 1656. Il primo duca di Capracotta, insomma, fece incetta di reliquie per fare bella figura presso il nostro popolo, il "suo" popolo. Nella pergamena è scritto che, a supervisionare l'intero processo traslativo, fu l'aquilano Giuseppe Eusanio, vescovo di Porfireone nonché prefetto del sacrario apostolico. Al momento di detta donazione, il papa era Clemente X, il quale, sofferente di gotta, era in fin di vita, tanto che il 22 luglio 1676, nove giorni dopo l'arrivo delle reliquie a Capracotta, egli morirà. Nella storia della Chiesa, prima di Clemente X, nessun pontefice era giunto alla veneranda età di 86 anni. Essendo nato il 13 luglio 1590, è infatti possibile teorizzare che la data del 13 luglio, un anonimo lunedì d'estate, sia stata scelta dal Duca per onorare il genetliaco di un papa longevo giunto alla fine dei suoi giorni mortali e, ad un tempo, perché per sua disposizione gli era stato possibile portare le reliquie dei martiri romani sui monti di Capracotta. Il 13 luglio 1676, insomma, dovette essere festa grande a Capracotta, tanto che quella data rimase nel dna dei capracottesi, che la scelsero per festeggiare innanzitutto i santi Martiri e poi san Sebastiano . Le reliquie di san Sebastiano Dirò di più. Nel suo libretto del 1986, don Geremia Carugno scrive che, oltre agli «scarabattoli» (così li aveva definiti Luigi Campanelli!), esiste «un reliquiario portatile, tipo ostensorio, finemente lavorato in argento e che contiene, visibili dietro il vetrino centrale, le reliquie coi rispettivi nomi dei martiri», tra cui quello di san Sebastiano. Il reliquiario portatile trafugato nel 2020. Ho ritrovato l'atto di donazione di queste reliquie, avvenuta il 14 aprile 1717 per mano di Giuseppe Capece Piscicelli (1696-1755), quarto duca di Capracotta, il quale, grazie a mons. Antonio Sanfelice, vescovo di Nardò, donò alla chiesa di «S. Maria» una « particula ossis S. Sebastiani Martyris quam reposuimus in theca argentea forma ovata » (= scheggia d'osso di san Sebastiano martire che abbiamo riposto in una teca argentata di forma ovale), che altro non è se non il «reliquiario portatile, tipo ostensorio» di cui parlava don Geremia, che stava appeso da tempo immemore al collo della statua di san Sebastiano e che è stato trafugato, in piena emergenza Covid, il 17 agosto 2020. È curioso rilevare come le sante reliquie siano giunte dopo un'epidemia e, quasi 350 anni dopo, a seguito di un'altra pandemia siano state rubate. La statua di san Sebastiano Veniamo ora all'iconografia. Nelle rappresentazioni figurative più antiche, come il mosaico bizantineggiante della Chiesa di S. Pietro in Vincoli di Roma, Sebastiano appare come un uomo di età avanzata e con la barba lunga che tiene fra le mani una corona. Tuttavia, a partire dal '400, gli esempi più popolari della sua iconografia lo ritraggono come nel caso capracottese, in piedi, legato ad un albero col corpo trafitto dalle frecce. Sul fondo del basamento della nostra statua è presente la seguente dicitura: Pasquale e Giuseppe Di Capita fecero A.D. 1859 Si tratta della bottega dei fratelli Giuseppe (1810-1876) e Pasquale Amos Di Capita (1812-1877), intagliatori di Vastogirardi, il paese altomolisano che vantava una pregiatissima tradizione legata alla lavorazione del legno e al restauro. Nel 1870 sarà sempre la bottega Di Capita, guidata da Pasquale e dal figlio Francesco, a realizzare la bella statua di san Giuseppe che, ora restaurata, potete ammirare nel secondo altare di destra. Conclusioni Ricapitolando, sulla base dei documenti consolidati e dei manoscritti inediti che ho analizzato, è possibile affermare che il culto di san Sebastiano affondi le radici almeno nel XVI secolo a Capracotta, ma che questo conobbe la piena affermazione a seguito dell'epidemia di peste del 1656 che aveva falcidiato la popolazione (1.126 morti), per cui egli divenne il patrono di Capracotta probabilmente tra il 1656, anno dell'epidemia, e il 1717, anno in cui giunsero le sue reliquie. Prima di allora, è da escludere che il santo patrono di Capracotta fosse san Cristanziano, che invece è sempre stato il protettore di Agnone. Per quanto attiene alla festa religiosa e popolare di san Sebastiano, siamo soliti celebrarla il 13 luglio a ricordo del 13 luglio 1676, giorno in cui le reliquie di quattro grandi martiri, protettori di Capracotta, giunsero in paese, nonostante quelle del patrono principale siano giunte 41 anni dopo. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, La Chiesa collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Soc. Tip. Molisana, Campobasso 1926; L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Tip. Antoniana, Ferentino 1931; G. Carugno, La Chiesa Madre di Capracotta , S. Giorgio, Agnone 1986; D. Di Nucci (a cura di), Capracotta: registro-libro delle memorie. 900 anni di storia dal 1040 (1011) al 1943 , PressUp, Settevene 2020; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; N. Mosca, Libro delle memorie, o dei ricordi , Capracotta 1742.
- Dio, natura e cultura: domande sempre attuali
Romano Guardini (1885-1968). Romano Guardini, pensatore geniale, teologo e filosofo del secolo scorso, con intelligenza e passione, propone alla cultura europea la « visione cristiana del mondo » ( Weltanschauung ) quale criterio di vita personale e collettiva. Entrano, in diversa misura, filosofia e teologia, studiano la struttura e gli avvenimenti del mondo attuale per ricavarne la dimostrazione della libertà dei diritti dell’uomo e dell’importanza della persona umana di fronte alla società. Presenta in modo chiaro ed efficace le figure di Agostino, Bonaventura, Dante, Pascal, nel mondo cattolico, Socrate, Dowstojewski, Holdelrlin, Nietzsche, fuori del mondo cattolico. Nato a Verona nel 1885, è italiano di sangue, ma di formazione e mentalità tedesca. La lucidità della struttura del pensiero italiano si unisce alla vigorosa ricerca del vero, proprio del pensiero germanico. E un pensatore della misura, del possibile, della realtà, dell'"opposizione polare", come viene definito. La vita è dominata da opposti che non sono annullabili in alcuna sintesi, che non si distinguono l'uno con l'altro: tra di loro non c'è contraddizione, né identità, essi sono in tensione polare, che non può essere annullata. Occorre ripristinare il ponte fra esistenzialismo cristiano di tipo platonico agostiniano e una concezione integrale dell’uomo, unione di corpo ed anima al modo aristotelico tomista. Il confronto non avviene come una lotta contro un nemico, ma come sintesi e una tensione feconda, come costruzione di una unità concreta. Sintesi fra agostinismo e tomismo, in base al concetto di "conoscenza affettiva". Di qui la preferenza per Bonaventura che unisce cuore e ragione, amore e conoscenza. È la tradizione più nobile dell'Occidente cristiano, che ha la sua espressione teorica nella philosophia theologica cordis, alla quale vengono ascritti anche figure come Bernardo di Chiaravalle e Francesco d'Assisi, per arrivare a Newman e Rosmini e filosofi come Kierkegaard e Scheler, e ai russi Solov'ev e Florenenskj. Tre suoi libri hanno catturato la mia attenzione e sono stati punto di riferimento della mia educazione e formazione. Le sue intuizioni e i suoi pensieri sono stati per me come una "eredità spirituale". "Il Signore" (sottotitolo: "Meditazioni sulla persona e la vita N.S. Gesù Cristo") è la maggiore opera, offre pagine significative che rispondono ai bisogni dell'anima moderna. Scritto con mente di pensatore moderno e con animo di sacerdote cattolico, è animato da zelo apostolico per le anime, con lo scopo di comunicare il messaggio evangelico. Esamina i problemi della religione tenendo conto delle esigenze del pensiero moderno, con la simpatia che rende possibile il pensiero del suo autore. Nel Signore sono presenti pagine luminose che rispondono ai bisogni dell’uomo moderno. Una sintesi teologica del Cristianesimo che mostra che « è possibile accettare la connessione del mondo » con il messaggio di Cristo. È avvertito anche in Italia il bisogno di una cultura religiosa che risponda alle esigenze del nostro tempo. "Il Signore" è un testo che intercetta il tormento di chi è "privo di Dio" e lo rinnega, ne soffre e tenta di aprire la via agli uomini che cercano la Verità. Aiuta a comprendere il significato della Rivelazione, il messaggio di Cristo e della Chiesa, il valore della vita cristiana. Lo scopo di Romano Guardini è presentare una sintesi teologica del cristianesimo all'uomo moderno e invitarlo ad accettare la concezione del mondo proposta. "Le età della vita" è invece un libro che invita ad avere "occhiali nuovi" per vedere la compresenza delle varie età e delle varie esperienze come una risorsa, come potenzialità da cui tutti possono attingere. La compresenza fra le generazioni delinea un confluire fra esperienze e memorie differenti, una base preziosa per il cammino formativo di ogni persona. Il cammino si disegna a partire dalle relazioni che si intessono: più ricche sono, più completa è la formazione, con la capacità di guadagnare empatia (compresenza che i nostri vecchi indicavano con l'espressione "mettersi nei panni degli altri"). Ricuperare il nocciolo vivo del raccontarsi , per esercitarsi lungo il filo della memoria, le coordinate dell'identità, ragionando insieme sul senso delle reciproche esperienze. Ogni narrazione si carica di significato, colloca gli avvenimenti lungo una sequenza comprensibile: confronti, scontri, tutto aiuta a crescere, stimola l'attenzione e la compenetra con il continuo riverbero nella memoria. Ogni età della vita predispone, inclina a certe scelte valoriali e consolida alcune virtù. Ad esempio, nell’età più matura c'è bisogno di sincerità e di autenticità, si impone il bisogno acuto di manifestarsi col "proprio volto" senza maschera, autentico e, forse, definitivo. Identità, diversità, reciprocità si impongono per una genuina cultura del servizio e del dialogo. Compresenza di persone, narrazione delle rispettive identità, confronto tra esperienze e valori, reciprocità di rapporti sfociano nella solidarietà fra le generazioni. C'è un legame che va al di là dei vincoli del sangue, « un legame di responsabilità a 360 gradi » , fondata su quella rete a maglie strette, che connette e insieme distingue le varie età della vita e le varie articolazioni dell’umanità. La continuità permette di rivivere il passato, di attualizzarlo nel presente e di ispirare i progetti del futuro. Sentirsi interpellato dal passato significa guadagno per la propria identità per fare di progetti. Questo implica che ogni generazione se ne appropri vitalmente nel proprio tempo e nel rapporto alle proprie esperienze. con capacità di ascolto e forte impegno creativo. Il dialogo tra le generazioni può dare un senso e un contributo decisivo all’intera umanità. Un terzo libro, "Il testamento di Gesù", ha attirato fortemente la mia attenzione. Lo scopo non è chiarire l'essenza del cristianesimo o di illustrarne la storia, ma di indicare i compiti che essa assegna e il modo migliore di assolverli. Fede, amore, sacrificio sono valori sommi. Una funzione sacra, come la celebrazione della S. Messa, può diventare occasione di un culto altamente cristiano se partecipata come « azione compiuta in sua memoria » . È un percorso spirituale da vivere. Parte dal silenzio, si avvicina alla Parola celebrata, per diventare capacità di raccoglimento e disposizione a vincere distrazione e inquietudine, battaglia ardua per l'uomo del nostro tempo. Non è semplice assistere a un rito, ma valorizzare i segni con cui la partecipazione prende concretamente volto. In un passaggio conclusivo di grande incisività Guardini scrive: « Questa è la prova suprema della fede. L'uomo deve essere pronto a superare il proprio sentimento o "non riuscirà ad entrare nel regno di Dio" » . Si schiude il miracolo del mistero ed è resa giustizia alla felice naturalezza insita in esso. L'amore si compie non solo donando ciò che gli è proprio ma sé stesso. Nessuna forma di amore giunge a compimento. Quando l'uomo ama veramente, deve volere più di quanto possa. Questi scarni cenni bastano per dare un'idea del linguaggio dotato di straordinaria forza evocativa del Guardini su temi liturgici e di educazione liturgica. Portare l'uomo moderno a compiere realmente gli atti liturgici senza cadere « nel teatrale e nella vuota e vacua gesticolazione » . Alcuni interventi raccolti in "Ansia per l'uomo" e "Lettere dal Lago di Como", due volumetti pubblicati cinquanta anni fa, sono la sintesi di una meditazione sulla forza e le debolezze del genere umano. Non abbandonarsi all'ansia, all'angoscia e all'agitazione e sofferenza psicologica, per scoprire la calma, la quiete, la tranquillità e la serenità del vivere quotidiano. La stessa natura contiene un elemento di cultura, di ciò che l'uomo è, senza che la natura l'abbia modificato. Cultura è tutto ciò che egli crea e plasma. Natura è quella sfera che l'uomo incontra e percepisce, nel cui quadro inserisce i presupposti del suo ordine e del suo comprendere. L'uomo responsabile a sé stesso incontra e percepisce la natura. L'esistenza umana è un "viaggio metaforico", un camminare dalla natura alla cultura, che arricchisce materialmente e spiritualmente, quando è armonioso, responsabile, umano. A rendere favorevole il cammino è il retto uso della libertà, del potere che l'uomo si è conquistato, il sostegno della fede, la contemplazione. A mettere in pericolo l'esistenza è il cattivo uso della libertà e del potere, l'abbandono della fede nel divino, il razionalismo e l'attivismo che rendono disarmati alla logica propria e specifica dei problemi scientifici e tecnici. Occorre porsi domande che spesso urtano. Non si esce mai indenni dalla prova dell'alterità. È un vero inno contro l'ipocrisia di tanti che vivono il cristianesimo come un alibi. Un rifugio identitario, un biglietto da visita per il vasto mondo della morale. L'inquietudine è il sale della fede, suggerisce la via del paradosso e non della convenienza. Il buon Dio non ha scritto che dobbiamo essere il miele della terra ma il sale. Ora il nostro povero mondo somiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letamaio. Il sale sulla carne viva brucia, ma le impedisce anche di putrefarsi. (G. Bernanos, "Diario di un curato di campagna", 1936) Un ultimo pensiero di Guardini dedicato all'ultimo libro della Bibbia ha attirato la mia attenzione: "Apocalisse". Offre spunti per la comprensione dell'ingiustizia contemporanea e del Giudizio, che non è una data futura, ma sta giungendo, è attuale. L'Apocalisse è il libro del presente, « Dio non promette interventi miracolosi, la storia ha il suo tempo e la sua forza, anche dove si svolge contro Dio. Sulla realtà terrena si mostra quella divina. Sulle potenze incalzanti della storia appare silenzioso e in attesa colui che esse aggradiscono, Cristo ». Questa posizione incoraggia ad avere fiducia. "Fiducia", la parola di Paolo tradotta in parresia , è per Guardini la parola fondamentale anche contro la propria tentazione. Le forze terrene sembrano le uniche signoria, la storia sembra essere l'opera della volontà umana. In verità è Lui, Cristo, il Signore. L'esistenza cristiana sembra in balia di quelle. In verità Egli la custodisce. Essa abbandonata al caso, ma in tutto quello che accade, anche quando è distruzione, si compie l'Eterno Senso. Romano Guardini potrebbe essere pensato e proposto come "Patrono dell'Europa" culturale e spirituale, in aggiunta a Benedetto da Norcia, Cirillo e Metodio, Brigida di Svezia, Caterina da Siena ed Edith Stein. Rappresenta la migliore cultura europea, la sua forza di pensare, la sua densa relazione al mondo, la sua concezione della divinità nell'umanità. La sua opera multiforme, capace di spaziare dalla teologia alla filosofia, dalla letteratura alla musica e all'arte, opera l'incontro della fede con il mondo a partire dalla fede. La tensione tra amore e verità, tra ethos e logos , è un compito essenziale della Chiesa. Se la Chiesa dimentica la sua visione kath holon (cattolica-universale), lo sguardo sulla tensione di amore e verità perde la sua credibilità e fa del Vangelo un semplice racconto. Osman Antonio Di Lorenzo
- Storia dell'organo (VIII)
Ti lascio una canzone da indossare sopra il cuore... [G. Paoli, 1985] L'organo Schnitger nella Chiesa di S. Ludgeri di Norden. «A che serve provarlo? Tanto è un organo!». Questa risposta mi venne fornita dal parroco di un famoso santuario romano alla mia richiesta di fare una ricognizione dello strumento in preparazione ad una cerimonia dove ero stato convocato come organista. Ormai seguendo queste sgangherate righe avrete certamente intuito l'unicità di ogni singolo organo per l'area geografica e per l'ambiente in cui viene collocato e quindi come ogni repertorio debba essere precisamente studiato per utilizzare al meglio la fonica dello strumento nel valorizzare i brani. Pertanto, pur giustificando chi non sa, a Voi il giudizio sulla risposta da me ottenuta ed elaborare anche un pensiero su chi, per status, dovrebbe sapere ma spesso non conosce neppure il valore del gioiello che si staglia nella cantoria... L'organo tedesco Generato dalla radice comune medievale e fratello degli strumenti fiamminghi, l'organo germanico andò incontro ad uno sviluppo unico e straordinario, ma soltanto comprendendo lo spirito del Luteranesimo si può capire appieno l'evoluzione e la struttura dell'organo tedesco. La Chiesa riformata di Martin Lutero concepì la musica ed il canto della assemblea come parte integrante della Liturgia della Parola. Il concetto "verticale" della musica liturgica cattolica venne quindi ribaltato: il canto divenne "trasversale" coinvolgendo tutta l'assemblea. Compaiono così i famosi "corali", basati su melodie preziose e spesso mutuate dal gregoriano ma facilmente orecchiabili ed memorizzabili. Dai neumi gregoriani, però, si passò al canto sillabico: una nota per una sillaba anche con lo scopo di creare un ritmo comune nell'assemblea e riunire in uno tutti i cuori impegnati nella preghiera. Il coro e l'organo sostenevano tale pratica che si radicò profondamente nell'animo dei fedeli: uno specifico corale per ogni momento della liturgia e uno quasi per ciascun giorno dell'anno. I fedeli ascoltando l'organista improvvisare la melodia del corale, come introduzione, sapevano automaticamente cosa cantare senza neanche perdere tempo a cercare sul libretto dei canti. Assistiamo così alla nascita dei "preludi corali" per organo o Choralvorspiele . Recitando la melodia del corale l'organista provvedeva a creare un accompagnamento che ne esaltasse le singole frasi musicali e le parole di riferimento sottintese. Un fraseggio musicale contrappuntistico dove simbolismo, armonia e poesia si fondevano: non a caso il Rinascimento e il Barocco sono la culla della musica figurativa. Si ricorda l'episodio in cui l'ormai anziano ma sempre autorevole Johann Adam Reincken (1643-1722) ascoltando Johann Sebastian Bach (1685-1750) improvvisare sul corale "An Wasserflüssen Babylon" ebbe a dire: «Credevo che quest'arte fosse morta, ma la vedo rivivere in Voi!». Erroneamente si è portati a pensare che Il vecchio Reincken si riferisse al semplice improvvisare in armonia ma in realtà elogiava la capacità di Bach nell'improvvisazione figuraliter , cioè accompagnando il corale in maniera simbolica more antiquo . A conferma di questo molti critici ravvisano nella elaborazione, che poi Bach mise su carta, sonorità e movimento visivo delle parti evocanti il lento scorrere delle acque del fiume e lo scoramento degli Ebrei nel ripensare alla lontana Sion. Lo stesso Bach riteneva cosa estremamente importante una corretta ed equilibrata improvvisazione rimproverando le sfuriate musicali senza senso di alcuni organisti da lui definiti «ussari della tastiera». Bach eseguì questo corale in onore al vecchio Reincken che precedentemente ne aveva scritto una interessante e celebre versione. Tuttavia pur se armonicamente e contrappuntisticamente perfetto il corale di Reincken non trasuda lo spirito poetico che illumina la versione di Bach. Per adempiere a tale complessa funzione gli organi si svilupparono acquisendo sempre più importanza nel credo luterano e nel cuore del popolo germanico al punto che, per i fedeli, era inconcepibile il solo pensare ad una chiesa priva di organo. Il Natale del 1924 vide una scarsa affluenza di fedeli alla messa tradizionale della Cattedrale di Passau. Il vescovo, infuriato, identificò tale crisi di presenze nel malfunzionamento dell'organo che era praticamente ridotto al silenzio per mancanza di manutenzione e di cura nel corso degli anni. Diede così ordine di restaurarlo ed ampliarlo e con le sue circa 20.000 canne ed una sezione collocata nel sottotetto, per dare l'idea del suono discendente dall'alto, lo strumento divenne uno degli organi più grandi di Europa. Nell' articolo sull'organo dei bidoni abbiamo inoltre constatato come anche nella prigionia i soldati tedeschi abbiano sentito la necessità di avere a disposizione un organo per accompagnare le funzioni religiose. Spesso le grandi vetrate e le caratteristiche architettoniche di molte cattedrali gotiche impedivano l'installazione di uno strumento adeguato e, allora come oggi, si ricorreva ad artifici ingegneristici. A testimonianza di tale caparbia volontà rimasta immutata nel tempo, la costruzione da parte della fabbriceria Rieger, nel 2009, di un poderoso e maestoso strumento del peso di 37 tonnellate e dotato di 80 registri ripartiti su quattro manuali e pedaliera nella Chiesa di S. Pietro a Regensburg. Tale colosso è sospeso nella navata tramite quattro cavi di acciaio ancorati ai pilastri portanti del transetto. La robustezza delle portanti è tale che ciascun cavo può da solo reggere il peso dell'intera struttura. L'amore per questo strumento con la sua funzione simbolica e di preghiera è testimoniato anche dal soffermarsi dei fedeli a termine funzione fino al completamento del brano musicale, quando invece, nelle nostre latitudini, il "Ite Missa est" risuona come il colpo di pistola dato dallo starter alla partenza dei 100 metri piani delle Olimpiadi e con molti astanti che già durante il Communio si sono portati ai blocchi di partenza nei pressi delle bussole. Possedere un organo prestigioso, come in Olanda, era il vanto della comunità di appartenenza e avere alle dipendenze un bravo organista, responsabile anche dello strumento, un ulteriore fiore all'occhiello. Lo stesso avveniva nelle corti nobiliari. Ad esempio nel 1708 a Weimar (Turingia) l'organista di corte ( Hoforganist ), oltre agli altri incarichi, era Bach, mentre l'organista cittadino ( Stadtorganist ) era suo cugino Johann Gottfried Walther (1684-1748). A differenza della Chiesa Cattolica, e per diversità anche dei sistemi educativi e scolastici (un proverbio raccontava che «i contadini del Margravio di Brandemburgo sono più acculturati dei cortigiani del Re Sole»), nella Chiesa riformata l'organista non era un religioso, ma un professionista che veniva accuratamente selezionato. Tale incarico, come anche quello di musicista cittadino ( Stadtpfeifer ) o di corte (Hofmusiker) o ancora di Maestro di Cappella ( Kapellmeister ), si tramandava di padre in figlio e intere famiglie erano dedite all'arte musicale per la liturgia e le cerimonie civili. Per esempio la famiglia Bach contava tra il XVII e il XVIII secolo così tanti musicisti, diffusi nei borghi e nelle cittadine della Germania, che il termine "die Bache" (il Bach) divenne sinonimo di musico. Inoltre la scuola del Nord, di cui abbiamo parlato in occasione dell' organo fiammingo , tramite i grandi esponenti tra i quali Praetorius, Buxtehude, Bohm, il predetto Reincken, Lubeck, Tunder, Bruhns, Weckmann, Leyding, Werkmeister e, per formazione, Bach, portò la tecnica dell'uso della pedaliera alle massime capacità espressive e funzionali al punto che questi maestri vennero definiti "esplosivi". Pertanto le pedaliere acquisirono registri autonomi e "solistici". La scuola meridionale, scaturita prevalentemente da Froberger, allievo di Frescobaldi, annoverante organisti tra cui Erbach, Kerll, e Pachelbel ne fece meno uso di riservandola quasi esclusivamente a passaggi lunghi o al cantus firmus. Rarissimi gli strumenti ad un solo manuale e prevalentemente legati alla scuola meridionale. Ovviamente gli stili compositivi non si limitavano al corale ma anche alle toccate, i praeludia, le fughe ecc. Sarà interessante, appena possibile, fare una passeggiata tra le varie forme musicali. Gli organi venivano costantemente ampliati e rinnovati seguendo le esigenze dettate dall'organista e dalla liturgia, inglobando spesso il materiale fonico preesistente e aggiungendo ulteriori corpi d'organo. Possiamo ancora ammirare casse dove la sezione centrale a torri squadrate rinascimentali è affiancata ai lati dalle grandi torri dedicate ai registri della pedaliera e dal corpo del Rückpositiv sulla balconata realizzati invece in stile barocco. Bach fu organista apprezzato ed ammirato a Mulhausen (Turingia) dal 1707 al 1708 dove su sua indicazione vennero apportati aggiornamenti ed ampliamenti al grande organo della Chiesa di S. Biagio. Pur avendo lasciato l'incarico per trasferirsi a Weimar, venne chiamato per il collaudo e l'inaugurazione, scrivendo per tale occasione la fantasia sul corale "Ein Feste Burg ist unser Gott" (Una salda fortezza è il nostro Dio) i cui passaggi, tramandatici da Walther che lo assisteva, ci mostrano come il Maestro abbia sperimentato l'efficacia di tutte le modifiche ed aggiunte mentre, ne sono quasi sicuro, l'organaro ascoltava e seguiva il tutto in preda ad una crisi di ansia e con i capelli dritti... Il Prinzipal può definirsi l’equivalente del nostro principale. Di taglio abbastanza largo e con sonorità generosa ed ampia ma comunque precisa per rendere al meglio la poderosa struttura contrappuntistica tedesca, dà origine a tutta la sequenza fondamentale verso i registri acuti e verso i bassi. Il suo sviluppo nelle mutazioni crea la sesquialtera, registro molto amato da Bach e dai suoi coevi, spesso "tagliente" col suo caratteristico suono tipico nel fraseggio della melodia portante dei corali, ma spesso anche aggiunta per completare il plenum . I primi registri ad anima da '16 compaiono a cavallo del XV e XVI secolo fino ad arrivare ai profondi suoni del '32 e tale evoluzione si estenderà anche alle ance. Tuttavia tutte le basserie pur se di intonazione forte non apparivano "gonfie", caratteristica che sarà più tipica degli strumenti del XIX secolo. Pochissime volte gli autori davano indicazione della registrazione da adottare: era lasciata al gusto dell'esecutore ed alle caratteristiche dello strumento rapportate al brano da eseguire: l'importante era costruire un preciso fraseggio e far intendere al meglio il dialogo delle parti. Un atteggiamento totalmente differente dai compositori francesi dove era la registrazione prescelta ad indicare la composizione (ad esempio: "Offertoire sur le gran jeu" oppure "Recit de chromorne"). Lo sviluppo del Prinzipal genera la Mixture , che potremmo definire con approssimazione l'equivalente del ripieno italiano. Ma qui occorre fare delle opportune distinzioni. Costruendo una fila di canne mano a mano che si va verso le note acute le canne andranno progressivamente accorciate e rimpicciolite. Ma arriverà un momento in cui per motivi tecnici non potremo realizzare canne ulteriormente più piccole e per aggiungere le note mancanti ripartiremo costruendo canne più lunghe da riaccorciare ancora in progressione. Ovviamente la canna di "ripartenza" sarà sempre accordata sulla nota corretta ma di una, due o tre ottave più bassa. Tale aggiustamento viene definito ritornello e più si va verso registri acuti più aumenteranno i ritornelli che dovremo realizzare su quella fila. Questo porterà ad avere parecchie canne di molti registri che sullo stesso tasto suoneranno la medesima nota e che saranno poi anche difficili da accordare tra loro (si dice che le canne "si rubano la nota"). Tale impostazione è fondamentale per capire ed apprezzare gli snelli e veloci giochi sonori degli autori italiani ma non è efficace per rendere correttamente la complessa struttura armonica dei compositori tedeschi. Infatti, in tale situazione, possono generarsi dei "vuoti" sonori sgradevoli. Pertanto nella Mixture gli organari tedeschi al momento di "ritornellare" non ripartivano necessariamente da una nota in ottava più bassa ma anche da una quinta e anche da trenta note indietro. Più che ritornello siamo davanti a una “nuova entrata” e questo avveniva con continuo scambio di note tra le file per evitare il più possibile le note all’unisono e quindi ottenendo una sonorità più "serrata" e corposa, meno verticalizzata del ripieno italiano ma più drammatica e intensa. Per questo motivo la Mixture non può essere costruita con file azionabili separatamente ma con tutte le file soggette ad un unico comando. Ecco perché Frescobaldi, che necessita di un ripieno all’italiana aguzzo e affilato per apprezzarne la freschezza e lo scintillante contrappunto che ti invita a guardare verso il cielo, appare grezzo e pesante portato su una Mixture , ed anche perché Bach sembra meno severo e deciso su un ripieno italiano, ma se fatto cantare su una mixture credi che il Padreterno stia direttamente scendendo dall’alto dei cieli per scuotere la navata con un intreccio armonico da togliere il respiro. Da qui anche la spiegazione del perché il cartellino del pomello azionante Mixture sia indichi anche il numero delle file presenti ed azionate in contemporanea. Altro registro con caratteristiche vicine alla mixture e alla sesquialtera ma tipica dell’organo tedesco è il Rauschpfeife , costituito da due o tre file di canne in mutazione (quinta e terza) e come tutte le mutazioni, mixture compresa, da usare sempre in associazione ai registri di fondo o al plenum. La sezione dei flauti ( Rohrflöte e Spitzflöte ) e dei bordoni ( Gedackt ) è ben rappresentata con voci dolci ma chiare e precise con tutte le evoluzioni e mutazioni relative. Ricordo che i registri di bordone, con sonorità più vellutata rispetto ai flauti, possono essere di legno o metallo e la loro caratteristica consiste nella presenza di tappi alla sommità delle canne. La famiglia delle ance conosce molte e varie sonorità dalla Trompete al Krummhorn , dalla vox humana alla Posaune , dal Rankett (regale dolce) allo Schalmei (regale dal suono morbido affratellato allo chalumeau francese e alla chirimìa spagnola) ed ancora il misterioso ma corposo Fagott . Sono presenti anche nella pedaliera, concepita come tastiera a sé stante, e specialmente nell' organo pleno schiariscono la linea del basso mentre come soliste danno voce al cantus firmus . Certamente sono più contenute ed "educate" rispetto alle sorelle francesi spagnole ed inglesi ma sempre e comunque precise e dall’attacco pronto e, usate nel plenum , ben amalgamate. Anche l'organo tedesco dispone di svariati accessori come il Pauke (cucù o timballo) - due canne o più che azionate in sequenza per effetto di battimento danno il classico suono - e il curiosissimo Zimbelstern : un getto di aria mette in rotazione una ruota a pale collegata a dei campanellini e, tramite lo stesso asse, fa girare una stella dorata posizionata sulla facciata. Ovviamente presenti i comandi di Tremulant (tremolo) leggero e forte. Come per l'organo olandese le maestose casse sono costituite dalle classiche torri circolari tipiche del nord Europa che tuttavia differiscono dalle coeve francesi: le generose sezioni di pedale richiesero grandi e voluminose torri laterali assenti in questi ultimi strumenti. La tastiera principale fu definita Hauptwerk o Oberwerk . Il Rückpositiv è immancabile mentre una terza tastiera posizionata più in alto (il nostro recitativo) è il Brustwerk perché posizionata all’altezza del petto dell'organista. In alcuni strumenti si arriva anche a quattro manuali. Le pedaliere più antiche mostrano l'assenza del Do1# e spesso, negli organi più antichi, la prima ottava era "corta". I tasti più lunghi di quelle "mediterranee" agevolavano l'esecutore. E da qui nasce l'eterna diatriba se gli organisti di quell'epoca usassero solo le "punte" o suonassero anche con i "tacchi": in medio stat virtus ? Piccola disgressione medica: a causa dei microtraumatismi agenti sui talloni durante le esecuzioni alla pedaliera in molti organisti si crea una calcificazione posteriore del legamento plantare definito come spina calcaneare, spesso asintomatico. Tale patologia fu anche un criterio medicolegale utile nell'identificare con maggior certezza le spoglie mortali di Bach integrando lo studio del cranio e delle leggendarie mani. La scuola organaria tedesca giunse anche nelle nostre latitudini come altre scuole nordiche di cui abbiamo già trattato: nel 1573 Wilhelm Hertelmann, probabilmente originario di Heidelberg, realizzò due strumenti per la chiesa del Convento di S. Marta a Brescia completati dal figlio Andreas. Ma tra i grandi organari tedeschi, tra cui Silbermann e Stellwagen, spicca la figura di Arp Schnitger (1648-1719) i cui strumenti furono lodati anche da Buxtehude, Bach e Händel. Tra le sue caratteristiche costruttive la tecnica di ampliare e ricostruire integrando la fonica preesistente. Questa metodica, ripresa anche da altri organari coevi, ha permesso di conoscere le tecniche e le fasi costruttive più antiche dell’organaria tedesca. Di estetica inconfondibile i suoi organi mostrano potenza, chiarezza con colori ricercati e densi di maestosità nei plenum . Tra le sue creature l’organo della Chiesa di S. Ludgeri a Norden rappresenta un unicum strutturale e sonoro. Costruito tra il 1686 e il 1692, dotato di tre manuali e pedaliera con 46 registri, è letteralmente "avvolto" intorno ad un pilastro del transetto per ottenere una espansione controllata del suono. Ad una navata barocca bassa si contrappongono un transetto ed un coro gotici altissimi. Il suono pertanto sarà secco ed attenuato nella navata ed ampio e risuonante nel transetto. I bassi pertanto raggruppati in un’unica torre orientata verso la navata avranno un effetto avvolgente mentre il corpo principale direzionato verso il transetto colpisce direttamente l'ascoltatore. Ulteriore dimostrazione di come ogni organo sia un unicum per la progettazione e la collocazione. A partire dal XIX secolo il suono dell’organo, poco in sintonia con la sensibilità del Romanticismo, verrà ad annoverare pochissimi compositori di spicco e le modifiche strutturali imposte da tale epoca, con registri voluminosi, "gonfi" e poco svettanti, vennero superate nel XX secolo con il recupero delle tecniche tradizionali. Ricordo ancora come Scweitzer, massimo interprete bachiano degli inizi del ‘900, lamentava la grossolanità cui erano arrivati gli organi in tale periodo storico al punto che le opere di Bach eseguite su tali strumenti sembravano come disegnate al carboncino. Tale rinascita, dove tradizione ed innovazione si fondono in modo stupefacente, fu il fulcro del restauro o della totale ricostruzione degli organi devastati dai massicci bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Dal 2018 l’arte organaria tedesca è annoverata come parte del patrimonio immateriale dell'Unesco. A Baba che ha fatto rivivere un focolare... Francesco Di Nardo
- Capracotta al punto giusto
«La culla dello sci è qui, a Capracotta, il più alto comune degli Appennini ed il terzo comune più alto d'Italia. Solo che, mentre gli altri sono cresciuti, noi siamo rimasti in... fasce. È dall'inizio del secolo che aspettiamo di crescere. Abbiamo molte possibilità potenziali, dalla natura (estiva ed invernale) al materiale umano, ma abbiamo bisogno di aiuti. Lo Stato ci ha ignorati. Ora c'è la Regione che, tra i suoi obiettivi, ha anche la crescita del turismo molisano, la nostra crescita!». Chi parla è il professor Vittorio Giuliano, presidente dello Sci Club Capracotta, uno dei più antichi Sci Club d'Italia. La sua data di nascita risale al 19 febbraio 1914. Le cronache dell'epoca riportarono così la notizia: «La sera del 19 febbraio, gli skiatori capracottesi, ospitati signorilmente nella casa del dottor Tommaso Conti, inaugurarono con un sontuosissimo banchetto lo Ski Club Capracotta. Allo champagne lo skiatore anziano signor Giovanni Paglione, Console del Touring, tratteggiò in una breve conferenza l'elogio dello sport salutare dello ski in generale e di quello capracottese in particolare. Seguirono brindisi ispirati ad elevati concetti, dell'avvocato Nestore Conti, del giudice avvocato Giorgio Borrella e del padrone di casa dottor Eutimio Conti. Approvato lo statuto dai diciotto soci fondatori (signora Ida Conti Donnarumma, signorina Chiarina Conti, signorina Ines Paglione, insegnante Giovanni Paglione, Console del Touring Club, avvocato Giorgio Borrella, avvocato Nestore Conti, avvocato Gregorio Conti, dottor Michele Campanelli, chimico dottor Filiberto Castiglione, insegnante Ottorino Conti, signor Giuseppe Falconi, dottor Emilio Conti, ragionier Alfonso Gargiullo, avvocato Sebastiano Falconi, avvocato Alfredo Sozio, dottor Roberto Conti, ragionier Alessandro Damato, fu eletto presidente il signor Paglione Giovanni, vicepresidente il signor Conti Ottorino e segretario-cassiere il signor Falconi Giuseppe. La festa, indimenticabile, si chiuse al canto del bellissimo inno degli skiatori di Capracotta, poesia dell'avvocato Giorgio Borrella, musicato dal maestro signor Alfonso Falconi». Nel 1914, dunque, a Capracotta, esistevano gli "skiatori anziani", esisteva già la febbre per lo sci. Era approdata in questo sperduto e stupendo lembo di terra, molti anni prima, con l'arrivo - dal nord - del professor Gino Galeotti che - scriveva il presidente Paglione - «ci fece innamorare dei nordici e velocissimi pattini di frassino». Lezione di sci al Prato di Conti. Certo, non dovette essere impresa difficile, per il Galeotti, contagiare i capracottesi con la pasione per «pattini di frassino». La natura di Capracotta favorì il proselitismo. All'epoca aveva una popolazione di 4.700 abitanti. Sorge a 1.510 metri sul livello del mare. L'abitato si trova su una cresta rocciosa che si riannoda a nord-est col Monte Campo ed a sud-ovest col Monte Capraro. Maestosi sono i suoi parchi naturali di faggi, immensi i suoi prati, scroscianti e deliziose le sue cascate. D'estate il clima è mite, rigoroso d'inverno. È nota ovunque l'abbondanza delle nevicate che ricoprono la zona. Fino a qualche anno fa il paese restava a lungo bloccato nel periodo invernale per l'altissimo manto nevoso che raggiungeva e raggiunge ancora i cinque, sei ed i sette metri d'altezza. Al punto da costringere gli abitanti ad uscire dalle finestre ed a scavare gallerie di comunicazione tra caseggiato e caseggiato. In un ambiente simile, l'arrivo dei «velocissimi pattini di frassino» equivalse alla conquista della libertà. Giovanni Paglione ancora hnel 1914 scriveva: «In principio eravamo visti come il fumo negli occhi. Poi in tanti hanno seguito le calunniate orme di noialtri ritenuti ad ogni costo deplorati bohémiennes ! Perciò nella loro marcia trionfale, i nostri ski corrono sui dolci declivi delle amene nostre colline, s'insinuano intrepidi fra le pittoresche radure dei nostri faggeti; nella maestosa e splendida abetina di Pescopennataro; ora scivolando silenziosi con fruscio di seta sulla recente neve gelidamente polverosa; ora fragorosamente scorrendo, alquanto incerti, sulla neve ghiacciata, rompendo il placido silenzio della natura addormentata; ora indiscreti turbando l'intima pace della lepre e talvolta sorprendendo il lupo errabondo ed affamato. Tra tutti gli sport nessuno ve n'ha più pieno di fantasiosa suggestione e di poetiche visioni come quello del correre sulla candida neve». In un'altra testimonianza del 1914 di Giovanni Paglione, si legge: «Con aria spavalda di conquistatori irresistibili quest'anno i nostri pattini alati hanno fatto strage di anime e di cuori. Prima eravamo pochi e solitari anacoreti; in seguito facemmo proseliti che ora sono divenuti coorte e che domani saranno legione. Col tempo gli ski capracottesi son venuti crescendo di reputazione, e dal rango volgare di semplici "sbarrelle" sono stati ammessi alla stima ed al rispetto deferente. Lo sport invernale ha completamente rivoluzionato i nostri desideri di un tempo per un inverno mite e poco nevoso, mentre ora non aneliamo che copiose nevicate foriere di deliziosissime volate». Nella relazione che lo stesso Giovanni Paglione fece all'atto della costituzione dello Ski Club Capracotta si legge: «Tutti i giorni, nel pomeriggio, si sono tenute esercitazioni per le nuove reclute dello ski nei pressi della Madonnina, ed a cui hanno preso parte anche gentili signore e signorine che con molto entusiasmo ed abnegazione hanno affrontato improbe ed inusitate fatiche per la conquista dell'equilibrio sugli instabili pattini. Ed esse hanno addolcito il rude ambiente degli... orsi polari, colla loro nota armoniosa di grazia e di gentilezza, dimostrando che effettivamente lo sport degli ski è lo sport degli angeli che volano... coi pattini!». Esistono altre innumerevoli testimonianze nella storia di Capracotta sulla volontà di crescita che animava e tuttora anima l'ambiente. Eppure, come afferma l'attuale presidente dello Sci Club, Vittorio Giuliano, Capracotta è rimasta in fasce, aspetta ancora di crescere. Di chi è la colpa? Pasqualino Venditti, uno dei più vecchi soci dello Sci Club Capracotta (tessera della Federazione Italiana Sci n. 4205 del 13 gennaio 1933 sottoscritta dall'allora presidente della Federazione Renato Ricci, sottosegretario all'educazione nazionale e capo dell'Opera Nazionale Balilla) dice che la colpa principale è dello Stato «che ha sempre ignorato il Molise» ma che è anche colpa dell'indolenza di alcuni capracottesi. «Per fortuna ora sono arrivate le Regioni. È nata la Regione Molise che, dopo un decennio di assestamento, sembra finalmente pronta perché la tanto sospirata valorizzazione del turismo molisano - e quindi di Capracotta - diventi realtà. Il presidente della Giunta Regionale, Florindo D'Aimmo, l'assessore competente Enrico Santori, tutti gli assessori regionali vogliono quella crescita in cui i capracottesi hanno sempre creduto, fin dai primi del secolo, quando, sulla scia di Gino Galeotti e di Giovanni Paglione e i "marmocchi" capracottesi saccheggiavano i domestici cantieri demolendo botti e utilizzando le doghe per... volare sulla neve». A Capracotta sono nati anche dei campioni: Mario Di Nucci è stato azzurro del fondo ma ha raggiunto questo traguardo tra le fila delle Fiamme Gialle; una donna, Maria Di Pietro, è arrivata alla nazionale femminile (vive ora a Nichelino, Torino); Pasquale Sozio di Vinchiaturo, è arrivato, a Capracotta, alla soglia della nazionale vincenzo i campionati nazionali del dopolavoro; Marco Potena... ma su questo personaggio c'è un servizio a parte! Gara di sci a Prato Gentile. Pasqualino Venditti ricorda con nostalgia i tempi eroici dei pionieri dello sci a Capracotta: «Allora la Fis, oggi la Fisi, non ci ha mai presi in seria considerazione. Quando oltre a fare i turisti, incominciammo a partecipare alle prime gare, andammo incontro ad avventure allucinanti ed esaltanti allo stesso tempo. Per arrivare, per esempio, a Pietracamel (L'Aquila) una volta dovettero venirci incontro con i muli; quando andavamo a Roccaraso, gran parte del viaggio lo facevamo sugli sci. Arrivavamo sciando fino a San Pietro Avellana (tredici chilometri da Capracotta). Qui prendevamo il treno. A Roccaraso c'era un solo albergo, il Cipriani. Noi non potevamo permettercelo. Ci ospitavano i contadini. Qualche volta fummo costretti a dormire in sei atleti in un solo letto, tre a capo e tre a piedi, mentre il nostro accompagnatore, l'allora presidente Ottorino Conti, vegliava su di noi mantenendo acceso il fuoco del caminetto per tutta la notte». Dove sono - domando - le testimonianze di tutta questa vostra attività? «Sono state fuse per la Patria. Quando il regime chiese le fedi d'oro degli italiani, a noi, in nome della Patria, chiesero medaglie e coppe. Dovemmo così consegnare una novantina di medaglie (oro, argento e bronzo) e una trentina di trofei e coppe». All'epoca, a Capracotta, si disputavano numerorissime gare sullo scenario di Prato Gentile. Tra le più faticose c'erano quelle valevoli per i Campionati Nazionali della Milizia. Erano gare di marcia, tiro ed ostacoli, la brutta copia del moderno (ed ingentilito) biathlon. Chiedo a Venditti di fare un confronto tra Capracotta anni Trenta ed anni Ottanta: «È ancora la Capracotta di una volta. C'era allora un albergo e continua ad essere l'unico, l'albergo Vittoria. È migliorata la strada d'accesso!». Che cosa si deve fare per valorizzare Capracotta? «Intensificare l'edilizia alberghiera; costruire degli impianti di risalita per lo sci alpino; creare un vero centro agonistico nazionale per il fondo. La Regione, come ho detto, ha recepito a livello di volontà queste nostre istanze e pare decisa ad avviare in concreto tutte le iniziative necessarie. Deve far presto. Aspettiamo da troppi anni». Ci sono dei campioni potenziali? «Ce ne sono eccome. I nostri ragazzi nascono sugli sci da fondo esanno ancora sacrificarsi. Se la Fisi, con l'aiuto della Regione, organizzasse un centro di preparazione ad alto livello a Capracotta, siatene certi, in Nazionale ci sarebbero parecchi nostri ragazzi. E potremmo ricostruire anche la squadra nazionale femminile del fondo!». Lucio Zampino Fonte: L. Zampino, Capracotta al punto giusto , in «Sciare», XVII:225-226, 1° marzo 1981.
- Da Capracotta Gianluca Robustelli porta il jazz nei conservatori europei
Il prossimo autunno ci sarà un pezzo di Capracotta a suonare nei più prestigiosi conservatori europei. È la chitarra di Gianluca Robustelli, musicista nato a Roma, ma profondamente legato alle sue radici capracottesi, che, insieme agli Urban Quartet, sarà protagonista del progetto "Urban Quartet - Live nei conservatori europei", selezionato tra i vincitori del bando "Per chi crea" promosso dalla S.I.A.E. e sostenuto dal Ministero della Cultura. Il quartetto jazz - composto da Robustelli alla chitarra, Giuseppe Sacchi al pianoforte, Vincenzo Quirico al contrabbasso e Federico Balestra alla batteria - sarà al centro di un tour internazionale che toccherà sette prestigiose istituzioni musicali europee, portando la loro musica nei templi della formazione accademica. Un legame che risuona nella musica Pur essendo cresciuto a Roma, Gianluca non ha mai reciso il legame con Capracotta, terra di origine della sua famiglia materna. Un legame forte e affettuoso che ha lasciato un segno anche nella sua musica: nel primo disco del quartetto, "Sofà", è contenuto il brano "Lucia", una composizione intima e sentita, dedicata alla nonna Lucia Sammarone, capracottese doc. Un omaggio pieno di gratitudine e amore, che racconta quanto le radici possano essere vive anche nelle note musicali. Le tappe del tour Il tour prenderà il via il 7 novembre ad Ålborg (Danimarca), presso la Royal Academy of Music , e proseguirà: 10 novembre, Conservatorio Superior de Música di Coruña (Spagna); 12 novembre, Lemmensinstituut di Leuven (Belgio); 14 novembre, Metropolia University di Helsinki (Finlandia); 17 novembre, "Liszt Ferenc" Academy di Budapest (Ungheria); 18 novembre, Akademia Muzyczna "Stanisława Moniuszki" di Danzica (Polonia); 20 novembre, Universitatea Nationala de Arte "George Enescu" di Iași (Romania). A ogni tappa si affiancherà una masterclass pomeridiana rivolta agli studenti dei conservatori, durante la quale i membri della band condivideranno esperienze, tecniche esecutive e riflessioni sull'odierno mestiere del musicista jazz. Un nuovo album dal vivo I concerti saranno interamente registrati dal vivo e confluiranno in un nuovo album, disponibile in digitale su tutte le piattaforme di distribuzione musicale e pubblicato anche in edizione limitata su vinile, per chi ama ascoltare il jazz col fascino analogico del supporto fisico. Eleganza, interplay e radici Gli Urban Quartet all'opera. Avevo già scritto su quanto gli Urban Quartet si distinguano per un linguaggio jazzistico raffinato e autentico, che valorizza l'equilibrio tra i musicisti e l'eleganza dell'esecuzione. Il loro repertorio, infatti, guarda alla tradizione con profondo rispetto, eppure mantiene una freschezza interpretativa che rende ogni brano coinvolgente e accessibile. Per noi di Capracotta, poi, sapere che un musicista come Gianluca Robustelli - che non ha mai smesso di amare e onorare le sue origini - sia oggi il protagonista di un percorso artistico così significativo, è motivo di profondo orgoglio. La sua musica rappresenta in qualche modo anche la nostra storia nomade, risuonando in alcuni dei luoghi più prestigiosi d'Europa. Francesco Mendozzi
- Oltre l'alba delle nebbie: la "valle sorda"
Vallesorda in una foto d'epoca del cav. Giovanni Paglione. Eppure quella valle, dalla quale loro avevano avvistato la colonna tedesca, l'estate si riempiva delle voci chiassose dei gitanti che, nelle calde ed afose giornate, vi si portavano per trascorrere ore serene in allegria recando seco vettovaglie per un lauto pranzo oppure per una saporita cena a base di arrosti alla brace e di gioiose bicchierate che si concluderanno con un ritorno sereno verso casa: con lentezza, perché era il tempo di intonare in coro le tipiche canzoni e i tipici stornelli paesani! Quella valle, d'estate così amena con sottoboschi puliti e calpestabili, sui quali si ergevano splendide latifoglie che si abbracciavano dalle parti opposte della strada per costruire ombre impenetrabili, con quel fresco ristoro tanto desiderato e ambito dagli allegri gitanti, con l'aria frizzante e pulita che invogliava a respirare a pieni polmoni, era tuttavia solita a cambiamenti improvvisi quanto inaspettati, non voluti e non graditi, foriera di panico fra i paesani le cui paure restavano inascoltate sicché, proprio per ciò, era stata chiamata la "valle sorda": essa, anche quel nove di settembre, restò "sorda" alle preghiere dei due giovani che per primi avevano avvistato le truppe tedesche e "sorda" restò ancora al passaggio di quella colonna che, nel borgo, avrebbe poi portato disgrazia, sofferenza e morte! Quella stessa valle nelle rigide giornate d'inverno, quando la neve precipitava copiosa coprendo di manto abbondante le strade, i boschi, le campagne, le montagne e i paesi, diventava odiosa, inospitale e nemica: cimitero di morti, insidiosa per le altezze innevate, del tutto "sorda" al lamento dell'uomo che, smarrendo la strada, restava sepolto per sempre fino a quando non fosse giunta la fine! Oh... tu viandante solitario che, alla prima neve cadente, ti poni in cammino nel sogno di tornare alla tua casa presso il tuo focolare, ti prego... viandante... io ti scongiuro solitario viandante, non sfidare la "sorda valle" che, con la sua bufera cattiva e furibonda, disperderà nel vento il tuo lancinante e pietoso grido di aiuto: quella "valle sorda" gelidi i tuoi resti ricomporrà in fredda bara bianca che restituirà alla tua vana speranza di ritorno! Anche quel nove di settembre, la "valle sorda", al passaggio delle odiate truppe,cambiò rapida di umore così come nei tristi inverni di neve: seppure ancora rigogliosa, tirò fuori la sua rabbia e le foglie dei boschi si separarono dal loro abbraccio di ombra e di freschezza; il sole più penetrante abbagliò per strada la colonna e un vento impetuoso eradicò rami e cespugli in segno di protesta; come d'inverno al viandante, anche allora la "sorda valle" avrebbe voluto impedire il passaggio delle truppe ostili ma non c'era la neve, purtroppo, per seppellirle dentro bare bianche, non c'era tempesta che mandasse quella colonna al vento: pure la "valle sorda" dovette rassegnarsi alla resa e assistere impotente al passaggio del nemico! Il borgo, ridotto senz'anima, assisteva in silenzio allo scendere voluttuoso di qualche foglia cadente mentre per strada si alzavano folate di vento, timido rumore nella piazza che, dimenticata la festa, era diventata deserta come colta da morte improvvisa: immobile anche la campanella della chiesa la quale non aveva più ragione di emettere gioiosi rintocchi! Le case, trasformate in ruderi deserti, erano diventate, in apparenza, vuote di persone come se facessero parte di un vecchio ed antico borgo da tempo abbandonato; soltanto il vecchio cane randagio, debole e mansueto, si trascinava pesante lungo la discesa, incredulo di esser solo e conscio del preludio della fine: di tanto in tanto si fermava e guardava d'intorno, sorpreso che tutta quella gioia fosse finita in un istante; il suo abbaiare, pietoso e scostante, si disperdeva nei vicoli e tornava indietro come un'eco malinconica e sofferta! Il sole, nascosto da una nube trasparente, restituiva alla terra raggi appena intiepiditi i quali prendevano parte attiva a quell'evento; la sfera di fuoco già pensava all'indomani, quando essa non avrebbe più illuminato una folla innocente e festante che aveva già programmato l'ascesa lungo i pendii delle montagne vicine: il percorso tanto atteso fra i sentieri degli abeti, il riposo infine meritato nel "gentil prato" sull'altura, circondato dai boschi a mo' di corona, oppure sui prati d'appresso ancora freschi di erbe settembrine; quel sole, ricoperto da una nube di tristezza, già presagiva quel giorno inutile e triste e accusava dolore per l'invano percorso che, dall'alba al tramonto, avrebbe dovuto eseguire a fatica, senza gioia alcuna per quella folla di reclusi. Ugo D'Onofrio Fonte: U. D'Onofrio, Oltre l'alba delle nebbie , Fondazione Mario Luzi, Roma 2024.
- La Chiesa di Santa Maria in Cielo Assunta a Capracotta
La Chiesa Madre di Capracotta (foto: A. Mendozzi). La Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta, a cui fa capo la comunità parrocchiale di Capracotta, fu eretta probabilmente agli albori del XV secolo, con dimensioni estremamente più ridotte rispetto a quelle dell'area attuale (oltre 700 mq.). Nel 1657 si decise di demolirla e di ricostruirla ex novo su progetto definitivo di Carlo Piazzoli da Pigra, valente architetto comasco giunto appositamente a Capracotta per terminare i lunghi lavori di riedificazione, durati quasi 80 anni, sebbene la prima consacrazione fosse avvenuta, a lavori in corso, il 7 ottobre 1723 per mano del vescovo di Telese mons. Francesco Baccari (1673-1736), nativo di Capracotta. Gli stucchi, le decorazioni e le rifiniture interne dell'edificio sacro furono invece affidate all'architetto Venanzio Del Sole da Pescocostanzo. La chiesa, intitolata all'Assunzione della Vergine Maria e posta sul punto più alto dell'antico abitato - il che la rende la parrocchiale più alta dell'Appennino -, appare come un mirabile esempio di tempio a tre navate (35 m. di lunghezza) in stile tardo-barocco, con originali incursioni nello stile rinascimentale e innovativi slanci nel settecentesco meridionale. Al suo interno, oltre all'altare maggiore, sono presenti ben 10 altari, un tempo assegnati a confraternite e a privati. Queste "cappelle" ospitano le statue lignee di san Michele, sant'Anna, dell'Immacolata Concezione, dell'Assunzione, del Sacro Cuore di Gesù, di Maria Addolorata, san Sebastiano, san Pietro (dipinto), san Giuseppe e della Madonna del Monte Carmelo. Alla chiesa si aggiungono gli ampi locali dell'oratorio della ex Confraternita della Visitazione e Morte, la cappella di S. Filomena della ex Confraternita del Carmine, e la modernissima casa canonica che oggi ospita i locali della scuola dell'infanzia, primaria e secondaria di I° grado di Capracotta. Gli elementi artistici e architettonici più preziosi che caratterizzano la Chiesa Madre di Capracotta sono i seguenti: il campanile a quattro campane (di cui la maggiore, del peso di 900 kg., fu rifusa nel 1926), realizzato nel 1589 e alto 17 metri, esclusa la cuspide; l'altare maggiore del 1754, opera dell'artigiano napoletano Biagio Salvato, sotto il quale spicca un magistrale paliotto con l'effige dell'Assunta; l'antichissimo battistero in legno intarsiato, databile tra il XIV e il XV secolo, poggiato su una colonna in pietra scolpita; il monumentale organo decorato in oro zecchino, comunemente chiamato "Principalone", opera di Luca e Francesco D'Onofrio, fini mastri organari di Poggio Sannita, che lo realizzarono tra il 1750 e il 1780; il pregevole coro in noce, nascosto dal dossale e dalla balaustra in marmo dell'altare maggiore, dove un tempo i sacerdoti capitolari si riunivano per la recita del breviario; una statua lignea della Visitazione della Beata Vergine Maria, opera del grande scultore Giacomo Colombo (1663-1730), padovano di nascita ma adottato dalla Napoli rococò; un dipinto dell'Ultima Cena, addossato alla parete di fondo, che alcuni attribuiscono al grande artista Francesco Solimena (1657-1747); gli affreschi a tempera sulle volte del transetto, opera dell'indimenticato pittore capracottese Giovanni Leo Paglione (1917-2004), raffiguranti l'Annunciazione e la Pentecoste, il martirio di san Sebastiano, e papa Pio V che prega la Madonna prima della battaglia di Lepanto; l'antico portale laterale di accesso, oggi incluso nel piano basso della torre campanaria, che alla base presenta un bassorilievo con tralci di vite; l'altare laterale dell'Assunta, opera del Piazzoli, e quello di san Sebastiano; i reliquiari, contenenti i resti mortali di san Sebastiano, san Cristanziano, santa Margherita, san Fabiano, san Costanzo, san Feliciano, san Faustino e sant'Aurelia, donati al clero e al popolo con atto pubblico del 13 luglio 1676 da Andrea Capece Piscicelli, duca di Capracotta. La navate centrale della Chiesa Madre (foto: A. Mendozzi). Al di là delle connotazioni artistiche, è importante sottolineare che per un discreto lasso di tempo, indicativamente tra il 1749 e il 1899, la Chiesa matrice di Capracotta ha goduto, tra mille peripezie, del titolo di «Insigne Collegiata», titolo che le ha garantito un capitolo di ben 12 religiosi. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: C. Bertolotto, Opere d'arte per il monastero di S. Cristina e il Carmelo di Moncalieri , in G. Ghiberti e M. I. Corona, Marianna Fontanella Beata Maria degli Angeli. Storia, spiritualità, arte nella Torino barocca , Effatà, Cantalupa 2011; L. Campanelli, La chiesa collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Soc. Tip. Molisana, Campobasso 1926; L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Antoniana, Ferentino 1931; G. Carugno, La Chiesa Madre di Capracotta , S. Giorgio, Agnone 1986; A. Caruso, L'arciprete Agostino Bonanotte di Capracotta: dalla microstoria alla storia , Artificio, Ascoli Piceno 2016; V. Casale , «Perfezionare tutti li colori delle pietre»: il commesso marmoreo in Abruzzo e Molise , in V. Casale, Cosimo Fanzago e il marmo commesso fra Abruzzo e Campania nell'età barocca , Colacchi, L'Aquila 1995; A. De Nino, Bellezze naturali di Capracotta , in «Il Secolo XX», V:7, Treves, Milano, luglio 1906; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; D. Palanza, Fra Salvatore da Villamagna. Da servo degli uomini a servo di Dio , Youcanprint, Tricase 2013; L. Pietravalle, Nel Sannio mistico , in «La Lettura», XXIV:1, Milano, 1° gennaio 1924; F. Valente, Luoghi antichi della Provincia di Isernia , Enne, Bari 2003.
- Gli scarabattoli dorati di Capracotta
I reliquiari a busto della Chiesa Madre (foto: A. Mendozzi). A Capracotta, nella Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta, sull'altare di san Sebastiano, opera di Mattia Pizzella, sono esposti sei scarabattoli in legno dorato e vetro contenenti i resti mortali di alcuni martiri cristiani del II-III secolo che pagarono con la vita il rifiuto delle pratiche pagane. Le sculture fanno parte di una larga produzione fiorente nel XVIII secolo e consistono in cinque reliquiari a busto e una grossa teca, che fanno pensare ad un'identità di mano. Le reliquie furono donate nel 1676 al clero locale da Andrea Capece Piscicelli il quale, avendo acquistato il feudo di Capracotta, il 29 ottobre 1674 ne era diventato il primo duca. Il primo reliquiario (al centro) raffigura san Fabiano I (200-250) con le mani sul petto e il volto sollevato. Alla morte di Antero, 20° papa della Chiesa di Roma, il laico Fabiano accorse per assistere all'elezione del nuovo pontefice, che a quel tempo si svolgeva per acclamazione all'aperto. Quando una colomba bianca si posò sul suo capo, il popolo di Roma vide in quell'evento un segno dello Spirito Santo e nominò Fabiano pontefice. Nel III secolo il cristianesimo era bellissimo, come ogni cosa che possiede la virtù della giovinezza, e molto variegato, tuttavia agiva in un mondo pagano che perseguitava le comunità cristiane venutesi a creare nelle grandi città dell'Impero. Fabiano, infatti, venne costretto a far sacrifici agli dèi e, al suo rifiuto, fu incarcerato e lasciato morire di fame e di stenti. La sua memoria liturgica ricorre il 20 gennaio, assieme a quella di san Sebastiano, patrono di Capracotta. Il secondo reliquiario (secondo da sx) raffigura san Feliciano di Foligno (160-249) col volto in estasi. Le mani sono entrambe sul petto ma la sinistra tiene la palma del martirio. Feliciano fu un missionario ante litteram : evangelizzò un pezzo d'Italia centrale quando questa era terra di conquista per la nuova e definitiva religione. Feliciano fu infatti l'evangelizzatore di vaste zone dell'Umbria: Assisi, Bevagna, Foligno, Norcia, Perugia, Plestia, Spello, Spoleto, Trevi. Dopo un periodo a Roma tornò ai nativi colli, dove era stato acclamato vescovo. Ricevette dal papa il privilegio del pallio (un'insegna riservata di diritto solo al pontefice e agli arcivescovi metropoliti) e il suo episcopato durò ben 56 anni. Morì martire in tardissima età, sotto Decio. La memoria liturgica di san Feliciano ricorre il 24 gennaio. Il terzo reliquiario (secondo da dx) raffigura sant'Aurelia d'Alessandria (240-260) che, nella mano sinistra, tiene un libro chiuso, e la destra poggiata sul petto. Anche Aurelia appartiene alla fitta schiera di martiri del cristianesimo nella Roma precostantiniana. Fu infatti tradotta in tribunale, di fronte al giudice Secondiano, con l'accusa «di professare il credo cristiano». Le venne chiesto di bruciare l'incenso agli idoli ma Aurelia perseverò nella fede in Cristo, venendo condannata a morte per decapitazione. Prima che la condanna fosse eseguita, assistette a un supplizio forse peggiore, quello di veder decapitare la madre e la zia. Il dì seguente, 2 dicembre 260, Aurelia fu tratta dal carcere e, condotta lì dove giacevano i corpi decollati della madre e della zia, le fu spiccato il capo dal busto. La memoria liturgica di sant'Aurelia ricorre il 2 dicembre. Se i primi tre busti presentano una didascalia col nome del santo raggifurato, i restanti scarabattoli ne sono invece sprovvisti, tuttavia le fonti storiche menzionano almeno altri cinque martiri: san Costanzo, san Cristanziano, san Faustino, santa Margherita e san Sebastiano. La processione dei SS. Martiri del 15 luglio 2018. La cassetta centrale, infatti, contiene le reliquie indicate dai nomi di «S. Sebast. [...] S. Margh. v.m. [...] S. Christanziani», per cui il quarto reliquiario (primo da sx) potrebbe rappresentare san Costanzo di Perugia, primo vescovo del capoluogo umbro, che tiene tra le mani la palma del martirio e un libro aperto, attributo iconografico non riscontrabile in san Faustino. Egli fu martirizzato a Foligno, per cui le sue reliquie furono forse accoppiate a quelle del vescovo Feliciano. Secondo la tradizione Costanzo fu condotto davanti al console Lucio e barbaramente flagellato, quindi immerso nell'acqua bollente, da dove uscì miracolosamente illeso. Ricondotto in prigione, convertì i carcerieri che lo aiutarono a fuggire. Rifugiatosi a casa di Anastasio, anch'egli un cristiano della prima ora, fu con questo di nuovo arrestato e decapitato intorno al 170. L'ultimo reliquiario (primo da dx) potrebbe infine raffigurare san Faustino di Brescia che, assieme al compagno Giovita, subì le più terribili torture per aver tentato di evangelizzare Brescia. I due furono dapprima imprigionati a Milano, quindi trasferiti a Roma, dove furono dati in pasto alle bestie selvatiche nel Colosseo, uscendone indenni. Furono allora imbarcati per Napoli, ma durante il viaggio in mare, grazie alla loro intercessione, si placò persino una tempesta. Ciò nonostante le torture continuarono e alla fine gli aguzzini decisero di spingerli in mare su un'instabile barchetta che però tornò a riva. A quel punto furono condannati a morte, riportati a Brescia e decapitati tra il 120 e il 134. La memoria liturgica dei santi Faustino e Giovita ricorre il 15 febbraio. Tanto il degrado della fede, diventata prima superstizione e poi amoralità, quanto l'affermarsi della jihād (guerra santa) islamista, hanno portato i più giovani a credere che i martiri siano dei fanatici che uccidono e si uccidono nel nome d'un dio. Nella realtà i veri martiri, quelli cristiani, sono nient'altro che vittime, sante, dell'intolleranza, per cui andrebbero sempre tenuti d'esempio. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, La Chiesa collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Tip. Molisana, Campobasso 1926; L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Tip. Antoniana, Ferentino 1931; G. Carugno, La Chiesa Madre di Capracotta , S. Giorgio, Agnone 1986; B. Faino, Dimostrazioni della vera essistenza de santi Faustino, e Giovita , libro III, Turlino, Brescia 1670; F. Grossi Gondi, S. Fabiano papa e martire: la sua tomba e le sue spoglie , Civiltà Cattolica, Roma 1916; L. Iacobilli, Vita di san Feliciano martire, vescovo, et protettore della città di Foligno , Alterij, Foligno 1626; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; N. Raimondo, San Costanzo Martire. Tra storia, fede, tradizione e religiosità nella comunità di Montorio nei Frentani , Città Nuova, Roma 2016; O. Sarcinella, Sant'Aurelia vergine e martire , Comunità Passionista, Ceglie Messapica 2005.
- La Chiesa di San Giovanni a Capracotta
La Chiesa di S. Giovanni a Capracotta (foto: A. Mendozzi). La prima attestazione della Chiesa di S. Giovanni è quella contenuta nell'apprezzo feudale dell'11 aprile 1671 in cui si dice che «in occasione di passaggio vi è un'altra Chiesa sotto il titulo de' SS. Giovanni, Sebastiano, e Rocco, la quale è jus patronato del Barone». Questo significa che quella chiesa, prerogativa del barone di Capracotta, stava alla periferia dell'abitato ed era intitolata tanto al Battista quanto ai martiri francesi Rocco e Sebastiano, due santi invocati a gran voce durante l'epidemia di peste di quindici anni prima. In successivi registri la chiesa risulta gestita da una badìa intitolata primieramente a san Nicola, ed «ebbe l'assegno dei frutti di 270 tomoli di terreni», ovvero 67 ettari. Si tratta di un edificio a navata unica, privo di abside. La facciata è a capanna e presenta sulla sommità un piccolo campanile a vela. L'ingresso è costituito da un portale architravato. Tutto l'edificio è intonacato ad eccezione dei cantonali costituiti da blocchi di calcare compatto. L'interno è scandito da arcate cieche sui muri laterali, ciascuna dotata di altare e statue votive. L'altare maggiore, di struttura più elaborata, contiene il gruppo scultoreo del Battista nell'atto di battezzare Cristo. Tutto l'interno è decorato da stucchi bianchi e dorati. Di questa chiesa semplice, costruita in architettura modesta ma piacevole, non vi sono molte notizie ma, visionando alcune fotografie di inizio Novecento, si può dire che qualcosa sia cambiato, a partire dai tre archi esterni presenti su entrambi i lati che oggi sono ricoperti da anonimo intonaco. Una delle poche fonti bibliografiche è datata 6 luglio 1906, allorquando Eutimio Conti, attraverso una corrispondenza col direttore de "Il Giornale del Sannio", informò la comunità capracottese di aver ricevuto una discreta donazione proveniente dagli Stati Uniti per il restauro della suddetta chiesa: Il Signor Francesco Paolo Carnevale ed altri bravi operai Capracottesi residenti a Philadelphia (Stati Uniti) hanno rimesso al sottoscritto la bella somma di £ 800,00 da servire per i restauri dell'antica Chiesa di S. Giovanni Battista di questo Comune. Nessuna lode è bastevole per l'atto cristiano e patriottico dei sullodati nostri concittadini, ai quali giungano graditi i nostro encomii, ringraziamenti e saluti. Francesco Paolo Carnevale era infatti arrivato ad Ellis Island nel 1904 all'età di 47 anni, e forse proprio per questo motivo, accusando fortemente il richiamo della terra natia lasciata in età matura, decise di mettere insieme, fra tutti i compaesani emigrati a Filadelfia, la somma di 800 lire (circa 3.500 euro). Un secondo restauro si rese necessario dopo l'incendio che nel 1911 colpì l'edificio sacro, distruggendo il tetto. Il solaio venne dunque ricostruito in ottobre grazie all'impegno del «zelante Economo Coadiutore, Reverendo Canonico D. Annibale Conti», il quale raccolse presso il popolo capracottese la somma necessaria ai lavori. I tre archi laterali all'esterno della chiesa in una foto d'epoca. All'interno della Chiesa di S. Giovanni sono oggi custodite cinque statue: il san Giovanni Battista con Gesù, santa Chiara d'Assisi, la Madonna dei Miracoli - una delle usanze del nostro popolo è quella di portare in processione, l'11 giugno, questa Vergine a Casalbordino (CH) -, la Madonna della Pace e la Madonna Desolata, denominazione dell'Addolorata tipica della Puglia, precisamente di Canosa, dove la comunità capracottese si è radicata da secoli per via transumante. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature , Scuola Tip. Antoniana, Ferentino 1931; S. Amicone, Echi molisani , in «Eco del Sannio», XVIII:19, Agnone, 17 novembre 1911; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; P. Morra, Corriere dei Comuni , in «Il Giornale del Sannio», Campobasso, III:16, 12 luglio 1906; E. Novi Chavarria e V. Cocozza, Comunità e territorio. Per una storia del Molise moderno attraverso gli apprezzi feudali (1593-1744) , Palladino, Campobasso 2015.
- Storia dell'organo (VII)
L'organo della Groote Kerk di Haarlem. A completamento delle tecniche decorative delle canne vorrei menzionarne una molto particolare, chiamata "tigrato". Si ottiene aggiungendo allo stagno organario piccole quantità di rame che, cristallizzando in modo e tempi differenti rispetto allo stagno conferisce alla superficie della canna un aspetto a sbalzo e marezzato molto bello e gradevole a vedersi e definito "tigre". Utilizzato prevalentemente per le canne di mostra, come per la tecnica della verniciatura dà al registro un arricchimento degli armonici ed un timbro più chiaro. Continuando poi con gli strumenti sui generis della serie "quello che passa il convento", se fossimo passati nel convento dei cappuccini di Pettineo (ME) intorno al 1862 avremmo trovato un piccolo strumento con cassa squadrata e priva di decorazioni, estremamente spartana, il cui prospetto è realizzato con canne... palustri! Quasi tutto lo strumento, chiuso da una portella a tre ante, è costruito con questo materiale per un totale di sei registri con comandi a pomello azionati da un manuale di 50 tasti, prima ottava corta, fatti di legno di frutto (i diatonici) e noce massello (i cromatici) ed una pedaliera, costantemente unita al manuale, "alla siciliana", cioè con pedali sporgenti a mo' di leva dalla cassa e su di essa imperniati. Immancabile una canna ad ancia per l'effetto "zampogna" (la scopina). Fu costruito dal padre francescano Francesco Lo Pinto ed è attualmente conservato, perfettamente funzionante, nel Museo antropologico di Gibilmanna-Cefalù (PA). Organo fiammingo ed olandese La base comune generatasi nel tardo Medioevo qui andò incontro ad una evoluzione spettacolare che influenzò tutto il Nord Europa, specialmente l'area della Chiesa riformata e capostipite delle grandi scuole tedesche. Costruito con una struttura più compatta e modulare rispetto agli altri strumenti del nord, ha un suono molto luminoso e chiaro differenziandosi dalle sonorità più drammatiche e severe degli strumenti tedeschi e di quelli dell'Olanda più settentrionale. Fin dal 1600 sono presenti strumenti a due o più manuali con pedaliere autonome e soliste di almeno 27 tasti. Tali premesse porteranno l'organo germanico-fiammingo ad essere il punto di riferimento per la strutturazione dell'organo moderno e strumento polifonico per eccellenza. Il principale ( Prinzipal ) dà origine a tutta la sequenza di voci maschili, fino alle grandi mixtures , ma, esteso verso il basso, alle voci profonde dei bassi di pedale le cui canne, poste in facciata, assumono un aspetto imponente e maestoso sulle torri laterali. La preferenza dei suoni chiari e precisi porta ad una presenza costante delle grandi ance al pedale usate oltre con il cantus firmus anche nei forti generali con effetto "schiarente". Il cornetto, tra le voci proprie dell'organo fiammingo, fa la sua bella figura con le sue file multiple e la voce caratteristica. Il registro della voce umana merita una menzione speciale. A differenza degli strumenti francesi e, successivamente dei tedeschi, questo registro negli strumenti fiamminghi non è ad ancia con tuba corta ma ad anima. Basato sulle caratteristiche tecniche e sonore del principale consiste in una fila di canne da suonare insieme alla fila del principale effettivo. Tuttavia, questa fila di canne è intonata in lieve dissonanza (crescente) con quest'ultimo registro, pertanto suonando insieme creeranno dei battimenti sonori usati come "vibrato" nei passaggi espressivi e recitativi. Molti organi furono costruiti addirittura con un registro di principale II, più delicato, da usare quasi esclusivamente in accoppiamento alla voce umana. Questa sonorità si diffuse specialmente in Italia ed è la costante su tutti gli strumenti del XVIII secolo, chiamato anche "fiffaro" e ascritto al gruppo dei tremolanti. Gli strumenti fiamminghi e olandesi, vanto delle comunità e delle cittadine di appartenenza, giunsero a dimensioni veramente imponenti: come riferito da colleghi organisti locali, si faceva letteralmente "a chi ce l'aveva più grosso". Casse con maestose e severe torri circolari alternate a sezioni triangolari sulla cui cima sovente svettavano statue o angeli musicanti mentre, sulla torre centrale, si innalzava lo stemma dei Paesi Bassi o della città di appartenenza e con l'immancabile Rückpositiv tergale sulla balconata della cantoria. Basta guardare l'organo maggiore della Laurenskerk di Alkmaar, opera di Franz Caspar Schnitger (1725), figlio del grande Arp Schnitger, per restare letteralmente senza fiato. Oppure il maestoso strumento, alto oltre trenta metri e con le torri laterali ospitanti i principali da '32 della Groote Kerk (Chiesa di S. Bavo) ad Haarlem, costruito da Christian Müller nel 1738 e considerato, con le sue oltre 5.000 canne, lo strumento più grande dell'epoca; organo che un certo W. A. Mozart dell'età di 10 anni ebbe il permesso di far risuonare nel 1766. Ed ancora il grande organo Vater-Müller (1726/1742) della Oude Kerk di Amsterdam. Sono tutti strumenti della tradizione di Jan Pieterszoon Sweelinck (1562-1621), che potremmo definire il "Frescobaldi olandese". A lui il riconoscimento quale creatore della Scuola del Nord ( Nordschule ), con allievi quali Paul Siefert, Michael Praetorius, Samuel Scheidt, Heinrich Scheidemann. Non abbiamo prove di allievi britannici diretti ma il suo stile, diffondendosi in quelle latitudini, diede un'impronta decisa e duratura alla musica inglese. Curiosamente moltissime delle sue opere per organo ci sono pervenute come ricostruzioni di allievi mentre ci è arrivata autografa o stampata la produzione per clavicembalo e virginale: ulteriore prova di come l'organo fosse lo strumento "improvvisatore" per eccellenza. A conclusione permettetemi di ricordare la figura di Willem Hermans (1601-1683) trasferitosi in Italia nel 1648 portando con sé le tecniche costruttive fiamminghe come la sesquialtera, il cornetto e le ance squillanti. Due i suoi strumenti sopravvissuti: l'organo della Chiesa dello Spirito Santo a Pistoia e quello della Collegiata di S. Maria Maggiore a Collescipoli. Lavorò su tutto il territorio italiano dalla Liguria fino a Palermo. È facile suonare uno strumento: tutto quello che devi fare è toccare il tasto giusto al momento giusto e lo strumento farà tutto da solo. [J. S. Bach] Francesco Di Nardo
- Pezzata di Capracotta, il primo street food d'Italia
Prima di essere una festa, la pezzata è un piatto e, prima di essere un piatto, la pezzata è un'usanza. Per comprendere la specificità della pezzata bisogna dunque partire ab ovo , cioè da quando questa preparazione culinaria diventò la specialità dei pastori transumanti. La pezzata nasce infatti presso la comunità tratturale capracottese, generalmente costituita dalle persone più misere, quindi da coloro che meno di tutti avevano accesso alimentare alla carne. D'inverno il pastore guidava il gregge verso la Puglia, d'estate lo portava a monticare, ma in nessuna stagione dell'anno egli poteva acquistare la carne se non le parti poco nobili in minuscole dosi. Il viaggio sul tratturo era l'unica occasione, per lui, di poter mangiare la carne a 360 gradi. Quando una pecora era a fine vita oppure si azzoppava al punto da non poter proseguire il viaggio, il pastore era autorizzato a sopprimere l'animale e a cucinarlo per il proprio fabbisogno. Agli occhi del pastore la pecora era una pietanza prelibata, tanto che persino il suo odore forte e robusto - che gli appassionati di cucina oggi snobbano - era un pregio. L'ovino, d'altronde, si azzoppava perlopiù durante il lungo viaggio, non sulle pianure sconfinate della Puglia, il che fa pensare che la carne dovesse essere cucinata e consumata in itinere . Non può esistere una ricetta definitiva della pezzata se non quella basata sui suoi ingredienti fondamentali: la pecora, l'acqua e il fuoco. Di certo il pastore bolliva la carne aggiungendo gli odori che aveva a disposizione (cipolla, patata, sedano), solo se li aveva a disposizione. Ci tengo poi a precisare che la pezzata si distingue dalla cosiddetta "pecora alla callara" (o "al cotturo") della tradizione abruzzese per almeno un elemento: la pezza . Esistono infatti due interpretazioni circa il nome della pezzata. La prima e più diffusa vuole che essa provenga da "depezzare", la pratica di tagliare in pezzi grossolani la carne prima di cuocerla. La seconda teoria pretende invece che il nome derivi da un'imprecisata pezza di stoffa utilizzata dai pastori per asciugare il grasso. A ben vedere, in Italia, da sempre, la carne ovina e bovina viene depezzata prima di venir cotta, il che renderebbe troppo semplicistica, per non dire banale, la teoria della "depezzata". Del pari il grasso era in passato considerato un elemento nutriente, rinforzante, il che fa cadere anche l'idea della pezza utilizzata a mo' di schiumarola. La peculiarità della nostra pezzata, invece, sta nella sua consistenza, oltremodo morbida e burrosa, che si può ottenere solo dopo una lunghissima cottura, evitando che la carne si disidrati. Il pastore, infatti, a volte non aveva accesso a una quantità d'acqua tale da riempire il caldaio ( chettùre ) e si vedeva costretto a bollire la carne in poche dita d'acqua, motivo per cui poggiava in superficie una grossa pezza di lana che, galleggiando, non permetteva all'acqua di evaporare, mantenendo costante l'umidità della carne. A mio avviso è questa la corretta origine della pezzata: carne di pecora bollita sotto una pezza di lana. Questo tipo di cottura faceva sì che la carne restasse tenerissima a lungo, tanto che il pastore la mangiava anche durante il tragitto transumante. La festa della Pezzata, istituita nel 1961 dalla giunta Di Ianni e pensata come una giornata dell'ospitalità capracottese, è oggi una delle maggiori sagre gastronomiche del Centritalia, motivo per cui meriterebbe una profonda rivisitazione per sfruttare al meglio le sue capacità di attrattiva turistica. Il vetusto pastore della pezzata, invece, non tornerà più. Noi possiamo solo onorare il suo lavoro, la sua pecora e la sua pezza. Francesco Mendozzi
- Da Capracotta a Villa S. Giovanni in nome della Pezzata
La sagra della Pezzata di Villa S. Giovanni del 17 agosto 2019. Villa San Giovanni (fino a 60 anni fa si chiamava San Giovanni in Bieda) è un ridente paese di 1.200 anime poggiato a 329 m.s.l.m. sui colli della Tuscia, in provincia di Viterbo, nel quale si svolge dal 1993 nientemeno che la sagra della Pezzata, una grande festa culinaria che almeno nel nome pare richiamare quella, più celebre, che si svolge dal 1961 a Capracotta, a 1.573 metri di altitudine. In effetti anche a Villa San Giovanni in Tuscia la sagra della Pezzata è sì legata alla carne di pecora ma, in misura molto minore, al fenomeno della transumanza. Questo piatto povero, infatti, veniva offerto ai cosiddetti carosini (addetti alla tosatura degli ovini) e, sostanzialmente, serviva per "svecchiare" le greggi, in quanto di solito venivano abbattuti gli animali più anziani. A differenza di quella capracottese, la ricetta della pezzata sangiovannese prevede uno spezzatino di pecora finemente lavorato, sgrassato, cotto per molte ore e servito su un letto di pane bruscato: alcune varianti prevedevano, per rendere il piatto più nutriente, l'aggiunta di patate. La sagra della Pezzata di Capracotta del 7 agosto 2022. A Capracotta la pezzata nacque invece come autosostentamento dei tantissimi pastori transumanti i quali, quando una pecora era troppo vecchia o malata per proseguire il viaggio fino in Puglia, finiva in pentola a bollire, aromatizzata con le erbe del tratturo. È risaputo che i pastori "approfittavano" del periodo transumante per fare incetta di carne, un alimento a cui non avrebbero potuto altrimenti accedere. E in virtù di ciò le pecore diventavano vecchie od azzoppate alla bisogna... ed anche quando partorivano, al massaro non venivano consegnati tutti gli agnelli nati, perché qualcuno era stato cucinato dai pecorai per saziare l'atavica insaziabile fame. Nonostante le differenze tra la Pezzata di Capracotta e quella di Villa San Giovanni, sarebbe bello pensare a una qualche forma di compartecipazione tra le due comunità in occasione di quella che è - e sempre sarà - la miglior festa italiana della pecora. Francesco Mendozzi
- Guido Scotti: marxismo e cristianesimo oggi in Italia
Don Guido Scotti, sacerdote della Archidiocesi di Lanciano-Ortona, nato il 3 settembre 1931, vicario generale e parroco in diverse comunità, professore di Pedagogia nell'Istituto magistrale "De Titta", è tornato alla Casa del Padre all'età di 90 anni. Agile, snello e filiforme nel fisico, robusto e profondo nel pensiero, di intelligenza pronta e vivacemente critica, condita sempre di sottile e talvolta graffiante ironia. Lo studio serio e la formazione intellettuale ha nutrito la sua spiritualità e la sua vita ed ha fornito le grandi ragioni del credere. Fede e ragione (due ali per volare alto, Fides et Ratio), l'inculturazione della fede e l'evangelizzazione della cultura, sono state le sue scelte di cristiano, cittadino e prete. Disponibilità al dialogo e comprensione, conoscenza profonda delle scienze umane, assimilazione del sapere e confronto culturale ha posto a fondamento del suo ministero pastorale incarnato, per non farlo diventare marginale e lontano dalla vita. Sant'Agostino, in un suo sermone (396,1), ha suggerito una riflessione molto sapiente sulla memoria delle persone scomparse: Noi vorremmo che tutti i buoni restassero più a lungo in vita insieme a noi in questa vita di contrasti, non vorremmo mai essere abbandonati dagli amici: ma coloro che ci hanno preceduto vivendo bene, ci esortano con il loro esempio a vivere in modo da raggiungerli, sia che viviamo qui a lungo, sia che ce ne andiamo presto. Purtroppo il tempo cancella in fretta e inesorabilmente ogni ricordo, rende sfocati un volto, un'esperienza, un patrimonio di dottrina e di saggezza. Don Guido Scotti è presente nel ricordo e vivo nella memoria. Non è facile esprimere in poche righe la sua vita. Parlare di lui comporta il dovere di sottolineare le sue qualità e i suoi meriti, rimarcare la sua presenza, il ruolo e il servizio pastorale prestato nella Chiesa frentana. La storia è maestra di vita, prime o poi svela la verità, sia pure con ritardo, e ogni tessera del mosaico torna al suo giusto posto. Questo piccolo intervento ravviva la stima, la riconoscenza e la considerazione a lui dovuta. La tesi di laurea in Filosofia a Urbino "Marxismo e cristianesimo oggi in Italia", sotto la guida del relatore prof. Pasquale Salvucci, mi offre l'occasione di presentare alcune riflessioni. Dopo una opportuna e chiara introduzione, che inquadra l'argomento e il tema, la tesi si divide in due parti: "I cattolici e il dialogo" e "Cattolici e marxisti provano il dialogo". La prima parte, succinta e ben delineata, espone la possibilità e l'utilità del dialogo. La seconda parte, corposa e più estesa, tratta del "dialogo alla prova" nei paesi comunisti europei e in Francia, in seguito nei convegni internazionali. La parte più lunga e dettagliata è dedicata all'Italia. Descrive i rapporti con i cattolici nella storia del marxismo italiano, i marxisti e la religione, i seguaci italiani di Marx (Togliatti, Lombardo Radice, Di Marco, Luporini). La parte finale ha un tema preciso e invitante alla speranza: i marxisti italiani e i problemi della democrazia e della libertà, laicità e tolleranza, da proprietà capitalistica alla proprietà umana. La tesi si chiude con una densa e precisa conclusione. Un confronto tra l'ideologia marxista e il messaggio cristiano, prende necessariamente le mosse da un reciproco approfondimento dell'autenticità del loro umanesimo per promuovere un « umanesimo integrale, superando ogni umanesimo esclusivo, che è in definitiva inumano » (H. M. de Lubac). La tentazione dell' integrismo (concezione politica o religiosa che rifiuta tutte le posizioni differenti dalle proprie) è assai forte sia per il messaggio cristiano, sia per il marxismo. L'integrismo è stato considerato come l'espressione dell'ortodossia cristiana: intolleranza religiosa, confessionalismo, clericalismo di Stato sono alcune espressioni del suo manifestarsi. Il Concilio Vaticano II segna una svolta storica e il superamento dell'integrismo cattolico. Sull'esempio dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI, la Chiesa, restando fedele al suo passato, ha proposto il dialogo come « atteggiamento di base e di fondo » . La proclamazione della libertà religiosa, l'affermazione dell'autonomia del temporale e del laicato nelle sfere loro proprie, l'abbandono delle aspirazioni temporalistiche, il riconoscimento dei valori presenti nelle religioni non cristiane e nell'ateismo, il senso più acuto della storicità dei valori e della storia, sono alcuni principi che vanno segnalati e riconosciuti. Superando l'integrismo la Chiesa si realizza in maniera più autentica e abbandona le posizioni che per secoli avevano orientato la sua azione. Anche nel marxismo l'integrismo viene superato. Aprirsi al dialogo col mondo cristiano, affermare il pluralismo, riconoscere il valore positivo e rivoluzionario della religione, sostenere l'autonomia della cultura e la riscoperta dei problemi della soggettività, sono tappe di un cammino da rimarcare. Si prospetta la possibilità di integrare l'efficacia politica ed economica del materialismo storico con i valori spirituali ed interiori della fede cristiana. È un modo pratico di convivenza e di reciproca tolleranza nel processo di unificazione planetaria. Nella Chiesa rinnovata dal Concilio e nel dialogo con il mondo moderno i movimenti, che hanno avuto una matrice dottrinale non cristiana, possono dare un contributo positivo alla costruzione di una società più umana e viene ammesso « la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali » ( Gaudium et Spes , 75). La purificazione dei rapporti tra la Chiesa e la società civile in Italia pone necessariamente il problema del superamento dell'unità politica dei cattolici. Viene affermata, infatti, la pluralità degli atteggiamenti attraverso cui essi si esprimono nei partiti politici. Tra le implicazioni più significative vanno segnalati: l'autonomia della cultura e il pluralismo ideologico, la libertà religiosa, la laicità dello Stato, il riconoscimento del diritto all'opposizione. In conclusione marxismo e cristianesimo in Italia sono giunti alla consapevolezza che il dialogo si presenta nella sua bruciante attualità, come l'unica alternativa storica di fronte alla prospettiva di un mondo diviso e ostile. Il dialogo non può esaurirsi in uno sterile confronto ideologico, ma deve tener presente la dimensione interpersonale dove il legame vivente tra azione e verità, tra fatto e valore si approfondisce nella presa di coscienza di una comune realtà umana. In questo atteggiamento che vede nell'altro non un avversario da confutare, ma un interlocutore con cui cercare insieme una verità più comprensiva e profonda come primo risultato del dialogo. Questo atteggiamento implica l'approfondimento in uno scambio fecondo con la verità di cui gli altri sono portatori. Crea un clima di intesa e reciproca fiducia, premessa indispensabile per conseguire una profonda unità fra le persone. Al problema del dialogo con i comunisti la tesi dedica una serie di articoli di Padre Giuseppe De Rosa apparsi sulla rivista dei Gesuiti Civiltà Cattolica. La stima, Il rispetto reciproco e la capacità che hanno le due dottrine di integrarsi e completarsi a vicenda sono condizioni necessarie. E potrebbe svolgersi a quattro livelli: religioso, filosofico-morale, sociale-politico, politico-pratico. Un contributo notevole al dialogo è offerto da Giulio Girardi in "Marxismo e cristianesimo" (Ed. Cittadella, Assisi 1966). Condizione fondamentale è il superamento dell'integrismo in tutte le sue componenti di ciascuno dei due sistemi in confronto. La seconda parte della tesi affronta lo stesso tema in alcune nazioni europee (Unione Sovietica, Iugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Polonia, Germania Federale, Francia) e in convegni internazionali (Herrenchiemsee, Baviera). Il dibattito avvenuto è tutto proiettato nel futuro con una volontà di dialogo autentica e feconda, animata dalla persuasione della necessità storica del confronto e insieme da chiara consapevolezza delle difficoltà inerenti. L'ultima parte della tesi è dedicata alla "Conclusione". Quale terreno comune è possibile per una collaborazione tra cristianesimo e marxismo? Il Cristianesimo resta essenzialmente orientato verso un fine trascendente la storia, il marxismo considera ogni finalità trascendente come alienante dai compiti concreti di un umanesimo terrestre: l'affermarsi dell'uomo passa attraverso la negazione di Dio. Un confronto è possibile se si approfondisce l'autenticità del loro umanesimo e promuovere un "umanesimo plenario" ( populorum progressio ). Nel convegno di Herrenchiemsee in Baviera, teorici marxisti e teologi cristiani hanno sottolineato le linee di convergenza, pur con le divergenze che le separano. L'unico oggetto centrale può essere l'umanesimo. L'ideale umanistico è essenzialmente sociale: l'uomo realizzerà sé stesso in una comunità e la sua azione sarà efficace solo se comunitaria. Il vero ostacolo da superare per rendere il dialogo fruttuoso è « discendere progressivamente dal cielo delle idee alla terra delle istituzioni e dei rapporti vissuti » (G. Girardi). La tentazione dell'integrismo è superata quando si assume un atteggiamento schiettamente personalistico. Anche la Chiesa si realizza in modo più autentico, prospettando la possibilità di integrare efficacia politica ed economica del materialismo storico con i valori spirituali ed interiori della fede cristiana. Alla luce di queste considerazioni generali in Italia i rapporti tra comunismo e cristianesimo hanno rilevato il pluralismo, l'accettazione del metodo democratico, la revisione delle tesi tradizionali sulla religione. Il cristianesimo non è una ideologia. La Chiesa del Vaticano II si presenta come un "sacramento di salvezza" che deve rinnovare il mondo. Non ha il compito di trovare una soluzione concreta per ogni nuovo problema che sorge: Spetta ai fedeli cristiani assumere le proprie responsabilità nella vita della società civile e politica, rispettando le leggi proprie di ciascuna disciplina. Ispirandosi alla propria coscienza cristiana, collaborando con tutti gli altri alla giusta composizione delle questioni economiche e politiche, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che in essi si nascondono. La Chiesa, nel suo dialogo col mondo moderno, ritiene che anche movimenti che hanno avuto una matrice dottrinale non cristiana possono dare in contributo positivo alla costruzione di una società più umana ( Pacem in terris , 84). Su questa base e con questo spirito i cristiani « devono essere di esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune, così da dimostrare con fatti come possa armonizzarsi l’autorità e la libertà, l'iniziativa personale e la solidarietà di tutto il corpo sociale, la opportuna unità e le opportune diversità » . Senza dubbio il riconoscimento di valori positivi nella religione e il passaggio dall'ateismo di Stato alla laicità sono elementi che indicano il superamento dell'integrismo. Cattolici e marxisti devono ricordare che il dialogo sarà possibile solo se da una parte e dall'altra si accetti una gerarchia di valori e un principio primo che si impone rispetto a tutti: il riconoscimento della persona umana nella sua dignità e nei suoi diritti. Se il rispetto dovuto alla persona umana è l'inizio di ogni civiltà, compete alla persona umana continuare il movimento di apertura verso gli altri per realizzare la pace e la giustizia sociale. Per una coincidenza non casuale il tema "Marxismo e religione cristiana: una ideologia e un messaggio a confronto", è stato trattato anche da me nello stesso anno 1967. Per comprendere il significato e la portata di questo tema ha tentato di chiarire « il terreno comune di valori sociali e morali per un possibile accordo tra marxisti e credenti » . In particolare ho presentato la reinterpretazione marxista della religione, alla luce dell'incontro tenuto a Herrenchiemsee in Baviera sul tema "Umanesimo cristiano e umanesimo marxista". Cento studiosi provenienti da 16 paesi europei, di cui 6 a regime comunista, hanno evidenziato impegno di preparazione e larghezza di partecipazione. Il convegno ha operato un "rovesciamento", un cambiamento di qualità e di direzione rispetto alla religione "oppio dei popoli". L'evoluzione di atteggiamento e di apertura verso la religione va ricercata in una costatazione dei fatti, in una esperienza storica di "cristianesimo inedito", rinnovato nel mondo e nelle lotte sociali e politiche per la giustizia, « un cristianesimo giovanneo, conciliare » . Fondamento e analisi sono state le costituzioni del Concilio Vaticano II, il decreto sulla libertà religiosa e le encicliche Populorum progressio e Ecclesiam suam . Un altro elemento rilevato è l'"impegno nel mondo" a cui i cristiani sono chiamati nello spirito conciliare. Per un marxista è un vivo senso "comunitario", per un cristiano la dimensione "popolo" è essenziale, contro un tipo di religione individualistica, egoistica, sentimentale. Ulteriore elemento positivo in questa religione rinnovata è il "rifiuto dell'integrismo" e quindi l'apertura al sociale. I caratteri specifici della reinterpretazione marxista situa la religione nelle sovrastrutture, ammette in virtù dell'autonomia relativa di queste, che essa costituisce un elemento di valore permanente. La religione in quanto testimonianza di una realtà trascendente è inconfutabile da parte dell'ideologia marxista. Nella sua essenza la religione è rapporto personale e vivo dell'uomo con Dio, rapporto di conoscenza e di amore in una fede vivente, risposta personale, generosa e libera all'amore gratuito e preveniente del Dio "vivo e vero". L'ateismo conduce alla disumanizzazione, alla spersonalizzazione dell'uomo, all'asservimento della sua persona che diventa, come per una reazione a catena, schiava di nuove alienazioni: i totalitarismi di Stato, le esigenze implacabili del rendimento della produzione, le alienazioni delle ideologie e dei miti che promettono il cielo sulla terra, senza speranza di immortalità. La Chiesa rifiuta il materialismo storico con l'affermazione delle influenze spirituali e sociali nella storia, dei grandi uomini, pensatori, sapienti inventori, artisti, uomini di genio e santi. Dio agisce nella storia, Dio si rivela nella storia, Dio si inserisce nella storia, conferendole così una "consacrazione religiosa", per cui bisogna tenerla nella massima considerazione. I bisogni fondamentali dell'uomo, i veri bisogni di giustizia, di verità, di libertà, di solidarietà sono il terreno comune su cui costruire un dialogo profondo e produttivo di incontro tra marxismo e religione. Percepire i bisogni veri, case. sanità, istruzione, salario, sicurezza sociale, coscienza di essere "più umano" significa avvertire la responsabilità dei diritti, insieme all'affermarsi dei doveri. Cogliere i bisogni per affrontarli con competenza, proporre soluzioni vere e non demagogiche, pagare di persona, essere messaggeri della spiritualità, chiama ad essere "operatori concreti" dentro la quotidiana socialità. Farsi battere per pigrizia diventa un tradimento. Osman Antonio Di Lorenzo
- Maggio
Il maggio capracottese (foto: C. Ciolfi). È tornato maggio coi suoi mille fiori, col canto degli uccelli e il ghorgheggiar dei ruscelli. È tornata la gioia dei bimbi che corron felici sui prati in cerca di fiori profumati. All'alba di ogni mattino si sente il canto dell'usignolo che intona nell'aria tranquilla. Maggio mese della Madonna mese dei canti soavi che si spandon nell'aria profumata di rose. Le farfalle dai mille colori si rincorron nel cielo turchino. Il vento fa pencolare gli aquiloni e i bimbi incantati guardano la loro cometa che sembra salire verso il cielo beato. Berenice Del Castello Fonte: B. Del Castello, Maggio , in «Il Piccolo Molisano», Campobasso 1961.
- Il mio gattino
Posso cominciare senz'altro col dire che il mio gattino è il micio più carino e adorabile che io abbia mai visto. Il giorno in cui mi fu regalato quasi non credetti ai miei occhi; la signora che me lo aveva promesso era in sala da pranzo e, aperta una borsa, ne trasse un batuffolo nero nero, che sembrava un gomitolo di lana. «Il mio mico» fu il mio grido di gioia. Forse a quell'insolito strillo il gattino si spaventò perché corse a rintanarsi sotto un mobile. Mi sdraiai per terra, e: «Su, su, micetto, vieni fuori, vieni» gli dissi. Macché, il poverino se ne stava là nell'angolo tutto offeso e timoroso nell'ombra, fra tutto quel nero, non si vedevano che i suoi occhi verdi come lo smeraldo. Ebbi allora un'idea: corsi in cucina, versai un po' di latte in un piattino e lo posai sul tappeto. Poco dopo il micetto beveva e avvicinatami presi ad accarezzarlo piano piano: da quel momento diventammo amici, ma da quel giorno incominciarono i nostri guai. Al ritorno dalla scuola, ogni pomeriggio me lo trovo quieto quieto, raggomitolato sul divano, lo prendo in braccio e lo accarezzo. Sono brevi i suoi attimi di calma. La sua più grande passione sono i lacci delle scarpe, ed una sera la povera bestiola e io finimmo in castigo. Il poverino, entrato in sala da pranzo dietro a me, senza il permesso della mamma, s'avventò sulle scarpe di un distinto signore, che era venuto a cena per parlare d'affari con papà. Trac... trac... ed un laccio era partito. Il signore allora sorrise. La mamma mi indicò la porta ed io svelta svelta con il micio sotto il braccio, me ne andai senza voltarmi indietro. Io mi sono affezionata al mio gattivo, dal giorno in cui venne ad abitare in casa mia, ho trascurato gli altri divertimenti; le bambole sono rimaste nell'armadio, anche i libri sono stati un po' dimenticati; l'unica cosa che non dimentico mai è il suo piattino che provvedo a riempire sempre di latte. Cecilia Mosca Fonte: C. Mosca, Il mio gattino , in «Il Piccolo Molisano», Campobasso 1961.
- Storia dell'organo (VI)
L'organo della Chiesa di S. Giovanni Battista a Cirenchester. Il mondo dell'organo è un'immensa raccolta anche di aneddoti e riferimenti storici da cui spesso nascono proverbi o detti popolari. Come ad esempio: " Va' a Bàgg a sonà l'orghén " ( Vai a Baggio a suonare l'organo), usato nel milanese per liberarsi dagli scocciatori. La leggenda vuole che a Baggio, quartiere agricolo nella periferia di Milano, nel 1865 furono intrapresi dei lavori di ampliamento della chiesa parrocchiale divenuta ormai troppo piccola. Tali lavori dovevano comprendere anche la costruzione di un nuovo e monumentale organo. Ma il cantiere della chiesa assorbì tutti i fondi disponibili, per cui la cantoria fu riempita da un organo ma era semplicemente un dipinto sul muro. Andare a fare l'organista a Baggio, quindi, era solo una perdita di tempo. In realtà, i lavori di ampliamento ci furono e l'organo, smontato per tale occasione, rimase assente dalla chiesa solo per il tempo necessario al loro completamento. Un'altra storia, più veritiera, si riferisce al M.° Gaetano Medaglia, allora organista del borgo, che per andare a prestare servizio era obbligato a passare continuamente attraverso i caselli daziari guadagnandosi così (ma guarda un po') lo scherno dei doganieri. Anche qui l'organista andava a Baggio a "perder tempo", facendo così pure la figura dello scemo del paese... Organo inglese Le origini dell'organo inglese non differiscono da quelle di altri paesi come Francia e Italia. Dai semplici portativi si arrivò tra il XIII e i XV secolo a strumenti positivi di maggiori dimensioni con uno o, meno frequentemente, due manuali quasi sempre senza pedaliera. Il secondo manuale azionava un positivo tergale posto, come de denominazione, alle spalle dell'organista. Il manuale principale prese nome di great e quello per il tergale chair . Le composizioni "a due organi" intendevano l'uso di entrambi i manuali. Molte furono le influenze delle scuole organarie dell'Europa centrale che portarono ad un ulteriore sviluppo. Tuttavia i costruttori inglesi a loro volta non ebbero grande influsso sui costruttori di oltre Manica. Nel 1644 il puritanesimo di Oliver Cromwell inferse un colpo mortale all'organo inglese. Il Parlamento, decretando tutti gli strumenti oggetti sub superstitione , ne ordinò la totale ed immediata distruzione. Tuttavia, si narra che lo stesso Cromwell avesse fatto conservare uno strumento e lo ascoltasse suonare in gran segreto. La Restaurazione nel 1660 comportò il difficile compito della ricostruzione che dovette ricreare una tradizione organistica perduta ma specialmente e in primis una scuola organaria inesistente. Molti organari, rifugiatisi fortunosamente in Francia, rientrarono in patria portando con sé le tecniche di costruzione francesi. Gli organi si arricchirono di registri sconosciuti nel periodo precedente alle devastazioni: ance, cornetti e mixtures (equivalenti delle fournitures e del ripieno). Delle file di canne vennero inserite in una casse chiuse da portelle per effetti di eco che nel 1727, portelle che trasformate in gelosie, potevano essere aperte e chiuse dall'esecutore creando effetti di diminuendo e crescendo: il manuale di riferimento e il corpo d'organo vennero denominati swell . Il diapason , equivalente del nostro principale, è di suono intenso come anche le sue derivazioni. Gli inglesi tesero molto all'aumento delle pressioni del vento: in epoche più moderne si arrivò ad ance ( tuba magna e tuba mirabilis ) a pressioni di 1 kg/cm2, insostenibili per l'ascoltatore se usate in accordo, saldamente incatenate al somiere per scongiurare che il noce ed padiglione possano venir "sparati" come un razzo e, tramite opportune incamiciature, dotate di circuiti di raffreddamento ad acqua per evitarne il surriscaldamento! Il ripieno ( mixture ) spesso non veniva eccessivamente "verticalizzato" come negli organi della Riforma e dei paesi cattolici: si preferiva una maggiore forza dei fondi ma sempre con sonorità chiare, luminose e precise. Tali caratteristiche furono anche esportate nelle colonie nordamericane e rimaste in voga fino ai tempi recenti. Dello stesso tenore le piramidi sonore basate sui flauti e bordoni. Anche gli organisti inglesi furono grandi improvvisatori e subirono influssi delle scuole olandesi ed italiane: dalle molte composizioni pervenuteci, di cui molte scritte per uso didattico, possiamo arguire che alcuni strumenti disponessero di manuali con registri spezzati. Il voluntary , equivalente del nostro preludio, era una delle tecniche compositive più in voga. Scarsi gli spunti compositivi derivati dalla scuola organistica francese. L'arrivo di Georg Friedrich Händel (1685-1759) confinò al passato gran parte di quella musica. Ma nonostante il grande e faticoso recupero dalle devastazioni puritane per molto tempo l'organo e l'organistica inglesi non tennero saldamente il passo con quello centroeuropeo specialmente con le tradizioni olandese e tedesca che poi, alla fine, crearono i presupposti e le direttive canoniche fondamentali dell'organo moderno. Le casse ( case ) degli strumenti inglesi sono molto particolari: spesso aperte con struttura a giorno e torrette squadrate con decorazioni rettilinee. Ma la tradizione più interessante consiste nei prospetti forniti di mostre realizzate con canne vivacemente dipinte: questa tradizione era molto antica e diffusa in tutta Europa ma lì quasi sempre confinata nel dare forme antropomorfe alle bocche delle canne (occhi, naso e denti). Negli organi britannici, invece, le canne vennero decorate in toto con tecniche varie dalla semplice pittura alla doratura. I motivi, estesi anche alle casse, riprendono di frequente i simboli floreali legati al territorio o alla nazione di appartenenza o, ancora, alla dinastia regnante sulla contrada al momento della costruzione. Il momento di massimo fulgore di questa tecnica decorativa si concretizza nel periodo vittoriano tra il 1837 e il 1901 con la frequentissima adozione della tecnica stencil, cioè della decorazione di fondo ottenuta tramite normografi dimensionati in base alle misure delle canne le cui superfici erano state pretrattate con trementina e poi arricchite con delle ulteriori finiture a mano tramite pennello. Le vernici oggi su base sintetica erano al tempo a tempera o ad olio. La decorazione delle canne di mostra, come ravvisabile in tutta Europa, poteva avvenire anche tramite la realizzazione sul tubo di punzonature, nervature o dando allo stesso la forma a tortiglione. Presenti anche decorazioni arabescate in oro delle bocche. I capracottesi più anziani ricorderanno come le canne maggiori dell'organo, purtroppo andato perduto, del santuario di S. Maria di Loreto presentassero ai lati dei tubi delle nervature a spina di pesce. La modernità portò anche l'organo inglese alla uniformizzazione eclettica come per gli strumenti continentali. Ma resta l'inquietudine nel pensare come uno strumento concepito prevalentemente per la preghiera possa essere stato considerato oggetto malvagio, portatore di superstizione e, pertanto, meritevole di distruzione insieme a tradizioni, arte e bellezza. Tutto in nome di una ideologia o di un becero integralismo puritano. Dal passato un monito per il futuro? Francesco Di Nardo
- I "casi riservati" al vescovo nei confessionali di Capracotta
Uno dei confessionali di Capracotta. Lungo le navate laterali della Chiesa di S. Maria in Cielo Assunta di Capracotta esistono due coppie di antichi confessionali in noce, e la coppia presente nella navata sinistra appare di più pregevole fattura. Quei due confessionali si differenziano tra di loro per le decorazioni della parte superiore. Il primo ha al centro una specchiatura con uno stemma circondato da motivi foliari e ai due angoli vasi lignei con fiori; il secondo confessionale, invece, presenta decorazioni a girali e grosse foglie con al centro una croce. Stando al Catalogo generale dei Beni culturali, si tratta di opere di intagliatori (a mio avviso autoctoni) del XVIII secolo. All'interno di questi due pregevoli confessionali, inoltre, è ancora possibile ammirare le tavole dei «casi riservati all'Ill.m° e R.m° Monsignor Vescovo di Trivento, colla scomunica annessa», ossia gli elenchi dei delitti per i quali l'arciprete di Capracotta non poteva assolutamente impartire l'assoluzione. I "casi riservati" non erano che reati più gravi che richiedevano un trattamento specifico, con indagini e processi condotti dalla Diocesi stessa. Le procedure per affrontare questi casi sono state aggiornate nel tempo, tant'è che anche nei due confessionali di Capracotta sono presenti tre differenti liste, la più recente delle quali porta la data del 1903 ed è stampata in latino, mentre quella mediana, anch'essa su carta stampata, appartiene agli anni '60 dell'Ottocento, mentre la più antica - quella di cui mi occuperò - è autografa e pare avere qualche lustro in più (forse è degli anni '40 del XIX secolo). Nella prima tavola di quest'ultima sono elencati nove delitti per i quali era prevista la scomunica: Chi abbusa li sagramenti, o sagramentali, ed altre cose sagre, e chi dà, o chi riceve queste cose per abusarle, benché l'abuso non ne seguisca. Chi dà, o promette ossequio, o servitù al demonio, invocandolo espressamente in suo ajuto, o fa, e fa fare legature, per impedire l'uso del santo matrimonio o altri incanti, magie, superstizioni, o maleficj per eccitare amore, o odio, o nuocere in qualsivoglia modo alcuno, ancorché non siegua l'effetto, e non vi sia errore nell'intelletto; chi sa, e non denuncia. Chi rubba, trattiene, impedisce, accusa, o in qualsivoglia modo defrauda le decime, ed altre rendite, o frutti ecclesiastici. Chi commette omicidio volontario, o procura l'aborto di feto animato, ancorché non seguisca l'effetto, e chi in queste cose dà conseglio, ajuto, comando, e in qualsivoglia maniera coopera. Chi ritiene in letto le creature prima d'aver compito l'anno, seguito il caso della soffocazione. L'incendiarj volontarj prima della denuncia, perché dopo la denuncia il caso è riservato al Papa. Chi proferisce parole disoneste in presenza delle monache, novizie, educande ne' monasteri, e canda [sic] canzoni lascive intorno ad essi, o scrive lettere che queste cose contengono, o le manda, o scientemente le porta alle sudette, o in qualsivoglia modo parla con queste senza licenza di monsignor vescovo, o del suo vicario, o altro deputato. Chi apporta un impedimento falso per impedire il matrimonio, o pure sapendo il vero impedimento non lo rivela. Chi depone maliziosamente in giudizio falsa testimonianza, tanto nelle cause criminale quando [sic] nelle civile in grave danno del prossimo, o pure scientemente fa che altre la depongono. Come parimente il giudice, il notaro, lo scrivano, ché di minutamente, o con inganno, o dolo, pigliano, o scrivano le deposizioni de' testimoni. Dalla lettura di questa prima tavola di casi riservati nascono obbligatoriamente alcune riflessioni di natura sociologica. I peccati più gravi erano sì quelli riguardanti gli atti sacrileghi in chiesa e il satanismo, tuttavia erano seguiti dal reato di defraudare «in qualsivoglia modo» il clero locale. Riguardo all'art. 2, va segnalata la «legatura», una forma di fattura ritenuta tra le più efficaci: con essa si pensava di ridurre all'impotenza uno degli sposi, generalmente l'uomo, nella prima notte del matrimonio. L'aborto di un feto già formato, poi, era praticamente equiparato all'omicidio volontario, così come lo è ancor oggi nella giurisprudenza italiana. Tuttavia, colpisce il caso dei piromani («incendiarj volontarj»), i quali venivano scomunicati perché il dolo procurato causava serissimi problemi di sopravvivenza a tutte le popolazioni, figuriamoci quella capracottese, che si nutriva e riscaldava grazie ai suoi boschi. Colpisce anche la casistica, peraltro moderna, di punire i genitori che solevano dormire nel letto assieme ai neonati, causandone, seppur involontariamente, il soffocamento: ancor oggi capita di leggere cronache legate al cosiddetto co-sleeping , pratica molto dibattuta ma fortemente sconsigliata dai pediatri. Beh, la diocesi di Trivento di due secoli fa era piuttosto all'avanguardia in questo senso! La tavola dei "casi riservati alla Diocesi di Trivento" nel confessionale capracottese. Vi erano, inoltre, altri sei delitti la cui giurisdizione rimaneva riservata al vescovo di Trivento, ma per i quali non era prevista la scomunica: Chi bestemmia Iddio, la Beata Vergine per una volta, [ cancellato ]. Chi percuote il padre, la madre, ed i maestri. Chi taglia arbori fruttiferi con danno, ed ingiuria altrui. Il ratto delle vergini, lo stupro, l'incesto, in primo, e secondo grado di consanguinità, e affinità corporale, e spirituale, la sodomia, la bestialità, il concubinato, al quale non si deve assolvere, ancorché ha avuta da' superiori la facoltà, se il concubinato almeno due mesi non si sia contenuto, ed abbia fatta la separazione della concubina, non solamente dal letto, [ma] dalla casa, ed abitazione. Chi procura l'aborto del feto inanimato, e chiunque questo consiglia, commanda, e dà ajuto. Li sposi de futuro, che prima di sposare si conoscano carnalmente. Anche in questo caso vi sono delle riflessioni da fare. Era oggetto di stigma - ma evidentemente accadeva - malmenare i propri genitori o i maestri, da intendersi nel senso estensivo di "datori di lavoro". Anche il taglio degli alberi da frutto era considerato un peccato grave, il che probabilmente seguiva la logica giuridica dell'art. 6 della tavola precedente. Se l'aborto entro le prime 12 settimane non produceva scomunica, tuttavia rimaneva un fatto esecrabile, così come l'incesto, la zoofilia, l'omosessualità, la convivenza e i rapporti sessuali consumati prima del matrimonio. È interessante notare come sia stato cancellato, in entrambi i confessionali, il secondo comma dell'art. 1, secondo cui bestemmiare due volte i santi rientrasse tra i "casi riservati". Ahimé non ci è pervenuta la terza tavola, quella dei «casi riservati al sinodo», ossia a quell'assemblea locale di rappresentanti del clero e laici (notabili), convocata per discutere e deliberare su questioni importanti riguardanti la disciplina ecclesiastica. Grazie alla seconda lista (firmata dal vicario di Trivento mons. Daniello Maria Zigarelli), è possibile però desumere gli ultimi cinque delitti previsti: Coloro, che tengono i figli nel proprio letto conjugale passati i 7 anni, e che dormono con altre femmine di anni 10 parenti, ed affini. Coloro, che essendo di anni 14 dormono con le femmine di anni 10 parenti, ed affini. Chi ascolta bestemmie ereticali è tenuto a denunciare tra un mese, scorso il quale cade nella censura. I confessori sì regolari, che secolari, i quali assolvono per una volta il loro complice sia in peccato carnale, sia che abbiano fatto omicidio, furti, o libelli famosi, o abbiano consigliato, o in qualche modo cooperato. Gli sposi, che abitano nell'istessa casa, e se dietro l'ammonizioni continuassero, s'intende allora essere puniti colla scomunica. Dalla lettura di questi «casi riservati», insomma, emerge il ritratto di una società sicuramente sottomessa al potere clericale e alla morale cattolica, le cui regole, però, non appaiono né molto stringenti né sembrano richiamare grandi questioni teologiche, quanto invece faccende materiali quali l'appropriazione indebita, le lesioni personali, i rapporti familiari, la sicurezza ambientale, i gusti sessuali ed il cosiddetto "buon costume". Traspare, tra il XVIII e il XIX secolo, una diocesi dalla struttura sociale piuttosto "liberale", che ammoniva severamente le sue pecorelle smarrite ma che, in fondo, lasciava loro ampi pascoli di libertà personale e collettiva. Francesco Mendozzi Bibliografia di riferimento: L. Campanelli, La Chiesa Collegiata di Capracotta. Noterelle di vecchia cronaca paesana , Tip. Molisana, Campobasso 1926; V. D'Avino, Cenni storici sulle chiese arcivescovili, vescovili e prelatizie (nullius) del Regno delle Due Sicilie , Ranucci, Napoli 1848; F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese , vol. I, Youcanprint, Tricase 2016; D. M. Zigarelli, La invidia , Napoli 1854.
- Storia dell'organo (V)
Aldebaran, più in alto dei falsi dei, Aldebaran, mi han messo in tasca trenta denari ma non miei... [New Trolls, "Aldebaran", 1978] Consolle di organo francese. A corollario della chiacchierata sull'organo iberico va menzionato uno strumento realizzato letteralmente con "quello che passava il convento". Nel 1824 padre Diego Cera realizzò nella Chiesa di S. Giuseppe a Las Piñas (Filippine) uno strumento in cui su 1.031 canne ben 902 son realizzate in bamboo! Quest'opera fu preceduta da uno studio minuzioso, cominciato nel 1816, per la scelta del materiale ideale, il periodo di raccolta, la stagionatura e quali fossero le canne ottenibili: una piccola parte del materiale fonico dovette infatti essere realizzato in metallo. Le canne di studio o che comunque non risultarono idonee alla funzione sonora furono installate ad adornare la mostra posteriore dello strumento. Anche qui ricorrono le tecniche costruttive iberiche: un manuale a registri spezzati con 10 registri per la mano sinistra e 11 registri per la destra. Una pedaliera di 12 note con un registro autonomo. Due "accessori": uccelliera e timpano (due canne che azionate danno l'effetto "tamburo"). Immancabile l'imponente chamada al di sopra della consolle. Dopo aver affrontato, uscendone estremamente malconcio, terremoti, tifoni, guerre, assalti di insetti, nidificazioni di volatili e ammodernamenti, nel 1972 fu inviato per restauro in Giappone e poi in Germania e fu necessario costruire delle camere a temperatura ed umidità controllate per ricreare le condizioni ambientali proprie delle Filippine. Nel febbraio 1975 risuonò nuovamente per collaudo prima di essere rispedito in patria dove fu accolto da colossali festeggiamenti con 30.000 persone ad assistere al corteo allegorico riproducente tutti gli episodi della sua storia. Il concerto inaugurale avvenne il 9 maggio dello stesso anno. Nel 2003, unico organo sopravvissuto del XIX secolo, è stato dichiarato Tesoro Culturale Nazionale delle Filippine. Organo francese Ufficialmente la storia dell'organo a canne in Francia comincia nel 757 con lo strumento donato dall'imperatore Costantino V a Pipino re dei Franchi. Da una struttura relativamente semplice come il fratello italiano e quello iberico prese una strada evolutiva autonoma. Già nel 1300 un Blokwerck risuonava nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, le cui canne vennero inglobate negli strumenti successivi nel corso della storia per essere probabilmente "ritrovate" come parte dei registri di pedaliera dell’attuale organo maggiore, opera del grande Aristide Cavaillé-Coll. Il numero dei manuali andò via via aumentando a partire dal XVI secolo giungendo ai grandi strumenti della scuola organaria classique nel XVIII secolo. Contemporaneamente nacquero e si svilupparono registri che sono il carattere distintivo dell’organo francese. Questa evoluzione fu determinata anche dalle esigenze espressive dello stile organistico locale e con sonorità e combinazioni di registri uniche nel loro genere. La piramide sonora maschile è rappresentata dal montre , equivalente del principale italiano. Di suono chiaro ma più "forte" per il taglio largo delle canne, ha i classici raddoppi in ottava fino alla fourniture , l’equivalente del ripieno italiano, ma qui le file sono azionate da un solo comando, probabilmente una consuetudine derivata dai Blokwerck medievali. Registro addizionale alla fourniture è il cymbale , che amplifica e verticalizza ancor di più l'edificio sonoro. La fourniture , particolarmente squillante e chiara, verrà ripresa da alcuni organari tedeschi come i famosi Silbermann, originando così quegli strumenti ideali per la comprensione delle opere di Bach. La piramide dei flauti e dei bordoni è ben rappresentata e con sonorità molto più energiche rispetto agli strumenti di oltre confine. Lo sviluppo delle mutazioni di flauto, in molteplici file, crea il cornetto ( cornet ) uno dei suoni tipici dell'organo francese e presente in quasi tutte le tastiere, di potenza variabile dall’una all’altra, e da poter usare in dialoghi sonori (duetti) con le ance, o in assoli ( recit de cornet ). I registri ad ancia sono di varietà estrema: dal cromorne all'oboe ( hautbois ), dalla trompete alla voix humaine , fino alle grandi chamade . Registri ad effetto, da usare anche questi in duetto ( dialogue ) o in assolo (ad es. recite de cromorne ). Ricordiamo anche la potente bombarde , che spesso è suonata tramite una apposita tastiera detta orgue de risonance . Alcune di queste ance hanno un suono quasi "maleducato", teso ad esaltare il cantus firmus nei versi per organo dell'alternatim quando associate ai ripieni e per sovrastarli. Altre ance invece sono più contenute e timorate di Dio, altre di suono grasso e ridondante, ma tutte, comunque, parte di una tavolozza di colori veramente impressionante. Chi ha ascoltato i grandi Noels per organo del XVII e XVIII secolo può comprendere l'enorme varietà sonora di questi strumenti molto ad effetto ma unici per comprendere effettivamente l’interpretazione dei brani musicali dell’epoca. I francesi, grandi clavicembalisti, furono anche grandi improvvisatori all’organo ma con caratteristiche diverse rispetto alla capacità di improvvisare dei colleghi della Chiesa riformata. Tra tutti Nicolas de Grigny (1672-1703) il cui "Premiere livre d'orgue", insieme alle opere di Frescobaldi e di Vivaldi era parte della biblioteca di Bach. Sonorità unica il grand jeu : registri di fondo ( montre e derivati) associati ai registri di ancia senza le fournitures e distinta dai plein jeu e grand plein jeu , che invece comprendono i principali e le fournitures senza ance; il primo viene suonato sul positif e il secondo sul grandorgue . L'uccelliera è presente con il nome di rossignol . Il manuale con le sonorità principali viene chiamato grandorgue , il positif secondo solo al precedente aziona la sezione generalmente posta alle spalle dell'organista, rivolta all'assemblea. Altri manuali vengono definiti come organo di écho (chiuso da portelle apribili) e organo di recit . La pedaliera spesso assente negli strumenti più antichi è generalmente a bottoni o con tasti a scomparsa pur se abbastanza estesa e raggruppa pochi registri di tromba e di flauto. Spesso tutte le tastiere hanno la prima ottava "corta" o priva del primo Do#. Spesso questo tasto, ove presente, suona emettendo il La sotto il Do1 (La 0) detto anche (Contro La) cosa unica nel mondo dell’organo. Un comando detto “unione” consentiva ai registri del grandorgue , tramite appositi meccanismi, di suonare anche sulla pedaliera, come anche il grandorgue stesso poteva esser tirato, tramite appositi pomelli ai lati della tastiera, come un cassetto (unione a cassetto) sul positif potendo utilizzare anche i registri di quest'ultimo. Ovviamente aumentando i meccanismi messi in movimento i tasti si appesantivano. Le catenacciature, molto estese ed estremamente complesse, richiedevano in alcuni punti l’adozione di tiranti in legno leggerissimo per non appesantire il tocco. Per fare un esempio nell'organo maggiore Vater-Müller della Oude Kerk di Amsterdam (XVIII secolo) unendo l' HauptWerk (equivalente del grandorgue ) con il positiv si arriva a dover esercitare una pressione sui tasti compresa tra i 500 grammi e 1 kg (notizia riferitami dall'organista titolare M.° Matteo Imbruno)! Per rendere più espressivo il suono vennero ideati alcuni registri accessori come il tremolo ( tremblant ) mutuati o ripresi anche nelle altre nazioni. Il tremolo leggero costituito da una membrana oscillante nei portavento che, variando il flusso del vento, dava un effetto di vibrato e il tremolo forte consistente in uno sportello che si apriva e chiudeva sul portavento facendo sfuggire grosse quantità di aria con un effetto di vibrato ancora più intenso e definito "a vento perduto". La cassa ( buffet ) è caratterizzata dalle grandi torri, mutuate e riprese dagli strumenti centroeuropei, contenenti le canne più grandi, alternate a mostre con campi rettilinei o curvi. I registri di mostra, come di norma in quasi tutti gli organi del mondo, sono i lucenti principali. Sono presenti spesso decorazioni e sculture sulle torri e alla loro base. In sostanza strumento con notevole forza sonora ma anche con voci civettuole e per certi versi "aristocratiche" ma capaci di trasformare in prodigi anche le ballate popolari. Il passaggio al XIX secolo portò ad una generazione di strumenti che tesero ad uniformarsi alla struttura degli strumenti centro europei pur mantenendo peculiari effetti sonori: preludio agli strumenti moderni. Curiosità: il termine "organo" in italiano è sostantivo maschile, altrettanto orgue in francese ed organo in spagnolo, così ancora orgao in portoghese. Organ in inglese è sostantivo neutro, come Orgaan in olandese, mentre Orgel in tedesco è sostantivo femminile. Francesco Di Nardo
- Ulteriori bellissime parole del dialetto di Capracotta
...Chéss'è tùtte! Dopo oltre dieci anni di attività, il 29 dicembre 2024 è nata l’associazione di promozione sociale “Letteratura Capracottese”, così da poter proseguire tutte le attività culturali per Capracotta in una veste organizzativa più vicina alle esigenze operative e maggiormente indirizzata ai rapporti istituzionali. Le finalità associative, dunque, sono quelle che già avete avuto modo di saggiare con mano nell’ultimo decennio e che verranno opportunamente integrate. Le fila di questa associazione sono costituite da capracottesi veraci, nati e cresciuti a Capracotta. Ci siamo scelti per la stima che abbiamo l’una dell’altro e perché ognuno potrà dare il suo contributo professionale alla causa capracottese: Achille Conti per la parte storica, Gabriella Paglione per quella naturalistica, Lucia Giuliano per l’ambito linguistico, Lucia Paglione per l’area scientifica, Maria Assunta Ianiro per la didattica, Sebastiano Conti per la sfera cartografica e il sottoscritto in qualità di rappresentante. Insomma, tutto cambia e resta uguale. “Letteratura Capracottese” continuerà a riempire di contenuti la parola che tutti amiamo di più: Capracotta. Credo infatti che sia fondamentale operare direttamente da qui, da dentro il paese, poiché la nostra comunità va valorizzata 365 giorni l’anno e la cultura, d’altronde, necessita di un impegno continuo, prolungato nel tempo, quanto più vicino ai suoi fruitori. Prova ne siano “Le più belle parole del dialetto di Capracotta”, i cui buoni risultati, sia in termini di vendite che di accoglienza, mi hanno spinto a continuare il lavoro sulla parlata capracottese, raccogliendo, traducendo e commentando ulteriori 400 lemmi e derivati, raggiungendo ad oggi la non trascurabile cifra di oltre 1.100 parole. Ma come si spiega una tale ricchezza lessicale in un centro abitato che oggi conta meno di 800 residenti? Il discorso da fare sarebbe molto lungo, per cui dirò soltanto che gli "Argomenti di Letteratura Capracottese" sono una risposta alle politiche locali e nazionali che, nell'ultimo mezzo secolo, hanno indebolito e impoverito le aree interne, degradando le cittadine a paesi. Da paese, ora Capracotta rischia seriamente di diventare borgo. Questi libri cercano non solo di mantenere in piedi la memoria del luogo ma anche di valorizzarla, saldandola nelle menti dei più giovani, degli oriundi, di tutti quei figli di capracottesi che, sparsi per il mondo, rischiano di disconoscere la patria avita. Nelle "Ulteriori bellissime parole del dialetto di Capracotta", ancora una volta, non troverete traccia dello schwa , quel simbolo grafico che appartiene all'alfabeto fonetico e che trovo inopportuno in pubblicazioni non scientifiche, in quanto contravviene alla funzione primaria del dialetto, quella di essere la forma di comunicazione più diretta ed immediata. Per quel che mi riguarda, nel trasformare in grafia la complessità del dialetto, ho utilizzato le solite tre convenzioni. La prima è quella della cosiddetta "e" muta. Questa vocale la si pronuncia solo se accentata; se invece non presenta alcun accento, dà vita ad un suono gutturale che, nei fatti, è l'ottava vocale del dialetto centromeridionale. La seconda convenzione riguarda l'accento circonflesso sulla "s". Per dar vita al suono sh- seguito da "c", "d" o "t", qualcuno ha difatti pensato di renderlo col digramma sc- – ad esempio sctiànzia –, mentre trovo più apprezzabile la presenza d'un segno grafico italiano, seppur arcaico, che abbia la funzione di addolcire la "s" impura, per cui si avrà ŝtiànzia (= stanza). L'ultimo criterio – chiamatelo vezzo – è quello della "i" consonantica, resa con la desueta "j" lunga, la quale facilita la lettura delle parole che presentano particolari combinazioni vocaliche (si pensi alla parola uàje , = guaio). Le regole che seguirò nella compilazione, dunque, non renderanno perfetta la trascrizione del dialetto ma forse aiuteranno il lettore ad interpretarlo meglio. Quest'opera, d'altronde, non pretende di essere scientifica, ed ecco perché ho scelto di limitarmi agli accenti gravi ed acuti, alla "e" muta ed al circonflesso. Azzardare una pubblicazione dialettale resta pur sempre una sfida lanciata alla propria gente, poiché fissare su carta il dialetto significa attentare alla tradizione orale, che solitamente è più libera nei costrutti ed aperta alle diverse pronunce. Per questo motivo spero che i lettori scusino le dimenticanze, sorvolino su eventuali sbadataggini o tacciano su madornali errori. Rimane inteso che non sono un linguista né un glottologo. Sono però convinto che per scrivere degnamente il capracottese, sia propedeutico saperlo parlare! Partendo dai miei genitori e dai miei nonni, da cui ho appreso i rudimenti della parlata capracottese, voglio ringraziare mia moglie Lucia e quei compaesani che ho periodicamente consultato: Michele Beniamino, Giovanni Di Luozzo, Sergio Di Nucci, Giacomo Di Tanna e Luciano Monaco. Francesco Mendozzi Fonte: F. Mendozzi, Ulteriori bellissime parole del dialetto di Capracotta , Youcanprint, Lecce 2025.
- Storia dell'organo (IV)
E non ti fermi, convinto che ti si può ricordare. Hai davanti una canzone nuova e una città per cantare... [Ron, "Una città per cantare", 1980] L'ogano della Chiesa di S. Hipólito. Una breve pausa... La Basilica Vaticana di S. Pietro ha sempre avuto un rapporto "complicato" con gli organi, pur alla luce dell'alta considerazione che la chiesa latina ha per tale strumento. La stessa Cappella Sistina, poiché tempio della polifonia e del gregoriano, è stata sempre priva, fino a pochi anni or sono, di un organo effettivo. Le stesse dimensioni degli ambienti e la diffusione del suono conseguente costituiscono tuttora intralcio non indifferente alla progettazione e funzionamento di un organo maggiore. Ma nel 1875 il grande organaro francese Aristide Cavaillé-Coll, autore anche degli organi maggiori della Chiesa di S. Sulpice e della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, propose al papa Pio IX la realizzazione di un poderoso strumento degno della grandiosità della Cattedra di Pietro. Una fastosa e monumentale cassa neobarocca alta 26 metri e larga 20, progettata dall'architetto Alphonse Simil, posta in controfacciata, avrebbe conservato i 155 registri distribuiti su 5 manuali e pedaliera per un totale di 8.316 canne. Le canne della "mostra" (facciata) erano rappresentate dal registro di Principale '32. Ne vennero realizzati diversi disegni e un modellino in scala fu donato alla fabbrica della Basilica. Considerate che l'attuale imponente organo maggiore realizzato nel 1962 dalla Pontificia Fabbrica Tamburini unendo due strumenti precedenti e collocato ai due lati dell'abside dispone di 4 manuali e pedaliera con 76 registri. I fondi per la costruzione vennero reperiti tramite una colletta a cui parteciparono anche i più grandi musicisti dell'epoca, ma il papa, dopo averli ricevuti, li destinò al rifacimento del pavimento della Basilica... Vi prego di dedicare un attimo di raccoglimento per il destino subìto « dell'alta considerazione della chiesa latina » che abbiamo incontrato nelle prime righe. Tuttavia anche l'Italia di oggi lascia da pensare: l'Auditorium della Capitale è privo di organo (cosa unica al mondo) e altri auditoria sparsi per lo Stivale presentano strumenti inservibili poiché parzialmente smontati o totalmente abbandonati. Per non parlare dei molti edifici sacri con strumenti storici tenuti in condizioni pietose qualora non abbandonati e vandalizzati. Organo iberico L'organo iberico si dimostra, causa il bacino liturgico cattolico cui faceva riferimento, molto simile all'organo italiano. Anche qui spicca la presenza di più manuali ( teclados ), ma spesso anche uno solo, con registri ( tiradores ) spezzati ( teclado partido ), e numerosi furono i tientos (toccate) con parte cantante al basso ( de bajo ) o al soprano ( de tiple ). La pedaliera, ove raramente presente, è costituita da pochi bottoni di forma circolare utili alla emissione di note lunghe. Nelle strutturazioni a due manuali il corpo d'organo secondario era chiamato "positivo tergale" perché posto vicino l'assemblea, integrato nella balaustra della cantoria e sporgente dalla tribuna, alle spalle dell'organista: conformazione che troveremo anche in alcuni strumenti italiani (melodium tergale), ma quasi universale negli strumenti francesi ( positiv ) e negli strumenti della Riforma ( Rückpositiv ). Dal manuale la catenacciatura passava al di sotto dell'organista nello spessore del pavimento della cantoria per collegarsi al somiere di questa sezione (meccanica di rimando). Diffusissimi gli organi rurales o "di parrocchia" strumenti resi spesso ancor più particolari dalla presenza di una pittura sita al posto del leggio: moltissimi organisti di quell'epoca non conoscevano la scrittura musicale. La divisione e disposizione dei registri somiglia a quella italiana. La predominanza di canne in legno dà un suono caldo, espressivo ed avvolgente. Anche il ripieno ( lleno ) è strutturato come il ripieno italiano. Ricordiamo che per molto tempo i territori meridionali italiani furono direttamente sottoposti alla Corona spagnola e gli scambi non solo culturali furono molteplici. Lo stesso Luigi Campanelli, nel suo volume dedicato alla Chiesa di Capracotta, ricorda come una accesa diatriba legale tra il vescovo di Trivento e il capitolo della Collegiata, nel XVIII secolo, terminò con il giudizio finale presso la Suprema Corte di Madrid. La tecnologia adottata dagli organari iberici si rivelò per molto tempo più avanzata di quella dei colleghi italiani. Padre dell'organo iberico viene considerato il presbitero francescano Josè de Echevarrìa (+ 1691) la cui scuola influenzò non solo la Spagna ed il Portogallo ma anche le Fiandre e le Filippine. Gli schemi costruttivi iberici vennero esportati anche nella realizzazione degli strumenti antichi dell'America Latina. Ma il vanto dell'organo iberico sono i registri ad ancia. Distinti in ance con padiglione verticale ( registros de lengueterìa ) e a padiglione orizzontale (trompeterìa tendìda o trompeterìa de batailla). Ma il nome più frequentemente conosciuto di quest'ultima varietà è chamada che, francesizzato in chamade , verrà esportato e conosciuto in tutta Europa. L'aspetto imponente delle facciate con le chamade a vista preannuncia la potenza del suono ( trompeta real e trompeta imperial ). Scelte in un primo tempo forse per la facilità di accessibilità per l'accordatura (le ance richiedono frequenti aggiustamenti: la croce di molti organisti) e perché meno suscettibili ad intasarsi (la polvere e le ragnatele formano dei tappi molto fastidiosi) divennero il suono caratteristico dell'organo spagnolo. I padiglioni orizzontali riversano in navata verso gli ascoltatori degli armonici non percepibili dalle tube verticali. Spesso il suono diretto della chamada alternato al suono sparato verso l'alto dalle lengueterìe veniva sfruttato per spettacolari giochi sonori durante le esecuzioni. Il primo esempio di chamada è del 1588 sull'organo della Cattedrale di S. Pietro a Jaca (Huesca). Ma anche passare sotto la galleria virtuale creata dalle quattro chamade dei due organi battenti del Santuario di Santiago de Compostela crea un atavico timore prima ancora che il vento fluisca in quelle poderose ance. Ciononostante le prime ance storiche erano alquanto dolci e contenute nella sonorità ( trompeta , clarin , bajoncillo ) e solo più tardi raggiunsero volumi poderosi. Tali registri, già costosi di proprio rispetto alle canne ad anima, se costruiti in orizzontale comportano un onere maggiore per il committente: il sistema di travi e cavi per sostenere il considerevole peso della struttura dei padiglioni fa lievitare notevolmente i costi dello strumento e richiede una progettazione accurata: esattamente sotto quella batteria di padiglioni c'è l'organista e poi l'assemblea! La chamade si diffuse in Francia dove compare nel 1772 sull'organo di S. Maximin-en-Var (Provenza) ma sarà il celebre organaro Aristide Cavaillé-Coll a farla conoscere a livello internazionale. Sicuramente importata dalla tradizione iberica e mediata dagli organari napoletani, anche se non è ancora chiaro come questo sia avvenuto, la prima chamade italiana compare sull'organo anonimo del XVII secolo nella chiesa di S. Giovanni Battista (o S. Domenico) ad Atri (CH) che ho avuto il piacere di suonare come allievo durante uno splendido masterclass del M.° Matteo Imbruno nell'ambito del Festival dei Duchi d'Acquaviva durante l'estate 2023. Altra caratteristica peculiare è la presenza della "arca degli echi" o "cassa degli echi": delle canne d'organo chiuse in una cassa per creare effetti di "camera chiusa", successivamente comandata da un teclado apposito, e anche con meccanismi per aprire e chiudere gli sportelli onde ottenere effetti di "forte" e "piano". Originariamente conteneva tre registri de tiple e veniva collocata sopra l'organo maggiore e successivamente fu portata a dimensioni più ampie. Sicuramente la possiamo considerare tra le progenitrici della "cassa espressiva" presente sugli organi moderni. La visione di uno di questi strumenti anche se di piccole dimensioni è imponente: dalle ricchissime e civettuole decorazioni dorate che sembrano quasi voler soffocare le canne di mostra si proiettano caparbiamente in avanti e sui lati le spettacolari chamade come a voler incutere timore. Ma gironzolando per le province possiamo ammirare anche dei piccoli prodigi architettonici ed ingegneristici come l'organo della chiesa di S. Hipólito el Real a Tamara de Campos, Palencia (Castiglia), costruito nel 1732 da Pedro Merino de la Rosa la cui cantoria barocca poggia su un'unica e sottile colonna apparentemente in marmo ma invece totalmente lignea. Tutta la Castiglia, con Palencia in particolare, oltre alle altre regioni, è un forziere pieno di queste gemme: la Ruta de los organos (Percorso degli organi) consente di ammirare strumenti di tutte le fatture da XVI al XVIII secolo. Corre subito il pensiero alla analoga "Via dei D'Onofrio", il percorso turistico dei nostri organi molisani. L'organo iberico: uno strumento particolare da ascoltare e studiare in maniera più accurata insieme alla sua letteratura ancora poco conosciuta nelle nostre regioni. Francesco Di Nardo
- Salvarsi mediante una fuga collettiva
Ezio Giorgetti e Osman Carugno. Negli stessi giorni della fuga da Aprica, il 9 settembre, a circa 200 chilometri di distanza piú a est, in Veneto, un altro gruppo di trentadue ebrei jugoslavi decise di abbandonare il suo luogo di residenza coatta, la cittadina di Asolo in provincia di Treviso, dove era stato confinato dal 30 novembre del 1941. L'intenzione era di dirigersi verso sud, incontro all'esercito degli Alleati, che stava risalendo la Penisola. Anche questo gruppo aveva leader riconosciuti: l'avvocato Ziga Neumann di Zagabria e il dottor Joseph Konforti, commerciante e commercialista che ne aveva sposato la figlia. La contessa Fieta, di Asolo, e la figlia Clara, che usavano passare l'estate a Bellaria, all'Hotel Miramare di proprietà della famiglia Giorgetti, munirono il gruppo jugoslavo di una lettera di raccomandazione. I Fieta erano padroni della casa che Neumann aveva preso in affitto durante il periodo di libero internamento e gli avevano consegnato parecchie lettere di raccomandazione, indirizzate ad amici che abitavano sulla costa adriatica. Non solo, la contessa prestò anche a Neumann una notevole somma di denaro per le necessità del viaggio. Un primo gruppo partí da Asolo a bordo di tre automobili fornite loro da un amico commerciante. I carabinieri, visto il caos e il vuoto di potere determinatosi l'8 settembre, non avevano ragione di ostacolare la loro partenza. Giunti a Castelfranco Veneto, dove arrivava la linea ferroviaria, gli jugoslavi decisero di non entrare nella stazione, già presidiata dai tedeschi, ma di dirigersi verso Adria. In quella cittadina, dotati delle credenziali della contessa, si presentarono alla tenenza dei carabinieri, dove un ufficiale, anch'egli privo di ordini superiori, acconsentì a firmare un permesso di circolazione per il loro camion fino alla Romagna. I fuggitivi avevano, infatti, fortunosamente trovato un mezzo di trasporto disponibile a portarli a Bellaria. Erano ora in ventisette e giunsero nella cittadina adriatica il 13 settembre, con mogli, bambini, masserizie e tante valigie. Si presentarono ai Giorgetti, buoni amici della contessa, per chiedere ospitalità temporanea. Il proprietario dell'hotel, il vecchio Giovanni Giorgetti, era in procinto di chiudere la sua struttura per la fine della stagione e rifiutò. Il figlio di questi, Ezio, proprietario dell'albergo Savoia, accettò invece volentieri. Neumann e Konforti, che parlavano bene l'italiano, presentarono il gruppo come semplici sfollati del Meridione residenti in Svizzera e rientrati poco prima dell'8 settembre su suggerimento del consolato italiano. Vennero creduti e, come tali, accettati. Il gruppo di jugoslavi decise allora di rimanere sul posto, che sembrava tranquillo, in attesa dell'evolversi degli eventi e per studiare una qualche soluzione definitiva. Dopo poco, il padrone dell'albergo cominciò a nutrire qualche sospetto che gli ospiti dell'albergo non fossero semplici sfollati: avevano nomi stranieri, parlavano una lingua strana, erano in tanti. Ai primi ventisette finti sfollati, infatti, se ne erano aggiunti altri tre. Il 17 settembre Giorgetti chiese chiarimenti e Neumann giocò a carte scoperte, gli rivelò che erano ebrei in fuga. Giorgetti non reagí subito, ma decise di condividere la traumatica notizia con il maresciallo dei carabinieri di Bellaria, Osman Carugno. Il giorno precedente erano giunti altri quattro ebrei jugoslavi in fuga verso sud; intercettati dai carabinieri in stazione, erano stati mandati, non a caso, all'albergo Savoia. Si trattava per ora di una specie di luogo di internamento, non molto diverso da quello precedente di Asolo, tant'è vero che il gruppo dei fuggiti/sfollati crebbe ancora con altri quattro jugoslavi di Zagabria. Ora il gruppo era composto da trentotto persone. Era una situazione del tutto anomala, tollerata dal maresciallo Carugno, ma irregolare. Dopo qualche giorno, per prudenza, i documenti d'identità di tutti vennero sepolti nel giardino dell'albergo, ma il gruppo mancava di carte annonarie. Il resto della cittadinanza considerava inverosimile che fossero sfollati, come avrebbero voluto apparire. I leader del gruppo cercarono un peschereccio per poter allontanarsi, via mare, dal posto diventato ormai pericoloso (a pochi metri dal loro albergo c'era un comando militare tedesco) ma, alla fine, abbandonarono quell'idea. Ezio, divenuto ormai l'organizzatore ufficiale del gruppo, era conscio che la soluzione di far passare per ospiti del suo albergo gli jugoslavi non poteva essere definitiva, organizzò quindi un incontro tra Neumann e Konforti e l'arcivescovo di Rimini, Vincenzo Scozzoli, per chiedere di ospitare i fuggitivi, in caso di necessità, nei conventi del Riminese. La cosa non andò a buon fine. Si era ormai agli ultimi giorni di ottobre, ed Ezio Giorgetti trovò un'altra soluzione: spostare il gruppo, ridottosi a trentaquattro persone, a Igea Marina nella pensione Esperia, appartata e lontana da sguardi indiscreti. La pensione era ufficialmente chiusa, gli ospiti dovevano essere “trasparenti”, non uscire, tenere le persiane chiuse, non fare rumore. Al vitto pensava Giorgetti. Quanto al problema dei documenti, fu lui a trovare una soluzione. Si rivolse a un suo conoscente, il segretario comunale di San Mauro Pascoli, Alfredo Giovannetti, che rispose prontamente e con generosità. Era in grado di sottrarre carte in bianco al comune, ma quelle necessarie erano troppe. I soccorritori Giorgetti, Carugno e Giovannetti si rivolsero allora a un'altra persona, Virgilio Sacchini, commissario prefettizio del comune di Savignano, sulla via Emilia. Anch'egli accettò di aiutare il gruppo di ebrei in fuga. Iniziò una frenetica attività di contraffazione delle carte in bianco. Parteciparono all'impresa: l'amico Giuseppe Rubino, cliente dell'albergo di Giorgetti, che si recò a Milano per procurarsi il timbro, falso, del comune di Barletta; l'incisore di Rimini Piero Angelini; il fratello di Ezio Giorgetti, Luigi, che scrisse i dati anagrafici falsi, con nomi italianizzati e de-ebreizzati. L'arcivescovo fece sapere che metteva a disposizione dei rifugiati coperte per l'inverno, che Giorgetti, Konforti e la moglie andarono a prendere a Rimini. Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre 1943, Ezio venne a sapere che nella borgata di Capanni, sulle rive del Rubicone, c'era un grosso casolare disabitato appartenente alla tenuta La Torre di San Mauro Pascoli, dei principi Torlonia. Sembrava un rifugio piú sicuro della pensione Esperia. Accanto al casolare c'era anche una pieve, che i finti sfollati frequentarono per non destare sospetti nei contadini. La vita nel casolare con il freddo invernale fu molto difficile, qualcuno del gruppo si ammalò e ricevette aiuto dal farmacista di Bellaria, Giuseppe Olivi, che forní medicine e consulenza. Anche lui era al corrente che si trattava di ebrei in fuga. Intorno al gennaio del 1944, i tedeschi requisirono i principali fabbricati della tenuta La Torre, in vista di un previsto sbarco alleato sull'Adriatico, proprio all'altezza di Bellaria. Ordinarono lo sgombero totale entro quindici giorni. Fu il panico. Dove andare? La soluzione la suggerí Osman Carugno, che fece trasferire i profughi all'albergo Italia di Bellaria, di proprietà di un suo conoscente, Cino Petrucci, che subaffittò a Giorgetti i suoi locali. Si era ormai a metà febbraio del 1944. Il 4 marzo, Ezio Giorgetti portò la terribile notizia che il gruppo era ricercato. I tedeschi erano andati a cercarli ad Asolo e a Padova, e prima o poi sarebbero arrivati a Bellaria. L'amico milanese Rubino si recò allora a Milano per cercare di trovare un contatto con contrabbandieri in grado di condurre il gruppo in Svizzera. Li trovò: due del gruppo si recarono in seguito a Milano e poi sopra Varese per prendere accordi diretti con il passatore, ma tornando a Bellaria trovarono che alcuni compagni si erano ammalati ed erano impossibilitati ad affrontare il viaggio attraverso la montagna. Rinunciarono all'idea, ma l'atmosfera a Bellaria era ormai irrespirabile, i tedeschi stavano fortificando tutta la zona ed erano dappertutto. Fu di nuovo Giorgetti a trovare una soluzione: si consigliò con un parente della moglie, Giannetto Filippini, che era commerciante di bestiame e che, per questo, aveva molte conoscenze all'interno del territorio. Indicò, come possibile nuovo rifugio, Villa Battelli a Pugliano Nuovo, vicino a San Leo. Si trattava di un albergo in ristrutturazione e quindi, sicuramente, vuoto. I capigruppo andarono in esplorazione, il posto si trovava a settanta chilometri da Bellaria, lontano dalle vie di comunicazione, tra i monti. Sembrava una buona soluzione, inoltre era vicino alla Repubblica di San Marino dove Giuseppe Forcellini, segretario di Stato agli Affari interni, già da tempo contattato, aveva promesso accoglienza in caso di necessità. La villa era completamente vuota. Giorgetti, con i permessi speciali dati dal maresciallo Carugno, organizzò le cose in modo che tutta l'attrezzatura alberghiera di Petrucci venisse spostata in camion a Pugliano. Petrucci stesso vi si trasferí con la famiglia, cosí come gli amici Rubino. Gli abitanti di Bellaria e dei paesi vicini, intanto, ricevettero dai tedeschi l'ordine di evacuazione e il loro territorio fu militarizzato. Finalmente, gli ebrei ebbero un po' di quiete. Ma la calma era momentanea. Verso metà luglio del 1944, militari tedeschi si presentano a Villa Battelli, intimandone la requisizione entro due o tre settimane. Di nuovo, si presentò la drammatica scena di cinque mesi prima. Dove andare questa volta? La soluzione venne dal paesino vicino, a un chilometro di distanza: era abitato da poche decine di contadini che già avevano avuto parecchi contatti con gli “sfollati” di Villa Battelli. I contadini si dissero disponibili ad accogliere gli sfollati, che dovevano dividersi tra le varie case. I Puglianesi avevano paura dei tedeschi e delle requisizioni del bestiame che avevano nascosto; stavano occultando anche qualche soldato renitente alla leva. Non sapevano però di ospitare ebrei in fuga, cosí come non lo sapeva neanche l'albergatore Petrucci. Finalmente, il 22 settembre 1944, soldati inglesi si presentarono a Pugliano Vecchia e i finti sfollati poterono rivelare ai loro ospiti e ai loro amici la loro vera identità. Liliana Picciotto Fonte: L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah (1943-1945) , Einaudi, Torino 2017.
- Pubblicato "Le parole che non dici" di Flora Di Rienzo
Giovedì 5 giugno 2025 è stato pubblicato "Le parole che non dici", la prima raccolta ufficiale delle poesie di Flora Di Rienzo, ex insegnante capracottese classe 1951. L'opera è disponibile sui maggiori portali di vendita online, da Amazon a Feltrinelli , da Libreria Universitaria a Mondadori Store , da IBS a Libraccio , da Hoepli a Unilibro , fino al sito dell'editore: Youcanprint . Di seguito la breve prefazione a "Le parole che non dici". L'invisibile, il non detto, l'inascoltato, sono ambiti nei quali la poesia trova spiragli per esprimersi. Il senso più autentico della poesia, infatti, non sta soltanto nel rimestare l'anima, giù fino ai riposti anfratti della personalità, ma anche nello scandagliare l'Uomo nei suoi continui rapporti col circostante. Flora Di Rienzo ci offre allora una possibile interpretazione del suo e del nostro mondo, quasi fosse una variazione musicale od una fantasmagoria di luci e di colori. "Le parole che non dici" deraglia dai binari dell'io e si getta in un prato fiorito, su di un pascolo d'altura in un meriggio assolato. Incantata dalla natura, l'Autrice la tratteggia in un chiaroscuro continuo, dalle sfumature esistenziali. Ogni componimento, pur presentando i limiti fisici della parola scritta, presenta bordi soffusi per gettare un seme in quello successivo. Così, l'intera silloge diventa una irripetibile e duratura ode a questo mondo incostante e bellissimo, sfibrato, ma ancora, irrinunciabilmente, sublime. Francesco Mendozzi
- Storia dell'organo (III)
Respirerò l'odore dei granai, pace per chi ci sarà e per i fornai. Pioggia sarò e pioggia tu sarai, i miei occhi si chiariranno e fioriranno i nevai... [Zucchero, "Diamante", 1989] Meccanica sotterranea dell'organo di S. Alessandro in Colonna. Il passaggio dal XIV al XV secolo fu un punto di svolta per la storia dell'organo. L'evoluzione delle tecniche e dello studio dei materiali, condizionato dalle esigenze delle varie etnie e comunità di appartenenza insieme a quelle liturgiche, portarono alla comparsa di svariate e numerose scuole costruttive. Da non tralasciare anche le tecniche compositive e le prassi esecutive che portarono ad un ulteriore studio sistematico e scientifico per la costruzione di tali strumenti. Nacquero quindi organi la cui caratterizzazione e classificazione vengono strettamente legate all’ambito geografico di appartenenza, ma va tenuto conto anche dei continui scambi che avvenivano tra i vari organari che portarono alcuni ad adottare piani e metodiche di altri, per cui tale descrizione è molto schematica ma utile per una comprensione dell'argomento. Ovviamente stiamo osservando cosa avvenne nell'epoca d'oro dell'organo, cioè dal XV al XVIII secolo. Dopodiché si andò incontro ad una relativa uniformità degli strumenti tesa ad un eclettismo esecutivo pur conservando elementi tipici legati alla nazionalità ed alle varie esigenze liturgiche. La Scuola italiana L'organo italiano ebbe un prodigioso sviluppo nel Rinascimento anche se, purtroppo, non conserviamo più strumenti originali e senza successivi rimaneggiamenti. Numerose invece le notizie e le descrizioni pervenuteci tramite documenti storici, contratti di costruzione e di collaudo e ancora trattati organologici e di arte organistica. L'organo della Basilica di S. Petronio a Bologna è ufficialmente lo strumento più antico d'Italia. Costruito nel 1475 da Lorenzo da Prato, perfettamente funzionante, presenta in facciata le canne gotiche e rinascimentali pur se incorniciato in una cassa barocca. Dall'uso strettamente dedicato all'accompagnamento del coro o alla pratica dell'alternatim al gregoriano si passò alla realizzazione di brani per intonare il coro polifonico trasponendo le stesse partiture vocali in musica organistica (intavolature). Nacquero anche composizioni autonome di introduzione alle funzioni (le "toccate avanti la messa") o di preparazione al brano cantato (versi di intonazione) o di commento alle varie parti della messa (canzoni, ricercari). Osserveremo in seguito le varie tipologie compositive. Resta comunque inteso che l'esecuzione musicale nel culto cattolico era di tipo "verticale", cioè riservata esclusivamente ai musici e ai cantori. L'Assemblea non partecipava e non veniva coinvolta pur se le Scritture celebravano l’importanza del canto e della musica nella glorificazione di Dio. Cionondimeno l'organo iniziò a sviluppare e perfezionare tutte le tipologie di registri ad anima e ad ancia. È l'epoca dei grandi organisti italiani tra cui Andrea e Giovanni Gabrieli, Girolamo Cavazzoni, Girolamo Frescobaldi la cui scuola influenzò le prassi compositiva ed esecutiva di tutta Europa. Anche quando gli strumenti venivano realizzati in grandi dimensioni raramente troviamo organi con più di un manuale (le tastiere per le mani hanno questo nome), e con pedaliere di non eccessiva estensione con forma a "leggìo" e tasti corti, adatte a emettere note lunghe o per accompagnare e rinforzare le cadenze finali dei brani. Le pedaliere erano quasi sempre prive di registri autonomi e suonando "unite" al manuale: un sistema di tiranti collegava i pedali ai primi tasti del manuale (i bassi) facendo sì che abbassando un pedale si abbassava il tasto corrispondente. Molta importanza viene ad acquisire la figura dell'organista specialmente nella sua capacità di improvvisare la musica più adatta, qualità che da sempre viene ricercata nella scelta di un buon esecutore nell'ambito liturgico. Il Principale italiano è leggero, di "colore" trasparente ed adatto a sostenere anche accordi nei suoni bassi, senza creare dei fastidiosi contrasti durante l'esecuzione. La sua strutturazione verso le file acute e le relative mutazioni crea il "ripieno" cioè l'insieme di tutte le file derivate dal Principale che risuonano contemporaneamente ma da non confondere con il "tutti" che, invece, comprende anche gli altri registri. Il ripieno italiano, svettante, verticale ed "affilato", è indispensabile nella esecuzione delle grandi “toccate” che richiedono canne con risposta pronta e veloce. I comandi delle singole file sono autonomi ma l'inserimento simultaneo del ripieno è garantito da un ulteriore comando a mano o a pedaletto chiamato "tiratutti". L'organista inoltre può creare dei giochi sonori particolari selezionando a piacimento le varie file delle mutazioni. Abbiamo anche delle tabelle di riferimento dei vari organari che suggerivano le combinazioni utilizzabili a seconda delle necessità: il loro nome a volte è indicativo e suggestivo come "spiritoso", "granito", "granito spiritoso", "mezzo pieno" ecc. Le prassi esecutive e compositive sono molto vicine a quelle del clavicembalo e non a caso i brani potevano essere eseguiti indifferentemente su uno strumento o sull'altro. Parimenti chiari e dolci i flauti atti a garantire cantabilità ma con estensione del numero dei relativi registri verso le file acute abbastanza limitato e non vasto come per i principali. I "bassi", ove presenti, erano chiari e poco voluminosi per non oscurare la velocità delle mani e non diventare ossessivi specie nelle note tenute a lungo. Le ance iniziarono un graduale sviluppo e una diversificazione importante nei loro colori: L'importanza dell'organo traspare anche dalle bolle vescovili e papali che proibivano al celebrante di interrompere l'organista durante l'esecuzione, attendendo quindi fino alla fine del brano o del fraseggio musicale per proseguire (udite, udite!) la funzione: era preghiera anche la musica. In compenso i brani scritti venivano strutturati in vari "episodi" intercalati da opportune cadenze così da poterli correttamente e compiutamente interrompere quando necessario nei punti cruciali. La necessità di esecuzioni con differenti piani sonori in contemporanea venne raramente risolta con l'adozione di più manuali. Si preferì invece "spezzare" i registri, cioè dotare ogni singola fila di canne con due comandi. Un comando consentiva di suonare solo le note del registro nelle note basse fino a metà tastiera, mentre l'altro azionava i soprani per i tasti rimanenti. Quasi universalmente la prima ottava era " corta ": usanza rimasta fino al XIX secolo specie negli strumenti di medie e piccole dimensioni. Dovendo suonare dei passaggi in tonalità "critiche", dato che non era stato ancora concepito e adottato il moderno "temperamento equabile", l'adozione dei " tasti spezzati " consentiva di evitare o attutire dissonanze derivanti dagli schemi di accordatura antica legati ai vari " temperamenti inequabili ". Altri tentativi furono quelli di porre due diversi organi autonomi posti uno di fronte all'altro ai lati dell'altare: gli "organi battenti", azionati da due organisti in contemporanea o addirittura collegati tramite una catenacciatura che scendendo dalla cantoria di uno e passando sotto l'altare risaliva alla cantoria dell'altro consentendo ad un solo organista di farli risuonare insieme! Come gli organi della Basilica di S. Alessandro in Colonna a Bergamo realizzati dalla famiglia Serassi nel 1781, con una meccanica di collegamento lunga 33 metri e passanti sotto il presbiterio in una galleria di 17 metri. Tantissime sono le composizioni pervenuteci scritte "a due organi". Menzione particolare per gli organi della Basilica Cattedrale di S. Marco a Venezia che grazie alla peculiarità degli ambienti furono laboratorio di musica stereofonica e tridimensionale quando azionati insieme. Comunque molti furono i tentativi e gli studi per la realizzazione di strumenti a più tastiere. Il celeberrimo musicista e organista Azzolino Bernardino della Ciaia (1671-1755) membro del Sacro Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano ebbe modo di studiare anche l'arte organaria durante i numerosi viaggi al seguito dell'Ordine apprendendo anche le tecniche costruttive nordeuropee. Fu così che con l'aiuto di altri costruttori toscani realizzò il poderoso organo della Chiesa di S. Stefano dei Cavalieri a Pisa: 5 manuali di cui uno dedicato al cembalo, pedaliera indipendente e 60 registri di cui (cosa in quel periodo divenuta rara) molti ad ancia. Collocato sulla cantoria di sinistra nel 1733 facendo da "battente" allo strumento del 1571 opera di Onofrio Zeffirini posto sulla cantoria di destra. Entrambe le cantorie e la chiesa erano state disegnate da Giorgio Vasari (1511-1574). Questi strumenti, caduti in disuso, sono scomparsi da molto tempo ma le spoglie di Azzolino riposano ancora lì accanto. Le casse degli strumenti italiani sono generalmente rettilinee, ad armadio con corpo unico, progettate e realizzate da molti artisti del legno e della decorazione, seguono l'evoluzione della moda e del simbolismo dell'epoca. In alcuni casi sono presenti elementi a torre cilindrica appena abbozzata ma con campi di canne di facciata quasi sempre allineati sulla stessa linea di base. Va ricordato anche la stretta interazione tra organaro e intagliatore, spesso locale, nella progettazione e compenetrazione delle strutture sonore con le strutture portanti e decorative valutando anche gli spazi a disposizione nelle cantorie. A questo tripudio evolutivo ed entusiasmante del Rinascimento si oppose la ControRiforma che, se non fece fare una vera marcia indietro, diede sicuramente un deciso colpo di freno. La verticalizzazione della musica sacra e liturgica fu esasperata puntando l'accento specialmente sul canto gregoriano e la polifonia vocale riducendo drasticamente le competenze dell'organo. Alle donne venne vietato di far parte delle scholae aprendo la strada ai castrati in funzione di soprani. Termina così, o comunque viene rallentata, la grande scuola organistica italiana. Rimase la sovrapposizione clavicembalo-organo; molti registri specie ad ancia furono aboliti o caddero in disuso, mentre l'organo italiano rimase un semplice complemento alla musica liturgica e non ebbe la poderosa evoluzione che si verificò nel barocco nordeuropeo. Così anche la musica organistica: i nostri musicisti, pur grandiosi nella musica strumentale, vocale ed orchestrale e studiati in tutto il mondo, quando applicati all'organo non raggiunsero mai livello dei grandi ed "esplosivi" organisti del Nord. G. F. Händel (1685-1759) venne in Italia forse anche per studiare e perfezionarsi, ma non certo in organo, strumento che aveva studiato ad Halle sotto la guida di F. W. Zachow (1663-1712), peraltro strabiliando l'uditorio nelle sue esibizioni anche al grande organo della Basilica di S. Giovanni in Laterano. Lo schema costruttivo rimase quasi sempre il medesimo basato su un manuale ed una piccola pedaliera, ma comunque parliamo di stupendi capolavori come il nostro Principalone. Occorrerà aspettare la seconda metà del XIX secolo per vedere rifiorire completamente la scuola organistica italiana e un nuovo forte impulso evolutivo al "suo" organo. Oltre ai classici registri delle due piramidi sonore l'organo italiano presenta molti accessori: cornamuse e regali fissi (le scopine), uccelliere (piccole canne pescanti nell’acqua per imitare il canto degli uccelli), campanelli, cornette. L'influsso del melodramma operistico, del bel canto e della musica bandistica con l'idea che l'organo "re degli strumenti" lo fosse perché capace di imitare i suoni di tutti gli strumenti portò alla comparsa degli "organi orchestra" dotati di registri ad anima e ad ancia a denominazione orchestrale. Furono aggiunti accessori come piatti, tamburi, grancasse. Gli stessi organisti componevano brani di fattura bandistica o melodrammatica, portando in liturgia melodie operistiche o similari: G. Tomasi da Lampedusa nel suo Gattopardo riserva un intero capitolo alla descrizione della capacità dell'organista della chiesa di Donna Fugata nel riprodurre brani d'opera. Ma anche il nostro Luigi Campanelli menziona Giangregorio Falconi, organista della nostra Collegiata fino al 1899, anno della sua morte, e la sua capacità di riprodurre all'organo a memoria interi brani operistici. Il movimento ceciliano portò ad un recupero da tale strana situazione ma questa è un'altra storia. Eppure anche in questi casi scaturirono dei capolavori compositivi. E anche molti strumenti non furono da meno: oltre alla comparsa di più manuali e pedaliere più estese furono realizzati strumenti con più consolles quindi azionati da più organisti in contemporanea come l’organo della Chiesa di S. Nicolò l’Arena a Catania costruto tra il 1755 e il 1767 da Donato Del Piano, e l'organo della chiesa di S. Pietro a Trapani realizzato tra il 1836 e il 1847 da Francesco La Grassa, entrambi con tre consolles. Gli scambi con i costruttori di oltrealpe furono intensi, tuttavia pur quando stabilitisi in Italia gli organari nord europei assunsero gli schemi costruttivi italiani sebbene sfruttando ed utilizzando alcune foniche e sonorità tipiche delle loro latitudini. Molte le famiglie di costruttori sul territorio: era ed è un'arte trasmessa di generazione in generazione. Gli Antegnati, i Serassi, i D'Onofrio, i Catarinozzi, i Fedeli, i Mascioni sono solo una pallida rappresentazione del pantheon delle grandi famiglie che si dipanarono nel corso dei secoli. Varie anche le tipologie costruttive ciascuna con una propria peculiarità, spesso identificate mediante l'ambito geografico tra cui le scuole veneta, napoletana, romana,lombarda. Purtroppo per sua struttura l'organo italiano barocco, con le dovute eccezioni e pur se dotato di pregevoli caratteristiche peculiari, può sostenere un repertorio limitato ai suoi autori ed alla sua epoca di riferimento. Brani che richiedono più manuali o pedaliera indipendente sono praticamente impossibili da eseguire. Ma se vi fermate ad ascoltare un organo italiano cantare i "suoi" autori sentirete in musica la bellezza raffinata della nostra lingua e la calda luminosità dei nostri luoghi. A nonna Anna... Francesco Di Nardo
- Capracotta in gita a L'Aquila
Ve l'avevamo promesso: abbiamo organizzato la terza gita culturale della nostra Associazione per sabato 20 settembre 2025, giorno in cui visiteremo dapprima la meravigliosa città de L'Aquila e, nel pomeriggio, le magnifiche Grotte di Stiffe, a mezz'ora dal capoluogo abruzzese. Partiremo di buon'ora da Capracotta, su pullman gran turismo, alla volta de L'Aquila, dove arriveremo in tempo per conoscere la nostra guida Carla, che, partendo dalla Fontana delle 99 Cannelle, ci porterà a spasso per il centro storico della città, visitando la Basilica di Collemaggio - dove riposa il più grande molisano di sempre, papa Celestino V, - ed il Forte Spagnolo, e poi corso Vittorio Emanuele, la Basilica di S. Bernardino e piazza Duomo. In questo itinerario cittadino cercheremo di riannodare i fili dell'ex convento dei cappuccini nel quale, tra la fine del '600 e i primi del '700, visse e predicò fra' Gabriele da Capracotta, colui che, oltre ad essere un monaco francescano, fu anche un abile mastro nell'arte della "calcara". Dopo un pranzo al sacco, risaliremo nel primo pomeriggio sul pullman per raggiungere il territorio di S. Demetrio de' Vestini ove visitaremo, sempre accompagnati da guide, le misconosciute e strabilianti Grotte di Stiffe, la cui temperatura interna è di 10 °C, per cui sarà necessario indossare un abbigliamento adeguato e scarpe adatte ad un pavimento bagnato e scivoloso (almeno scarpe da ginnastica). Il prezzo della gita è di 40 € e comprende le spese di viaggio, i biglietti d'ingresso alle grotte, il compenso delle guide ed il noleggio delle radioguide, obbligatorie all'interno delle chiese d'Abruzzo. La caparra è di 20 € da consegnare esclusivamente a Francesco Mendozzi, al quale potete chiedere tutte le informazioni sul viaggio ed eventuali riduzioni sul prezzo. Insomma, quest'anno l'estate sarà più lunga del solito perché a settembre andremo a... scoprire Capracotta all'infuori di Capracotta! Consiglio direttivo di Letteratura Capracottese APS
























